Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, luglio 29, 2008

Zamboni Romano: Sonate d'intavolatura di leuto

Nel 1938 presso l'editore torinese Bocca un buon musicologo del tempo, il Viatelli, pubblicò un volume intitolato L'ultimo liutista, incentrato sulla figura di un virtuoso bolognese morto nella prima metà del seicento, Alessandro Piccinini, la cui ultima opera a stampa apparve postuma nel 1639. Vigeva allora il celebre pregiudizio chilesottiano sulla improvvisa decadenza del liuto, strumento principe del rinascimento, agli albori del secolo XVII. Oscar Chilesotti, meritorio pioniere della riscoperta delle fonti liutistiche italiane, aveva ricavato a fine Ottocento la sua visione negativa sulla sopravvivenza del liuto in Italia nel seicento proprio dalla rarità o assenza di stampe o manoscritti posteriori al 1650 (un prezioso inventario da lui stilato intorno al 1880 cita come fonte più tarda a lui nota nelle biblioteche italiane il volume di Bemardo Gianoncelli stampato in quell'anno). Eppure lo stesso Chilesotti aveva potuto evidenziare la longevità della tradizione liutistica in Germania, scoprendo un metodo per lo studio dello strumento (Baron 1727), trascrivendo in notazione moderna l'edizione del 1747 delle sonate di Kellner e perfino una fonte del grande S.L.Weiss oggi altrimenti ignota. L'ultimo liutista tedesco, Christian Gottlieb Scheider, morto nel 1815, aveva potuto adattare allo strumento le arie dal Don Giovanni di Mozart: al bilingue Chilesotti tutto ciò doveva esser noto, mentre nulla si conosceva sulla sopravvivenza della pratica liutistica in Italia.
Principalmente grazie agli studi ed alle edizioni anastatiche curate da Orlando Cristoforetti per la SPES di Firenze, oggi conosciamo una realtà ben diversa. Le fonti, per cominciare, esistono e, sia pure quantitativamente non numerose, coprono non soltanto l'intero secolo XVII ma financo il successivo, poichè la più tarda fu materialmente scritta intorno al 1759 ed utilizzata fino alla morte, ai primi dell'ottocento, da "Filippo Dalla Casa Suonatore d'Arcileuto, e Compagnatore sopra le Parti", dei quale resta anche un suggestivo ritratto con lo strumento (facsimile SPES 1984). Dopo Gianoncelli, troviamo almeno l'intavolatura per tiorba del ferrarese Pittoni (Bologna 1669: l'esemplare della Biblioteca Comunale di Ferrara fu utilizzato almeno fino al 1713 da un nobile cittadino, come indicato da una iscrizione). Per quanto riguarda i manoscritti, sia pure di livello artistico discontinuo rispetto a queste poche stampe, le ricerche degli specialisti (confluite recentemente nell'importante dissertazione di V.Coelho pubblicata dalla casa Garland) hanno rivelato una abbondanza ed una diffusione notevoli, per tutto il secolo XVII e parte del successivo (anche se con i decenni si assiste all'abbandono della notazione intavolata in favore della meno criptica edizione tastieristica, come suggerito dal trattato francese secentesco di Perrine).
Nessuna decadenza, dunque, bensì trasformazione, in parte organologica, in parte funzionale dei nuovi liutisti dell'età barocca e galante. Lo strumento si allunga e si arricchisce di corde, ma questo avviene già con Piccinini, a fine Cinquecento (arciliuto, tiorba e chitarrone, restano comunque lo stesso strumento con accordature differenziate); il liutista diviene un realizzatore di basso continuo, come funzione primaria (sempre restando, per le capacità di esecuzione polifonica dello strumento, perfettamente in grado di suonare a solo) e assai spesso è un polistrumentista: cetra, mandola, chitarra soprattutto, ma anche arpa, cembalo, violino etc. Due arciliuti resteranno al servizio dei senato bolognese fino al termine del secolo XVIII; fino alla metà di quel secolo l'orchestra del teatro di corte di Napoli (poi San Carlo), occuperà a sua volta liutisti (con arciliuti e/o tiorbe) di grande fama, come gli Ugolini o i Sarao; lo stesso accade a Roma nei palazzi cardinalizi e nelle chiese, o a Venezia, a Modena come alla corte del Granduca di Firenze, e perfino in piccole cappelle periferiche d'Italia.
In questo contesto l'esistenza, a lungo sfuggita alle bibliografle, di una edizione italiana di Sonate d'intavolatura di Leuto datata 1718 si presenta emblematica di un mondo liutistico tuttora vivo e vegeto, sia pure senza clamori. Se l'editore lucchese Marescandoli ha creduto di poter rischiare una iniziativa editoriale così specialistica non può essere soltanto perchè probabilmente l'autore gli avrà presentato delle lastre già incise e pronte per la stampa: qualcuno doveva esserci in quel momento in grado di acquistare e leggere un libro di musica in intavolatura. Per questo, il volume non contiene lettere dedicatorie, prefazioni o indicazioni ai lettori e mostra il minimo di intervento tecnico dello stampatore, a parte il frontespizio (citiamo dalla edizione anastatica SPES del 1982, a cura di Orlando Cristoforetti, dell'unico esemplare noto della Biblioteca del Conservatorio di Santa Cecilia in Roma). Le notizie biografiche sono così scarse sull'autore di questo libro da poterle riassumere in poche righe: Giovanni Zamboni (si dichiara "Romano" nel frontespizio) dopo un periodo di apprendistato forse nella stessa Roma di cui nulla conosciamo, figura come "contrabbassista" della Primaziale di Pisa dal 1707 al 1713 dopo essere stato al servizio dell'Opera del Duomo di quella città. Secondo il cronista pisano Busoni era "bravissimo contrappuntista di musica e virtuosissimo sonatore di Tiorba, Liuto, Cimbalo, Chitarra sminuita, Mandola e Mandolino, e bravo arrotatore di pietre orientali cioè gioielli" (e ne riferisce poi un contrasto finito in duello con un altro musico della cappella, andato a finir bene).
Perchè stampò a Lucca la sua edizione? I Marescandoli, successi al Bidelli nella conduzione della principale tipografia di quella città dal 1654, mantennero una sorta di monopolio editoriale fino al 1805. Dal 1711 era stata reinstaurata la tradizione dell'annuale festa della S.Croce: la città il 13-14 settembre accoglieva tutti i musici "stranieri" che avessero voluto unirsi alle compagini locali, non di poco conto se si pensa che della Cappella Palatina di Lucca aveva fatto parte dal 1707 al 1710 Francesco Gemignani prima di lasciare l'Italia. Dunque un "mercato" potenzialmente più aperto e internazionale di quello pisano.
Se volessimo individuare un retroterra culturale per l'arte compositiva di Zamboni quale emerge dalla lettura delle Sonate, diremmo certamente la Roma di Arcangelo Corelli e, per la scrittura liutistica intrinseca, una filiazione diretta da Lelio Colista, grande liutista e violinista romano morto nel 1680. Ma come scrive Cristoforetti "sul piano terminologico e organologico Zamboni dimostra ancora la piena validità delle affermazioni di Piccinini", volendo dire che il liuto (o arciliuto) del bolognese del 1623 è lo stesso strumento del romano-pisano del 1718: l'accordatura per esempio, definita impropriamente "rinascimentale" in Sol, e soprattutto i segni grafici della notazione, dalle cifre alle indicazioni di abbellimenti (presenti il tremolo, lo strascico, il portamento, e tutta la casistica di appoggiature, acciaccature, ritardi, legati, etc.).
Dal punto di vista tonale le 11 sonate sono perfino statiche e ripetitive, non tentando neppure di presentare cicli tonali, alla maniera dei francesi o dei tedeschi (utili per esempio a livello didattico). Nella Tabella che segue abbiamo riassunto la tonalità e i movimenti di danza che compongono le diverse suites, che ricalcano in maniera evidente lo stereotipo corelliano pur con qualche interessante variante (la Giga prima della Sarabanda in tre casi, l'inserimento di Gavotta, Bourre, Ceccona).
Benchè in apparenza già strutturate, le suites della raccolta si prestano ad essere riorganizzate in maniera libera, come nella presente registrazione avviene per la sonata VII, che recupera all'inizio l'Arpeggio iniziale della VIII (una citazione evidente dell'Arpeggiata del primo libro di liuto del 1604 di Kapsberger, in singolare anticipo di 4 anni sul primo preludio del Clavicembalo ben temperato) e alla fine la Ceccona dell'ultima sonata. Questa danza su basso ostinato è trattata ancora come i tanti esempi di inizio seicento, e risente assai del filtro stilistico della chitarra spagnola. Altrettanto antiquarie appaiono le due Fughe della raccolta, che paiono fantasie tratte da un libro liutistico tardo-rinascimentale, se non fosse per le contaminazioni armoniche che rendono per esempio quella della sonata III un incrocio tra una composizione dell'epoca di Piccinini o Falconieri e una di Weiss.
La Sonata IV è probabilmente la più moderna, riflettendo l'ormai prossimo stile galante di Weiss: a questo proposito sarebbe interessante esaminare che relazione poterono intercorrere tra Zamboni e il grande liutista tedesco, che fu a Roma tra il 1708 e il 1714. Ancora più esplicito si mostra il Preludio della sonata IX, avvolto nell'atmosfera melanconica che ritroveremo per esempio nella sonata Infidéle di Weiss.
Le sonate in tonalità minore (VI e IX) sono invece più arcaiche e di gusto italiano: la VI ci pare la più bella in assoluto ed in fondo anche la più significativa dal punto di vista della scrittura liutistica, carica com'è di "affetti" e di "effetti" idiomatici dello strumento (l'Allemanda è punteggiata di appoggiature e ritardi alla Kapsberger, ma sorretti da armonie corelliane) e lascia intravvedere l'esperienza di realizzatore di basso continuo e accompagnatore dell'autore. Da questo punto di vista, oltre alle preziose indicazioni sugli abbellimenti (anche sciolti), la raccolta di Zamboni ha per i liutisti moderni un valore paragonabile agli esempi di continuo realizzato da Händel per i tastieristi: non soltanto siamo di fronte a sonate solistiche, ma a schemi compositivi ed esecutivi applicabili a tutta la produzione strumentale dell'epoca post-corelliana, scarlattiana e vivaldiana.

