Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, settembre 30, 2012

Monteverdi: "Il Settimo Libro de' Madrigali" (1619)

Annibale Carracci
A Bacchante (dettaglio)
Pubblicato a Venezia nel 1619, dopo cinque anni dalla stampa del Sesto Libro, il "CONCERTO” (come Claudio Monteverdi intitola il suo Settimo Libro de’ Madrigali) venne edito a Venezia dallo stampatore Bartolomeo Magni. Aprendo il libro, accanto ad un sonetto d’un anonimo ammiratore del musicista (Sul MONTE, che da terra al cielo asceso), Monteverdi pone un’interessante dedica a Caterina de’ Medici (1593- 1629), figlia di una delle più importanti famiglie italiane che regnavano su Firenze e nipote della ben più famosa e controversa Caterina de’ Medici, regina di Francia. Con uno stile da devoto cortigiano, dedicando il libro alla sposa di Ferdinando Gonzaga principe del ducato di Mantova (città italiana che così spesso abbiamo nominato nelle precedenti pubblicazioni monteverdiane), egli tenta di tenere i rapporti con quel capoluogo che tanto aveva amato e contemporaneamente odiato, perchè mai gli aveva riconosciuto quegli onori di musicista già famoso in tutta Europa. Nel 1614, Monteverdi aveva abbandonato Mantova per Venezia (dove rimarrà fino alla morte): non è casuale che proprio in quell’anno ci offra il Sesto Libro, quello dedicato al tema dell’addio, della separazione. Sia che si tratti d’abbandono narrato (quello provato dai personaggi narranti), che di doloroso commiato fisico, in quella stampa il divino Claudio ci ha offerto un ultimo, definitivo, sofferente e sublime tributo a quel modo di comporre Madrigali che fu fonte di tante sue precedenti opere d’arte. Monteverdi non dimenticherà mai Mantova e i Gonzaga, come mai dimenticherà il Madrigale in quella forma a cinque voci che lo rese unico nel panorama della storia della musica. A quel tempo Venezia era la città dell’innovazione, centro d’una nuova concezione del potere politico, la Repubblica: La Serenissima (com’era definita la città lagunare e il suo potere territoriale) non si assoggettava ad un duca o un principe, ma viveva in piena libertà e autonomia sia politica che religiosa. La Basilica di San Marco, per esempio, aveva un’indipendenza liturgica da Roma e il Patriarca (la figura religiosa più importante della città, più del vescovo nominato da Roma) non era nominato dal papa ma direttamente dal Doge e dal Maggior Consiglio. Abbracciando questa città, Monteverdi abbraccia una diversa concezione culturale, in una direzione di totale rinnovamento compositivo, lontano dalla corte, dal giogo cortigiano e dalla sudditanza al principe.
Il duca Ferdinando Gonzaga appare solo di sfuggita nella dedica del Settimo Libro: tutta l’attenzione è rivolta alla moglie Caterina. Il duca era presumibilmente in collera per la decisione del compositore di lasciare la città (ricordiamo che significativamente il Sesto Libro è l’unico che fu pubblicato senza dedica: come accettare una pubblicazione d’addio?) ma, in quel momento, Monteverdi non era certamente una priorità per lui. Ferdinando ereditava, infatti, una fragile situazione finanziaria che egli stesso aggravò con vita e scelte politiche sbagliate: fu questa circostanza a costringerlo a svendere una delle più sfarzose collezioni d’opere d’arte (la celeberrima Celeste Galeria che compendeva opere di Bruegel, Cranach, Dürer, Mantegna,Tiziano, Rubens, Giulio Romano, Tintoretto, Reni, Correggio, Veronese, oggi sparse nei più importanti musei del mondo). Monteverdi spera di mantenere i rapporti con Mantova attraverso la dedica del Settimo Libro: “questi miei componimenti saranno pubblico et autentico testimonio del mio devoto affetto verso la casa Gonzaga, da me servita con ogni fedeltà per decine d’anni”. La decisione di volgere al nuovo e alla Serenissima Repubblica di Venezia, è però irrevocabile: morto, nel 1619, il musicista ufficiale della corte dei Gonzaga (ricordiamo che mai Monteverdi ebbe questa carica ufficiosa), il compositore fu richiamato al servizio del duca, ma egli eluse l'invito con alte richieste economiche. La considerazione in cui era tenuto il suo lavoro, il buon stipendio percepito (“non vivo ricco no, ma non vivo neanche povero” scriverà a Striggio nel 1627), il fatto di trovarsi alle dipendenze d’una istituzione solida e non soggetta agli umori volubili d’un duca, lo portarono a rifiutare quel passato a corte, conservando il nuovo “servitio dolcissimo” e la carica di Maestro di Cappella della Serenissima Repubblica (così si definisce nel frontespizio del libro) nella Basilica Palatina di San Marco di Venezia (che, ricordiamo, non era un duomo ubbidiente a Roma, ma la chiesa di palazzo, la cappella ufficiale delle liturgie religiose della Repubblica).
