
Tre anni dopo il suo precedente lavoro dedicato alla più alta  forma di sperimentazione linguistica e musicale del rinascimento, Claudio  Monteverdi pubblica a Venezia il suo Secondo Libro de’ Madrigali nel 1590  dall’editore Angelo Gardano. A ventidue anni, dalla sua città natale di Cremona,  dichiarandosi ancora discepolo di M.A. Ingenieri, offre il lavoro ad un  importante personaggio milanese: il senatore G.Ricardi. Non è chiaro se il  musicista tenta di ottenere servizio in questa città, che l’aveva apprezzato per  le doti di violista, o se offre il proprio lavoro quale ringraziamento di una  plausibile raccomandazione alla rinomata corte mantovana dei Gonzaga che,  proprio in quel momento (1589/90), lo assume proprio come strumentista di  “vihuola”. Probabilmente Monteverdi aveva tentato più volte di entrare in  contatto con la vicina e prestigiosa Mantova: la massiccia presenza in questo  Secondo Libro di opere di Torquato Tasso, quel “poeta maledetto” tanto amato  dagli Estensi di Ferrara come dai vicini Gonzaga, può essere testimonianza di un  lento lavoro di avvicinamento a quella corte che più coltivava e apprezzava il  madrigale quale il simbolo della sintesi tra arti e frutto della raffinata  cultura aristocratica.
Rispetto al Primo Libro i brani abbandonano  quasi totalmente quella tipica costruzione ripetitiva tipica della seconda parte  della composizione, ricorrendo sempre più a quella “forma senza forma” che si  forgia sulla lirica testuale da cui prende ispirazione e sostegno.   Le scelte poetiche e le immagini  privilegiano qui i due temi cari alla cultura di corte: l’amore e la natura. Se  il primo argomento era già stato ampiamente accolto dal compositore e dalla  cultura musicale del tempo, notiamo viceversa che la natura nel suo apparire  alternativamente vivida, dolce ma anche prorompente e accesa, offre all’autore  ampi spazi a descrizioni musicali e alla pittura sonora tipici di quest’opera.  Nel momento estatico di contemplazione della natura fatta d’eventi visivi, suoni  e di rumori, si colloca il sentimento dei protagonisti che, alternativamente, si  accosta in similitudine o si contrappone in contrasto alla serenità offerta da  tale spettacolo.
Esemplare è Non si levav’ancor, composto in due parti,  sicuramente uno dei brani più celebri e studiati non solo di questo libro ma del  repertorio madrigalistico in genere. La musica parte sommessa descrivendo una  natura ancora addormentata, ove le immagini imminenti ma non ancora avvenute  (anzi negate: non si levava - né spiegavan – ma fiammeggiava) dell’alba, degli  uccelli ancora rintanati nei nidi e la presenza della luce ancora sfavillante  della stella di Venere, celano i protagonisti ai quali lentamente (come uno zoom  cinematografico) dedichiamo la nostra attenzione: due amanti devono separarsi,  dopo una lieta notte trascorsa insieme. Questo sprigiona in loro mille  contrastanti slanci: baci, pianti e sospiri. Questi sentimenti nella seconda  parte si trasformano sempre più in vive sofferenze: la natura effettivamente  si sveglia, condannando la loro separazione. La musica segue questo divenire con  il madrigalismo, cioè con l’utilizzo di quei procedimenti visivi nella scrittura  musicale che disegna la parola testuale con immagini sullo spartito e nella  musica: i duo vaghi amanti divengono due sole voci, il fiammeggiare di Venere un  tema brillante e fugace seguito da quello dolce amoroso, il librarsi degli  uccelli in volo una voluta di note, la felice notte un tema danzante, i sospiri  un tema interrotto, i pianti e la sofferenza della partita (cioè quella  separazione che per i due amanti è simile alla morte) armonie dissonanti  durissime e salti melodici che ancor oggi colpiscono per la loro ardita  efficacia. Soprattutto qui colpiscono i silenzi, tradotti in pause musicali che  Monteverdi desidera elevare d’ora in poi a momenti di massima espressività.  Geniale, inoltre, la presenza del tema iniziale che, stemperando ad arcata verso  l’alto le note a similitudine dell’alba, ritorna come un refrain al termine  della prima parte del brano e anche nella seconda, quando l’apparire del sole  tanto previsto quanto indesiderato, condanna i due amanti alla dolorosa  successiva separazione.