testo a cura di Dinko Fabris (note al cd Symphonia SY 92S16 "Gio.Zamboni Romano - Sonate d'intavolatura di leuto, Lucca 1718")

giovedì, luglio 24, 2008

Victor de Sabata: composizioni per pianoforte

Nato a Trieste nel 1892, e dunque a tutti gli effetti cittadino dell’impero asburgico, Victor de Sabata era figlio di musicisti e affiancò fin dagli inizi della sua carriera l’attività compositiva a quella direttoriale. La famiglia si trasferì ben presto da Trieste a Milano e il giovane Victor si iscrisse al Conservatorio di quella città, in cui si diplomò con lode nel 1910 in composizione, pianoforte e violino, dirigendo personalmente una suo pezzo nel saggio di fine anno. Come compositore de Sabata si fece apprezzare assai presto, e il 30 marzo del 1917 la sua prima opera, Il macigno, fu rappresentata al Teatro alla Scala sotto la direzione di Ettore Panizza. L’anno successivo de Sabata fu scritturato dall’Opéra di Montecarlo come direttore stabile, mentre al 1919 risale la stesura del suo poema sinfonico Juventus, che fu anche nel repertorio di Arturo Toscanini, un direttore col quale de Sabata ebbe sempre rapporti improntati a grande cordialità. Il 9 gennaio 1921 il musicista triestino diresse il suo primo importante concerto sinfonico all’Accademia di Santa Cecilia, proponendo musiche di Sibelius, Franck, Pick-Mangiagalli, Richard Strauss e il suo Juventus. La sua fama di direttore si estese rapidamente in Italia e all’estero. De Sabata diresse frequentemente alla Scala (dove per tredici volte fu chiamato a inaugurare la stagione), al Maggio Musicale Fiorentino e ai concerti dell’EIAR. I successi direttoriali non gli avevano comunque fatto dimenticare l’attività di compositore: al 1923 e al 1925 risalgono, rispettivamente, i poemi sinfonici La notte di Platon e Gethsemani. Nel 1930 de Sabata diresse a Parigi e nel 1934 si fece conoscere a Salisburgo, collaborando come compositore delle musiche di scena per il Mercante di Venezia di Shakespeare messo in scena da Max Reinhardt e in seguito ripreso anche a Venezia. L’anno successivo propose alla Staatsoper di Vienna l’Otello di Verdi, esibendosi poi anche, con il consueto successo, a Praga e a Budapest. Il 12 gennaio del 1936 diresse per la prima volta i Berliner Philarmoniker, con i quali, nel 1939, quando la guerra appariva ormai inevitabile, curò per la Polydor una serie di incisioni discografiche dedicate a musiche di Brahms, Verdi, Wagner, Respighi e Kodaly, straordinarie sia per la formidabile resa artistica che per l’altissima qualità sonora. Nel 1939 de Sabata debuttò a Bayreuth con sei recite di un memorabile Tristan und Isolde. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, fu il primo direttore appartenente ad una nazione ex-nemica a dirigere in Gran Bretagna, facendosi apprezzare, il 21 aprile 1946, in un concerto tenuto allo Stoll Theatre di Londra. Da quel momento in poi, per de Sabata fu un susseguirsi frenetico di concerti e di trionfi in Europa e negli Stati Uniti, cui pose inopinatamente fine, nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1953, il grave attacco cardiaco che lo obbligò a lasciare definitivamente la direzione d’orchestra. Dal 1954 al 1956 de Sabata fu sovrintendente artistico del Teatro alla Scala; Ritiratosi dall’attività musicale nel 1957, morì a Santa Margherita Ligure l’11 dicembre del 1967.
Un oggetto nascosto, di cui conosciamo l’esistenza, può perdersi a poco a poco nel fondo della memoria, consegnandoci alla malinconia che ogni realtà irrecuperabile lascia dietro a sé. Ma se lo intuiamo prezioso in virtù del suo stesso nome, quell’oggetto può vestirsi di colori leggendari. Questo è avvenuto, per quasi un ventennio dopo la sua scomparsa, a Victor de Sabata compositore. Fino agli anni Settanta del Novecento, la conoscenza del suo lascito creativo, frequentato e studiato soltanto da studiosi specialistici e da appassionati cultori, è stata inversamente proporzionale all’immenso prestigio irradiato da lui direttore d’orchestra. Ridotta quasi a zero nell’esperienza d’ascolto del pubblico, anche degli ascoltatori non privi di cultura e di consapevolezza storica nei confronti della grande tradizione musicale, la nozione del lascito compositivo di de Sabata indusse alcuni (i rari cultori di musica che si ponevano a volte quel problema) a identificare quell’occultamento e quell’oblio con una sottintesa irrilevanza. Questa squilibratissima dicotomia tra il “Kapellmeister” e il compositore fu per qualche tempo il destino di de Sabata così come lo fu per un sommo musicista a lui molto affine per l’aspetto sacrale, per la nobiltà dei tratti e del gesto direttoriale, per la cultura di alta qualità disciplinata da ottima scuola e raramente rintracciabile nella maggioranza dei direttori d’orchestra: Wilhelm Furtwängler, di sei anni più anziano di de Sabata. Per inciso, guardando a una generazione anteriore, la suddetta dicotomia lasciò per anni una ferita poi rimarginata nell’immagine di Gustav Mahler, che molti pur non del tutto ottusi considerarono per anni come autore di “musica per Kapellmeister” e “da Kapellmeister”.
Uno strano disegno del destino, entità misteriosa ma certo specializzata in coincidenze cronologiche, volle che Victor de Sabata, nato a Trieste domenica 10 aprile 1892, venisse al mondo come cittadino di quello stesso Impero absburgico che fu la complessa (e anche “complicata”) patria culturale del poc’anzi evocato Mahler, e proprio negli anni in cui di quest’ultimo il pubblico e la critica cominciavano ad ammirare senza riserve la grandezza direttoriale, mentre dichiaravano scettica perplessità di fronte all’opera creativa del musicista austro-boemo-ebraico. Anche de Sabata fu fedele al proprio destino e ai propri connotati d’origine, com‘è proprio di ogni individuo d’alta nobiltà. Italiano fermamente e con passione ma parzialmente, spirito di cultura e di disciplina spirituale dall’impronta mitteleuropea ravvivata dall’elemento intellettuale per eccellenza penetrante, dovuto alla radice ebraica, egli si presentò al mondo artistico e culturale italiano come “uno dei nostri”, certo, ma con i connotati di una classe intellettuale “diversa”, ossia, absit iniuria verbis, “superiore”. Il suo essere italiano in misura parziale fu dunque qualcosa in più, non certo una mancanza. Questo probabilmente, e non fuggevoli ed eventuali circostanze, fu il vero motivo conduttore della freddezza che per anni contrassegnò il suo rapporto con Toscanini, italiano “al quadrato”, e notoriamente avverso sia a Furtwängler tanto affine a de Sabata, sia a Mahler, fantasma consanguineo e quasi archetipico alle spalle del musicista triestino. Quando, nell’agosto 1953 (stava cominciando allora quella “sovrintendenza artistica” della Scala che egli si vide affidata a Milano fino al 1957 continuando ad essere anche poi “alto consulente artistico” del massimo Teatro italiano), de Sabata registrò una mirabile esecuzione di Tosca − con Maria Callas, Giuseppe Di Stefano, Tito Gobbi, Franco Calabrese, Angelo Mercuriali − poi divenuta una memorabile incisione discografica, alcuni, in Italia e all’estero, si esposero affermando che egli era il più grande direttore d’orchestra allora vivente, e forse di tutti i tempi. Una decina d’anni fa, James Badal scriveva che grazie anche solo a quella Tosca del 1953, «e anche se in vita sua non avesse registrato né diretto una sola nota d’altro» la fama di de Sabata «sarebbe imperitura» (Recording the Classics, Kent State University Press, Maldstone-Rochester-Canterbury 1996, p. 11).
