
da Musica Viva (Anno VI n.1, gennaio 1982)
"...avec l'Art de la Fugue commence l'existence véritable de la musique." (Hermann Scherchen)

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| Anner Bylsma |




Biografia di Gianni Brera
Nato l'8 settembre del 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, da Carlo e da Marietta Ghisoni, Gianni Brera è stato probabilmente il più grande giornalista sportivo che l'Italia abbia avuto.
Lasciato il paese natale a quattordici anni per trasferirsi a Milano presso la sorella Alice (di professione maestra), e iscriversi al liceo scientifico, giocò a calcio nelle squadre giovanili del Milan, sotto la guida dell'allenatore Cina Bonazzoni, e fu un promettente centromediano. Ma la passione calcistica gli faceva trascurare gli studi, così il padre e la sorella gli imposero di smettere di giocare e di spostarsi a Pavia, dove terminò il liceo e si iscrisse all'Università.
Nel 1940 il ventenne Gianni Brera frequenta dunque Scienze politiche a Pavia, svolgendo vari lavori allo scopo di pagarsi gli studi (la famiglia di origine era molto povera). Non fa in tempo a laurearsi che scoppia la seconda guerra mondiale. Costretto a partire soldato, diventa prima ufficiale e poi paracadutista, scrivendo in questa veste alcuni memorabili articoli per diversi giornali di provincia.
In questo modo ha comunque l'opportunità di crescere professionalmente. Notata negli ambienti del giornalismo la sua bravura, viene chiamato per alcune collaborazioni giornalistiche al "Popolo d'Italia" e il "Resto del Carlino", testate decisamente importanti anche se controllati dal regime fascista. E Brera, non bisogna dimenticarlo, fu sempre un fervente antifascista. Il suo disagio all'interno delle redazioni, dunque, è forte e palese. E lo diventa ancora di più quando, fra il 1942 e il 1943 le operazioni militari intraprese dal regime cominciano ad andare decisamente male.
In quei due anni nella sua vita avvengono diverse cose: muoiono la madre e il padre, lui si laurea (con una tesi su Tommaso Moro), e in seguito si sposa. Inoltre, parte per la capitale per assumere il ruolo di redattore capo di "Folgore", la rivista ufficiale dei paracadutisti. A Roma fa, secondo le parole che userà alla fine della guerra in una memoria, "il vero e proprio comunista in bluff. Il teorico, il poveraccio che non era in contatto con nessuno".
Intanto, in Italia gli oppositori del regime vanno organizzandosi sempre meglio facendo un lista sempre più nutrita di proseliti. Qualche esponente della resistenza contatta anche Brera che, dopo non poche esitazioni, decide di collaborare. A Milano partecipa con il fratello Franco alla sparatoria della stazione Centrale, uno dei primi atti di resistenza contro i tedeschi. Insieme catturano un soldato della Wehrmacht, e lo consegnano ad altri estemporanei ribelli, i quali prendono il soldato a pugni e calci. Ma, racconta Brera, "non volli lo uccidessero". Segue qualche mese di clandestinità. Brera si nasconde, a Milano presso la suocera, a Valbrona dalla cognata. Di tanto in tanto va a Pavia, a trovare l'amico Zampieri, l'unico traballante contatto che ha con le organizzazioni clandestine. In piena resistenza, però, parteciperà attivamente alla lotta partigiana in Val d'Ossola.
Il 2 luglio del '45, a guerra finita, riprende l'attività di giornalista per la "Gazzetta dello Sport", dopo la soppressione del giornale da parte del regime fascista, avvenuta due anni prima. In pochi giorni comincia a organizzare il Giro d'Italia di ciclismo, che avrebbe preso l'avvio nel maggio successivo. Doveva essere il Giro della rinascita, il ritorno del Paese alla vita dopo i tragici avvenimenti bellici. Direttore del giornale era Bruno Roghi, dalla prosa dannunziana. Tra i giornalisti Giorgio Fattori, Luigi Gianoli, Mario Fossati e Gianni Brera, che fu nominato responsabile del settore atletica leggera.
