Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, aprile 30, 2022

La giovane arpista di Basilea Magdalena Hoffmann, vincitrice nel 2016 di due premi speciali al Concorso Internazionale di Musica ARD, dal 2018 prima arpa nell'Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese, incide il suo primo album per Deutsche Grammophon.

Suggestivo il titolo scelto, Nightscapes (paesaggi notturni) che, attraverso un percorso musicale fatto di brani originali per arpa e di trascrizioni realizzate dalla stessa arpista, vuole evocare il clima notturno e le atmosfere sospese di cui è capace l'arpa, tra mistero e intimità. A questo clima privato si contrappone quello elegante e sinuoso della danza, del valzer in particolare. Tra le composizioni originali per arpa, figurano la Suite for Harp op. 83 di Benjamin Britten, lavoro composto nel 1969 e diviso in cinque movimenti, nel quale il compositore inglese utilizza tutte le possibilità tecniche dell'arpa per ottenere un'ampia gamma sonora; e Dans des lutins (Danza degli elfi) dell'arpista francese Henriette Renié (1875-1956), per la quale anche Fauré, Debussy e Ravel scrissero delle composizioni: ampi gesti nel registro superiore dell'arpa si contrappongono agli accordi di accompagnamento e arpeggiati della mano sinistra. Il resto del programma infila in successione brani più o meno celebri di autori come Chopin, Clara Schumann, John Field, Ottorino Respighi e Marcel Tournier. Di questi autori Hoffmann sceglie composizioni ispirate al genere del notturno, capace di dipingere in un modo unico sia l'atmosfera di intimità che lo spirito mistico, caratteristica che lo ha reso uno dei generi più tipici del Romanticismo. Ma il suono leggero e danzante all'arpa si adatta perfettamente anche ai tre Valzer di Chopin o alla Fantasia, per arpa su motivi dei Contes d'Hoffmmm di Offenbach di Jean-Michel Damas. L'album si chiude con il Notturno in fa diesis minore op. 48 n. 2 di Chopin, quasi come ideale conforto per l'anima turbata dell'insonne. Un CD che si ascolta con grande piacere e che permette all'arpista tedesca di mostrare le sue indubbie doti tecniche e sensibilità per il colore strumentale. La presa del suono, talvolta troppo ravvicinata, mette tuttavia in eccessiva evidenza i rumori dei cambi di pedale e della meccanica, oltre allo sfregamento delle corde, limitando in qualche caso la suggestione delle atmosfere notturne. Attendiamo l'arpista tedesca in altri futuri cimenti, magari più audaci nella scelta del repertorio.

Sei domande a Magdalena Hoffmann

Un album che affascina per il suo titolo e per la scelta dei brani. Come ha creato questo programma, da dove viene l'idea?
L'idea è nata dal mio interesse per le due forme musicali prevalenti in Chopin, cioè i Notturni e í Valzer, che in musica sono sempre stati dei corrispettivi l'uno di silenzio, buio, introspezione e l'altro di danza, espansività, luce. Così per anni ho ascoltato e letto moltissimi brani che potevano essere associati alla mia idea originaria.
Alcuni ho dovuto scartarli a malincuore perché non erano adatti al mio strumento, benché fossero musicalmente molto interessanti. Ho esplorato e cercato in lungo e in largo e così mi sono imbattuta in brani meravigliosi, come per esempio i notturni di Respighi e Pizzetti, a mio avviso ingiustamente sconosciuti. Lentamente, e potrei dire anche faticosamente, ho raccolto abbastanza pezzi adatti alle caratteristiche del mio strumento che potevano descrivere dei paesaggi notturni come me li ero immaginati; un mosaico colorato in cui ogni ascoltatore avrebbe potuto trovare della musica per il suo stato d'animo.
