Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, aprile 22, 2018

Steve Reich: Musica da camera: una prospettiva più ampia

Steve (Stephen Michael) Reich (1936)
Stamattina vorrei parlare di una musica e di un ensemble un po’ diversi da quelli cui si riferisce di solito la definizione di “musica da camera”. Il mio punto di vista sarà personale.
Sono un compositore che, tra l’altro, scrive anche musica per il proprio ensemble, che quasi in ogni pezzo comprende dai quattro ai nove percussionisti. Durante i nostri concerti, è normale che il pubblico veda più di una marimba, vibrafoni, glockenspiel, grancasse e così via, oltre a tastiere, archi, fiati, voci e, di solito, microfoni. E' un mondo diverso da quello del quartetto d’archi o del quintetto di fiati, eppure suoniamo anche noi con un interprete per parte, senza direttore.
Il mio ensemble, formato nel 1966 da tre musicisti, ne comprende oggi oltre diciotto. Ciononostante, quando suoniamo opere con ampio organico come Music for Eighteen Musicians, c'è sempre un solo interprete per parte e non vi è direttore. In Music for Eighteen Musicians il vibrafono dà dei segnali sonori agli altri musicisti per indicate il passaggio alla battuta successiva, dopo un numero variabile di ripetizioni. Il direttore non è necessario neanche per indicare il tempo, dato che il tempo iniziale viene mantenuto sino alla fine, con leggere variazioni dovute agli esseri umani; in tutto il pezzo, chi suona il clarinetto basso principale indica con lo sguardo agli altri musicisti le uscite e le entrate. Comunque la si intenda, si tratta di una prassi tipica della musica da camera, anche se con diciotto musicisti sul palco di solito non vi si pensa come al termine descrittivo piu adatto.
Che tipo di musicisti fanno parte dell’ensemble? Tutti provengono da scuole come Eastman, Curtis, Juilliard, Oberlin, Manhattan, e da altri conservatori. In seguito molti hanno cominciato a interessarsi alla musica non occidentale, alla musica antica o al jazz. Per esempio: Russel Hartenberger, percussionista, ha un Ph.D (dottorato) della Wesleyan University in mrdangham, tamburo dell’lndia meridionale, e suona anche musica africana e indonesiana; Bob Becker, un altro percussionista, ha un Ph.D. della Wesleyan University in tabla, il tamburo dell'India settentrionale, e suona anche musica africana e indonesiana; Cheryl Bensam, soprano, ha cantato con il Waverly Consort e con altri gruppi di musica antica; Ben Harms, un altro percussionista, suona con Calliope - A Renaissance Band; Jay Clayton, contralto, e principalmente una cantante jazz; Nurit Tilles, pianista, ha studiato gamelan sundanese nel 1973.
Com'è che la musica non occidentale, la musica antica e il jazz sono un ottimo campo di esperienza per i musicisti del mio gruppo? Uno dei motivi riguarda il ritmo: ho bisogno di musicisti che abbiano uno spiccato senso ritmico e ai quali piaccia suonare musica in cui possono esprimerlo. La musica antica, nella maggior parte dei casi, condivide con il jazz e con la musica non occidentale un ritmo basato su pulsazioni stabili. Per poterla controllare e trarre soddisfazione dall’eseguirla, un interprete deve essere dotato di un senso molto preciso del ritmo regolare ed esercitarlo con piacere. Altri interpreti preferiscono invece il ritmo più gestuale che si riscontra nella musica romantica tedesca.
Il mio ensemble comprende da quattro a nove percussionisti che hanno un ruolo fondamentale in gran parte delle mie opere. Nella musica balinese e africana, dove i percussionisti svolgono il ruolo principale, la loro abilita ritmica deve essere formidabile. La percussione è la voce dominante negli insiemi africani e indonesiani, così come gli archi nelle formazioni occidentali classiche. Nel mio gruppo, gli strumenti a percussione sono spesso la voce dominante, anche se certo non li utilizzo per imitare il suono della musica africana, indonesiana o di qualunque altra tradizione non occidentale.
Ho scoperto che per me il modo migliore di avvicinarmi, come compositore, alla musica non occidentale consiste nel trarre spunto dalla struttura anziché dal suono. Imitare suoni non occidentali può portare all’uso del sitar nei gruppi rock o a quelle che una volta si chiamavano “cineserie”; imparare dalle strutture non occidentali mentre si continua a far riferimento alle scale e ai timbri con cui si e cresciuti, può portare invece a qualcosa di autenticamente nuovo. Il processo e analogo all'apprendimento di una tecnica contrappuntistica occidentale, come il canone circolare o infinito. Si possono ascoltare canoni come Sumer is icumen in, oppure in Josquin Despres, in Bach, in Bartok, in Webern e nella mia stessa musica: risultano forse uguali? Certamente no. L'idea di una linea musicale alla quale fa seguito un’altra identica, ma in posizione ritmica diversa, non contiene informazioni sul suono. Analogamente, le idee pertinenti alla struttura ritmica della musica africana e balinese si possono applicare a qualunque tipo di suono.
La musica antica e il jazz costituiscono un'area di esperienze valida per i componenti del mio ensemble anche dal punto di vista dello stile vocale. La musica medioevale, rinascimentale e barocca richiede voci più leggere, più naturali, con meno vibrato rispetto alle voci del belcanto o dell’opera wagneriana. Questo è lo stile adatto alla mia musica. Perché? La voce operistica doveva farsi udire al di sopra dell’orchestra in sale piuttosto grandi, in un’epoca che precede l’invenzione dei microfoni. Questa invenzione e la sua diffusione nella musica popolare durante il XX secolo ha consentito a voci più leggere, con poco o senza vibrato, di farsi udire nei particolari anche accompagnata da una band o da un’orchestra dalla sonorità molto potente. Nel clima attuale, trovo la voce operistica generalmente artificiale, troppo potente e sgradevole all’ascolto. Oggi possiamo disporre di microfoni, che adopero con cantanti che si sentono a proprio agio con questi strumenti; cosi le voci si possono ascoltare nei particolari, anche in un ensemble che comprende molti strumenti a percussione, anche se sono leggere e con poco vibrato o senza, adatte alla musica contrappuntistica che scrivo. Interpreti con questo tipo di voce si possono trovare nel mondo della musica antica e del jazz, dal quale perciò provengono anche i cantanti del mio ensemble.