Questa nuova condizione, unitamente alla sua naturale propensione per ricercare e sperimentare nuovi percorsi compositivi, lo porta a pubblicare un libro in netta rottura con le precedenti pubblicazioni: qui il madrigale è trasformato o, forse, sarebbe meglio dire totalmente scomparso nella forma alla quale siamo stati abituati a riconoscerlo fino a questo punto. In trentadue composizioni (anche questa una novità in quanto tradizionalmente i libri precedenti raccoglievano dai diciotto ai ventun brani al massimo) non viene incluso nemmeno un madrigale a cinque voci, ma solo brani da una a quattro voci (ben quindici sono “a due”) tutti con basso continuo, alcuni concertati con violini, unitamente a brani che potremmo dire “sperimentali” perchè non assimilabili alla forma tradizionale del madrigale. Proprio per quest’eterogenea varietà d’opere Monteverdi impone il titolo di “CONCERTO”, termine ricco di qualità, programma stilistico che addita maniere di contrasti entro l’andare concorde delle parti e confronti fra voci e strumenti. Non ancora l’esecuzione dinnanzi a un’adunanza. Eppure v’è un’interna disposizione dei pezzi calcolata nel libro, bilanciata (Claudio Gallico: Monteverdi, 1979).
Proprio la disposizione dei brani, in questo libro, ha creato molte contraddittorietà tra gli studiosi ed esecutori, offrendone diverse soluzioni: alcuni esecutori sconvolgono quest’ordine (Cavina); altri musicologi (tra cui Malipiero e tutti quelli che lavorano sulla sua trascrizione) rispettano la stampa del basso continuo che (per ragioni di mera grafica editoriale) pone il brano Non è di gentil core come secondo anzichè terzo (come è invece segnato in tutte le altre parti vocali e strumentali). Non ritengo sia solo una pura discussione accademica rispettare il pensiero monteverdiano, in quanto ritengo che l’ordinamento voluto dall’autore sia fondamentale per comprenderne questa “disposizione calcolata e bilanciata”. Come avevamo già riscontrato in tutti i libri precedenti, i brani si susseguono con una precisa razionalità tutta da osservare e rispettare, perchè oltre ad aderire ad un criterio di crescente compagine vocale (ordinata secondo precise estensioni vocali), il libro si presenta come una specie d’opera lirica, unitaria, che dal prologo iniziale (colpo di genio dell’autore) seguito dal “coro” d’apertura, va man mano dipanandosi in scene a duetto e terzetto che dipingono situazioni con diverso carattere amoroso fino all’esodo gioioso e “corale” del ballo finale. Tradire questa sequenza di brani (recuperati grazie ad una nuova edizione critica completa, espressamente edita per questa incisione discografica) sarebbe assimilabile ad un arbitrario smarrimento della concatenazione narrativa d’un dramma lirico, ben studiato a tavolino dall’autore, che alterna momenti di fasto sonoro a momenti di solitario ripensamento, dalla gioia al dramma, dall’erotismo alla preghiera.
