sabato, dicembre 13, 2025

Edwin Fischer dalle molte anime

Edwin Fischer (1886-1960)
Il portello del palcoscenico si apre, ed Edwin Fischer ir
rompe sulla scena: cinghialotto che la musica attira come una battaglia o un incontro d'amore, la traversa di corsa per metà, scavalca a saltini la pedana del direttore d'orchestra, si ferma tarchiato e sodo al fianco del pianoforte, come un artigliere al fianco del pezzo; e il primo pezzo comincia maestosamente a sparare, il Concerto in re minore per pianoforte e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart.
Ogni pianoforte andrebbe fabbricato a somiglianza del pianista che lo suona; onde non il pianoforte basso e lungo sul quale domenica scorsa Edwin Fischer «lavorò», ma un pianoforte più breve e tarchiato: non un Rorquale di Sibbald insomma, o balaenoptera musculus di trenta metri di lunghezza, ma un fisitero pigmeo, o Kogia breviceps, di quattro metri al massimo.
Se nell'abate Liszt siamo tutti concordi a riconoscere il tipo fisico del pianista, cioè a dire l'uomo che non solo è fornito di braccia lunghissime e spezzate in più articolazioni del normale, ma dispone anche di braccia in soprannumero che gli consentono di sonare da solo a quattro mani, dobbiamo dire che Edwin Fischer pianista non è; lui che nelle membra non ha lo sviluppo diabolico dell'abate, ma un corpo intasato e a cartuccia; non le scheletriche mani del grande Franz, ma due mani rotondette che per natural tendenza si arrotondano anche più nel pugno, e lasciate pendule in cima alle braccine robuste ma brevi, non oltrepassano la falda della giacca essa pure cortissima. Dobbiamo dire che Edwin Fischer pianista non è, anche se il pianoforte egli certamente lo suona meglio e con più serietà dell'abate Liszt, come argomentiamo non da una nostra esperienza personale, ma da quanto ci narrava nostra madre, che udì l'abate prima tenere un'accademia a Firenze in una sala tutta bianca e oro, poi lo riudì a Odessa, una notte che anche il Mar Nero si era messo a dare un fragoroso récital, dietro una camerata di caserma che bandiere e festoni di carta invano si sforzavano di trasformare in sala da concerto.
Mar Nero è la traduzione del turco Karadeniz, che i Turchi chiamano così per le frequenti tempeste che agitano questo mare; i Greci invece chiamano il Mar Nero Ponto Eusino, che significa «mare ben ospitale». Si crede generalmente che soltanto le cose metafisiche consentono la varietà delle opinioni; ecco invece che anche una cosa tutta fisica come il mare...
E veramente Edwin Fischer pianista non è, se per pianista s'intende un uomo solitario e in frac, a tu per tu con un pianoforte esso pure solitario e in frac; per meglio dire Fischer è pianista multiplo, che vuole sonare e assieme dirigere, far cantare o martellare a stormo il pianoforte che gli sta davanti, e assieme far cantare o martellare a stormo gli strumenti che gli stanno intorno, animando e guidando con l'occhio, con l'alfabeto delle dita, con le spallucce in tumulto anche quelle macchine di suoni cui le sue braccia troppo corte non possono arrivare.
Costretto al solo pianoforte Edwin Fischer bolle e sussulta d'impazienza, si afferra ora una mano ora l'altra per impedire a quelle frementi radici di carne di compiere qualche atto inconsiderato, si tiene stretto alla sedia come Prometeo alla rupe, per non saltar su e mettersi a sonare «personalmente» gli strumenti dell'orchestra, e non uno a uno ma tutti assieme.
Guardavamo l'ansiosa attesa di Edwin Fischer, durante la lunga introduzione del concerto di Mozart, e soffrivamo della sua sofferenza. Ma non fino all'ultimo fu forte Edwin Fischer. Ogni tanto al richiamo dei temi più cari, Fischer non riusciva più a frenarsi, e «toccava» la tastiera, mescolandosi dietro un fortissimo dell'orchestra, come in mezzo a una folla si manda un segreto bacio alla donna amata. Forse l'impazienza di Fischer sarebbe stata men dura, se fosse stato attaccato il concerto con maggiore energia. Come tutti i ragazzi, anche Wolfgang Amadeus voleva fare il grande: e l'introduzione del Concerto in re minore è uno dei momenti in cui più viva è la patetica, la commovente volontà di questo «eterno fanciullo» di mostrarsi grave e importante. Chi lo sa? Nella voce di quel tema imponente, Mozart sperava di mostrarsi «uomo» alla sua Costanza, e che importa se questo Concerto Mozart lo scrisse nel 1785, quando apparentemente egli sembrava adulto? Onde noi crediamo che questo «momento» richiede la baldanzosa, la forzata energia di un ragazzo che per mascherarsi da grande, si è dipinto col tappo affumicato alla fiamma della candela, due baffi in mezzo alla faccia rosea e paffuta.