I musicisti del mio gruppo hanno anche quella che chiamerei “la mentalità dell’interprete di musica da camera”. Quando ero studente, ricordo che si notava una netta distinzione tra il comportamento degli studenti che intendevano entrare in orchestra rispetto a quelli che volevano dedicarsi alla musica da camera. La differenza si può ricondurre ad alcune scelte di base: lo strumentista d’orchestra può farsi assumere da un’istituzione e sperare di restarvi, o magari di passare a un’orchestra migliore; chi invece fa musica da camera, escludendo il raro caso di un posto che si libera in un ensemble già affermato, deve formare il proprio gruppo e/o suonare in vari gruppi per sopravvivere. In altri termini, il musicista che suona in insiemi da camera deve crearsi una propria attività.
I musicisti del mio ensemble suonano anche con altri gruppi, dato che facciamo solo un numero limitato di concerti ogni anno, negli Stati Uniti e all’estero. Molti di loro, dotati di spirito d’indipendenza, hanno dato vita a un loro ensemble. Per esempio: Russ Hartenberger e Bob Becker sono tra i fondatori dell’ensemble di percussioni Nexus; Nurit Tilles e Edmund Niemann hanno formato un duo di tastieristi, il Double Edge; James Preiss ha fondato il Manhattan Marimba Quartet; Ben Harms è tra i fondatori di Calliope - A Renaissance Band. Questi musicisti si dedicano agli altri loro gruppi contemporaneamente all’impegno con il mio. Quando definiamo la data di un concerto, il mio manager deve tenere conto anche dei loro impegni: sembra che l'organizzazione funzioni.
La questione di come guadagnarsi da vivere, comunque, è solo una delle componenti. Alla base di tutto ci sono sempre delle scelte musicali. Nella musica da camera l'accento è sull’insieme, non sul solista. La mia musica spesso è composta da canoni multipli all’unisono in diverse posizioni ritmiche, che si svolgono a tre, quattro o più voci. Le difficoltà nel suonare questo tipo di musica, almeno i miei pezzi degli anni Sessanta e Settanta, non riguardano di solito le singole parti ma piuttosto il modo in cui queste parti si intrecciano in precise e a volte insolite posizioni ritmiche nel tessuto contrappuntistico complessivo. Spesso non è facile da suonare: basta dare un’occhiata alla partitura per rendersene conto. E' una sfida per chi ama far parte di un gruppo dall’insieme perfetto, in cui si possono distinguere tutti i dettagli. Questo è il tipo di musicista che cerco ed è, per così dire, nel mondo della “musica da camera in senso lato” che si può trovare.
Infine, qualche nuovo sviluppo nell’ambito di forme antiche: un pezzo per quartetto d’archi e nastro dal titolo Different Trains. Dopo avervi raccontato che scrivo musica per formazioni cameristiche insolite, con un bel po' di percussioni, ora vi dirò anche che ho scritto per quartetto d'archi, ma non proprio come ci si potrebbe aspettare. Different Trains, completato nel 1988, mi è stato commissionato da Betty Freeman per il Kronos Quartet. E' un pezzo per quartetto d’archi e nastro magnetico e inaugura un nuovo modo di comporre le cui radici risalgono ai miei pezzi con parlato su nastro magnetico It's gonna rain (1965) e Come Out (1966). Il concetto fondamentale è che registrazioni di parlato possano generate il materiale per gli strumenti musicali.
L’idea dell’opera e legata alla mia infanzia. Quando avevo un anno, i miei genitori si sono separati; mia madre si trasferì a Los Angeles e mio padre rimase a New York, con l’accordo di dividersi la mia custodia. Ho dovuto così viaggiare in treno di frequente tra New York e Los Angeles dal 1939 al 1942, accompagnato dalla mia governante. Questi viaggi erano eccitanti e romantici al tempo stesso. Oggi nel rievocarli penso che, se fossi stato in Europa in quel periodo, come ebreo mi sarei ritrovato a viaggiare su treni molto diversi. Volevo comporre un'opera che riflettesse esattamente la situazione. Per preparare il nastro, ho dovuto:
  1. registrare la mia governante Virginia, che oggi ha oltre settant’anni, mentre rievocava i nostri viaggi in treno insieme;
  2. registrare un autista di pullman in pensione, Lawrence Davis, che oggi ha oltre ottant’anni e che era solito percorrere le linee tra New York e Los Angeles, mentre parlava della sua vita;
  3. raccogliere registrazioni dei sopravvissuti all’olocausto, Rachella, Paul e Rachel - tutti all’incirca miei coetanei, oggi vivono in America - che raccontano le loro esperienze;
  4. raccogliere delle registrazioni di suoni di treni americani ed europei degli anni Trenta e Quaranta
Per combinare il parlato registrato con gli strumenti ad arco ho selezionato dei brevi campioni di parlato dall’intonazione più o meno precisa e li ho trascritti il più accuratamente possibile in notazione musicale
Gli archi imitano letteralmente la melodia del parlato. I campioni di parlato, come pure i suoni di treno, sono stati trasferiti su nastro con l’uso di campionatori a tastiera e di un computer. Ho aggiunto tre quartetti d’archi separati sul nastro preregistrato, mentre la parte finale per quartetto dal vivo viene aggiunta nell’esecuzione.
Different Trains è in tre movimenti, nel senso più ampio del termine dato che i tempi cambiano di frequente in ciascun movimento. I tre movimenti sono:
- America - Prima della guerra
- Europa - Durante la guerra
- Dopo la guerra
L'opera presenta una realtà sia musicale sia documentaria e inaugura una nuova direzione musicale introducendo elementi teatrali in una forma tradizionale di musica da camera. Il teatro è, per cosi dire, immaginario dal momento che non vi è nulla di visivo al di là dei musicisti. Comunque, Different Trains punta in una direzione che prevedo porti a un nuovo genere di teatro musicale video-documentario in un futuro non troppo distante.
La storia della musica da camera, insomma, è in pieno svolgimento.
Gennaio 1989