Crediamo, tuttavia, che questo dei “primati assoluti” sia un discorso ozioso. Nessuno potrà mai dire chi sia il massimo poeta dell’umanità, il compositore eccelso fra tutti, il supremo architetto, il più geniale matematico. La grandezza discende da archetipi politeistici, luminosamente “pagani”, non monoteistici. Gli spiriti eletti sono sempre un tìaso, un Bosco Liceo, un giardino di Acàdemo, un “nobile castello” simile a quello descritto da Dante in Inferno, IV, 67-147. È più opportuno volgere l’attenzione alle circostanze storiche in cui si consumò l’ultima fase dell’esistenza di de Sabata, morto a Santa Margherita Ligure lunedì 11 dicembre 1967, quando esisteva ancora in Italia un’ultima riconoscibile traccia di tanta grandezza e di tanta nobiltà. Durante l’ufficio funebre per l’estinto, l’Orchestra della Scala suonò senza direttore: esisteva ancora la capacità di intuire i significati supremi, gli archetipi, le forme simboliche. Nel 1967, un anno prima dell’irruzione di un fangoso fiume di volgarità e di viltà nel contesto italiano, Milano e l’Italia non erano ancora devastate da un sudiciume che oggi è orrore ostile ai nostri cinque sensi, ma è anche segno esteriore d’immondizia dello spirito, di menzogna e di codardia diffuse dai bassifondi e dai palazzi del potere. Non erano ancora amministrate, governate e giudicate da individui indegni. La musica non era ancora spregiata e detestata dal trono come dall’altare.
Nella seconda metà degli anni Settanta, una esigua schiera di studiosi intelligenti ha cominciato a gettare luce su de Sabata compositore, suscitando polemiche civili ma acute nei confronti di una consuetudine musicologica e critica che si era mostrata miope e torpida nei confronti della figura di de Sabata considerata nel suo insieme. Ma anche a questo proposito si è configurata una dicotomia. Un’attenzione viva e costante si è indirizzata verso i lavori orchestrali di de Sabata, soprattutto i più maturi: un crescente interesse, anche a fini discografici, ha preso in esame non tanto la Suite del 1909 o le due Ouvertures del 1910, quanto i poemi sinfonici Juventus (1918), La notte di Platon (1923) e Gethsemani (1925). L’attenzione di cui parliamo è finalmente uscita dalla fase della “curiositas”, avendo preso coscienza della bellezza sapiente e ispirata di quelle pagine e dell’eccellenza strumentale di cui l’autore dà sempre alta prova (non parliamo, poi, della sensibilità poetica e della salda dottrina filosofica di de Sabata), e si sta rafforzando. Molto cammino resta da compiere per restituire alla cultura musicale non soltanto italiana i lavori ideati da questo luminoso artista per il teatro. Parzialmente privilegiata è stata, finora, l’azione coreografica Mille e una notte (Milano, 1931). Si offre ancora alla ricerca e allo studio pionieristico l’opera Il macigno (Milano, 1917, poi con il titolo mutato in Driada), di cui sopravvivono uno spartito per canto e pianoforte e altre scritture da cui si potrebbe ricostruire ai fini di renderlo eseguibile, questo lavoro distrutto in un incendio. Si attende una ripresa delle musiche di scena per Il mercante di Venezia di Shakespeare, eseguite a tutt’oggi una sola volta nel 1934 a Venezia (a San Trovaso) con la regia di Max Reinhardt e con Renzo Ricci, Marta Abba e Memo Benassi fra gli attori. Incompiuta e inedita è la musica per Lisistrata, su un soggetto tratto da una “contaminatio” di due commedie di Aristofane.
Restava da compiere il primo passo per quanto riguarda il lascito pianistico; è questa la dicotomia “interna” di cui si parlava. In assoluto, il primissimo passo è la registrazione e incisione presentata da questo CD. Si deve ad Alessandro Marangoni l’iniziativa davvero eroica di una ricerca sistematica, svolta nelle biblioteche dei Conservatori “Giuseppe Verdi” di Milano e “Santa Cecilia” a Roma. Il risultato è stato un’insperata serie di manoscritti e di edizioni rarissime, uniche, dimenticate, in ogni caso introvabili oggi. . Questo ha permesso di ricostruire, anche con la consulenza attenta e fervida di Eliana de Sabata Ceccato, l’appassionante sviluppo di una concezione della scrittura pianistica che prende le mosse da un abile “pastiche” di stili, ora parodiati ora affettuosamente ma sempre ironicamente “citati”, e raggiunge una cifra interamente originale, del tutto “altra” e non assimilabile ad altri esiti d’invenzione strumentale.
Le composizioni pianistiche qui raccolte, alcune scritte come pagine d’occasione o come prestazione professionale di un giovane musicista impegnato a guadagnarsi da vivere con la propria arte, sono collocate da Alessandro Marangoni in un ordine cronologico. Quest’ordine, fin dove è possibile, corrisponde a realtà. Ciò avviene là dove l’editore è Ricordi: in calce alla prima pagina è sempre rintracciabile la data di edizione che, trattandosi di pezzi pianistici quasi sempre scritti su commissione e in vista di finalità pratiche legate a spettacoli di vario genere, sembra escludere un significativo divario di tempo tra il momento della composizione e quello dell’uscita editoriale. In altri casi si tratta di una diversa firma editoriale, milanese come Ricordi ma molto meno resistente al fluire del tempo e allo svanire della memoria storica. Si tratta dei Riuniti Stabilimenti Musicali Giudici & Strada – A. Demarchi – A. Tedeschi, di Paolo Mariani fu Carlo. In questi fascicoli, dalle copertine illustrate in stile “Ballo Excelsior”, la cronologia è soltanto plausibile e congetturale. Possiamo argomentare, grazie allo stile grafico e iconografico, all’identificazione della firma editoriale poi scomparsa da Milano, alla fisionomia della scrittura rispetto a lavori esplicitamente datati e certo più maturi, che tutti il gruppo di marce e ballabili collocati da Marangoni al principio risalga ad anni anteriori o coevi alla prima guerra mondiale. Tutte queste brevi composizioni in sequenza reale o probabile sono state inquadrate dal pianista ricercatore e curatore, all’inizio e alla fine di questo CD, tra due lavori che invece rappresentano la fase più avanzata negli anni. Si tratta delle trascrizioni per pianoforte − realizzate dallo stesso autore quasi contemporaneamente agli originali per orchestra − di due partiture orchestrali che oggi cominciano ad essere note e ammirate da un novero sempre meno ristretto di ascoltatori: Gethsemani e Juventus.
Gethsemani, “poema contemplativo per orchestra”, è il più tardo e il più maturo fra tutti i lavori presentati da questo CD. Datato 1925, fu edito a Milano da Ricordi, e questa trascrizione pianistica reca il copyright 1926. Che si tratti di musica a programma, si può indurre dall’analogia con Juventus e con La notte di Platon, anche se qui l’indicazione del genere poetico e tematico (non della “forma”, che dato il carattere “durchkomponiert” del discorso musicale sarebbe comunque una “non-forma”) è diversa. Siamo dunque dinanzi a una situazione letteraria dal referente religioso, evangelico, paragonabile al referente dell’oratorio Christus am Ölberge op. 85 di Beethoven. L’assenza di un testo e la veste puramente strumentale (fra l’altro, “in bianco e nero” qui nella trascrizione per pianoforte) ci obbligano a interpretare la programmaticità suggerita dal titolo come un “inneres Programm”. L’autore trentatreenne intende la propria “meditazione” come libera dagli obblighi di storicizzazione, sicché questa non è per così dire “musica in costume”, così come sono i personaggi di certi sciagurati film hollywoodiani di genere biblico e in particolare cristologico. Perciò, niente abuso di modi ecclesiastici, niente arcaismi di prammatica; piuttosto, un forte uso di esatonia e di pentafonia, al fine di immergerci in un’atmosfera insolita e disincarnata dalla fisicità quotidiana. Anche l’invenzione melodica vuol essere strana, come fuori dal mondo. La struttura è tendenzialmente ternaria: un movimento veloce e concitato (Un po’ più vivo), racchiuso tra due movimenti più lenti, l’iniziale Calmo, contemplativo in Fa diesis maggiore, e un Grave (con raccoglimento), che ci scuote nel profondo con l’iniziale ed elementare cellula motivica discendente La 2 - Sol 2 su un pedale (tremolo) di Re bemolle nel registro più grave. La sezione centrale Un po’ più vivo si lega al Grave mediante un episodio la cui stessa didascalia agogica ed espressiva merita attenzione: Con grande pace, estaticamente (dolcissimo pp, come stellata [sic]).