Occuparsi di questo sport lo indusse a studiare a fondo i meccanismi neuro-muscolari e psicologici del corpo umano. Le competenze così acquisite, unite a un linguaggio fantasioso e geniale, avrebbero contribuito a sviluppare la sua straordinaria capacità di raccontare il gesto sportivo con passione e trasporto.
Nel 1949 scrisse il saggio "Atletica leggera, scienza e poesia dell'orgoglio fisico". Nello stesso anno, dopo essere stato corrispondente da Parigi e inviato per la Gazzetta alle Olimpiadi di Londra del '48, fu nominato, a soli trent'anni, condirettore del giornale assieme a Giuseppe Ambrosini. In tale veste assisté alle Olimpiadi di Helsinki del '52, tra le più belle del secondo dopoguerra, dominate nel calcio dall'Ungheria di Puskas e nell'atletica dal ceco Zatopek, che vinse una gara memorabile nei cinquemila metri, stabilendo il record del mondo. Sebbene avesse ereditato dal padre le idee socialiste, Gianni Brera esaltò l'impresa di Zatopek per ragioni tutte sportive, con un titolo in prima pagina a nove colonne. Questo gli attirò, nel clima politico di allora, l'ostilità degli editori, i Crespi, contrariati che si fosse dato tanto risalto alle prodezze di un comunista.
Nel 1954, dopo aver scritto un articolo poco compiacente sulla regina britannica Elisabetta II, provocando una polemica, Gianni Brera si dimise, con una decisione irrevocabile, dalla Gazzetta. Un suo collega ed amico, Angelo Rovelli, così commenta la direzione breriana del mitico giornale rosa: "Va pur detto che dirigere, nel senso che definirei tecnico o strutturale, non era nelle sue corde. La "vecchia" Gazzetta esigeva modelli avveniristici, riconversioni, rinnovamenti. Gianni Brera era giornalista-scrittore, nel significato e nella personificazione del termine, le sue aspirazioni non coincidevano con un futuro tecnologico".
Lasciata la Gazzetta, Brera compì un viaggio negli Stati Uniti e al suo ritorno fondò un settimanale sportivo, "Sport giallo". Di lì a poco Gaetano Baldacci lo chiamò al "Giorno", il giornale appena creato da Enrico Mattei, per assumere la direzione dei servizi sportivi. Iniziava un'avventura che avrebbe cambiato il giornalismo italiano. Il "Giorno" si distinse subito per l'anticonformismo, non solo politico (il fondatore Mattei, presidente dell'ENI, auspicava un'apertura a sinistra che rompesse il monopolio della Democrazia Cristiana e favorisse l'intervento statale in economia). Nuovi erano infatti lo stile e il linguaggio, più vicini al parlare quotidiano, e l'attenzione dedicata ai fatti di costume, al cinema, alla televisione. Grande, inoltre, lo spazio dedicato allo sport.
Brera qui mise a punto il suo stile e il suo linguaggio. Mentre l'italiano comune oscillava ancora tra un linguaggio formale e l'emarginazione dialettale (dieci anni prima degli interventi di Pasolini e don Milani), Gianni Brera si serviva di tutte le risorse della lingua, allontanandosi al tempo stesso dai modelli paludati e dalle forme più banalmente usuali, e ricorrendo in più a una straordinaria inventiva, inventò dal nulla miriadi di neologismi. Tale era la sua fantasiosa prosa che è rimasta famosa la dichiarazione di Umberto Eco, che definì Brera come un "Gadda spiegato al popolo".
Per "Il Giorno" Brera seguì le grandi corse ciclistiche, il Tour de France e il Giro d'Italia, prima di dedicarsi completamente al calcio, senza smettere però di amare profondamente il ciclismo, su cui ha scritto, tra l'altro, "Addio bicicletta" e "Coppi e il diavolo", stupenda biografia del "Campionissimo" Fausto Coppi, del quale fu amico fraterno.