Non meravigli se i panni stanno così stretti addosso ad Edwin Fischer. Conosciamo uomini pieni di anima e tutti polso e pulsanti dalla cima dei capelli alla punta dei piedi (così doveva essere Chopin quando sonava per il diletto di Honoré de Balzac, grasso e peloso), ma uomini di tante anime ne conosciamo uno solo: Edwin Fischer. Anime che quando le manine del loro padrone ballano in tempesta sulla tastiera, son buoni tutti ad accorgersi che sono tante e tutte animate di un'energia da Eumenidi; ma non calano di numero quando Fischer comprime le dita a due sole sottilissime voci, come nel secondo tempo del Concerto di Mozart (in questo sospiroso sogno di un fanciullo) o anche a una unica voce, come nel «tranquillo» della metà del primo tempo del Concerto in do minore di Beethoven; perché in quelle due sole voci, in quell'unica voce sono riunite e attorte a filo tutte quante le anime di Fischer con tutto il loro ardore, con tutta la loro poesia, come nel segno solitario di un Raffaello sono riuniti i molti segni di un Tintoretto.
Alberto Savinio
(in "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, 1977)

martedì, dicembre 02, 2025

Appunti sul Fidelio

Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Quest'anno, la più grossa sorpresa registrata al Tea
tro dell'Opera di Roma è venuta dal Fidelio di Beethoven: che, in una «replica», ha fatto registrare il «tutto esaurito» (abbastanza raro a Roma, per chi non lo sapesse). Se a questo aggiungiamo che si trattava di una «replica» dedicata agli studenti, noteremo con piacere che quella parte del pubblico nella quale è lecito riporre maggiori speranze, si sta disancorando dalle concezioni estetiche negative e qualunquistiche che il disinteresse delle passate gestioni (del Teatro dell'Opera di Roma) aveva, a lungo andare, generato.
Andare ad ascoltare il Fidelio - che, fra l'altro, è opera di difficile assimilazione - significa impugnare la
percezione aproblematica cui il nostro orecchio, per colpa di incontrollate e semplicistiche «consumazioni» del repertorio melodrammatico latino, si era assuefatto, significa incanalarsi definitivamente nel filone del primo romanticismo, prendere visione pratica dell'applicazione dell'edificio gnoseologico ed etico dell'idealismo pre-hegeliano, e verificare la puntualità storica del primo musicista moderno «consapevole» a tutti gli effetti, cioè cosciente di muoversi in un mondo dagli imperativi estetici e morali perfettamente incastrati nell'edificio totale della sua cultura.
«Noi tedeschi abbiamo preso dalla filosofia il modo di dire "in sé" e lo usiamo in tutti i momenti senza pensare alla metafisica. Qui però quel modo c'entra, questa musica è l'energia in sé, l'energia in persona, ma non come idea, bensì nella sua realtà... Ecco: il più energico, il più vario, il più avvincente susseguirsi di fatti, di movimenti, tutti nel tempo, basati solo sulla definizione del tempo, sul rapimento e sull'organizzazione del tempo, eccotelo portato in mezzo all'azione concreta mediante il ripetuto squillo di trombe dietro il sipario... Il modo (...) in cui si arriva a un tema e il tema è abbandonato, risolto, mentre nella risoluzione si prepara qualche cosa di nuovo;... il modo in cui il ritmo si sposta con elasticità, prende la rincorsa, accoglie affluenti da diverse parti, si gonfia e travolge e scoppia in un trionfo rombante, nel trionfo personificato, nel trionfo "in sé"... ».
I motivi per cui abbiamo ricordato le parole che Thomas Mann mette in bocca all'eccezionalmente eccitato Adrian Leverkühn, sono molteplici. intanto inquadrano divinamente il Fidelio: e, se non fosse per il fatto che necessitano di una puntualizzazione storicistica (puntualizzazione implicita nella formazione profondamente umanistica di Thomas Mann, ma non nel lettore comune), potrebbero considerarsi senz'altro le più belle scritte sull'argomento. Eppoi, danno l'avvio a una serie di considerazioni che, da Beethoven, si allargano fino a comprendere tutto l'arco comunitario della Germania idealistica.