Per il ballo Sui Pirenei, di cui ci sfugge l’autore, de Sabata scrisse un Gran Valzer in Mi maggiore, databile al periodo 1908-1915. Esso ci risulta edito dai citati Riuniti Stabilimenti Musicali, senza anno di edizione: in copertina, il nome dell’autore compare come “Vittorio De Sabata”, con il prenome italianizzato e con la “D” maiuscola nella preposizione del cognome. Questa variante onomastica è anche sulle copertine dei tre pezzi pianistici della serie Studenti di Parigi (sempre edita dai Riuniti Stabilimenti), mentre l’altra serie edita dai suddetti Giudici & Strada eccetera, Fra nastri e cappellini, reca soltanto l’iniziale del prenome, e sia prenome che cognome sono stampati in tutto maiuscolo, per cui non è possibile stabilire la scelta grafica relativa alla “D”. Il valzer è strutturato secondo il classico modello viennese: una breve introduzione con scaleggi ascendenti e discendenti, e una serie di ezioni di cui la prima è la briosa esposizione. La scrittura pianistica è spiritosa e mai “ordinaria” , con un fraseggio morbidi pur nella convenzionalità dell’accompagnamento in stile “un’ottava, due accordi”. Bellissima la sezione centrale, in pianissimo, nella quale l’accompagnamento mantiene il suo carattere mentre la mano destra fraseggia con una serie di tremoli delicati da cui emerge le linea melodica.
Studenti di Parigi fu a quanto pare un’azione coreografica di A. Bigiarelli (non ci è possibile per ora svelare in prenome nascosto dall’iniziale). Per essa, “Vittorio” de Sabata (anzi, “De” Sabata…) scrisse una sorta di piccola suite costituita da una Marcia, un Valzer e una Polka. La Marcia in Re maggiore fa uso abbondante di cromatismi dal significato parodistico: deformazione e destrutturazione dominano anche nel Valzer in La maggiore preceduto dalla consueta introduzione in 2/4. La scrittura non pretende nulla: neppure l’originalità. Ma…quale mano! Quale scioltezza di riflessi, quante idee, come per esempio il divertirsi a “cantare” su una nota sola mentre la mano sinistra svolge un elaborato disegno! Nella Polka in Sol maggiore (ma conclusa in Do maggiore) ritorna il cromatismo, a colorire il ritmo stupidello connaturato in questo tipo di danza.
Principe è un fox-trot in Re maggiore (ma concluso in Sol maggiore), non databile (ma, a nostro avviso, sempre degli anni anteguerra). Qui ci manca l’indicazione editoriale: l’unico testo a disposizione di Marangoni (presumibilmente, di qualsiasi futuro ricercatore) è una stampa privata che lo stesso de Sabata ventenne o giù di lì si fece preparare da qualche tipografia, a quanto si vede non eccelsa. È un lavoretto spiritoso, in stile accentuatamente comico, con molti cromatismi e acciaccature, e scivola via divertendoci un mondo. Chiunque conosca il de Sabata degli anni d’oro, sacerdotale e circondato da cerchi magici di austera bellezza, proverà un effetto straniante ascoltando queste nugae tanto poco pretenziose quanto abili. E il “principe” del titolo? Umberto di Savoia era allora bambino.
Per l’azione coreografica Fra nastri e cappellini, dedicata «al gentilissimo signor Salvatore Danielli», de Sabata scrisse un’altra serie di danze: qui Marangoni esegue un Gran valzer in Sol maggiore, una Marinaresca in La bemolle maggiore e una Polka in Re maggiore (conclusa in Sol maggiore) seguita da un Galopp in Do maggiore. Vale la solita datazione approssimativa, anteriore alla prima guerra mondiale. Nel Valzer è frequente la clausola a cadenza sospesa, spesso con la sensibile come suono portante, ciò che dà un effetto reiterato grazie al quale ci rammentiamo per esempio, della Rondine di Puccini. La Marinaresca (ossia una “barcarola”) non ha proprio nulla di italiano: ci sono momenti incantevoli soprattutto nella sezione finale in Fa maggiore, dove i molti accordi alterati e ammorbiditi da appoggiature respirano un ‘aura “boema” alla Zdeněk Fibich o alla Josef Suk. Quanto alla spassosa Polka e al Galopp che ne trae per così dire le logiche conseguenze, avvertiamo consanguineità con l’ironia sferzante della Diva de l’Empire di Erik Satie.
Tra “Vittorio” e Victor de Sabata, tra il giovanissimo musicista straordinariamente dotato di talento e di spirito, e il giovane direttore d’orchestra già riconosciuto come artista di genio e avviato sulla sua luminosa strada, c’è un salto di stile e di impegno addirittura traumatico. Non è fuori luogo usare l’aggettivo “irriconoscibile”, se non forse con l’eccezione dell’ultimo dei tre piccoli e preziosi lavori di cui stiamo per dire. Nel 1918, l’anno in cui l’autore assunse il suo incarico direttoriale all’Opéra di Montecarlo, Ricordi pubblicò di Victor de Sabata i Tre pezzi, così brevemente intitolati. Essi sono: Câline, piccolo studio di “legato”, in Si maggiore; 2. Habanera, in Fa diesis maggiore; 3. Do you want me, quasi “cake-walk”, in Fa maggiore (ma senza alterazioni nell’armatura di chiave). Câline è una scrittura raffinatissima, pianisticamente ardua con il suo esercizio rigoroso di accordi pieni, corposi, fortissimamente alterati, e continuamente legati. Soltanto un eccellente pianista può ricavare dall’esecuzione il suono carezzevole adatto alla sensazione evocata dal titolo francese: la tenerezza e la grazia maliziosa di una “fille en fleur” tra adolescenza e giovinezza. Il fascino arcano di questa composizione nasce dal colore politonale ed è il primo vero ingresso di de Sabata compositore nell’aura novecentesca di ciò che è stato il secolo di Adorno, di Benjamin, di De Chirico, di Mondrian e di Proust. Incantevole e melodicamente inafferrabile la Habanera (di per sé, questo è un o dei ritmi più fascinosi della Galassia), e dispettosamente difficilissimo a suonarsi il “cake-walk”, certo mèmore dell’omonimo pezzo che conclude il Children’s Corner di Claude Debussy.
L’eccezionale rassegna, che per ciascun ascoltatore sarà un’assoluta sorpresa, si conclude con la trascrizione pianistica che de Sabata realizzò di Juventus, “poema sinfonico per orchestra”, composto nel 1918 edito da Ricordi nel 1920. Diversamente da Gethsemani, questo ampio e potente lavoro si apre in fortissimo, ed è percorso da cima a fondo da un‘energia inesauribile. La prima sezione, in La maggiore, ci aggredisce con un’irruenza forse non immemore dell’incipit di Don Juan di Richard Strauss. L’idea centrale di questa composizione “a programma” rientra nella tradizione cui si ascrivono Franz Liszt con Von der Wiege bis zum Grabe (1882), Josef Suk con Zrání (“Maturazione”, 1917) , e lo stesso Richard Strauss con Tod und Verklärung (1890): la vita individuale del compositore descritta in musica, e, controluce l’esistenza di ognuno, di. “Jedermann”. La giovinezza è rappresentata in suoni da de Sabata senza alcuna banale caduta nel descrittivismo: c’è soltanto temperatura colore, dinamica. Segnaliamo all’ascolto la splendida sezione in La maggiore, Molto più largamente, che verso la fine della composizione riesce ad evocare, in questa trascrizione, il timbro e la sonorità delle trombe mediante un tremolo fortissimo della mano sinistra e raddoppi d’ottava della mano destra. Da questo lavoro del 1918 non emerge, come qualcuno si aspetterebbe, un clima espressionistico. Tuttavia, verso la metà, l’ascoltatore è improvvisamente colpito da una successione armonica che si trova al principio della Sonata op.1 di Alban Berg.

