Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, ottobre 01, 2018

Carlo Maria Giulini: custode e avventuriero

Carlo Maria Giulini (1914-2005)
Un profluvio di pubblicazioni celebra il centenario di Carlo Maria Giulini, nato a Barletta il 9 maggio 1914 e spentosi a novantun anni nella clinica Domus Salutis di Brescia il 14 giugno 2005. Cinque cofanetti per ben sessantasette CD complessivi, cui si aggiungono i sedici del box DG "The Art of Carlo Maria Giulini" uscito nel 2012 (che include però i "doppioni" delle Sinfonie 1-4 di Brahms e delle 7, 8, 9 di Bruckner), a sintetizzare un lunghissimo itinerario direttoriale apertosi nel 1944 e terminato con la rinuncia volontaria al podio nel 1998 (fatte salve le due ultime generose apparizioni con l’Orchestra Giovanile Italiana e con la "Verdi" nel segno dell’adorata "Pastorale" di Beethoven tra febbraio e marzo 1999).
A parte le registrazioni operistiche e alcuni pilastri del repertorio sacro (Messa op. 86 e Missa Solemnis di Beethoven, Stabar Mater di Rossini, Requiem di Cherubini, Verdi e Fauré) il nucleo della discografia "ufficiale" del Nostro c’è quasi tutto: fatte salve alcune versioni alternative migliori di quelle proposte (come la Sesta di Beethoven e la Quarta di Schubert incise a Los Angeles per l’etichetta gialla), le uniche assenze di spicco sono costituite dai due Concerti di Chopin con Zimerman (DG, 1978-79), dalla luminosa Seconda di Bruckner realizzata per la EMI con i Wiener Symphoniker nel '74 (reperibile coniunque su CD Testament) più Das Lied von der Erde con la Fassbaender, Araiza e i Berliner (DG, 1984) e la Serenata per tenore, corno e orchestra d'archi op. 31 di Britten con Robert Tear e Dale Clevenger (DG, 1977).
Negli ultimi anni, per giunta, abbiamo assistito (soprattutto grazie a BBC Legends e Testament) al recupero di parecchio materiale inedito, e l’elenco potrebbe estendersi ancora: non si può infatti nascondere l’auspicio di veder riaffiorare prima o poi dagli archivi l’Adagio della Decima di Mahler (eseguito diciassette volte nel biennio 1979-80), i Vier Letzte Lieder, il Concerto di Berg proposto con Perlman a Los Angeles nell’ottobre 1982, la Prima e la Quarta di Schumann (Montreux 1990 e Firenze 1987) o magari il Te Deum di Bruckner, diretto una sola volta a ringraziare il Fato proprio in occasione dell’ultimo concerto alla testa dei Wiener Philharmoniker, il 18 maggio 1996.
Tutti i documenti sonori di cui trattiamo riguardano il periodo che va dalla metà degli anni cinquanta alla meta dei novanta: per farsi un’idea almeno approssimativamente corretta dell’arte di Giulini, uomo e musicista solo in apparenza facile da inquadrare, è però indispensabile iniziare ab ovo. L'infanzia sudtirolese, l’aver vissuto dall’interno l’esperienza d’orchestra come violista all’Augusteo, diretto - tra gli altri - da Klemperer, Mengelberg, Strauss e Walter, la musica da camera in quartetto, gli insegnamenti di Bernardino Molinari, i dolori della guerra, l’imbarco forzato per la Jugoslavia e gli altri eventi della prima giovinezza, più volte rievocati dal maestro, li diamo qui per scontati. Gli accadimenti interiori che misurano la sua crescita negli anni di apprendistato come direttore d’orchestra un po' meno, giacché raramente se ne discute. Nell’opinione comune i gusti di Giulini paiono quelli di uno strenuo conservatore, tutto concentrato sul grande repertorio ed anzi portato ad escludere dai propri orizzonti perfino autori "ovvi" (Wagner, Strauss, Puccini). Nella realtà il furore esplorativo e la voracità di esperienze lo condussero a veleggiare liberamente verso i titoli operistici più folli e inusitati (Gli Abenceragi, Il mondo della luna, Gli Orazi e i Curiazi), verso una folta schiera di maestri italiani del Sei e Settecento (non solo Bonporti, Marini, Stradella, Perotti, Torelli ma anche autori il cui stesso nome era caduto nell’oblio, quali Giuseppe Maria Jacchini e Francesco Gasparini), verso una pletora di ectoplasmi dell’Otto-Novecento (Vincenzo Davico, Lorenzo Parodi, Domenico De Paoli) e ancora verso pugnaci alfieri di una sprovincializzazione che siamo tuttora troppo provinciali per riconoscere come tale (Casella, Malipiero, Peragallo, Pizzetti, Petrassi, Salviucci, Turchi, Zafred). Avo e