Il repertorio dell'arpa è decisamente più esiguo rispetto al repertorio solistico di altri strumenti, ma esistono ormai innumerevoli trascrizioni. Questo CD, in cui pezzi originali per arpa sono combinati con trascrizioni di pezzi più e meno famosi, ne è un esempio. Cosa pensa di questa pratica?
Indubbiamente il repertorio per il mio strumento non può essere paragonato a quello di strumenti come il pianoforte, a quello degli archi e nemmeno a quello di molti strumenti a fiato. Questo problema rappresenta sicuramente un limite con il quale molti miei colleghi, anche nel passato, hanno dovuto confrontarsi. Ciononostante, negli ultimi anni, a causa di una palese saturazione di registrazioni degli stessi pezzi che hanno stancato gli appassionati di musica classica, c'è stata una grande rivalutazione di ottimi compositori, di trascrizioni e di strumenti discriminati dal mercato (penso all'ascesa degli strumenti a percussione con Martin Grubinger, del fagotto con Sergio Azzolini, del mandolino di Avi Avital, della viola con Antoine Tamestit e a molti altri) che era impensabile solo un decennio fa. L'ennesima produzione ed esecuzione di una sinfonia o sonata di Beethoven, delle stagioni vivaldiane o dei concerti di Ciaikovski hanno sbloccato inconsapevolmente sia il mercato discografico che quello concertistico e lo hanno spinto a dover proporre un repertorio inesplorato per attirare un pubblico ormai satollo e giustamente annoiato.
Ci terrei comunque a spiegare che la trascrizione non è un'usanza recente che riguarda solo il mio strumento. La pratica della trascrizione ha raggiunto proporzioni epidemiche nell'Ottocento, soprattutto sul pianoforte riusciva infatti a rappresentare in maniera soddisfacente l'originale, perché era in grado di
riprodurre quelli che allora erano considerati gli aspetti fondamentali della musica: le linee melodiche, l'armonia, il ritmo, con l'eccezione dei colori lasciati all'immaginazione dell'ascoltatore. La trascrizione viene utilizzata a piene mani per portare nelle case il repertorio orchestrale e operistico ed è stata per almeno un secolo un potentissimo strumento di divulgazione della musica. La necessità di diffondere la musica dei grandi compositori del XVII e XVIII secolo, adattandola alle caratteristiche e ai mezzi dello strumento più diffuso all'epoca, il pianoforte, ha fatto gareggiare i maggiori pianisti dell'epoca con trascrizioni che ancora oggi vengono suonate nelle sale da concerto. Listz e Busoni hanno trascritto da Bach, Respighi da Frescobaldi, Saint-Saëns da Gluck e Haydn, D'lndy da Rameau, Martucci da Handel ecc. Come i grandi esecutori del passato, anche quelli moderni hanno continuato a trascrivere, o meglio ad adattare e a rendere cosi eseguibile una composizione per strumenti sempre diversi, con lo scopo di consegnare all'ascoltatore un risultato finale quanto più simile a quello originale. A volte il cambio timbrico, una diversa risonanza e una articolazione mai usata in un brano pensato per un altro strumento, regala alla composizione stessa una luce nuova che permette di apprezzarla in modo nuovo e meno contaminato. Uno strumento in fondo non è che un attrezzo, un mezzo per esprimersi e la musica,
nella sua essenza, non cambia se viene eseguita da strumenti diversi. E' in questo senso che cerco e valuto i pezzi che vorrei suonare: come tutti gli esecutori vorrei raccontare al meglio la storia contenuta nei puntini neri sul pentagramma e toccare l'anima dell'ascoltatore ben aldilà dello strumento che suono.
Molti strumentisti si avvicinano a compositori contemporanei per chiedere di scrivere per il loro strumento. E' un modo, per ampliare e rinnovare il repertorio, ma anche per esplorare nuove tecniche e possibilità sonore per lo strumento. E' lo stesso per lei?