Nel 1976 Gianni Brera tornò come editorialista alla "Gazzetta dello sport". Intanto, continuava a curare sul "Guerin Sportivo" la rubrica "Arcimatto" (il cui titolo sembra fosse ispirato all'"Elogio della follia" di Erasmo da Rotterdam), mai interrotta e mantenuta fino alla fine. Qui Brera scriveva non solo di sport, ma anche su temi di storia, letteratura, arte, caccia e pesca, gastronomia. Questi articoli, oltre che mostrare la sua cultura, si distinguono per l'assenza di retorica e di ipocrisia. Alcuni di essi sono oggi raccolti in un'antologia.
Chiusa la parentesi di editorialista alla "Gazzetta", il giornalista di San Zenone Po fu di nuovo al "Giorno" e passò poi, nel '79, al "Giornale nuovo", fondato da Indro Montanelli dopo la sua fuoruscita dal "Corriere della sera" di Piero Ottone. Montanelli, per aumentare la tiratura del suo giornale, le cui vendite languivano, lanciò il numero del lunedì, dedicato soprattutto ai servizi sportivi affidati a Gianni Brera. Il quale tentò anche l'avventura politica e si candidò alle elezioni politiche del '79 e dell'83, nelle liste del Partito Socialista, da cui si allontanò in seguito, presentandosi nell'87 con il Partito Radicale. Non fu mai eletto, anche se nel '79 ci andò molto vicino. A quanto si dice, gli sarebbe piaciuto tenere un discorso a Montecitorio.
Nell'82 fu chiamato da Eugenio Scalfari alla "Repubblica", che aveva ingaggiato altre grandi firme, come ad esempio Alberto Ronchey ed Enzo Biagi. Precedentemente, comunque, aveva iniziato anche una collaborazione saltuaria e poi fissa, alla trasmissione televisiva "Il processo del lunedì", condotta da Aldo Biscardi. Il quale ricorda: "In tv ci sapeva fare. La sua ruvidezza espressiva bucava il video, anche se aveva una sorta di diffidenza per le telecamere: "Ti bruciano facilmente", sentenziava.". Moltissime in seguito sono state le apparizioni televisive di Brera, come ospite e opinionista in programmi sportivi, e perfino come conduttore sull'emittente privata Telelombardia.
Il 19 dicembre 1992, al ritorno dalla rituale cena del giovedì, immancabile appuntamento con il gruppo dei suoi amici, sulla strada tra Codogno e Casalpusterlengo, il grande giornalista perse la vita in un incidente. Aveva 73 anni.
Brera rimane indimenticabile per molte cose, una delle quali è la sua nota la sua teoria "biostorica", per cui le caratteristiche sportive di un popolo dipendevano dall'etnos, cioè dal retroterra economico, culturale, storico. Così i nordici erano per definizione grintosi e portati all'attacco, i mediterranei gracili e quindi costretti a ricorrere all'arguzia tattica.
Inoltre, è quasi impossibile elencare tutti i neologismi entrati nel linguaggio comune, tuttora in uso presso redazioni e bar sport: la palla-gol, il centrocampista (nome di conio elementare ma a cui nessuno aveva mai pensato), il cursore, il forcing, la goleada, il goleador, il libero (proprio così, il nome al ruolo lo ha inventato lui), la melina, l'incornata, il disimpegno, la pretattica, la rifinitura, l'atipico... Il tutto "governato" nella sua mente da una bizzarra musa "mitologica", Eupalla, colei che gli dava l'ispirazione per scrivere gli articoli. Celebri anche i nomi di battaglia che appioppò a molti protagonisti del calcio italiano. Rivera fu ribattezzato "Abatino", Riva "Rombo di tuono", Altafini "Conileone", Boninsegna "Bonimba", Causio "Barone", Oriali "Piper" (e quando giocava male "Gazzosino"), Pulici "Puliciclone", e così via. Oggi come oggi il suo nome è tenuto vivo da siti Internet, premi letterari e giornalistici. Inoltre, da poco la gloriosa Arena di Milano è stata ribattezzata come "Arena Gianni Brera".