contemporaneo, custode e avventuriero, angelo e demone (anche solo per mera curiosita provate ad ascoltare Una notte sul monte calvo sotto la di lui direzione), Giulini merita di essere conosciuto più a fondo anche da chi già lo apprezza: e qui interviene un piccolo suggerimento che vale più di mille futili parole. Come ciascun lettore dotato d’una connessione Internet potrà sperimentare, digitando "Savinio Giulini" sul più noto motore di ricerca, grazie alla magnanimità della RAI, sarà facile accedere all’ascolto in streaming di una reliquia datata 1950: "l’opera sinfonica in sedici episodi" Agenzia Fix di Alberto Savinio (composta su libretto proprio); un onirico e stralunato viaggio nell’oltretomba - ma soprattutto nei labirinti e negli abissi della psiche - intessuto dei più svariati riferimenti mitologici, musicali e letterari, che mischia senza remore patetismo crepuscolare pascoliano e humour nero, Odissea e Vangelo, Dante e Offenbach. Un suicida - che si esprime attraverso borborigmi melodici intonati dal clarinetto basso - viene accolto e guidato dall’ammi nistratore delegato dell’Agenzia (ruolo affidato alla voce recitante di Arnoldo Foà) in un viaggio impietoso nei ricordi più intimi, incontrando mano a mano le ombre delle persone amate e specchiando in esse il proprio dolore. Giulini sa rendere piena giustizia a un testo musical-letterario difficilissimo da maneggiare Come? Per l’unica via onesta. Sposando la ieratica impassibilità e la profonda partecipazione che si attagliano perfettamente alla drarnmaturgia chirurgica dell’autore.

Tutto ciò per spiegare in anticipo il box della Warner "The London Years", lenta presa di coscienza, passo dopo passo, del fatto che il dialogo con gli Autori, per grandi che siano, non costituisce una negazione di se stessi ma la cognizione di una realtà che "si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase" (Montale); per esempio grazie a un amico quasi coetaneo, Benjamin Britten: nonostante le ben plasmate e ben concertate cose che precedono, sono i Quattro interludi marini dal Peter Grimes e le Variazioni su un tema di Purcell (incisioni vivamente apprezzate dall’autore) del sedicesimo disco a costituire il meglio di ciò che qui si ascolta. Quasi tutto il resto - a parte Falla, Rossini e Bizet - verrà poi ampiamente trasceso negli anni '70-'80. Il box include anche un ampio documentario radiofonico (76 minuti) a cura di Jon Tolansky, che intreccia preziose testimonianze (fra gli altri) di Jon Vickers, del direttore d’orchestra Sir Edward Downes, di Adolph "Bud" Herset - leggendaria prima tromba della Chicago Symphony - e di alcuni professori della Philharmonia a una lunga conversazione con il maestro (naturalmente in inglese) ripresa a Milano nel dicembre 2003.
La modestia di Giulini lo fece - ancor prima che ricreatore consapevole - accompagnatore sopraffino,
non a caso prediletto da tanti solisti di fama mondiale (basterebbe ricordare il lungo sodalizio con Arturo Benedetti Michelangeli o i1 fatto che Vladimir Horowitz vincolò la sua unica sortita nel concertismo mozartiano - Concerto n. 23 in La maggiore K 488 - alla presenza del maestro italiano); il rapporto con molti di loro - Ashkenazv, Brendel, Casadesus, Curzon, Du Pre, Gieseking, Haskil, Kremer, Lupu, Menuhin, Oistrakh, Pollini, Serkin e Stern, giusto per fare qualche nome - non è documentato da realizzazioni in studio, ma fortunatamente la maggior parte di queste ultime è d’ottima o financo eccellente qualità. Il box Warner "The Concerto Recordings" si apre nel segno del debutto sul podio della Philharmonia, avvenuto con le Quattro Stagioni di Vivaldi: siamo nel settembre-ottobre 1955 e la registrazione è ancora monofonica (in appendice troviamo però un "test recording for Stereo" dell’Autunno). E' una fra le poche versioni d’antan del celeberrimo capolavoro vivaldiano che si ascolta ancora con immutato interesse, in particolare grazie alla perfetta intesa e comunanza d’intenti con Manoug Parikian (all’epoca violino di spalla dell’orchestra): non si punta sulla bizzarria, sul virtuosismo o sulla pura eccitazione nervosa, bensì - più sottilmente - sui colori, sulle atmosfere e sui chiaroscuri; e nell’aria c’è più la velata malinconia di un Guardi che il nitore di un Canaletto.