Grazie alla mia orchestra ho la possibilità di suonare molti concerti nella rassegna “Musica Viva”, fondata da K.A. Hartmann già nel 1948, che mi permette di avere ho una visione ampia sul mondo della musica contemporanea. Naturalmente è interessante per ogni strumentista ricevere l'attenzione di un compositore e poter collaborare per creare pezzi nuovi. Questi sono spesso una grande sfida, in quanto non battono territori conosciuti ma obbligano gli strumentisti ad andare oltre a ciò che sanno fare, sia tecnicamente che formalmente. Lo studio di un pezzo nuovo, dargli vita per la prima volta, sentirlo proprio è sempre un enorme sforzo, prende molta energia e lascia molti dubbi sulle proprie qualità, che prima si pensava di conoscere.
Oggigiorno ci sono compositori molto talentuosi, dei quali ho suonato grandi brani orchestrali, e nei quali riconosco sia una buona conoscenza del mio strumento che un linguaggio riconoscibile, una firma musicale (merce rara tra le migliaia di compositori contemporanei). Purtroppo, sono spesso anche i più costosi e occupati, per cui già per ragioni finanziarie e temporali è abbastanza utopico sperare di poter avere un loro pezzo. L'altro problema sarebbe poi trovare impresari e manager coraggiosi che permettano di presentare il brano dopo la prima assoluta: la mole di lavoro per imparare questi pezzi non sta in alcuna proporzione con la possibilità di eseguirlo.
Nella memoria collettiva, l'arpa è di solito associata ad atmosfere sottili, a suoni fluidi e sfuggenti. Un'intera generazione di strumentisti eccezionali sembra ora intenzionata a rivalutare e a riscoprire questo strumento: penso ad Andreas Vollenweider, Xavier de Maistre e ora a lei. Come descriverebbe il suo strumento?
L'arpa è uno strumento primordiale, antico, quasi arcaico. In orchestra ha molti ruoli diversi che sottolineano o caratterizzano una particolare situazione emotiva, uno stato d'animo, un cambio di luce, un jeu d'eau. Può avere sia un forte ruolo ritmico come addolcire, raffinare, scurire o schiarire il colore di altri strumenti. Una specie di eyeliner sonoro quando viene usato dai grandi compositori. In Mahler è per esempio spesso la chiave dei grandi slanci d'animo, rappresenta retoricamente il coraggio, la metamorfosi, la dolcezza infantile, la depressione più cupa oppure le campane da morto. Nella musica francese è probabilmente lo strumento più utile per la coloratura espressionista: con pochi accordi proietta l'ascoltatore nel mondo esotico, cinese o giapponese, che era così tipico ed evocativo per quell'arte. Basta infatti un tremolo sussurrato o la dolcezza di un suo glissato per evocare la purezza dell'acqua, una carezza materna, il fremire di un ramo o la vista annebbiata, sfuocata di un'illusione o di una magia. La sua paletta è davvero molto ampia, potrei continuare ancora tante righe per descriverne le sue molteplici qualità retoriche.
Come strumento solistico, alcuni ottimi compositori sono riusciti a utilizzare il potenziale di questo strumento ben oltre al tipico e usuale virtuosismo caratterizzato da cascate di note che tanto impressionano l'ascoltatore. Hanno saputo capire le sue capacita espressive, dandogli una grande forza lirica pur rispettando i suoi limiti. Pur essendo uno dei pochi strumenti armonici (indubbiamente il più vicino alle possibilità del pianoforte), il meccanismo del nostro strumento (7 pedali per modulare) limita le nostre possibilità cromatiche. Non si tratta però di uno strumento esclusivamente creato per colori o effetti, come viene spesso descritto o usato.