[Chamber music, an expanded view, articolo inedito letto all’Annual Meeting della Chamber Music America, New York, gennaio 1989]
 
a cura di Enzo Restagno (REICH, Autori vari, Edt, 1994)


mercoledì, aprile 11, 2018

Carlo Maria Giulini

Carlo Maria Giulini (1914-2005)
Carlo Maria Giulini, il grande musicista che tutti conosciamo, si rivela al contatto diretto un personaggio disarmato e disarmante. L’estrema cortesia, il tono sempre pacato, fanno da pendant al sempre perfetto abito grigio di chiara fattura inglese. Con lui la polemica immediatamente si svuota di forza, l'appunto personale non trova spago. La musica è sempre al centro del suo parlare. Ed il tono generale, quello del gran padre, con una saggezza carica d’anni, d’esperienze, di maturità.
Ci eravamo fatti precedere da una lettera di saluto accompagnata dai primi due numeri della nostra rivista, nella speranza che il Maestro gli desse un’occhiata. E l’occhiata, con nostra grande gioia, l'aveva data. La prova ci venne allorché in confidenza aprì il colloquio affermando che vi aveva letto, ed il riferimento ad alcuni personaggi le cui dichiarazioni la rivista aveva riportato, "molte certezze e tanta sicurezza, laddove io sono sempre insicuro e pieno di dubbi". In sintesi la posizione di perpetua, tormentosa e costruttiva ricerca che traspare nella visione dell’arte ed insieme della vita di Carlo Maria Giulini.
 