Riversati una ventina d’anni fa dalla EMI francese nel box di sei CD "Les Introuvables de Janos Starker" (divenuto poi anch’esso rapidamente... introvabile), tornano finalmente disponibili il Concerto in Si bemolle di Boccherini, il n. 2 in Re maggiore di Haydn, il Primo di Saint-Saens e il Concerto in La minore op. 129 di Schumann incisi accanto al violoncellista magiaro nel 1957-58. In Boccherini e in Haydn (Starker esegue qui le proprie cadenze) Giulini fornisce un accompagnamento garbato, leggero e di gran gusto; analogo senso della misura governa le letture di Saint-Saens e Schumann, contraddistinte un uso raffinatissimo del rubato nonché da un romanticismo arioso, tenero e intenso giocato più su piccoli trasalimenti che su grandi gesti.
Circolazione piuttosto limitata hanno avuto anche i due Concerti mozartiani (n. 9 in Mi bemolle K 271 e n. 21 in Do K 267) eseguiti con Alexis Weissenberg e i Wiener Symphoniker nel giugno 1978: un Mozart di tradizione, all’insegna della purezza e dell’eleganza (soprattutto nella condotta immacolata dei tempi lenti), ma completamente immune da affettazioni e manierismi. Tradizionali nel senso più nobile del termine sono anche le interpretazioni dei due Concerti di Brahms con Claudio Arrau (1960 e 1962), del Primo ancora con Weissenberg (1972) e dei Concerti per violino di Beethoven e Brahms (1980 e 1976) con un Itzhak Perlman al culmine del proprio magistero virtuosistico, così come convince appieno la restituzione soffice, pacata e autunnale del Concerto op. 104 di Dvorak con Rostropovich (partner di Giulini anche in un altrettanto ben riuscito Primo di Saint-Saens). L’unica delusione e rappresentata dal Concerto per violino n. 1 di Prokofiev registrato nel ’62 accanto a Nathan Milstein: una lettura piuttosto spenta che manca di mordente e umorismo, risultando nettamente inferiore a quella realizzata dal violinista ucraino alcuni anni prima (Capitol, gennaio 1954) con l’Orchestra di St. Louis guidata da Vladimir Golschmann.
Con l’avanzare dell’età le interpretazioni giuliniane si fanno molto più scavate e intense: il raggiungimento della piena maturità, documentato in maniera particolarmente icastica dal box di quattro CD "The Chicago Years", che raccoglie sette interpretazioni di altissimo profilo; le registrazioni, effettuate al Medinah Temple fra il 1969 e il 1971 (ad eccezione della Nona bruckneriana, risalente al dicembre ’76), beneficiano fra l’altro di una ripresa sonora calda, bilanciata
e dettagliatissima che ci consente di apprezzarle in ogni sfumatura. L’immagine angelicata di Giulini cede di fronte a una selezione dal Roméo et Juliette di Berlioz eccitata e fosforescente, a una Prima di Mahler per nulla esagerata e sopra le righe ma sottilmente graffiante e maligna e a due letture stravinskiane (Oiseau de Feu, Petruska) d’inusitata incisività e cattiveria La selezione è coronata da un’imponente e magnetica Nona bruckneriana che ratifica l’inesausto procedere del Nostro verso nuovi orizzonti (Giulini si lanciò in Bruckner nel marzo 1974 giustappunto a Chicago con la Seconda Sinfonia, cui seguirono la Nona a New York nel mese di ottobre dello stesso anno, l'Ottava nel novembre del 1975 a Roma e la Settima il 12 novembre 1981 a Los Angeles).