L'energia «non come idea, bensì nella sua realtà»: cioè la delimitazione della base da cui essa - l'energia - nasce, da cui deve svilupparsi, a cui deve tornare senza perdere la nozione dell'appartenenza fondamentale. Un «fortissimo», in assoluto, è energia: arrestarsi, però, a questo concetto equivale a concepire, per esempio, la libertà come la facoltà indeterminata di fare ciò che si vuole.
L'energia non è «natura» senz'altro: essa deve conquistarsi il diritto all'esistenza (poetica). Eccola, quindi, partire dalla base comune ,eccola enunciarsi, per esempio, tematicamente: il tema è acquisito, è comunicazione, è realtà percepibile, è umanità di partenza. Ma anche remora: pietra di paragone, cioè, che ogni sviluppo successivo deve tenere presente. È la categoria kantiana cui deve riferirsi ogni percezione sensibile.
La cultura moderna ci ha insegnato a tenere presenti, nel giudizio, due concetti complementari: il concetto dell'agire e il concetto del fatto. Il primo tocca la sfera morale (o, in questo caso, moralistica) - dell'uomo - analisi, questi due concetti finiscono col convivere inscindibilmente nella presa di coscienza della totalità di una «cultura» e dei momenti individuali di essa. Momenti individuali che, nell'ottocento germanico, mostrano chiarissima la loro appartenenza dialettica al presente concepito come patrimonio reso attivo dalla consapevolezza del passato. Poiché il Fidelio è uno dei più perfetti esempii di tale azione culturale, possiamo soffermarci, in breve, nel dettaglio della sua struttura, così come appare da questo punto di vista.
La questione - del resto già da lungo tempo messa sul tappeto con ricchezza di particolari arguti - relativa alla «riuscita» del Fidelio in campo teatrale, ora non ci interessa. Né è nostra intenzione risolverla chiamando in causa - eventualmente come «rifiuto» - la struttura morale (o, in questo caso, moralistica) - dell'uomo - Beethoven.
Importa, soprattutto, mettere in risalto la posizione della «trama» in rapporto a quanto dicevamo sopra, e cioè al binomio costituito dall'agire etico e dal fatto estetico. Le parole, sopra ricordate, di Thomas Mann si riferivano essenzialmente all'ouverture Leonora n. 3-B, ma la diagnosi investe tutta l'opera. Si tratta, in altri termini, di prendere visione di un condizionamento, di una estrema - se vogliamo - ingenuità: di un ignorare le leggi del «teatro» (leggi mistificatorie, infine, della «sincerità assoluta»), di un livellare i personaggi, di uno schierarli tutti insieme, appaiati, sul piano di partenza dialettica e da questo piano dar loro vita a seconda delle direttive imposte dall'idea del testo letterario, idea accettata e svolta nel suo divenire e nella sua conclusione. Per carità: non si interpreti (come, però, qualcuno ha fatto) la parentesi sinfonica del secondo atto come una contrapposizione fra «bene» e «male». La dialettica di Beethoven prescinde da questa determinazione: il «bene» è superamento, il «male» è arresto, è stasi: esso non è presente, ma funge da stimolo etico, da guida per l'agire. Il tema, dicevamo sopra, è comunicazione, è base di partenza, è indifferenziato (quasi) nell'ossatura generale dell'edificio dialettico. Se restasse sempre tale, se ponesse la sua esistenza statica a base dell'azione («teatrale») successiva, scalzerebbe dalle fondamenta l'edifìcio totale beethoveniano, e si trasformerebbe in «male».
Il «male», dunque, esiste e non esiste. Esiste come spettro, come «altra soluzione»; non esiste perché quest'«altra soluzione» ce la possiamo solo figurare in sede postuma e ipotetica.
Ecco che il discorso - malgrado le nostre parole di sopra - ci ha involontariamente portato a una puntualizzazione circa il «teatro» di Beethoven. Un «teatro» che rapportato alle 'regole in uso' appare zoppicante e non certo arguto; un «teatro» che non pensa a concretare, a empiricizzare sulla scena il «male», a renderlo agente in base all'elementarità del contrasto scenico.
La trama - a parte il duetto amoroso di Marzelline e Jaquino che apre l'opera: un duetto simile a una tenera carezza di un boscaiolo sulla guancia di una damina diciassettenne - quasi scompare dinanzi a un esempio tanto grande di cultura unita sul piano speculativo e su quello comunicativo.