di Quirino Principe (note al CD "Victor de Sabata - Composizioni per pianoforte", BDI 165)

venerdì, luglio 18, 2008

Giovanni Sollima: sporcarsi le mani

L’aspetto che mi ha affascinato fin dal nostro primo incontro nell’attitudine musicale di Giovanni Sollima è l’assoluta naturalezza del suo rapporto con la musica. Non sembri un fatto scontato. Né lo si attribuisca automaticamente al suo essere figlio d’arte (il padre Eliodoro, lo ricordiamo, è stato compositore affermato ed ottimo musicista). La fluida spontaneità con la quale Giovanni Sollima parla di musica, scrive musica e la suona, l’immediata semplicità con la quale passa da un ruolo all’altro (dal compositore all’interprete, al commentatore) è qualcosa che appartiene alla sfera del talento. Ovvero a quella sfera nella quale, nonostante gli sforzi di schiere di studiosi, facciamo davvero fatica ad entrare per spiegare i segreti dell’artista, o dello scienziato, dell’inventore, o del genio. Peraltro, essendo ancora noi nipoti del romanticismo, talento e genio sono parole che usiamo con singolare casualità. Sono, nella maggior parte dei casi, parole frutto della meraviglia, di quello stupore infantile, per dirla con Mircea Elide, che ci prende dinanzi alla semplicità. Non dunque una forma di sindrome di Stendhal. Questa ha a che fare col ‘grandioso’, col ‘sublime’, con l’incommensurabile e l’ineffabile. Il talento, e la sua forma suprema, il genio, ha a che vedere con la natura nella sua forma più ‘naturale’. Ed è questo che stupisce in Giovanni Sollima: la facilità di comunicare in primo luogo la sua passione per l’arte in cui eccelle, e di trasformare tale comunicazione in un’emozione.
Questo accade anche nelle situazioni più improbabili. Per esempio parlando al telefono, nella pausa fra due prove; oppure salendo le scale del Conservatorio tra una chiacchiera e l’altra; o semplicemente facendo due passi per strada: quando la conversazione cade sul tema “musica”, quel fluire naturale coinvolge chi ascolta. Ovviamente, non fanno eccezione neppure le interviste, nelle quali Giovanni Sollima racconta con organica schiettezza dei suoi progetti, del suo lavoro, del come nascono i programmi. Programmi che, come quello che presenterà a Musica Insieme con l’ensemble dei Violoncellisti della Scala, spesso sono frutto – e a questo punto possiamo dire non per caso – di una sorta di sperimentazione sul campo, dove l’esperienza del violoncellista (e dei violoncellisti) si somma con quella del compositore. Ed infatti: “Abbiamo affrontato Biber non come se volessimo farne una trascrizione. Quello che ci ha guidato era un principio diverso: lavorare un po’ come si faceva in epoca rinascimentale e barocca. Ovvero adattando la musica agli ensemble che si avevano a disposizione, e quindi ridistribuendo le parti di conseguenza. Quindi, il gruppo di violoncelli trattato come se fosse una sorta di insieme di viole da gamba, o di quei gruppi di archi dove si trovavano strumenti ibridi, oggi non più in uso. Peraltro, la musica di Biber, ed in particolare questa sua Battàlia, mi ha sempre affascinato. L’ascoltavo già da bambino, e quello che mi colpiva e mi colpisce tuttora è la straordinaria inventiva contenuta in quel brano. È una pagina musicale immediatamente descrittiva, ma lo è in maniera non banale, sfruttando poliritmie a volte anche molto complesse, o sovrapposizioni di tonalità che farebbero persino pensare ad una specie di politonalismo ante litteram. È stato, perciò, quasi ovvio adottare certe soluzioni, come dividere i violoncelli in due cori, imitando in questo l’originale che prevede due gruppi contrapposti, mentre la mia parte l’ho posizionata al centro, cercando anche di creare una sorta di distribuzione spaziale dei suoni, una stereofonia da palcoscenico”.
Come volevasi dimostrare: il violoncellista esperto, l’interprete navigato, applica la sua esperienza al servizio del risultato compositivo. Analogo, del resto, il caso del brano che segue: Flagellazione, tratto da un balletto ispirato ad alcuni dei capolavori di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio. “È ancora un brano per ensemble di violoncelli caratterizzato da una componente sonora non dissimile da quella di Biber. Peraltro, tutto il balletto ha una genesi particolare. In alcuni quadri Caravaggio, con la consueta meticolosità, ha inserito partiture. Naturalmente, si tratta di brani autentici, ed io sono riuscito a ritrovarne tre. Si tratta di madrigali composti da Jacques Arcadelt”. Arcadelt, rammentiamolo, è compositore francese (forse fiammingo), che fu allievo, proprio in terra di Francia, del grande Josquin Desprès. Lo ritroviamo poi a Firenze – dove studiò con Verdelot – ed infine eccolo a Venezia, inserito in quel gruppo di musicisti che ruotava intorno a Willaert. È proprio a Venezia che, tra il 1539 ed il 1544, Arcadelt pubblica le sue raccolte di madrigali, raccolte grazie alle quali ha conquistato un suo posto nella storia della musica. Dalla città lagunare si trasferì poi a Roma ed infine tornò a Parigi, dove morì nel 1568. “Nel caso di Flagellazione – torniamo a Sollima – il madrigale che ho utilizzato aveva un andamento mediamente lento. Nel trasporlo per l’ensemble di violoncelli ho in primo luogo cambiato proprio la velocità metronomica. Poi, ho infittito le articolazioni, e sono intervenuto ovviamente sulle singole parti, adattandole agli strumenti. In ogni caso, uso quel madrigale di Arcadelt nella sua struttura quasi integrale sia all’inizio sia alla fine della mia composizione. Nel centro, invece, pur partendo sempre da un frammento che deriva da quella partitura, costruisco una struttura completamente diversa. In certo senso, colloco quel frammento in un altro contesto, un contesto che ha una forte connotazione pittorica, l’ensemble utilizzato, per così dire, in maniera oceanica. Per contrasto, al tutti si contrappongono tre solisti, che suonano la medesima parte, ma sfalsati nel tempo, quasi si trattasse di una sorta di delay (ossia un ritardo, ndr) naturale. Il risultato è sonoramente lacerante, come del resto sono laceranti certa figuratività e certa pittura barocche, che sono cupe e dolenti, quasi anticipassero il romanticismo. Insomma, come per il brano di Biber, la componente strumentale e quella compositiva s’intrecciano. Il comune denominatore dell’intero programma del concerto è proprio questo: lo sporcarsi le mani tra la composizione e lo strumento. Il brano di Domenico Gabrielli, invece, è un omaggio alla tradizione violoncellistica emiliana, ed in particolare bolognese”. Gabrielli, infatti, a Bologna è nato (nel 1659) e a Bologna si è spento (nel 1690). Anche lui ha un posto di rilievo nella storia della musica, in particolare perché è stato tra i primi (se non il primo) a comporre pagine per il solo violoncello, alle quali si sono ispirati tutti i compositori a lui successivi, Bach compreso. “Dal punto di vista violoncellistico, quella di Gabrielli è un’opera fondamentale – precisa Sollima – tant’è che sto pensando di realizzare molto presto un progetto discografico tutto dedicato a lui. Gabrielli potremmo dire ha inventato il violoncello, estendendone le possibilità in maniera straordinaria. Da strumento limitato ad eseguire linee di basso, a strumento virtuosistico, che suona parti ricche di fioriture e di diminuzioni. È Gabrielli il primo a spingere lo strumento in quel registro tenorile, quello che lo fa cantare, in seguito divenuto d’uso comune. Proprio le innovazioni di Gabrielli stabiliscono, in certo senso, la differenza tra il gruppo di viole da gamba ed il gruppo di violoncelli: questi ultimi possiedono, per così dire, una sonorità più carnale, più corposa”.
Di questo sporcarsi le mani è, infine, esempio preclaro proprio il brano che segue, e lo è fin dall’attribuzione autoriale: Vival-Drix, ovvero l’incontro fra Antonio Vivaldi e Jimi Hendrix. “Tutto nasce ovviamente dal celebre Concerto per due violoncelli di Vivaldi, e dal fatto che, nel
trascriverlo per i soli celli, ho incontrato qualche difficoltà, sia per la complessità di certi passaggi nel basso, sia ovviamente per i problemi legati all’estensione della parte dei violini. Così ho ridistribuito tutte le parti tra i celli cercando di mantenere quella ricchezza, al punto che due li ho utilizzati solo in pizzicato, quasi fossero dei chitarroni. La scrittura vivaldiana, poi, ha un certo sapore rock: sincopata, ritmicamente molto incalzante, vitale nel suo scorrere. Ed ecco che, in prova, giocando con le note, mi sono accorto di una certa vicinanza tra Vivaldi ed Hendrix. È stato allora quasi automatico creare una sorta di dissolvenza incrociata nel finale e passare fluidamente dall’uno all’altro
”.
Il concerto si concluderà sulle note del più celebre fra i lavori di Sollima, "Violoncelles, vibrez!": “L’ho composto molti anni fa, e quando ho finito di scriverlo per la verità non mi sembrava granché. Evidentemente mi sbagliavo, tant’è che sono tornato ad inciderlo anche ora, nel mio nuovo cd per la Sony”.