Può fare un bilancio della passata tournée italiana che lo ha portato a Firenze e Roma con la Nona di Giulini, pardon! di Beethoven?
Le devo dire, con grande piacere, che adesso è bello fare musica anche qui. Mi sono trovato benissimo con l’orchestra sia a Roma che a Firenze. Ho avuto un contatto molto affettuoso dopo gli anni passati un po’ difficili. Ho trovato finalmente due cose importantissime: il rispetto del lavoro e nello stesso tempo l’amore messo nel lavoro. Una dattilografa che batte a macchina una lettera, è sufficiente che lo faccia con esattezza. A noi musicisti non basta suonare ‘esattamente’, occorre farlo ‘con amore’. Per noi l'esattezza è la morte. L'amore, la vita.
Devo dedurre che lei ha anche un'altra stima della professionalità delle nostre orchestre, delle migliori s'intende.
Senz’altro. Mi auguro però, per proseguire sulla strada della qualità, che la legge che vieta a chi suona in orchestra di avere una cattedra d'insegnamento, venga abolita, perché pericolosa. Prenda un oboista che non ha esperienza orchestrale; cosa può insegnare ad un allievo? L’oboe, ma la stessa cosa vale per quasi tutti gli strumenti, vive della pratica orchestrale. E poi quale repertorio studia il solista degli strumenti a fiato, per restare nell’esempio dell’oboe, se non i grandi ‘solo’ del repertorio sinfonico? Ecco il grave rischio della legge: molti bravi solisti potrebbero disertare le orchestre per l'insegnamento in Conservatorio affiancato da attività concertistica in formazioni cameristiche o come solisti. Non esiste al mondo orchestra i cui solisti non insegnino anche in Conservatorio e parlo soprattutto dei grandi solisti.
Dagli strumentisti passiamo a parlare dei direttori d'orchestra italiani. Lo spunto ce lo offre la nostra inchiesta sulla presenza di direttore stabili stranieri in Italia, gli unici ad occupare questi incarichi. Crede che tra i direttori italiani non ve ne siano in grado di occupare tale incarico? E poi cosa risponderebbe a chi mi ha detto a proposito di Daniel Oren, direttore stabile dell'Opera di Roma: "Oren è in Italia, come Giulini è all'estero!"?
Non ho risposta. Non so rispondere. Se una persona dice così ha il diritto di farlo. Mi dispiace, non so risponderle. Ma non creda che lo faccia per diplomazia: a causa della mia attività, non partecipo intensamente alla vita musicale italiana. Per parlare di giovani direttori italiani, credo che Riccardo Chailly stia facendo un’ottima carriera. Se non ha un posto di direttore stabile, penso che non l’abbia voluto accettare.
Tra gli interpellati, c'è chi ha tirato fuori il famoso "nessuno è profeta in patria".
Mi pare che ci sia una parte di vero in questo. Ma limiterei tale verità alla città. Capisco che inizialmente al giovane che nasce, cresce, studia in una città, per cui fa parte di una grande famiglia nella quale si è mangiato, bevuto insieme tutti i giorni, questa familiarità possa nuocere. E poi basterebbe spostarsi da Roma a Milano, senza andare oltre il confine. Certo che tutto questo non è molto bello e neanche giusto. Semmai non mi stupirei che un giovane direttore non si sentisse in grado di diventare direttore stabile: una decisione che stimerei molto. Un giovane direttore che deve ancora farsi un'esperienza come può portare quest’esperienza che ancora non ha all’orchestra? Anch’io a me stesso ho sempre detto: meglio cinque anni più tardi che cinque minuti troppo presto.
Ancora più imprudente quindi la nomina di Oren - ma i casi sono molti altri ancora - all'Opera di Roma, considerando che il teatro di Roma non è ancora un teatro di provincia e che il giovane direttore in questione è al suo primo impatti con la lirica.
Di Oren l’unica cosa che so è che ha un grande talento direttoriale. Ma se vale quanto ho detto prima e cioè che il direttore deve portare un’esperienza, automaticamente ho già dato una risposta. Tanto più valida quando parliamo del teatro, un’organizzazione molto complessa.
Ha accennato a Riccardo Chailly, come ad una grande promessa. Ma conosce anche altri direttori italiani, meno giovani. Faccio qualche nome tra quelli che vanno per la maggiore: Aprea, Ferro, Gelmetti?
Gelmetti non lo conosco. Aprea e Ferro hanno talento e sono molto bravi. Per tornare ad Oren, in senso generale le ripeto che è sbagliato mettere un teatro d’opera in mano ad un giovane direttore senza alcuna esperienza in campo operistico. Ma può anche darsi che si tratti in questo caso di una eccezione che, come avviene a volte, confermi una regola.
E poi il maestro seguendo i suoi pensieri si abbandona a considerazioni generali sulla musica, sul ruolo dei giovani in essa, sul valore degli interpreti, sul "punto fermo" dei grandi capolavori.
I giovani sono il futuro. Noi siamo in transito, noi interpreti intendo, non importa di quale importanza sul piano della qualità, ciò che resta è la musica. Valiamo per quel tanto che diamo ad un pubblico attraverso la musica. Abbiamo il grave e difficile compito di parlare in nome di geni che si sono espressi attraverso questa misteriosissima scrittura. Il nostro compito dunque consiste non solo nel capire la musica, ma nel trasmettere questa comprensione all’orchestra che a sua volta la trasmette al pubblico. Fatto questo il nostro compito è finito. Ma va anche detto che la musica, a differenza di altre espressioni artistiche, ha ogni volta bisogno dell’interprete perché una partitura torni a vivere: per questo, ogni esecutore è importante. Usiamo pure la parola ‘importante’.
Lo interrompiamo appena per chiedergli qual è il ruolo dei grandi interpreti del passato.
Per una nostra generazione i grandi interpreti del passato noti quasi esclusivamente per sentito dire, non significano nulla. L'unico direttore che, secondo me, rimarrà nella storia è Toscanini, perché rappresenta la soluzione di un grande problema. E' forse una mia personale opinione, ma credo che Toscanini valga per l'orchestra quanto Paganini per il violino e Liszt per il pianoforte. E questo indipendentemente dalle sue esecuzioni - chi di noi oltre tutto ha ascoltato le grandi esecuzioni di Toscanini? -. Nei suoi dischi abbiamo solo le ultime. I momenti storici in cui Toscanini ha portato ad una nuova soluzione il rapporto lettura-esecuzione non vive in queste testimonianze. Tutto questo per dire che i grandi interpreti fanno parte del passato. Le musiche ed esse sole appartengono alla storia. Certamente la morte di Furtwängler, Walter, De Sabata è stata un fatto terribile, ma la musica non è morta insieme a questi interpreti. Quando è morto Mozart invece si è prodotta una tragedia e l'umanità è diventata più povera. Quando uno di noi smetterà di dirigere o di suonare, ci sarà un interprete in meno, ma presto ne arriveranno altri.
Dei grandi interpreti del passato cosa ammira?