Una grande parte della musica che ho scelto per questo album è stata una sfida personale, volevo andare oltre al limite intrinseco di uno strumento a pizzico e trasmettere all'ascoltatore (e a me stessa) l`idea che un'arpa potesse cantare, produrre quello che noi musicisti in gergo chiamiamo una linea lunga, tenuta, lirica in cui la vocale dopo la consonante abbia una vita. In fondo è un problema che accomuna e preoccupa anche i pianisti, in quanto anche loro una volta toccato il tasto (che equivale per noi al pizzico della corda) non possono più intervenire sul suono come invece lo può fare una voce, uno strumento ad arco o ancora di più a fiato. Forse è solo un'utopia, ma lavorando intensamente per diminuire questo problema, mi sviluppo musicalmente e mi avvicino un poco all'ideale che vorrei raggiungere. Le sfide mi hanno sempre stimolata.
Come riesce a coordinare la sua attività di prima arpa nella famosa Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese (BRSO) con la sua carriera di solista?
Ricevere il planning delle stagioni future con largo anticipo è sicuramente di grande aiuto. Contrariamente a quello che accade in numerose istituzioni sinfoniche italiane, spagnole o francesi, il management in Germania ha sempre preferito una programmazione lunga. In questo momento stanno terminando di programmare la stagione del debutto del nostro nuovo direttore stabile Sir Simon Rattle che sarà nel 2023/24 e stanno lavorando alla stagione 2024/25, cosicché mi è possibile poter programmare con discreto anticipo i concerti solistici e ritagliarmi i periodi necessari per lo studio. Penso che la convivenza delle due attività mi renda musicalmente molto flessibile, mi permette di conoscere la musica all'interno di un gruppo e poi anche da “davanti”. Inoltre, è molto utile perché l'orchestra mi permette di conoscere personalmente molti direttori e solisti internazionali con i quali poi possono nascere delle collaborazioni musicali molto interessanti.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Per quanto riguarda i progetti lavorativi, sono immersa quotidianamente nella musica e all'interno del mio magma musicale aspetto che mi vengano delle intuizioni non banali. Poi cercherò di trasformarle in progetti strutturati e comunicativi, senza mai forzare la cosa. Sono piena di nuove idee, alcune le covo da un po' di tempo. Spero che alcune di loro si trasformeranno in progetti ben radicati e concreti. Ah sì, poi avrei una gran voglia di tornare nel vostro meraviglioso paese: tra i miei progetti futuri è decisamente il più urgente!
Stefano Pagliantini
("MUSICA" N. 335, Aprile 2022)

sabato, aprile 16, 2022

Salisburgo 1974

Sugli schermi a colori della TV austriaca 
apparvero sorridenti, una sera della scorsa estate, le fotogeniche fattezze di Giorgio Strehler. E con altrettanto fonogenica, armoniosa voce il regista triestino disse cose interessanti, con grande attenzione seguite dalla vasta platea dei tele-spettatori. Dall'anno innanzi Strehler - primo fra gli stranieri - era entrato, in qualità di consulente artistico, nei quadri del Direktorium che regge le sorti del festival di Salisburgo; e nel '73 gli è stato commessa la cura della Eröffnungsrede, della solenne orazione d'apertura, dedicata alla celebrazione di Max Reinhardt nel centenario della nascita. Così, per molteplici indizi, Strehler sembrava designato ad assumere l'ideale eredità dell'insigne collega suo, che del festival salisburghese era stato tra i promotori e i massimi artefici.
Disse dunque Strehler che, a suo avviso, il festival della città mozartiana andava sottratto al tradizionale carattere di élite, di luogo di ritrovo dell'alta e danarosa società internazionale, e reso accessibile a più vasti strati di pubblico, specialmente locale (si ricorda in proposito che, quest'anno, i prezzi dei posti migliori per gli spettacoli d'opera ammontavano all'equivalente di quarantacinquemila lire italiane, digradando sino a undicimila per i posti più incomodi e «popolari»). Ma insieme, non sfuggendo all'intelligenza di Strehler gli essenziali riflessi del festival sul turismo salisburghese - circostanza tenuta in non cale dai dirigenti della nuova Biennale di Venezia - Strehler ipotizzò, in termini alquanto generici, l'istituzione di un "doppio festival", orientato da un lato sull'usata componente elitaria, e aperto dall'altro a una più estesa partecipazione di spettatori.