di Fabrizio Festa

giovedì, luglio 10, 2008

Messiaen: Quatuor pour la Fin du Temps

"Una musica che culla e che canta, che è nuovo sangue, un gesto eloquente, un profumo sconosciuto, un uccello senza riposo; una musica delle vetrate colorate delle chiese, un vortice di colori complementari, un arcobaleno teologico."

Questa definizione che lo stesso Olivier Messiaen diede della sua musica ci indica in modo significativo ciò che egli richiede, sia in senso puramente musicale che sovramusicale, a se stesso e alla sua opera. Nella sua ricchezza di immagini e sontuosità di inguaggio, la frase fa perfetto riscontro alla retorica musicale dei suo autore, almeno per il periodo creativo che precede gli anni 1949/51 e per qualche opera successiva, la frase ci riporta inoltre all'origine di Messiaen, figlio di un noto traduttore shakespeariano e della poetessa Cécile Sauvage. Queste parole, però, possono valere anche come un sintetico riassunto di una delle opere principali dei primo grande periodo compositivo di Messiaen: il "Quatuor pour la Fin du Terrips" (Quartetto per la fine dei tempi).
"Una musica che culla e che canta": sono i due canti di lode del quinto e dell'ottavo movimento del Ouartetto, gli estesi interventi melodici di violoncello e violino, sostenuti da accordi del pianoforte, da eseguire in modo "infiniment lent" in un caso, "extrémement lent et tendre" nell'altro, e in ambedue anche "extatique", dove l'estasi è tutta rivolta verso l'intimo.
"Un gesto eloquente, un profumo sconosciuto, un uccello senza riposo": ciò potrebbe simboleggiare le intenzioni innovatrici dalle quali traeva stimolo costante la volontà artistica di Messiaen, e che nel periodo compositivo sopra indicato si riflettono nell'ambito ritmico. Il movimento del Quartetto più caratteristico in questo senso è il sesto, "Danza del furore, per le sette trombe".
"Una musica delle vetrate colorate delle chiese, un vortice di colori complementari": Messiaen è divenuto noto anche come studioso di sinestesia, come un compositore per il quale l'associazione di impressioni derivate da differenti sfere sensoriali è una costante della personalità creativa. "I colori della città celeste" hanno dato il nome a una delle composizioni più famose di Messiaen; nelle sue partiture si ritrovano numerose indicazioni di colori, legati per l'autore a determinate combinazioni strumentali, a figure melodico-armoniche. Nel Ouartetto Messiaen ha caratterizzato le cascate di accordi del pianoforte, che si incontrano nel secondo e nel settimo movimento, con colori: blu e malva, oro e verde, rosso-violetto, blu-arancione.
"Un arcobaleno teologico": l'immagine esprime l'orientamento, naturalmente, che non si può circoscrivere in senso dogmatico, per quanto forte possa essere l'influenza sulla sua musica del patrimonio spirituale della chiesa cattolica romana. Le visioni di Messiaen vanno oltre: esse coinvolgono il mondo e l'aidilà allo stesso modo; vi si uniscono le sfere più differenti, vi si esalta l'amore celeste e quello terreno con lo stesso fervore, si glorificano le verità della fede cristiana con l'aiuto di ritmi indiani e greci. Ogni cosa è una lode a Dio. E per il "Quatuor pour la Fin du Temps" l'immagine dell'arcobaleno ha una sua funzione particolare: non soltanto perché è nel titolo dei movimento ("Vortice di arcobaleni, per l'Angelo che annuncia la fine dei tempi"), ma perché diede in un certo senso la spinta generatrice alla composizione.
La fonte ispiratrice dell'opera sono i primi versetti dei decimo capitolo dell'Apocalisse di Giovanni: "Vidi poi un altro angelo possente discendere dal cielo, avvolto in una nube, la fronte cinta di un arcobaleno, aveva la faccia come il sole e le gambe come colonne di fuoco. Posò il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra. Allora l'angelo che avevo visto con un piede sul mare e un piede sulla terra, alzò la destra verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli: Non vi sarà più indugio! Nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e suonerà la tromba, allora si compirà il mistero di Dio."
La provenienza della citazione e l'immagine della "fine dei tempi", in più la circostanza che il Quartetto fu ideato, scritto ed eseguito per la primavolta nell'inverno 1940/41 in un campo di prigionia tedesco vicino a Görlitz, può far supporre che Messiaen abbia voluto tradurre in musica il terrore dei momenti immediatamente precedenti il Giudizio Universale. Ma niente ostacolerebbe di più la comprensione dell'opera. Messiaen: "Non ho affatto voluto fare un commento dell'Apocalisse, ma soltanto motivare il mio desiderio della cessazione dei tempi." L'equivalente musicale di questa "cessazione dei tempi" consiste per Messiaen nel distacco dalle regole ritmiche e metriche della musica occidentale tradizionale. Al loro posto - e questo è senz'altro l'aspetto più innovatore del suo linguaggio musicale fino alla fine degli anni Quaranta - impiega tutta una serie di procedimenti che annullano le tradizionali nozioni di misura e di tempo. E questi procedimenti sono: l'aumentazione e diminuzione ritmica, che egli impiega in proporzioni fino ad allora inconsuete; l'ostinato ritmico; la tecnica del "valore aggiunto": in un punto qualsiasi di un modulo ritmico qualsiasi viene inserita una nota, un punto o una pausa, creando così figure asimmetriche che permettono a Messiaen di esprimere la sua predilezione per i numeri primi (come cinque, sette, undici, tredici), e di sottoporre ad oscillazioni irrazionali il decorso ritmico. in opposizione a tali asimmetrie stanno le simmetrie dei "ritmi non retrogradabili." Con tale definizione si indicano delle figurazioni ritmiche che, siano esse lette da destra a sinistra che da sinistra a destra, mantengono invariato l'ordine dei loro valori e si raggruppano intorno a un valore centrale comune. Un compendio di tali procedimenti è il sesto movimento dei "Quartetto per la fine dei tempi", intitolato "La danza del furore". Nella sua parte centrale si trova un sorprendente pianissimo, costruito come duplice successione di sette differenti ritmi non retrogradabili. Per quanto riguarda la melodia, le quattordici misure conten gono sette volte un disegno melodico sempre uguale che nel ritmo cambia coerentemente di volta in volta: l'ostinato melodico inizia ogni volta su un altro valore di tempo.
Un esempio molto più complesso di questa distinzione fra organizzazione del tempo e organizzazione delle altezze è il movimento introduttivo del Quartetto, la "Liturgia di cristallo". Il pianoforte suona un ostinato ritmico di 17 valori che deriva dalla successione di tre ritmi indiani, ad esso si sovrappone un ostinato armonico di 29 valori. Quale parallelo storico Messiaen ha indicato il mottetto isoritmico del tardo Medioevo con le sue sovrapposizioni sfasate di "color" e "talea", ma che comunque, al tempo in cui compose il Quartetto, egli non conosceva ancora. Alle figurazione ostinate del pianoforte si sovrappone un ostinato di cinque note del violoncello che appare in tre differenti formule ritmiche. Clarinetto e violino suonano allo stesso tempo imitazioni di canti di uccelli, per i quali Messiaen ha sempre dimostrato una predilezione speciale, fino a dar vita negli anni Cinquanta a delle composizioni dove le altezze dei suoni sono definite unicamente in base al richiamo degli uccelli.
Il fatto che in questo primo movimento partecipino tutti e quattro gli strumenti non è affatto la regola, ciò si verifica in seguito soltanto tre volte: nella parte iniziale e in quella finale del secondo movimento, nel sesto e nel settimo movimento. Per il resto c'è una varietà nell'organico strumentale, che ricorda da lontano il "Pierrot lunaire" di Schönberg. C'è un assolo di clarinetto (terzo movimento), un duo di violoncello e pianoforte e uno di violino e pianoforte (i due canti di lode del quinto e dell'ottavo movimento), un trio di violino, clarinetto e violoncello (quarto movimento) e un trio con pianoforte (parte centrale del secondo movimento). Fra i vari movimenti si hanno non di rado collegamenti motivico-tematici. Una sorta di perno in questo senso è il quarto movimento ("Intermezzo"). Esso contiene reminiscenze del canto del merlo nel primo movimento e di un caratteristico passaggio del clarinetto nel secondo e nel terzo, e anticipa anche il sesto e il settimo movimento. Questo Intermezzo è il germe musicale dell'intero Quartetto. Messiaen lo scrisse, dopo che un ufficiale tedesco gli aveva regalato matite e carta da musica, per i tre musicisti che egli aveva incontrato al campo; la "prima rappresentazione" avvenne in un lavatoio. Per quanto riguarda i collegamenti musicali, però, sono il secondo e il settimo movimento ad essere legati l'uno all'altro con evidenza particolare. Ambedue sono dedicati all'angelo incoronato dall'arcobaleno, la cui figura è particolarmente cara a Messiaen, e che ritroviamo anche nella pittura, in Dürer per esempio, ma anche negli arazzi dell'Apocalisse conservati nel Castello di Angers. Gli elementi musicali ricorrenti nei due movimenti sono da una parte il pronunciato tema che introduce il secondo e simboleggia il potere dell'angelo, dall'altra le cascate di accordi del pianoforte ispirate ai colori, immagini sonore dell'arcobaleno, e infine il già citato passaggio del clarinetto.
La melodia e l'armonia dei Quartetto si basano sui modi "a trasposizioni imitate" di Messiaen. Si tratta qui di specifiche scale la cui composizione per toni interi o semitoni è indipendente dai modi maggiore e minore, e la cui caratteristica consiste fra l'altro nella notevole polivalenza tonale. Da questi modi la melodia riceve una flessibilità e un andamento peculiare, l'armonia acquista un carattere poliedrico e iridescente. Ambedue, melodia e armonia, si sviluppano dall'intreccio di spontaneità e di calcolo, rivelano spesso la freschezza di una inventiva originale, ma talvolta lasciano trasparire anche la convenzione, specialmente là dove le sensazioni amorose di Messiaen spingono l'intimità di tono in un'atmosfera di particolare dolcezza.
L'intermezzo citato è posto al centro di altre sette movimenti. Messiaen: "Sette è il numero perfetto, la Creazione di sei giorni santificata dal giorno di riposo di Dio; il sette di questo riposo si prolunga nell'eternità e diventa l'otto della luce eterna, della pace inalterabile. "Con un fondo teologico, e "colorata" da immagini poetiche è l'atmosfera di molti movimenti del Quartetto. Alcuni cenni sul loro "contenuto" possono essere forse d'aiuto.
  1. Liturgia di cristallo: risveglio degli uccelli; delicati pulviscoli sonori si perdono in alto fra gli alberi. La trasposizione di questa immagine sul piano religioso dà origine, come ha detto Messiaen, al silenzio armonioso del cielo.