La natura con i suoi movimenti, rumori, colori, è ancora  protagonista (ma questa volta assoluta, senza personaggi) in Ecco mormorar  l’onde, capolavoro di grande freschezza e maestria: la natura assonnata si  risveglia all’alba, percorsa da un fremito di vita che, partendo dalle voci più  scure in tessitura grave, si dipana lentamente verso zone acute ad imitazione  del cinguettio degli uccelli. Questi, dal buio iniziale, annunciano la  trionfante entrata del sole (ad imitazione d’una fanfara) che illumina il mare e  le montagne, percorrendole con leggere vampate di vento (suggerite in musica da  folate di note che si rincorrono nelle varie voci). Raramente troveremo in altri  madrigali una simile capacità evocativa di situazioni scenico-visive così  puntuale, raffinata ed efficace.
Insieme a quest’ultimo madrigale, altri due costituiscono un  prezioso trittico sulle Rime che Tasso pubblica tra il 1586 e 1587: Dolcemente  dormiva e Mentr’io mirava fiso. Le tre composizioni, non casualmente poste  dall’autore al centro del Libro, iniziano con una specie di recitativo, una nota  ribattuta a voce sola poi ripresa a tre voci, sfociando in una meravigliosa  fusione tra contrappunti e armonie, in variati impasti timbrici, in una sapiente  ispirazione musicale che sottolinea ed esplica perfettamente il testo scherzoso  e spesso malizioso. Nel primo le fermate riflessive e le rapide melodie che  segnano il turbinoso apparire degli amorini, sottolineano i sentimenti  contrastanti di desiderio e timidezza d’un amante verso la propria amata. Un  meraviglioso episodio centrale, che è sicuramente qualcosa di più di un semplice  madrigalismo, descrive musicalmente il suo lento e pavido chinarsi sulla bocca:  al progressivo scendere della melodia in zona grave (come una pittura in  movimento), contrasterà la successiva scala ascendente verso la sensazione di  paradiso che offrono il contatto sensuale delle loro labbra.
Molte altre le scene amorose (o anche erotiche) presenti nel  libro: a cominciare da Quell’ombra fino a Intorno a due vermiglie, da Non  son in queste rive fino a Tutte le bocche belle. Tali cospicue presenze ci  incoraggiano ad insistere nell’ipotesi che Monteverdi ambisse a quella corte del  Duca Gonzaga di Mantova che amava così tanto tale argomento da far costruire un  Palazzo dedicato all’ozio e al piacere ricco d’affreschi a tema: il Palazzo Te.  Sempre in ambito amoroso e ironico, troviamo Mentr’io mirava fiso, capolavoro  assoluto di contrappunto: un velocissimo turbinio di testi e melodie  sovrapposte, ma anche contrapposte, che ben dipinge la confusione e stordimento  provocato da Amore. All’uomo colpito dalle frecce di Cupido (in questo caso dai  due vaghi spiritelli) non resta altro che arrendersi ed abbandonarsi alle grida  disperate d’aiuto che, nella seconda parte del madrigale, si concretizzano in  melodie a valori lenti sovrapposte, costruttive d’armonie verticali dissonanti  (a contrasto con la prima parte viceversa molto orizzontale) di grande efficacia  sonora. Tale procedimento si ritrova anche in Non m’è grave‘l morire, dove la  seconda parte colpisce per il lento procedere di affascinanti armonie sulle  parole lagrimar per pietà, dopo una prima parte orizzontale (con inizio in stile  recitativo su una sola nota) e una seconda riflessiva dove grappoli di voci si  muovono verticalmente con lo stesso ritmo e testo. S’andasse Amor a caccia è  un bell’affresco che ci coinvolge nella descrizione dell’avventuroso cavalcare  della caccia , dei richiami e dei suoni tipici di quest’avvenimento della corte  rinascimentale.