Di Bruno Walter la gioia del ‘fare musica’, di Furtwängler l'intensità della linea insieme all’incredibile fantasia e libertà, di Klemperer il forte senso dell’architettura, il rispetto della forma costruttiva, di De Sabata il colore e la dinamica. E, per concludere, Toscanini va messo a fondamento di tutti i grandi interpreti per la sua lezione interpretativa che, lo ripeto, non possiamo apprendere dai suoi dischi.
A quali incisioni ha lavorato quest'anno?
In settembre ho inciso, a Vienna, il Rigoletto con l’orchestra ed il coro dell’opera viennese e con Cappuccilli, Placido Domingo, Ghiaurov, Cotrubas e la Obratzsova. A Los Angeles poi ho inciso la Pastorale di Beethoven, Ravel e Debussy (Ma mère l’oye; Rapsodia spagnola; la Mer), il secondo concerto per pianoforte ed orchestra di Chopin, con il giovane pianista Zimmermann. Nessuno di questi dischi è ancora sul mercato.
Ed il suo lavoro con Benedetti Michelangeli?
Con Michelangeli abbiamo fatto tre concerti di Beethoven (primo, terzo e quinto). E' un artista eccezionale, meraviglioso. Ci sarebbe da parlare a lungo, ma è sufficiente dire che è su livelli straordinari. Straordinario artista ed unico insieme, oggi più di ieri.
Nella seconda delle serate romane, compare in programma il Requiem Tedesco di Brahms. Quali differenze passano tra questo lavoro e quello, pure dedicato al tema della morte, di Mozart, da poco sul mercato discografico sotto la sua direzione?
Mozart ha sempre avuto un profondo contatto con il pensiero della morte, intesa come fine della vita e risultato di questa. In una lettera al padre scrisse: "...ogni sera, prima di addormentarmi, penso che potrebbe essere l’ultima mia sera e di conseguenza potrebbe cominciare la vera vita." Escludendo dal lavoro mozartiano il Dies Irae, un testo medievale dal quale traspare la concezione del Dio del terrore, c’è in esso un incredibile senso di fiducia, non di rassegnazione. Brahms invece non ha preso il testo liturgico, ma vari testi biblici, nei quali la morte appare nell’aspetto più dolce, quasi accogliente. Nel requiem tedesco manca il Dies Irae ed al suo posto vi si trova un canto di gioia: Morte dov’è la tua Vittoria? si canta. Mozart e Brahms concepiscono la morte in modo abbastanza simile. La musica poi di Brahms è tutta ricca di dolcezze, soavità, in alcuni momenti direi di sorrisi, di gioia. Quanto al nostro lavoro di interpreti, cercherò di capire il pensiero di Brahms per farlo trasparire nell’esecuzione. Il Requiem di Brahms da me diretto sarà il Requiem di Brahms. O almeno desidererei che lo fosse.
Molti attribuiscono alla sua interpretazione una discendenza da Furtwängler. E questo per la sua concezione dei tempi, per il particolare tipo di fraseggio, per la direzione tesa a delineare l'atmosfera. Cosa pensa di questa discendenza?
Sono cose che vengono dette, delle quali ho il massimo rispetto. Naturalmente ritengo questi apprezzamenti come un privilegio, del quale mi sento profondamente onorato. Ho suonato con i grandi direttori tedeschi, ma ho conosciuto anche i nostri De Sabara, Guarnieri, Marinuzzi. Se delle persone intelligenti, o dei critici trovano in mc questi legami con la scuola tedesca, non posso che dire: grazie!
Quale è il suo rapporto con la critica, visto che siamo indirettamente entrati in argomento?
Noi, critici ed interpreti dovremmo fare la stessa battaglia. La sensazione di essere invece trincerati su fronti opposti mi sembra sbagliata. Ho grande stima dei critici, ma solo di quelli che fanno bene il loro mestiere. Leggo poco le critiche per vigliaccheria: una critica positiva mi fa piacere ma solo per due minuti, una negativa invece mi fa soffrire a lungo. Non mi vergogno ad ammetterlo. Nonostante questo, cerco sempre di sapere, anche indirettamente, cosa si dice del mio lavoro: ci sono sempre cose utili da apprendere.
Muti, in un'intervista apparsa sul primo numero della nostra rivista, affermava che in Italia il suo lavoro di musicista era più libero da costrizioni, in quanto alle scelte da operare. All'estro, la presenza di capitale privato nelle istituzioni musicali condiziona invece ogni scelta. Lei è dello stesso parere?
Non ho simili problemi. Anche all’estero faccio quello che desidero fare.
Torniamo a Brahms. Cosa pensa delle interpretazioni brahmsiane dei grandi direttori che più volte abbiamo citato in questa conversazione?
Ho avuto modo di ascoltare Brahms diretto da Walter, Klemperer, De Sabata, Guarnieri, Mengelberg ed altri. Ognuno di questi - parliamo naturalmente di grandi interpreti - ha una sua particolare verità da esprimere, avendola dedotta dalla partitura brahmsiana. E' questa la fortuna delle interpretazioni. Se un giorno dovesse arrivare ‘la interpretazione’ la musica sarebbe finita.
Lei ha detto in un'intervista di aver suonato a diciotto anni la prima sinfonia di Brahms sotto la direzione di Bruno Walter. Cosa ricorda di quella esecuzione?
Fu meravigliosa, indimenticabile, entusiasmante. Una qualità di Walter era rendere partecipi i componenti dell’orchestra; nessuno con lui si sentiva ‘diretto’. Ed anch’io ebbi l'impressione di suonare la prima di Brahms, quasi fosse scritta per dodicesima viola solista ed orchestra.
Quale peso hanno le case discografiche sul successo e sulle scelte di un direttore?
Sulle scelte, parlo solo del mio caso, nessuno, perché ciò che incido è il risultato di amichevolissime conversazioni con Gunther Breest della DG. Non c’è quindi alcuna pressione. D’altro Canto alla DG sanno benissimo che desidero incidere poco ed anche su questo punto ci troviamo d’accordo. Dopo aver preso le decisioni sulle future incisioni, presento questi brani in concerto, prima di inciderli: un metodo di lavoro importantissimo.
Per quanto riguarda il successo, mi deve perdonare!, non le so rispondere. Certo che il disco ripaga la ‘fissità’ dell’esecuzione con la grande diffusione.
I prossimi impegni concertistici e discografici.
Dopo i due concerti romani farò ritorno a Los Angeles. Tornerò in Europa ed anche in Italia (Firenze e Milano) con la mia orchestra in maggio. L’estate sarà invece abbastanza tranquilla. Cerco sempre di lasciarmi degli spazi liberi, un po’ per vivere, un po’ per pensare e naturalmente per studiare. Ma soprattutto per pensare, in un’epoca non incline a farlo. Capire e pensare è già indispensabile per la vita. ma lo è anche per la nostra professione, forse più del fare. Ed io, in particolare; ho bisogno di tempo per capire.
Quanto alle incisioni, farò la decima sinfonia di Mahler, poi una di Brahms - non so ancora se la prima o la seconda - sempre con l’orchestra di Los Angeles. In settembre poi il Concerto per violino ed orchestra di Beethoven con Perlmann - lo avevo già inciso ma per varie ragioni siamo costretti a ritirarlo - per la EMI (si tratta di un vecchio impegno), mentre le altre incisioni sono tutte per la DG con la quale ho l'esclusiva. Nei programmi futuri infine c'è lo Stabat Mater di Rossini ed, appena possibile, la Messa in si minore di Bach.
Pietro Acquafredda
("Banchetto Musicale", Anno II, Numero 4, marzo 1980)