Veniamo così ai due box DG, che raccolgono il meglio dell’arte giuliniana. Un ciclo Brahms fra i più alti, sofisticati e problematici, innanzitutto, nel leggere in mezzo, fra le voci secondarie, lo scorrere sussurrante dei veri segreti; così come in un Franck anelante, sensuale e mistico, nel Mahler della Nona più negatrice e paradossalmente più rispettosa della poetica dell’Autore (l’Io che si afferma negandosi e dileguandosi nell’infinito), nella Renana di Schumann, naufragio annunciato figlio un’utopia Romantica che canta a piena voce il suo fallimento ma sottilmente se ne compiace; e soprattutto nelle Sinfonie 7-8-9 di Bruckner, fra le quali troneggia l’Ottava nella sua monumentalità "apocalittica", presaga del tutto e del nulla, con un cuore lirico che per converso canta nel grande Adagio il vano desiderio di non avere mai fine. Assai benvenuta anche la prima pubblicazione in CD della cantata An die Nachgeborenen - ossia "Ai posteri" - composta da Gottfried von Einem su testi di vari autori (si va dai Salmi 90 e 121 a Hölderlin e Brecht) per il trentesimo anniversario dell’ONU. L’incisione, effettuata nella Grosse Saal del Musikverein di Vienna nel 1975, segue di pochi giorni la creazione dell’opera da parte dei medesimi interpreti a New York, appunto presso la sede delle Nazioni Unite. Un altro esempio del rigore morale di Giulini, che nulla concede all’approssimazione e concerta la partitura come un grande classico, indagandola in ogni minuto dettaglio.
Nella vecchiezza, come la maggior parte dei colleghi, Giulini si rifugia fra le braccia degli autori più amati, né sarebbe stato ragionevole chiedergli il contrario. E' questo l'oggetto del cofanetto Sony, che - nonostante la qualità più alterna delle interpretazioni - si aggiudica la palma del vincitore per la realizzazione editoriale maggiormente elegante e meglio curata (tutti i CD vengono riprodotti conformemente alla prima uscita, incluse le copertine originali). Le incisioni dell’ultima triade sinfonica mozartiana (con l’aggiunta del Requiem e della Sinfonia Concertante K 297b) nonché della Messa in Si minore di Bach sono giunte troppo tardi: non è questione di partigianeria filologica, bensì di sfilacciature e fangosità nella restituzione del tessuto polifonico; nonostante le nobilissime intenzioni, il controllo dell’orchestra ormai non è più ai massimi livelli. Troviamo poi le Sinfonie nn. 1-8 di Beethoven con la Filarmonica della Scala (manca la Nona perché giunti a un pelo del traguardo la Sony strinse i cordoni della borsa e la registrazione dell’op. 125 saltò): le sinfonie "dispari" convincono solo relativamente, ma l’aura olimpica e l'ineffabile tenerezza che avvolgono l’intera "Pastorale" e i tempi lenti della Seconda e della Quarta non possono lasciare indifferente l’ascoltatore. In Schubert e Franck, Giulini aveva saputo dire di più e di meglio in precedenza; poco significativo anche l’incontro con Kissin nel Concerto in La minore di Schumann, nel quale ciascuno percorre la propria strada: il solista si limita a cercare (e trovare) un suono marmoreo e sontuoso ma scarsamente espressivo, mentre il direttore lo sprona - inascoltato - verso una nobile e macerata intensità. Si sale decisamente di tono con le Sinfonie 7, 8 e 9 di Dvorak, tra le più belle, magnanime e sincere mai ascoltate: l’atmosfera è quella di un tenero congedo privo di amarezze e rimpianti, ogni nota viene accarezzata con amore, ogni armonia viene assaporata fino in fondo e il suono opulento dell’Orchestra del Concertgebouw fa il resto. Altrettanto originale e meditata l’estrema rilettura dei Quadri di un'esposizione, sia per la sapientissima conciliazione fra il barbarismo di Mussorgski e il raffinatissimo caleidoscopio timbrico raveliano, sia per l’evidente rinuncia ad ogni facile effettismo. Il capolavoro assoluto della raccolta Sony è comunque Ma mère l'Oye, vero testamento poetico di Giulini che ci invita a riscoprire attraverso un’ineffabile tenerezza incantata la dimensione sospesa ed eterna dell’infanzia vista come il più impossibile dei sogni e al tempo stesso come paradossale negazione della musica stessa, per sua natura inevitabilmente e morbosamente innamorata del tempo, del divenire e della morte.

Paolo Bertoli ("Musica", n.256, maggio 2014)