Conclude il Libro, Cantai un tempo un madrigale “antico”  sia per il procedimento compositivo molto arcaico che per l’autore del testo. Un  intero brano dedicato al madrigalismo visto che “il deliberato stile arcaizzante  d’imitazione mottettistica, i melismi lussureggianti e il flusso non interrotto  delle cinque voci, quasi alla maniera di C.de Rore del 1542 o di  Willaert” (A.Einstein: The Italian Madrigal, 1949) ci mostra come il compositore  conosca e parta dal passato per costruire, già in questo Libro, qualcosa di  assolutamente nuovo. Tanto più questo madrigale, non casualmente posto in  posizione privilegiata al termine del Libro, canterà come un tempo passato  oramai trascorso, lontano, perduto, tanto più appariranno assolutamente  innovativi i procedimenti compositivi che Claudio Monteverdi da questo momento  in poi amerà sperimentare conducendo la musica verso una nuova epoca, quella  moderna.
Scelte esecutive e interpretative
La prima stampa del Secondo Libro ci rimane purtroppo in una  versione incompleta che solo grazie alle due successive ristampe del 1607 e del  1621, riusciamo fortunatamente a completare. La prima edizione si differenzia  però per la diversa successione dei brani che, per ragioni tipografiche, scambia  quattro dei madrigali centrali: fedeli all’intenzione e alla stampa curata  dall’autore, abbiamo preferito ripristinare l’ordine originale (riproposta  modernamente solo nell’edizione della Fondazione C. Monteverdi, Cremona  1979).
Coerentemente alle scelte interpretative già enunciate e  giustificate nel precedente disco (Naxos 8.555307), continuamo a prediligere  l’esecuzione con basso seguente, temperamento mesotonico e voci maschili: dai  controtenori nelle linee acute di cantus, scendendo gradualmente ai tenori,  baritono e basso si ha un amalgama timbrico molto affascinante, del tutto  inedito per i madrigali monteverdiani. Sappiamo che le voci femminili cantavano  la musica profana (e solo quella) nelle corti italiane, ma riteniamo che tale  testimonianza possa essere intesa più come eccezione che come regola: comunque,  con fedeltà filologica, desideriamo offrire un’interessante alternativa alle  esecuzioni registrate in passato. In omaggio agli apprezzamenti offerti a  Monteverdi quale violista proprio nell’anno della pubblicazione di questo libro,  inseriamo nell’organico tale strumento: recenti studi di James Bates Italian  Viola da Gamba (Solignac-Torino 2002), confermano la maestria e il costante uso  di tale strumento da parte del compositore.
Rispetto al Primo, il Secondo Libro offre meno alternative  interpretative riguardo le cadenze e la cosiddetta musica ficta, per la maggior  chiarezza di scrittura ricercata dall’autore, ma offre sempre più problematiche  riguardo l’espressività vocale. Sfruttando l’approfondimento testuale e la  nostra naturale sensibilità “tutta italiana”, tentiamo di attuare i precetti  interpretativi suggeriti da Nicola Vicentino, già noti nel 1555: “si dè cantare  le parole conformi all’oppinione del compositore, et con la voce esprimere  quelle intonazioni accompagnate dalle parole con quelle passioni ora allegre ora  meste et quando soavi, et quando crudeli, et con gli accenti aderire alla  pronunzia delle parole et delle note (…) Si usa un certo ordine di procedere,  nelle composizioni che non si può scrivere, come sono il dir piano et forte, et  il dir presto e tardo, et secondo le parole muovere la misura per dimostrare gli  effetti delle passioni delle parole et dell’armonia”.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.555308)
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