  2. Vocalizzo, per l'Angelo che annuncia la fine dei tempi: la prima parte e la coda evocano la potenza dell'Angelo; la parte centrale è un vocalizzo di violino e violoncello sull'arcobaleno delle cascate dei pianoforte.

  3. Abisso degli uccelli: assolo del clarinetto; melodia sostenuta, quale simbolo dell'abisso dei tempi con le sue tenebre; vi è incorporata una parte ispirata al canto degli uccelli, immagine sonora dei desiderio umano di luce, di stelle e di vocalizzi esultanti.

  4. Lode all'etemità di Gesù: duo di violoncello e pianoforte, un'ampia frase melodica, omaggio al Verbo divino. "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio."

  5. Danza del furore, per le sette trombe: tutti e quattro gli strumenti all'unisono; uso dei più diversi procedimenti ritmici, nonostante notevoli contrasti dinamici ed estremo smembramento del materiale tematico, senza intenzioni propriamente programmatiche.

  6. Vortice di arcobaleni, per l'Angelo che annuncia la fine dei tempi: "Questo pezzo è dedicato all'Angelo e soprattutto all'arcobaleno sopra la sua testa l'arcobaleno, simbolo di pace, di saggezza e di ogni vibrazione luminosa e sonora" (Messiaen).

  7. Lode all'immortalità di Gesù: duo per violino e pianoforte, pendant del quinto movimento, celebrazione del Verbo incarnato. "Questo canto di lode è tutto amore. La sua lenta salita verso l'apice è l'ascensione dell'uomo verso il suo Dio, del figlio di Dio verso il Padre, della creatura divinizzata verso il Paradiso" (Messiaen).
Josef Häusler (traduzione di Mirella Noack-Rofena)

sabato, luglio 05, 2008

Sinfonia per uno sterminio

Storia della violinista Alma Rosé, nipote di Gustav Mahler, che ad Auschwitz formò un' orchestra di sessanta strumentiste, poi uccise dai nazisti.