L’apertura del libro è affidata ad una Simphonia strumentale (assimilabile ad una “Sinfonia avanti il levar de la tela”) che ingloba i bellissimi versi di Giambattista Marino, Tempro la cetra tratti da La Lira, una raccolta di componimenti delle Rime, pubblicate tra il 1602 e il 1614. Oltre ad una mera introduzione, quest’apertura è assimilabile ad un vero prologo di un’opera secentesca, affidata alla voce sola, che spiega al pubblico lo spirito e l’argomento del libro (come, ad esempio, avviene nel prologo affidato alla Musica nel precedente Orfeo, 1607). Come in un madrigale (e forse proprio per questo possiamo definirlo ancora un madrigale) le note si assoggettano al significato delle parole, abbandonandosi a madrigalismi che lanciano in note acute le parole alzo talor lo stil, fiorendo di semicrome e abbellimenti le parole e pur tra’ fiori, rallentando fingendo d’addormentarsi nei versi conclusivi in grembo a Citerea, dorma al tuo canto. Il risveglio (prima della conclusione finale che ci riporta alla sinfonia iniziale variata) è una gioiosa danza che sembra riservata ad un abile gruppo di danzatori. Nell’edizione di Malipiero del 1932 (unica trascrizione per ora in commercio) troviamo in questo brano alcuni errori che sono stati corretti nella nostra edizione: oltre all’omissione d’alcuni abbellimenti originali, menzioniamo il testo erroneo de la lira sublime (l’originale è: de la tromba sublime), le diverse legature di valore sparite nell’edizione del ’32 (la più percepibile, anche ad un ascolto distratto, è l’ultima nota finale del violino secondo), errori di note nelle parti interne strumentali. Esattamente come avviene per la prima composizione, anche tutti gli altri brani del libro hanno subìto una totale revisione critica che confronta la prima edizione del 1619 con le successive ristampe (del 1622, 1623, 1628, 1641) e successivamente confronta i testi con quelli delle pubblicazioni letterarie originali: molto spesso accade di notare delle discresie tra le versioni che a volte ne alterano la musica, a volte il significato testuale. Nel finale del brano successivo abbiamo una di queste distorsioni. Operando una collazione dei testi, notiamo che le parole assegnate alle parti vocali terminano con due diverse versioni: de l’antiche dolcezze ancor gli honori oppure ...ancor gli humori mentre il testo originale di Marino è ...ancor gli odori. Quest’ultima probabilmente è la versione corretta (le altre hanno solo un’assonanza musicale ma non semantica): una dell’essenziali tematiche del Settimo Libro è proprio quella del “profumo”. Questo tema lo troviamo anche nei brani Vaga su spina ascosa (dove si invocano le primaverili Ninfe de gli odori e in Con che soavità (12 del 2° cd) in cui Guarini cita le amate labbra odorate. Quest’ultimo brano, insieme al secondo, meritano la nostra attenzione: sono due brani in cui gli strumenti concertano, dialogando, con le voci. A quest’olmo è un madrigale a sei voci, con basso continuo, due violini e due flauti obbligati (cioè Monteverdi stesso scrive che desidera questi strumenti segnandoli sulla parte, cosa abbastanza rara in un epoca in cui si scrivevano linee melodiche che venivano poi assegnate agli strumenti che erano reperibili per una specifica esecuzione). Deducendo che il compositore avesse a disposizione due bravi flautisti, abbiamo ampliato l’organico strumentale del libro anche a questi due strumenti, alternandosi ai violini (come in questo secondo madrigale), nel primo brano e nel Ballo finale, ottenendo quella varietà timbrica desiderata da Monteverdi nel secondo brano.