lunedì, aprile 02, 2018

Antonio Vivaldi: "Ottone in villa"


Chandos - Chan 0614(2) - (p) 1998
Il 1713 fu un anno importante per Vivaldi. Due anni prima aveva affermato il suo diritto ad essere ritenuto uno dei principali compositori strumentali d’Europa con la pubblicazione del suo primo volume di Concerti, L'Estro armonico op. 3; ma fu nel 1713 che l'ago della bilancia della sua carriera si spostò verso la musica vocale. Si trattò, in un certo senso, di un caso largamente fortuito giacché nell’aprile di quell'anno gli amministratori dell’Ospedale della Pietà (l'istituto di beneficenza veneziano che dieci anni prima aveva nominato Vivaldi maestro di violino) concessero al loro maestro di coro, Francesco Gasparini, sei mesi di congedo per malattia. Gasparini, comunque, non tornò più e così Vivaldi occupò il posto vacante componendo per i due anni successivi musiche per le Messe e i Vespri, un oratorio e numerosi mottetti. Nello stesso anno Vivaldi debuttò anche come operista, non nella natale Venezia ma nel centro provinciale di Vicenza.
Il primo teatro lirico pubblico di Vicenza era stato aperto nel 1656, ma venne distrutto da un incendio nel dicembre 1683. Ricostruito nel 1688 e riaperto l'anno dopo il nuovo Teatro di Piazza, noto anche come Teatro delle Garzerie, era molto piccolo. Il palcoscenico probabilmente misurava menu di dieci metri di profondità e l'auditorio meno del doppio di quella lunghezza, con ottantotto palchi disposti su quattro ordini che contenevano quattro posti ciascuno. Gran parte del repertorio operistico a Vicenza era importato di seconda mano dalla vicina Venezia, ma pare che nel 1713 sia stato introdotto un sistema diverso. Era stato aperto un nuovo teatro, più grande, il Teatro delle Grazie, e la decisione di presentare in prima esecuzione il 17 maggio l’Ottone in villa di Vivaldi, opera del tutto nuova, può essere stata il risultato di una rivalità commerciale fra i due teatri.
Oltre agli archivi della Pietà che contengono un verbale del 30 aprile 1713 nel quale gli amministratori concedono a Vivaldi un mese di congedo, abbiamo anche altre informazioni sulla sua attività in questo periodo. Una quietanza, recentemente scoperta, di pugno vivaldiano, datata 27 giugno, accusa ricevuta del pagamento di 310 lire a lui stesso, a suo padre e ad altri due violinisti per aver suonato in due Messe, due Vespri Solenni, mottetti, un oratorio ed un Te Deum, e di un ulteriore pagamento di 186 lire per la composizione e copia del suo oratorio. Questo oratorio La vittoria navale di Vivaldi, eseguito il 23 giugno nella Chiesa della Santa Corona a celebrazione della vittoria navale dei cristiani sui turchi a Lepanto nel 1571. Purtroppo di questo pezzo solo il libretto è sopravvissuto ma presumibilmente l'oratorio usava molti degli stessi cantanti e strumentisti di Ottone in villa. Le cronache riferiscono che Vivaldi


 "...con il suo miracoloso violino fe’ un intermedio di cornemuse e poi un ecco aplaudito in eccesso fra l`organo nostro grande e i1 suo violino con una fuga di tutti gli stromenti che raportò il Viva di tutti."

Come si può immaginare, date le circostanze della sua prima rappresentazione, 1’Ottone in villa è opera di piccole proporzioni. Richiede solo cinque cantanti, non ha coro (il che e tipico della maggior
parte delle opere italiane di quel tempo), non ha effetti scenici elaborati ed esige solo una piccola orchestra. Il libretto è del napoletano Domenico Lalli, con cui Vivaldi ebbe relazioni per varie imprese operistiche nel corso della sua carriera. Il libretto di Lalli per Ottone non è proprio originale: è basato su Messalina di Francesco Maria Piccioli, messo in musica da Carlo Pallavicino per Venezia nel 1680. Il gusto operistico negli anni successivi a questa data aveva subito varie vicende, e i cambiamenti di Lalli largamente riflettono recenti riforme del libretto: la trama è molto semplificata, i1 numero dei personaggi essendo ridotto da otto a cinque e i1 numero delle arie da sessantacinque a ventotto. Ne risulta uno spettacolo leggero ed amorale, nel quale la civettuola Cleonilla ha sempre il sopravvento e i1 credulo Imperatore Ottone (una figura tutt’altro che eroica!) non scopre mai la verità del modo in cui è stato ingannato.
Il libretto a stampa del 1713 porta una dedica firmata da Lalli a Henry Lord Herbert, figlio maggiore del Conte di Pembrike e Montgomery, che - come molti dei suoi contemporanei - stava facendo il Grand Tour. La lista dei personaggi originale era la seguente:


Cleonilla: Maria Giusti ("La Romanina”)
Ottone: Diana Vico
Caio Silio: Bartolomeo Bartoli
Decio: Gaetano Mozi
Tullia: Margherita Faccioli (Vicentina)
 