Bibliografia:
Atletica leggera. Scienza e poesia dell'orgoglio fisico, Milano, Sperling & Kupfer, 1949.
Il sesso degli Ercoli, Milano, Rognoni, 1959.
Io, Coppi, Milano, Vitagliano, 1960.
Addio bicilcletta, Milano, Longanesi, 1964. Altre edizioni: Milano, Rizzoli, 1980; Milano, Baldini & Castoldi, 1997.
Atletica leggera. Culto dell'uomo (con G. Calvesi), Milano, Longanesi, 1964.
I campioni vi insegnano il calcio, Milano, Longanesi, 1965.
Coppa del mondo 1966. I protagonisti e la loro storia, Milano, Mondadori, 1966.
Il corpo della ragassa, Milano, Longanesi, 1969. Altra edizione: Milano, Baldini & Castoldi, 1996.
Il mestiere del calciatore, Milano, Mondadori, 1972.
La pacciada. Mangiarebere in pianura padana (con G. Veronelli), Milano, Mondadori, 1973.
Po, Milano, Dalmine, 1973.
Il calcio azzurro ai mondiali, Milano, Campironi, 1974.
Incontri e invettive, Milano, Longanesi, 1974.
Introduzione alla vita saggia, Milano, Sigurtà Farmaceutici, 1974.
Storia critica del calcio italiano, Milano, Bompiani, 1975.
L'Arcimatto, Milano, Longanesi, 1977.
Naso bugiardo, Milano, Rizzoli, 1977. Ripubblicato con il titolo La ballata del pugile suonato, Milano, Baldini & Castoldi, 1998.
Forza azzurri, Milano, Mondadori, 1978.
63 partite da salvare, Milano, Mondadori, 1978.
Suggerimenti di buon vivere dettati da Francesco Sforza pel figliolo Galeazzo Maria, pubblicazione del Comune di Milano, 1979.
Una provincia a forma di grappolo d'uva, Milano, Istituto Editoriale Regioni Italiane, 1979.
Coppi e il diavolo, Milano, Rizzoli, 1981.
Gente di risaia, Aosta, Musumeci, 1981.
Lombardia, amore mio, Lodi, Lodigraf, 1982.
L'arciBrera, Como, Edizioni "Libri" della rivista "Como", 1990.
La leggenda dei mondiali, Milano, Pindaro, 1990.
Il mio vescovo e le animalesse, Milano, Bompiani, 1984. Altra edizione: Milano, Baldini & Castoldi, 1993.
La strada dei vini in Lombardia (con G. Pifferi ed E. Tettamanzi), Como, Pifferi, 1986.
Storie dei Lombardi, Milano, Baldini & Castoldi, 1993.
L'Arcimatto 1960-1966, Milano, Baldini & Castoldi, 1993.
La bocca del leone (l'Arcimatto II 1967-1973), Milano, Baldini & Castoldi, 1995.
La leggenda dei mondiali e il mestiere del calciatore, Milano, Baldini & Castoldi, 1994.
Il principe della zolla (a cura di Gianni Mura), Milano, Il Saggiatore, 1994.
L'Anticavallo. Sulle strade del Tour e del Giro, Milano, Baldini & Castoldi, 1997.