Le stesse cose Strehler ripeté, alla vigilia dell'inaugurazione del festival, in una serie di interviste a quotidiani austriaci e germanici; ed altre ancora. di maggior incidenza artistica, ne aggiunse. In particolare: la sua piena adesione al festival di Salisburgo, anche nell'aspetto di stabile consulente del Direktorium, traeva motivo primario dalla prospettiva della collaborazione con Herbert von Karajan, destinata a rinnovarsi ogni anno. Il Flauto Magico, spettacolo d'apertura del festival 1974, non sarebbe stato che l'inizio di un organico ciclo, di un "tutto Mozart", da attuarsi a ritroso rispetto alla cronologia, riproponendo - sempre all'insegna del binomio von Karajan-Strehler - l'intero teatro mozartiano, dal citato Flauto, ultima opera del maestro, sino a Bastien und Bastienne, scritta da Mozart alla verde età di dodici anni. Prossima tappa della stimolante iniziativa - aggiunse Strehler - il Don Giovanni, da inserire in programma l'anno venturo o, al più tardi, nel 1976.
Ma il progetto bellissimo si arenò non appena formulato. Il 24 luglio, due giorni avanti la serata inaugurale, la Radio Austriaca inseriva nei suoi notiziari - e la stampa subito se ne impadroniva - un breve compendio della relazione stilata dalla Corte dei Conti di Vienna sul bilancio consuntivo del festival 1973. Ove si deplorava, tra l'altro, l'eccessivo costo di alcune manifestazioni, e in primo luogo dello scespiriano Gioco dei potenti che, messo in scena da Strehler, aveva comportato una spesa di circa mezzo miliardo di lire. Insieme, la Corte invitava ad una più oculata e parsimoniosa gestione il Kuratorium del festival, cioè il consesso che ne governa l'amministrazione, condizionando le iniziative artistiche del citato Direktorium (per il festival 1974 il preventivo indicava un deficit di un miliardo e ottocentocinquanta milioni di lire, da coprirsi con le sovvenzioni dello Stato, del Land e del Comune di Salisburgo).
Non il solo Gioco dei potenti era bersaglio dei rilievi addotti dai severi magistrati della Corte viennese, ma anche il rituale Jedermann di Hugo vo: Hoffmansthal, ogni anno rappresentato in piazza del Duomo: nel nuovo allestimento 1973 ii Ernst Häusemann il «mistero» era costato 233 milioni di lire, il doppio rispetto all'edizione precedente. Tuttavia, l'improvvisa diffusione delle censure della Corte dei Conti - prima ancora, a quanto pare, che il Direktorium ne avesse nozione, e suggerita forse da qualche rigido consigliere del Kuratorium - venne subito strumentalizzata, se non addirittura architettata, ai danni di Giorgio Strehler.
I giornali austriaci e germanici ne trassero argomento per vibranti articoli polemici, e la Süddeutsche Zeitung di Monaco riserbò a Strehler addirittura l'editoriale articolo di fondo, Das Streiflicht. Nel quale, dall'immediato raffronto tra le istanze di estensione democratica del festival, avanzate da Strehler, e la sua noncuranza per le esigenze di bilancio, il giornale monacense iscriveva d'ufficio il regista nei ranghi della Lustige Linke, cioè dell'allegra sinistra.