La Stella di David è la sovrapposizione di due triangoli equilateri, l'uno capovolto rispetto all'altro. Dire "incrocio" è improprio: la croce appartiene a un'altra visione del tempo e del destino. Ma nella storia di cui parliamo c'è davvero un' intersezione. Balenano immagini geometriche: parallele tagliate da una trasversale, destini incrociati chiusi dalle mura del castello chiamato Universo, il "Kreuz der Straße" di Stefan George, alto e innocente poeta che alcuni carnefici prediligevano. Oppure la scacchiera, che nel Mare amoroso è metafora dell' infinito ("il numer del scacchiere") e nel Paradiso di Dante allude al seducente e spaventoso aneddoto dell'unità collocata sulla prima casella ma destinata a raddoppiarsi in progressione esponenziale in ciascuna delle successive; il numero terrificante che ne risulta ci rende la vertiginosa sensazione che si prova dinanzi al numero degli angeli ("più che il doppiar degli scacchi s'immilla"). Sulla scacchiera "di bianchi giorni e nere notti" che è l' esistenza (così Borges in Ajedrez) qualcuno o qualcosa determina il divenire, i casi e le scelte: la libertà è reale e ha ogni possibile significato etico, ma soltanto entro la cornice del gioco. Al di fuori, chi muove i pezzi (re altero e debole, regina arrogante e potente, alfiere obliquo, torre orgogliosa, astuta pedina, noi e il nostro mondo) si diverte per un po' , e ci dà l'illusione di esistere; poi (così Omar Khayyam), finito il gioco, ci ripone nella scatola del Nulla. Il rompicapo della scacchiera mutilata cui mancano due angoli, vulgato da Martin Gardner, aggiunge a questa simbologia arcana l'ombra di un enigmatico trauma. Questo alternarsi di bianco e nero secondo la sesta potenza di due provoca, come tutte le figure ossessive, un'illusione ottica. Seguiamo una linea orizzontale, nero-bianco-nero-bianco e così via da sinistra a destra; decidiamo che sia quella la storia principale, e vicende accessorie gli incroci trasversali. Oppure seguiamo bianco-nero-bianco-nero dall'alto in basso, e diventano secondarie le linee orizzontali che incrociano il percorso. La vita leggendaria e l'opera irripetibile di Gustav Mahler sono una linea narrativa o storiografica di rango primario: le vicende dei fratelli di Gustav e della loro discendenza sono, in qualsiasi tractatus, capitoli marginali, appendici. Tale sarebbe anche la vicenda prima viennese e poi canadese di Justine e di Emma, sorelle di Gustav e rispettive mogli degli illustri strumentisti Eduard e Arnold Rosé, fondatori del mitico Rosè-Quartett, e dei relativi figli e figlie e nipoti, e in particolare di Alma Maria Rosè, figlia di Arnold e Justine, alla quale la fin troppo celebre moglie dello zio Gustav Mahler, sua madrina, regalò i due prenomi. In una monografia anche cospicua sull'autore di Das Lied von der Erde, questi sarebbero paragrafi, note in calce, quasi soltanto lemmi da Index nominum. Ma se prendiamo uno di questi lemmi, proprio quello di Alma Rosè, un' inversa illusione ottica lampeggia sulla scacchiera: è lei che diventa la linea primaria, e i destini di Gustav e di Alma Mahler, di Emma e Justine, di Arnold e di Eduard, o, perché no?, di Adolf Hitler, diventano tracciati perpendicolari, punti d'incrocio, paragrafi su personaggi complementari. Alma Rosè, votata alla gloria e alla memoria storica, morta a trentotto anni, violinista fra i primi del secolo XX, Kapellmeister di un'orchestra sublime e spaventosa, assurda vittima dell'Olocausto, è protagonista assoluta, personaggio di tragedia eschilea.
I Rosenblum erano una rigogliosa famiglia ebraica originaria di Jassy (Iasi), oggi città della Romania, descritta da Curzio Malaparte in Kaputt. Figli di Hermann e Marie Rosenblum furono Alexander, Berthold, Eduard (1859-1942) e Arnold (1863-1946): essi decisero di amputare il cognome in "Rosè", non per rinnegare la propria ebraicità di cui furono sempre e coraggiosamente orgogliosi, ma per togliere un sovrappiù di tipicità paesana, provinciale e mercantil-rurale. Il 25 agosto 1898, Eduard sposò Emma Mahler (1875-1933); il 10 marzo 1902 (il giorno dopo che Gustav Mahler aveva sposato Alma Schindler Moll più tardi Gropius-Werfel) Arnold sposò l' altra sorella di Gustav, Justine (1868-1938). Legami saldissimi strinsero le due famiglie. Alma Maria Rosè, figlia di Arnold e Justine, nacque a Vienna il 3 novembre 1906. Il suo talento musicale splendette presto per la sua eccezionale energia, parallela al carattere volitivo e all'ardimentosa autonomia. Divenuta una solista idolatrata, anche per la sua leggiadria e femminilità, il 16 settembre 1930 sposò il celebre violinista boemo VáÜa Prvíhoda. Ne divorziò qualche anno dopo. Si trasferì in Olanda, terra ideale per la musica e per i vari modi intelligenti e raffinati di far musica, e già approdo prediletto di suo zio Gustav Mahler, confortato dall'incomparabile amicizia di Willem Mengelberg, direttore del Concertgebouw di Amsterdam. Ma, quando le truppe hitleriane invasero l'Olanda, Mengelberg esultò e si dichiarò nazista; ne pagò crudelmente il fio dopo la guerra. Nell'Olanda invasa, Alma cercò, con spavalda noncuranza, di dissimulare la propria ebraicità, ma nulla più. Il 4 marzo 1942 sposò in seconde nozze Constant August van Leeuwen Boomkamp, uno studente di medicina appassionato alla musica e ariano al duecento per cento. L'annuncio del matrimonio diede un incauto rilievo pubblico al nome di Alma, e cominciò a insospettire le autorità occupanti. Durante un viaggio in Francia alla fine del 1942, Alma fu arrestata in un'operazione di caccia agli ebrei cui non era estraneo il famigerato Klaus Barbie. Condotta ad Auschwitz, fu individuata come illustre musicista da Alois Brunner, capitano delle SS, che amava la musica.
Ci fu un gioco delle parti: Brunner finse di lasciare il ruolo dell'aguzzina a Maria Mandel, "SS-Oberaufseherin", un'austriaca nata nel 1912 (nel dicembre 1947, la Suprema Corte di Cracovia la condannò a morte), ordinò ad Alma di costituire un'orchestra sinfonica di donne ebree detenute. Brunner s'impegnò a fornire gli strumenti. Alma, ad Auschwitz, riuscì a trovare più di sessanta valentissime strumentiste, e circa venti copiste musicali per moltiplicare le parti da eseguire. L'incredibile messe sottolinea, se mai ce ne fosse bisogno, la media qualità culturale degli israeliti mitteleuropei. Vestite con l'atroce casacca del Lager, le "ragazze di Alma" dilettarono il musicomane Brunner e i suoi colleghi, sapendo che sarebbero state tutte gassate, e che se avessero suonato bene non sarebbero morte "per un po' di tempo". Perirono quasi tutte nelle camere a gas; non Alma, che morì di stenti e di malattia il 5 aprile 1944. Sopravvisse miracolosamente un' altra musicista prigioniera, Fania Fenelon, che dopo la guerra andò a vivere negli Stati Uniti. Secondo la testimonianza di Eleanor (1894-1992), figlia di Alexander Rosè e cugina di Alma, una mattina del 1945 due monache suonarono alla porta di Arnold Rosè a Blackheath, dove il vecchio violinista si era trasferito con il figlio Alfred (1902-1975), rinomato musicoterapeuta, e consegnarono una cassa con dentro un violino: il prezioso Guadagnini del 1757 appartenuto ad Alma e custodito da amici olandesi di lei. Nel 1992 fu edito un Cd con vecchissime registrazioni di musiche di Bach suonate in duo da Arnold a Alma Rosè: l' unica traccia sonora di lei che sopravviva. Vive di lei, anche, uno straordinario lascito di documenti che, per fortunose coincidenze, è in nostra mano. Un giorno, su queste pagine, ne narreremo la vicenda: lo promettiamo ai lettori. Più di vent' anni dopo la fine dell'Olocausto, Fania Fenelon scrisse la storia dell' orchestra di Auschwitz, Playing for Time (Athenaeum, New York 1977). Ne fu tratto il film omonimo (1980) diretto da Daniel Mann e distribuito in Italia con il titolo Fania. Nel film, Fania è la protagonista (attrice Vanessa Redgrave), mentre Alma è interpretata da Jane Alexander. Alma è figura di assoluta centralità in un nuovo libro in cui la sua tragica vita è seguita giorno per giorno, quasi ora per ora, con rivelazioni sorprendenti. Due gli autori: l'anziano e autorevole Richard Newman e la giovane Karen Kirtley (Alma Rosè: Vienna to Auschwitz, Amadeus Press, Portland, Oregon, 2000, pagg. 408). Fra i mirabili esiti della ricerca, la meticolosa e perfetta ricostruzione dell'orchestra per gruppi strumentali, con nomi, cognomi, nazionalità, numeri di marchio nel Lager (!), collocazione nei vari blocchi di Auschwitz, e la genealogia completa e incrociata delle famiglie Mahler e Rosè.
La cultura non protegge dall'orrore: non protesse Otto Erich zur Linde, personaggio di Borges. Nei giorni della strage di largo Augusto a Milano, descritta da Vittorini in Uomini e no, il comando nazista promuoveva con sincera passione musicale la ricostruzione della Scala. Il fatto che Alois Brunner fosse un musicomane accentua il lato fatale e assurdo della storia di Alma. Ella rappresentò, per volontà del destino, le migliaia di musicisti ebrei che riuscirono a salvarsi (ma morì Viktor Ullmann, nato a Praga il 1° gennaio 1898, morto ad Auschwitz probabilmente nell'ottobre 1944, autore di un capolavoro interamente composto nel Lager, l'opera Der Kaiser von Atlantis). Forse, per misteriosi piani della cosa innominabile che muove i pezzi sulla scacchiera, Alma è morta in un abisso di crudeltà per gettare un obolo in faccia al demone degli Inferi, per offrire sé stessa come vittima sacrificale; un prezzo da pagare perché in qualche Lager non fossero disfatti Bruno Walter, Berthold Goldschmidt, Erich Wolfgang Korngold, Arnold Schonberg...

di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2002)