Ringrazio per l'occasione che mi viene concessa da questa autorevole Rivista per chiarire con il pubblico italiano la mia posizione riguardo alle ultime polemiche che riguardano il Festival di Salisburgo, da me diretto, e Claudio Abbado. E colgo, innanzitutto, l'occasione per dire basta ad una situazione che ritengo insostenibile, per civiltà e per correttezza professionale: ci sono polemiche che vengono sotterraneamente alimentate dai giornali, indipendentemente dalla nostra volontà, e polemiche che invece vengono portate avanti in segreto dai protagonisti stessi, i quali si compiacciono dei giornali per raggiungere secondi fini. Ora, come direttore del Festival di Salisburgo, non posso accettare ingerenze di alcun tipo, né le accetterò fino a quando sarò io il direttore artistico, neanche da chi, per intenderci, rappresenta o guida grandi compagini orchestrali, sovente ospiti del Festival, come, appunto, Claudio Abbado. Sia chiaro che contro Claudio Abbado non ho nulla di personale, ma sono costretto - e certo non da ieri - a prendere pubblicamente le distanze dal suo atteggiamento e dai suoi metodi, che spesso ricordano il lato peggiore di Herbert von Karajan. Abbado, almeno fino ad oggi, non è il direttore artistico del Festival di Salisburgo. Nonostante questo, spesso e comunque, cerca in ogni modo di imporre ovunque le sue vedute, così come è accaduto a Milano e come accade ormai regolarmente a Berlino, mettendo in difficoltà molti artisti, come Daniel Barenboim, e forse anche la stessa Orchestra dei Berliner Philharmoniker. Ebbene, considerando questo, e senza scendere nei dettagli, ho cancellato dal cartellone del Festival del 1995/1996 un Otello di Verdi che avrebbe visto impegnato Abbado, (così come la scorsa estate ho rifiutato di far dirigere Elektra ad Abbado in quanto c'era già un precedente contratto con Lorin Maazel e i Wiener Philharmoniker), semplicemente perché ho già preso accordi per altre produzioni, e tra questi per una Traviata, che sarà diretta da Riccardo Muti e che verrà a costare molto meno dell'Otello diretto da Abbado. Sono scelte, queste, che opero con normale correttezza, senza sotterfugi, ma alla luce del sole. Quindi respingo, a tal riguardo, pressioni d'ogni sorta, che, se accettate, finirebbero per svilire ed impoverire il Festival stesso, dando magari luogo a produzioni doppie se non triple. Ho sotto contratto per la prossima edizione del Festival artisti come Barenboim, Maazel, Solti, Muti, Dohnanyi e non è possibile che il Festival, ininterrottamente e senza autonomia, debba farsi carico o ospitare le produzioni dei festival pasquali di Abbado: altrimenti, tra un paio d'anni, nessuno, tranne ovviamente Abbado, dirigerà più a Salisburgo in estate. Questi, dunque, i motivi per cui non accetto proposte che già partono svantaggiate, figuriamoci poi se mi si vuol per forza far accettare ciò che non ritengo utile. Non posso permettere - e sia chiaro una volta per tutte, caro Abbado - che il Festival di Pasqua disponga e quello estivo paghi. Se così fosse, allora sarebbe meglio nominare direttore artistico del Festival estivo lo stesso Abbado e lasciare che i Berliner Philharmoniker detengano il primato di unica orchestra ospite.
Operare un taglio in una partitura musicale è un'operazione non sempre così lineare come il profano crede. Partiamo dal gradimento del taglio: che è sempre al suo massimo presso gli orchestrali. Un'opera può durare quattro o cinque ore, ed anche un taglio di sei battute avvicina il desiderato momento della fine: infatti quando si programma un'opera sconosciuta, la maggior parte dei professori d'orchestra si preoccupa di sapere per prima cosa quanto dura. Il minimo gradimento si riscontra invece presso due categorie: i critici/musicologi, di cui Sergio Sablich è un rappresentante testardo, e gli archivisti dei teatri. Ad essi spetta riportare tutti i tagli operati dal direttore su tutte le parti d'orchestra: operazione tediosa che occupa diverse giornate di lavoro. Il taglio ha gradimento oscillante presso i maestri collaboratori - combattuti fra il desiderio di finire presto e la paura che qualche interprete si imbrogli, proseguendo a diritto - e presso i cantanti: indignati quando si taglia loro una parte nella quale ritengono di poter fare bella figura, e costernati quando debbono misurarsi in una edizione critica superiore alla loro resistenza vocale. Per molti registi il taglio è poi il toccasana: può risolvere tutti i problemi di movimento delle masse, di difficoltà di invenzione, di cambiamento di scena.
La casa del conte Razumovsky era diventata un covo di melomani nella Vienna di fine Settecento. Alle serate di questo ambasciatore di Russia si potevano conoscere i violinisti del momento, i compositori più o meno noti, i teorici dell'armonia. E poi belle donne, naturalmente.