Quindi, nel quadro di un'organica e ben orchestrata campagna anti~Strehler, gli insistenti dissensi alla conclusione dell'inaugurale Flauto Magico, le valutazioni negative sulla regia, espresse da gran parte dei giornali, le dimissioni di Strehler dalla consulenza nel Direktorium, e il conseguente tramonto del venturo «tutto Mozart» nell'interpretazione congiunta von Karajan-Strehler. Ci si accorse di aver passato il segno, si prospettò di affidare a Strehler nel '75 la regia di un lavoro di non oneroso allestimento, quali i pirandelliani Sei Personaggi, poi di riprendere Il ratto dal serraglio nell'edizione che per un decennio aveva tenuto con onore la scena. A cotanto trambusto von Karajan rimase in apparenza estraneo, preferendo scaricare la tensione nervosa ai comandi del suo veloce bireattore personale, guidato in perigliose picchiate sui ghiacciai delle Alpi. Infine, la sua intenzione di cedere la bacchetta ad altro maestro per una ripresa del Flauto nel '76 determinò la totale frattura fra Strehler e il festival di Salisburgo.

Come s'é accennato, alla fine del Flauto Magico, nella serata inaugurale, numerosi furono i dissensi - che in Austria si estrinsecano non con fischi, ma con sonori buuuuuh di riprovazione - all'inizio di Strehler. Preordinata azione di commandos, tanto che le manifestazioni ostili non ebbero a ripetersi durante le numerose repliche, Rimangono tuttavia le critiche negative formulate, talvolta con pesantezza, dalla stampa di lingua tedesca, con poche eccezioni, tra cui la Frankfurter Allgemeine Zeitung che prospettò in luce di imparzialità il controverso "caso Strehler". Oppure augurando, come si lesse sulle locali Salzburger Nachrichten, che la ripresa dello spettacolo, prevista allora per il '75, consentisse di constatare il superamento di quell''«impietrito massiccio di tradizione scenica e di mito››.
In realtà, questa tanto discussa regia del Flauto Magico, se non toccava l'altezza raggiunta da Strehler nel Ratto dal serraglioautentico «classico›› della moderna regìa lirica, non per questo appariva contestabile. Solo che, originariamente concepita per la piccola scena del Landestheater di Salisburgo, e trasportata per motivi di cassetta sullo sterminato palcoscenico del Grosses Festspielhaus, la regia del Flauto inevitabilmente accusava una dispersione sullo sfondo delle disadorne scene argentee di Luciano Damiani. Il proposito, annunciato da Strehler nelle sue interviste, di prospettare l'opera mozartiana come un Ur-Märchen, una fiaba dei primordi, una fiaba delle fiabe, solo in parte era conseguito, e l'intenzionale dualismo, pure dichiarato dal regista, delle opposte figure di Tamino e di Papageno, appariva vanificato dalla soverchiante prevalenza scenica del bravissimo Hermann Prey, nei panni appunto di Papageno.
Controverso nella regia, Il Flauto Magico non dava adito a rilievi circa l'esecuzione musicale, guidata da Herbert von Karajan con cristallina chiarezza nello strumentale e nei rapporti con il discorso scenico (e se qualche riserva è stata formulata nei riguardi dello spettacolo inaugurale, si trattava ovviamente di un non ancora compiuto rodaggio, nulla di censurabile apparendo nella seconda rappresentazione). Con Herman Prey inappuntabili per il canto e la recitazione i soprani Edith Mathis (Pamina) e Reri Grist (Papagena), i tenori René Kollo (Tamino) e Gerhard Unger (Monostato), i bassi Peter Meven (Sarastro) e José van Dani (l'oratore). Unico punto debole della compagnia di canto il soprano Louise Lebrun, inadeguata agli impervi cimenti di Astrifiammante (dalla seconda rappresentazione in poi, ma analoga impressione negativa aveva prodotto, stando a testimonianze attendibili, Edita Gruberova nella serata inaugurale).
Accanto alle riprese delle Nozze di Figaro (von Karajan), di Così fan tutte (Böhm) e del Ratto dal serraglio, diretto stavolta da Leif Segerstam, ma sempre nell'ormai decennale veste scenica di Strehler e Damiani, il cartellone includeva La donna senz'ombra di Richard Strauss, a celebrazione di una duplice ricorrenza: il centenario della nascita del poeta e drammaturgo viennese Hugo von Hofmannsthal, uno tra i fondatori del festival e librettista straussiano, e gli ottant'anni - felicemente raggiunti proprio il 28 agosto, sulle soglie della chiusura del festival, e festeggiati da un ricevimento solenne al palazzo della Residenza - del direttore d'orchestra stiriano Karl Böhm.