Beethoven è nella storia, nella sua storia; le caratteristiche semantiche ed etiche del «tema» concretizzano la sua appartenenza al mondo. L'opera è azione, cioè costruzione, incedere morale che impianta la sua dialettica fra «dato comune» (situazione di partenza) e fine da realizzarsi. E, di qui, parte il binomio suesposto. Una parte dell'impianto dialettico riguarda il suo agire speculativo; l'altra parte si tiene saldamente ancorata alla consapevolezza (passato-presente) che permette al pubblico, al suo pubblico, di seguirlo per mezzo del riferimento, basilare e continuo, alla base culturale di partenza: si identifica, cioè, col riversamento dell'oggetto, del momento ricercato, nella «forma» percepibile in quanto figlia della propria epoca, della propria cultura. La dialettica della «forma», intesa come calda realtà in movimento, è unione fra potenza e moralità speculativa, e disponibilità comunicativa: binomio, ripetiamo, i cui elementi si condizionano reciprocamente.
Chiarificato, dunque, il primo aspetto morale (quello che lotta per divenire forma, ma che non considera questa forma nella sua realtà scissa dall'alveo di formazione), dobbiamo ricordare il Fidelio da un'altra prospettiva, in apparente contrasto con la precedente.
Abbiamo visto la sua essenza rispondere perfettamente alla congiunzione determinata dal «valore etico del fare» e dal «valore estetico del fatto»: abbiamo visto, cioè, la moralità di pittura, la responsabilità della «forma» inquadrare il Fidelio in una dimensione artistica precisa e determinata. Potremmo scendere nel dettaglio: e rilevare, per esempio, come il «quartetto» del primo atto - con quelle «entrate» a canone che rafforzano la frase nella posizione da cui è partita - risolve la sua immanenza comunicativa con una «forma» musicale che non si conclude ma che resta sospesa, con incredibile psicologismo umano, a guardare l'immediatezza che incombe sui quattro protagonisti; come il monologo di Florestano si tiene fermo su un determinismo che implica il trascinamento dell'uomo prigioniero nell'«idea » della libertà solo nei limiti (le categorie kantiane!) apparsi nella delimitazione iniziale, nei limiti, appunto, di un uomo particolare che ha la sua battaglia e che a essa si attiene senza trascendere in un generico - universale - trasfigurante sin troppo facile... La pietra di paragone di tutto questo non è il «teatro», ma l'assunto che ci siamo sforzati di circoscrivere.
Vorremmo analizzare tutta l'opera, ma ci preme concludere la seconda parte del discorso che si riallaccia direttamente alla prima. L'eticità teleologica del Fidelio è nel piano speculativo. Si faccia attenzione: poco fa parlammo di moralità della «forma», cioè del risultato. Ora si parla di moralità del fare, di moralità speculativa. Che questa moralità, nel suo procedere, tenga presente la «categoria kantiana», è un fatto legato alla sua intima costituzione; ma che risieda, come forza primigenia, nell'aspetto speculativo, è un fatto parimenti fondamentale, un fatto in mancanza del quale la morale si ridurrebbe alla semplice comunicazione priva di ricerca, statica e accentrata sulla mera vicenda. Un fatto che toglierebbe al Fidelio la sua potenza di opera «morale» per rivestirla della qualifica di opera moralistica.
Non si contano, nell'opera di Thomas Mann, i riferimenti al Fidelio; e il fatto che sia, questa, un'opera della «libertà», non basta a giustificare tanto entusiasmo. Il concetto va approfondito quel tanto che basta a renderlo capace di centrare le ragioni intime di tale libertà: la libertà come movimento, la libertà da individuarsi e da conquistarsi, la libertà dialettica. Quando Thomas Mann scriveva il Doctor Faustus, il nazismo imperversava: e nazismo significò abolizione della dialettica, sviluppo - negatorio di tutte le modalità che avevano condizionato la storia dello spirito tedesco - di un qualcosa individuato e mai più messo in discussione. Per l'esule d'oltre Oceano, l'ethos di Beethoven applicato, nella sua apodittica chiarezza, a moduli che hanno sempre fatto fremere d'orgoglio l'uomo tedesco partecipe della vita interiore ed esteriore della sua Nazione, doveva rappresentare l'ideale di cammino non solo intrapreso con divina potenza e congruenza, ma ancor non distrutto dallo scetticismo minatorio di tutte le basi della cultura posteriore, dallo scetticismo emerso, dalle rovine del romanticismo, a colpire con una piccola, invisibile quasi, ma profonda incrinatura l'edificio dell'ultimo costruttore del e dal romanticismo.
Gianfranco Zaccaro
("Disclub" 6, anno II, aprile 1964)