Il fatto che la parte di Ottone sia stata cantata da una donna e quella di Caio dal soprano/castrato Bartolomeo Bartoli avrà reso l'ambiguità sessuale del ruolo di Tullia/Ostilio perfettamente credibile ad un pubblico contemporaneo. Nessuno dei cantanti era di primo piano e soltanto Mozi canterà di nuovo in un'opera vivaldiana, sebbene Giusti e Faccioli abbiano cantato al Teatro Sant’Ange1o a Venezia dove Vivaldi era impegnato come compositore e come impresario. Il contralto veneziano Diana Vico sembra essersi chiaramente specializzata in ruoli maschili ed in questa veste entrò a far parte della compagnia di Handel al King's Theatre di Londra nel 1714.
Com'è costume dell’opera italiana del primo Settecento la musica di Ottone in villa comprende un alternarsi di recitativi e arie a solo, quest'ultime offendo a turno ai personaggi la possibilità di riflettere sull’azione che si è svolta nel precedente recitativo. Molti aspetti della prima maniera operistica di Vivaldi sono visibili nelle arie: interesse contrappuntistico nelle parti strumentali; leggere strutture di accompagnamento che spesso appaiono solo in due o tre parti; frequente omissione del basso durante i brani vocali; inusitati intervalli melodici quali terze diminuite e seconde aumentate; e subitanei cambiamenti di tempo.
L'opera si apre con una Sinfonia in tre movimenti. Il primo e più esteso deve al concerto grosso le contrastanti sezioni di piena orchestra con passaggi per un paio di oboi in terze ed ulteriori sfoggi di virtuosismo per i due violini solisti. Il secondo movimento è in forma binaria, ogni metà essendo prima suonata dagli oboi accompagnati dai violini e poi da tutti gli archi con raddoppio degli oboi. La stessa prima sezione di otto battute è poi trasportata dal do minore al do maggiore per l'Allegro conclusivo (pure in forma binaria); queste battute, in effetti, ricordano un passaggio dell`oboe nel primo movimento, con ciò producendo un'inconsueta congiunzione tematica fra tutti e tre i movimenti.
L'aria di Caio nell’Atto I, Scena 5, "(Chi seguir vuol la costanza”, sembra sia stara fra le preferite da Vivaldi. Inizia con un canone fra violini e basso, in ovvio motteggio al testo nel suo significato letterale, che deve essere piaciuto al compositore che  riadopera la musica in molte altre opere, fra le quali la versione l714 dell'Orlando furioso per Venezia, l'opera Tito Manlio per Mantova, svariate versioni del Laudate pueri Dominum, RV 602/602a/603, e il Concerto per violino RV 268. L'aria di Ottone nell`Atto I, Scena 7, “Frema pur' si lagni Roma” contiene molta scrittura in unisono per voce ed archi, con note fortemente ripetute, figurazioni balzanti e fioriture di biscrome che descrivono la determinazione dell'Imperatore. Poi questa scrittura è in contrasto con diversi brani di teneri Adagi in cui il suo pensiero si volge all'adorata Cleonilla. L'aria di Ottone, “Come l'onda", all’inizio dell’Atto II, presenta un tipico quadro musicale vivaldiano di tempesta di mare, mentre l'aria di Caio, “Gelosia tu già rendi l’alma mia”, descrive la violenza della sua gelosia in un pezzo di brillante virtuosismo con il quale termina il primo atto. Anche qui c'è una sezione più lenta, questa volta al centro dell’aria tripartita da capo, in cui impreviste armonie cromatiche ritraggono il dolore del suo amore respinto. Quest'idea di tempi contrastanti per conflitti emotivi è portata al suo estremo nell'aria di Tullia nell'Atto II, “Due tiranni ho nel mio cor[e]”, nella quale i "due tiranni" nel suo core, indignazione e amore, sono rispettivamente espressi da una musica vivace per tutti gli archi e gli oboi, e da passaggi più lenti e sospiranti per i soli archi superiori. Sebbene molte delle arie siano strumentate per i soli archi, l'Atto II, Scena 3 contiene una tradizionale aria in eco, in cui Tullia, dal suo nascondiglio, ripete in eco le parole di Caio, le sue ripetizioni delle sillabe finali giocando con l'italiano per alterare il significato del testo, il tutto accompagnato da coppie trillanti di violini e flauti dolci in scena.
L'Atto III è inusitatamente breve, in quanto che contiene solo cinque arie ed un breve coro conclusivo per tutti i solisti. L'aria di Decio, "L'esser amante", mostra l'influenza francese e con i suoi croccanti ritmi puntati anticipa svariate arie composte da Vivaldi in stile francese durante i pochi primi anni della sua carriera d'operista. L'aria finale di Caio comprende un a solo di violino che raddoppia la linea vocale all'ottava superiore. Nel ritornello finale dell'aria l'orchestra ha l'ordine di fare una pausa, per permettere al violino solista (che a Vicenza fu probabilmente lo stesso Vivaldi) d’improvvisare una cadenza. Questa sarà stata certamente un pezzo elaborato, giacché abbiamo la descrizione di un tedesco che assistette all’opera veneziana nel 1715, il quale dichiarò di essere stato strabiliato alla vista di Vivaldi Clic eseguiva una "Fantasia" posando le dita


"...ad un capello dal ponticello cosicché c'era appena spazio l'arco, suonando su tutt'e quattro le corde con fugati a rapidità incredibile."

Sebbene non sia provato che Ottone sia mai stato eseguito a Venezia, alcune singole arie vennero riusate in opere successive, e l'intera opera fu ripresa al Teatro Dolfin di Treviso nell'ottobre del 1729. Nove arie e buona parte del recitativo vennero tagliate per questa rappresentazione per la quale vennero scritti nuovi testi per le arie. La partitura autografa di Vivaldi, unica fonte superstite per la musica, fu chiaramente scritta per la rappresentazione originale del 1713 e poi riveduta per l'esecuzione successiva: sezioni del recitativo sono state stralciate o rievocate in tonalità diversa, e molte arie sono marcate "aria in bianco", pur mancando i testi delle nuove arie. L'edizione usata per il presente disco generalmente segue la versione 1713, sebbene siano stati adottati molti dei tagli nel recitativo che appaiono nel libretto successivo. Anche se neppure i più ardenti ammiratori dell’opera del Settecento potranno affermare che il testo del Lalli è un capolavoro drammatico, le orecchiabili melodie e la comunicativa energia della musica di Vivaldi offrono ampia prova che Ottone si merita qualcosa di più dell'occasionale ripresa moderna che le è stata finora accordata.