La simmetria tra le coppie antagoniste Tamino-Pamina e Papageno-Papagena del Flauto e quelle dell'imperatore e dell'imperatrice, del tintore e di sua moglie nella Donna senz'ombra, e il simbolismo che le investe, hanno più volte suggerito un parallelo fra le due opere di Mozart e di Strauss. Comunque, in entrambi i casi - si tratti del simbolismo ingenuo e fiabesco di Schikaneder, o delle intellettualistiche implicazioni di von Hofmannsthal - il peso della musica nettamente prevale sulla vicenda e sulle connesse intenzioni allusive.
Dopo la tragedia in Salome e in Elettra, la commedia nel Cavaliere della Rosa e la commistione felice dei due «generi›› nell'Arianna a Nasso, Richard Strauss si orienta nella Donna senz'ombra sulle vie del melodramma sinfonico, in cui pagine di splendente bellezza e di penetrante significato si alternano, nel corso dei tre lunghissimi atti, a zone grigie, ed anche decisamente convenzionali, come l'altisonante quartetto finale. Ma il costante magistero strumentale di Strauss sorregge il discorso della Donna senz'ombra pur nell`avvertibile, progressivo scadimento dell'interesse musicale. che marcatamente declina dopo la tensione dell'atto primo.
Amico di Strauss, Giacomo Puccini palesò interessamento e attenzione verso questa Donna senz'ombra, ove non è difficile avvertire, oltre ai wagneriani ripensamenti, tipici di Strauss, le tracce del teatro musicale italiano del tempo (l`opera venne scritta negli anni della prima guerra mondiale). E si ha insieme l'impressione che l'ultimo Puccini non sia stato a sua volta insensibile agli insegnamenti della Donna senz'ombra: nel linguaggio, ad esempio, di Calaf e della principessa Turandot. E forse su basi non lontane dalle effusioni vocali dell'imperatore e dell'imperatrice straussiani, Puccini avrebbe impostato la costruzione di quel grande e trionfale duetto d'amore che doveva concludere Turandot: la morte prematura gli impedì di risolvere il problema che a lungo, con tormentosa cura, lo aveva assillato.
Nel vistoso allestimento scenico di Günther Schneider-Siemssen - corrispondente al tardo e orientaleggiante stile Sezession dell'ambientazione librettistica - e nel collaterale buon governo della regia di Günther Rennert, La donna senz'ombra è stata offerta a Salisburgo in un'edizione musicale di alta classe, così per i meriti dei solisti di canto, quali la stupenda Christa Ludwig (cui si alternava nelle repliche l'altrettanto ammirata Ursula Schröder-Feinen), Leonie Rysanek, Ruth Hesse, Walter Berry e James King, come - e soprattutto - per la direzione di Karl Böhm. Con un gesto in apparenza dimesso e disadorno, e non disdegnando di tener sott'occhio la partitura, il neo-ottuagenario maestro ha tratto dall'esemplare Filarmonica di Vienna accenti a volta a volta solenni e insinuanti, sommessi e trionfali, inserendo nel tessuto strumentale, con duttile quanto imperiosa mano, il cangiante arco del discorso vocale.