Con che soavità, contrariamente a quanto si possa pensare, non è un madrigale a voce sola accompagnata da strumenti ma un brano a dieci voci, divise in tre cori, di cui una sola linea è cantata, mentre le altre voci sono affidate a strumenti anzichè a cantanti. Questa idea policorale, omaggio ad una concezione tutta veneziana di comporre (ricordiamo i brani di Gabrieli), sottintende un testo che è rivelatore d’un importante svolta concettuale e musicale. I versi di Marino, infatti, antepongono le parole ai baci, in quanto escludono l’uno irrimediabilmente l’altro (s’ancidono fra lor): è l’eterno conflitto fra la razionalità e la passione. Sarebbe bello che queste due parti dell’animo umano si unissero e creassero armonia nel rapporto amoroso come nel nostro vivere quotidiano; purtroppo questo non può avvenire. Monteverdi materializza musicalmente questo pensiero ponendo la voce sola (non polifonia, ma voce sola accompagnata solo dal suo basso continuo) in mezzo ai due concetti (la razionalità e la passione) materializzati dai due cori di strumenti asemantici, senza testo. I due cori sono oltremodo antitetici perchè l’autore scrive che devono essere composti da un gruppo di viole da gamba (con organo come basso) e un gruppo di strumenti da braccio ossia un quartetto d’archi “moderno” (con il clavicembalo). L’uomo sogna l’armonia ma nella realtà deve scegliere fra baci e parole, fra istinto e lucidità, sperando d’unirli ma sapendo già che la vittoria d’uno conduce alla morte dell’altro (Che soave armonia fareste, o dolci baci, o cari detti, se foste unitamente d’ambedue le dolcezze ambo capaci). Sotto le righe, in questo preciso momento storico, Monteverdi ci sta dicendo che sarebbe bello che il mondo antico (il coro di viole da gamba e tutto ciò ad esso congiunto) vivesse in armonia con il nuovo (il quartetto d’archi), ma la risposta è fatale: da questo madrigale in poi “l’antico” sparirà e il “nuovo” procederà irrimediabilmente. Mai più, da questo momento, troveremo le viole da gamba (ricordiamo che Monteverdi era entrato in contatto con la corte dei Gonzaga presentandosi come violista) che cederanno il passo ai violini (e il violoncello, considerato un violino da braccio bassa); mai più Monteverdi ritornerà a comporre il madrigale a cinque voci; mai più egli ritornerà a Mantova. Sarebbe bello che tutto si conciliasse, ma il cammino verso l’epoca moderna travolge il mondo antico: questo brano segna concettualmente il preciso punto di cambiamento storico.
La Lettera amorosa e la Partenza amorosa sono due monologhi dedicati rispettivamente ad una voce acuta e ad una voce media (tenore o baritono): entrambi, dopo il titolo originale apposto dal compositore, recano la dicitura a voce sola in genere rappresentativo et si canta senza battuta. Come scrivevo nella pubblicazione del Sesto Libro riguardo al solistico Lamento d’Arianna, il significato della dicitura apposta da Monteverdi pone al cantante il problema interpretativo della rappresentazione del brano che non significa indossare costumi per divenire il personaggio, ma quanto “essere” quel personaggio: in quel momento (e per momentanea finzione teatrale) egli vive tangibilmente quelle situazioni coinvolgendone il pubblico. La seconda indicazione cantar senza battuta, “non presenta particolari problemi, riferendosi trasparentemente alla necessità di una declamazione che fuggisse agni rigidità ritmica in favore di una scioltezza recitativa governata dai soli metri dell’ “oratione” e dell’ “affetto” (P. Fabbri: Monteverdi, 1985).
Per favorire tale scioltezza, parte del basso continuo è scritta (per la prima volta nelle edizioni di Monteverdi) “in partitura” cioè sovrapponendo la linea del cantante a quella dello strumento che la accompagna favorendone la coordinazione e la libertà interpretativa. Molti musicologi ed interpreti giustificavano la scelta monteverdiana della voce acuta per la Lettera amorosa, immaginando fosse letta dall’amata che riceve lo scritto. Siamo d’opinione contraria proprio perchè il titolo del poeta Claudio Achillini non lascia dubbi: Cavaliere impaziente delle tardate nozze, scrive alla sua bellissima sposa questa lettera. Ancora una volta, abbiamo un argomento a difesa della nostra ponderata scelta d’utilizzo delle voci maschili nelle tessiture acute, già difesa nelle precedenti pubblicazioni.
I duetti che compongono questo Libro mostrano la grande novità: scene teatrali amorose, dolci o buffe (Io son pur vezzosetta o Dice la mia bellissima Licori, si alternano a momenti di disperata espressività ed intensità. Fra questi S’el vostro cor, madonna e Interrotte speranze traducono l’intensità che riesce ad irrompere da un organico così ristretto. Dramma privato e cuore sofferente del libro, i due madrigali mostrano quella sapienza monteverdiana (frutto della Seconda prattica) di creare pathos, emozione, turbamento, commozione. L’unisono iniziale di Interrotte speranze che sfocia in dissonanza è un’elaborazione degli esperimenti ascoltati nel Quarto Libro nel madrigale Ah, dolente partita; il cromatismo di S’el vostro cor, madonna condurrà ad esiti fonici inaspettati.