LA TRAMA
Atto I
L'opera si svolge nella villa di campagna dell'Imperatore romano Ottone, con i suoi ameni giardini cinti di viali alberati, stagni e fontane. Ottone è follemente innamorato della bella Cleonilla che, all'inizio dell'opera, si rivela intenta "a cogliere fiori per adornarsi il seno". Essa confessa che sebbene amata dall'Imperatore trova impossibile resistere al fascino di qualsiasi attraente giovanotto. Uno dei suoi vecchi amori era Caio Silio, ma egli è stato recentemente rimpiazzato nei suoi favori dal suo nuovo paggio, Ostilio. Cleonilla proclama a Caio di amarlo ancora, anche se a parte rivela che adesso trova Ostilio ancora più avvenente! Ottone arriva, anticipando il piacere di dimenticare onerosi affari di stato in questo leggiadro ambiente, ma Cleonilla lo provoca affermando che egli non può amarla veramente poiché passa così poco tempo con lei. Ottone chiede a Caio di aiutarlo a curarla della sua gelosia, mentre Caio si stupisce della credulità dell'Imperatore. A questo punto entra Tullia. Un tempo fidanzata a Caio lo ha seguito in spoglie maschili ed altro non è che Ostilio. "Ostilio" chiede a Caio se ricorda ancora di aver tradito la sfortunata Tullia. Caio, pur notando che il paggio somiglia straordinariamente a Tullia, non indovina la verità; egli dichiara che il suo nuovo amore per Cleonilla ha scacciato Tullia dai suoi pensieri, mettendo in dubbio nell'aria che segue i meriti della costanza, giacché l'amore diviene un peso senza varietà. "Ostilio" medita di vendicarsi.
La scena si sposta alle terme dove Cleonilla è appena emersa dal bagno. Sta ancora stuzzicando Ottone ma vengono interrotti da Decio, fedele consigliere di Ottone, il quale dice all'Imperatore che Roma lamenta la sua assenza. Ottone non se ne cura ma dopo che egli è uscito Cleonilla interroga Decio per sapere cosa si dice di lei a Roma. Decio non vede di buon occhio la sua impudicizia, e la sua aria, il cui testo sostituisce quello trovato nel libretto a stampa del 1713, le dice che essa si illude se crede che l'amore di un re possa supplire alla mancanza dell'onore vero. Partito Decio "Ostilio" arriva e immediatamente Cleonilla dichiara il suo amore per lui. "Ostilio" s'impossessa di questa dichiarazione per vendicarsi di Caio, incoraggiando Cleonilla a giurare la sua fedeltà amorosa a lui e la sua avversione per Caio. Caio, che ha ascoltato di nascosto, è inorridito e risolve di rivelare all'Imperatore la slealtà di "Ostilio", terminando l'atto con un'aria focosa che descrive la sua gelosia e il suo amaro cordoglio.
Atto II
In un ridente giardinetto infossato Decio avverte Ottone che Cleonilla sarà la sua rovina giacché Roma disapprova dei suoi numerosi e ben noti amori. Ottone cade dalle nuvole e in una tipica aria settecentesca a programma paragona il suo turbolento stato d'animo alle onde violente di un mare in tempesta. Decio rivela che si è deliberatamente trattenuto dal dire all'Imperatore che Caio è il suo rivale ma non vuole spiegare a Caio cos'è che ha tanto sconvolto Ottone. Caio apparentemente lasciato solo, riflette sulla sua infelicità ma viene ascoltato di nascosto da Tullia che gli risponde a guisa d'eco. L'eco, affermando di essere la voce di uno spirito infelice, tormenta Caio i cui dolenti sentimenti sono ritratti in un breve brano di recitativo accompagnato e dall'aria in eco che segue. A questo punto "Ostilio" si scopre e canta del conflitto nel suo cuore fra i "due tiranni", indignazione e amore.
La scena si sposta ad un padiglione rustico dove Cleonilla sta ammirandosi allo specchio. Entra Caio, ma le sue dichiarazioni d'amore vengono respinte con noncuranza. Caio le da una lettera che proclama i suoi sentimenti, ma mentre Cleonilla sta per leggerla arriva Ottone e gliela strappa di mano. Ottone legge che Caio è suo rivale, ma Cleonilla gli dice che Caio le ha semplicemente consegnato la lettera da passare alla persona a cui è effettivamente indirizzata, Tullia, che lo ha tradito. Il credulo Ottone le presta fede ed ella rinforza l'inganno scrivendo una seconda lettera - il suo personale appello a Tullia - che chiede a Ottone di consegnare. Giunge Decio con ulteriori notizie di congiure a Roma, ma Ottone tuttora si rifiuta di ascoltare una parola contro Cleonilla e fa chiamare Caio. Rimprovera il fedifrago Caio che dapprima crede di essere stato scoperto, ma poi si accorge, con suo grande sollievo, che Ottone è in collera non perché ha scovato la sua relazione con Cleonilla ma semplicemente perché Caio ha sollecitato l'aiuto di Cleonilla invece di rivolgersi direttamente al suo Imperatore. Rimasto solo Caio è colpito dalla furbizia di Cleonilla, mentre nella scena finale dell'atto il desolato "Ostilio" chiede ad Amore di porgerle aiuto.
Atto III
Su un sentiero ombroso ed appartato Decio nuovamente cerca di persuadere Ottone del pericolo che lo aspetta a Roma, ma l'Imperatore nella sua aria dichiara che nulla gli importa del trono o dell'Impero pur di trovare felicità nell'amore. Decio profetizza l'imminente caduta di Ottone giacché l'amore in un regnante è segno di debolezza, ma viene interrotto dall'arrivo di Cleonilla e Caio. Ella continua ad ignorare gli approcci di quest'ultimo, e quando appare "Ostilio" indirizza alternativamente parole d'amore a lui e di ripulsa a Caio. Caio pretende di seguire il suo consiglio e di allontanarsi, ma in realtà si cela. Cleonilla continua a dichiarare il suo amore per "Ostilio" che l'incoraggia nella sua aria, allo stesso tempo rivelando a parte che Cleonilla sta facendo uno sbaglio. La vista dei due che si abbracciano manda in furia Caio che si precipita su "Ostilio" con un pugnale. Le grida di Cleonilla richiamano Ottone e Decio che al loro arrivo esigono da Caio una spiegazione. Egli descrive la scena a cui ha appena assistito - Cleonilla e "Ostilio" che si baciano e abbracciano - e lo scandalizzato Imperatore gli ordina di portare l'azione a compimento e di uccidere il traditore. "Ostilio", però offre di giustificarsi e togliendosi il travestimento si rivela come la tradita Tullia. Nella sua vera veste Tullia adesso protesta l'innocenza di Cleonilla e accusa Caio di essere il vero traditore. Tutti fanno le meraviglie anche se Ottone si ricompone con straordinaria rapidità, esprimendo il suo desiderio di vedere Caio e Tullia sposi e chiedendo perdono a Cleonilla. L'opera termina con un concertato di giubilo generale.
 
Eric Cross (Traduzione: Marcella Barzetti)