Nella lunga serie dei concerti del festival _ fra gli italiani, i direttori Claudio Abbado e Riccardo Muti alla guida della Filarmonica di Vienna, il pianista Maurizio Pollini in un concerto diretto da von Karajan, e I Solisti Veneti diretti da Claudio Scimone - si inserivano due serate nel Duomo di Salisburgo. A celebrazione dei 1200 anni dalla costruzione dell'originaria chiesa paleocristiana, è stata eseguita la Missa Salisburgensis a 53 voci. espressamente scritta dal romano Orazio Benevoli per la consacrazione del nuovo Duomo , compiuto nel 1628 su progetto del comasco Santino Solari. Così si legge nei manuali di storia della musica, e così si riteneva sino ad un'ora appena prima della recente esecuzione salisburghese. Nel corso di una conferenza stampa, il professor Ernst Hintermaier dell'Università di Salisburgo ha sostenuto infatti, con ampie e documentate argomentazioni, che la colossale Messa - la cui partitura venne rintracciata sullo scorcio del secolo scorso nella bottega di un droghiere - non è affatto opera di Benevoli, ma di un non ancora identificato compositore locale, mentre la prima esecuzione ebbe luogo non nel citato 1628, per la consacrazione del Duomo, ma solo negli ultimissimi anni del Seicento.
Un'accorta regia si accompagnava all'esecuzione della Messa e dell'inno Plaudite tympana, pure attribuito a Benevoli nella medesima circostanza, e parimenti ora contestato nella paternità e nella data di nascita. Gli esecutori vocali e strumentali - oltre duecento - erano dislocati su di una serie di tribune addossate ai pilastri che reggono la grande cupola, e al centro della raggera spiccava la figura ascetica di Padre Ireneu Segarra, maestro di cappella nel monastero benedettino di Montserrat. Per lo sviluppo della partecipazione strumentale e per la disposizione dei cori contrapposti la Messa appare partecipe degli esempi delle musiche gabrieliane; ma il prevalente virtuosismo contrappuntistico, con l'integrazione di un artigianato di gran classe, in una sostanziale carenza di espressione drammatica e religiosa, sembrano convalidare la postecipata datazione asserita dal prof. Hintermaier. Partecipavano all'esecuzione le giovanissime compagini dei cantori dell'Escolania di Montserrat, dei Ragazzi Cantori di Bad Tölz, i cantanti solisti della Pro Cantione Antiqua di Londra e gli strumentisti del germanico Collegium Aureum.
Mentre docenti ed allievi di storia della musica sono invitati a rettificare paternità e data di nascita della Missa Salisburgensisgià attribuita ad Orazio Benevoli, nessun dubbio assillerà gli storici del futuro circa il Magnificat di Krysztof  Penderecki, espressamente commissionato al compositore polacco per la commemorativa circostanza, terminato appena a luglio, e subito portato all'esecuzione. Se alla controversa e citata Messa lo apparenta la monumentalità barocca della scrittura, dilatata su 48 voci, la risonante acustica del Duomo salisburghese giocava stavolta a favore del Magnificat, nel senso che le riverberazioni predilette da Penderecki risultavano esaltate e amplificate come in un'automatica, spontanea germinazione. Il linguaggio di Penderecki non è qui diverso da quello usato nella Passione secondo S. Luca o negli Utrenja, ma sembra accusare un'avvertibile semplificazione in una meditata costruzione dai classicheggianti richiami e dal vissuto sentimento cattolico, ove i riferimenti al gregoriano e alla classica elaborazione contrappuntistica si colorano dei determinanti insegnamenti della Sinfonia di Salmi di Stravinski e del Wagadu di Vogel.
Con straordinario impegno concorrevano all'esecuzione, guidata energicamente dall'autore stesso, l'orchestra e i cori della Radio Austriaca, i Ragazzi Cantori di Vienna e il basso Peter Lagger. Il cosmopolita e variamente abbigliato pubblico del festival, che aveva accolto in devozionale e rispettoso
silenzio la Missa Salisburgensis, ha tributato applausi fragorosi al Magnificat, all'autore-direttore e agli interpreti; come, nella prima parte del programma, alle musiche debussiane per Le Martyre de Saint-Sebastien dirette da Milan Horvath, pure con i complessi della Radio Austriaca e con il concorso della voce bellissima di Arleen Auger.
Guido Piamonte
("Rassegna Musicale Curci", anno XXVII n. 3 dicembre 1974)