Nel “Concerto” una particolare attenzione, anche numerica, è rivolta ai componimenti poetici dedicati al tema erotico del “bacio” scritti da Giambattista Marino nelle Rime amorose: Vorrei baciarti, o Filli (con il titolo originale letterario: Bacio in dubbio), Perchè fuggi (Bacio involato), Tornate, o cari baci (Baci cari) e il geniale e malizioso terzetto Eccomi pronta ai baci (Bacio mordace). L’estremismo, invece, è testato in Parlo, miser, o taccio, a tre voci, dove le possibilità vocali dei cantanti sono messe a dura prova da tessiture dilatate sia nell’acuto che nel grave (più di due ottave d’estensione sono vocalmente necessarie al basso per l’esecuzione di questo brano: forse un omaggio al celebre cantante estense Giulio Cesare Brancaccio) che rendono musicalmente le estremismi concettuali e i contrasti delle parole.
Conclude il libro il Ballo Tirsi e Clori che, conformandosi al Libro che ha in maggioranza madrigali a due voci, inizia proprio con un dolcissimo duetto tra due pastori. Caratteri diversissimi si avvicendano solisticamente concludendo con un duetto: in un ritmo ternario, di danza, Tirsi vorrebbe trascinare l’amata Clori alla gioia e ai piaceri della danza, ma timidezza e ritrosia femminile (musicalmente visualizzata da una libertà recitativa offerta dal tempo binario) frenano lo slancio passionale del pastore. Il duetto finale è simbolo dell’unione fra i due amanti che, placata ogni renitenza, sfocia poi nella gioia corale della danza trascinando altre voci e strumenti in una profusione d’alternanze ritmiche d’eterogenee atmosfere. Molte testimonianze, attestano che il Ballo fu composto da Monteverdi e da Striggio (stilisticamente l’autore del testo) per l’incoronazione del Duca Ferdinando Gonzaga nel febbraio 1616. Una lettera autografa ci offre una bella testimonianza di quello che Monteverdi stesso desiderava in quell’occasione: giudicherei per bene che fosse concertato in mezza luna, su li angoli della quale fosse posto un chitarrone et un clavicembalo per banda, sonando il basso l’uno a Clori et l’altro a Tirsi, et che anch’essi avessero un chitarrone in mano sonandolo et cantando loro medesimi nel suo et li detti duoi ustrimenti. Se vi fosse un arpa in loco del chitarrone a Clori sarebbe anco meglio, et gionti al tempo del ballo dopo dialogati che averanno insieme, giongere al ballo sei altre voci per essere ad otto voci, otto viole da braccio, un contrabasso, una spineta a spata. Se vi fossero anco duoi leuttini piccioli sarebbe bene. La volontà di differenziare i due protagonisti è chiarissima sia nella disposizione scenica (devono stare ai due lati opposti della scena) che nella caratterizzazione timbrica degli strumenti che li accompagnano (Tirsi, clavicembalo e chitarrone in mano; Clori, chitarrone o meglio l’arpa). E’ facile notare come il brano descritto ha alcune differenze sostanziali nell’organico (nel ballo finale cita otto voci accompagnate da otto archi e contrabbasso e bc, rispetto alle sole cinque voci del Settimo Libro), ma sappiamo come Monteverdi adattasse le proprie musiche alle varie occasioni e ai vari organici disponibili. Per ricordare questa bramata opulenza strumentale, nella nostra versione, raddoppiamo le cinque linee vocali del finale con violini, viole (da gamba e da braccio), violoncello, contrabbasso, flauti, percussioni e tutti gli strumenti di continuo usati nei precedenti madrigali: questo contrasta felicemente con l’arpa sola che accompagna Clori e il clavicembalo, la viola da gamba e la chitarra barocca che immaginiamo suonata dalle stesse mani da Tirsi.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.555314-16)

Nessun commento: