Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, giugno 22, 2025

Cathy Berberian: Canta, recita, inventa con l'orgoglio di esistere...

Cathy Berberian (1925-1983)
Cathy Berberian stende un foglio immaginario che si srotola fra le mani come fosse una pergamena, poi fa un cenno d'intesa e scuote il capo, come a dire: no, troppo giusto, neanche così; e allora tende le mani aperte quasi verticali, palme rivolte verso lei all'altezza delle spalle, erge il petto, socchiude gli occhi, apre la bocca e l'assottiglia, e finalmente fa uscire una voce stentorea, declamante, lentissima, scuotendo leggermente il capo come ad approvare ciascuna delle note immortali che va cantando. «Se i languidi miei sguardi...», deglutisce, «...se i sospiri interrotti»... Si ricompone, parla con la dolcezza della desolazione: « Ecco, così al conservatorio insegnano a cantare Monteverdi, e così le cantanti riescono in pochi secondi a rendere noiosa la Lettera Amorosa. Io penso che ritengano che Monteverdi sia un autore del passato, e allora bisogna cantarlo ufficialmente, perché fa cultura. Ma io ho appena ricevuto questa lettera di Monteverdi, l'ha scritta l'uomo che io amo, sono ansiosa di sapere che cosa dice di me, se sono bella, se mi ama, se me lo ripete...». Esce dalla stanza, rientra, rapida, stringendosi a se stessa, fra le mani scartoccia ed accartoccia inquieta lo stesso foglio immaginario, e veloce, ansiosa, inarrestabile canta, a fior di labbra, guardando le parole, «Se i languidi miei sguardi, se i sospiri interrotti, se le tronche parole non han sin'or potuto, o bel idolo mio, farvi delle mie fiamme intera fede», sorride tutta per conto suo: «leggete queste note. Credete a questa carta»...
Cathy Berberian dice: «L'errore è sempre qui: far dell'arte una cosa che non c'entri con la vita. Nell'arte è necessario essere naturali, spontanei come nella vita».
La guardo: i capelli d'un bianco-argento da teatro, le grandi ciglia costruite come in un ritratto del Novecento. il colore fantasioso della sua faccia armena ironica dolce e fiera; e quei suoi abiti da casa che stanno sempre fra il poncho e il manto. quel suo stare fra il solenne e il gattone. «Mi chiamano, prendendomi in giro, mostro sacro. Ma io sono semplicemente come mi pare», Cathy Berberian dice. Il fatto è che per lei esser come le pare, essere nella vita, significa inventare: se stessa, il mondo attorno. A cominciare dalla casa: un estroso coacervo di ricordi alla rinfusa, di curiosità, di eleganze e di oggetti buffi. Domina il liberty: bicchieri colorati in vetrinette, statuine, le malinconie leggere d'una collezione di Pierrot; sgabelli e divanetti autentici su cui con allegria gentile la padrona di casa avverte se è conveniente o pericoloso sedersi; e in tutto un'armonia serena, non l'incombere del sospetto di museo, ma la presenza d'un effetto che ordina, d'un respiro naturale.
Ma come, Cathy, siamo nel «rétro»? Tu. sacerdotessa dell'avanguardia, interprete a cui sono dedicate tutte le più spericolate composizioni da cantare degli ultimi venticinque anni, Stravinskij. Berio, Cage, Bussotti, e così via...Tu, che hai scandalizzato i benpensanti di ieri e di oggi, con fenomeni, borborigmi, strilli, rulli, gridi, frammisti a suoni e silenzi, tu mi parli di Monteverdi in mezzo a un mondo liberty? «Ecco», dice Cathy Berberian. «Vedo se riesco a spiegarmi». Parla con inflessione dolce, la cadenza di chi è nato armeno in Massachusetts, ha vissuto a New York, insegnato in Germania, abita in Italia e canta in venti lingue in tutto il mondo, e che di tutti gli accenti ne fa, per dirla addirittura con Dante, «uno incognito e indistinto». «Io penso»... incomincia quieta. Chi conosce Cathy in pubblico nei giorni di lotta stenta all'inizio a riconoscerla nel tono calmo delle sue parole. La ricordo all'esordio anzi all'approdo alla Scala dopo tanta professione severa ma anche dopo tanta carriera vincente dato che è l'unica creatura, forse con Gazzelloni, che abbia saputo imporre sempre i musicisti interpretati, infilzando di forza spettatori diffidenti e tradizionalisti increduli. Portava nel programma i Folksongs strumentati e adattati da Berio e, sempre di Berio, la Sequenza per voce sola, quella appunto «for Cathy». Ma all'ultimo invertì l'ordine dei pezzi, e così, durante un normale concerto sinfonico, il pubblico che aveva appena lungamente applaudito La ritirata di Madrid di Boccherini-Berio vide centoventi professori d'orchestra sgombrare il palcoscenico e, fra la selva di leggii vuoti, entrare tutta sola questa donna, mettersi al centro del proscenio e incominciare la sua serie di versini, che, solo se accettati dall'inizio, ascoltati con attenzione, valutati per quello che significano riuniti, si compongono alla fine in una cosa compiuta e interessante. La gente dei concerti alla Scala non è proprio un`accolta di arditi; e la sorpresa gettò in sala un silenzio teso, pronto a rompersi in fischi, in «basta», in risate. Il pubblico guardò dunque Cathy, e spiò che faccia avesse mai l'avanguardia più spregiudicata; ma negli occhi di lei non vide affatto ciò che aspettava, la grinta di sfida degli avveniristi alla società borghese, lesse invece il monito duro, autoritario, affettuoso e dominatore di chi sta per imporre le sacre ragioni della musica. Si mise buono, per un attimo: e bastò, perchè la musica, inconsueta, discutibile, ma carica, ma intensa, vissuta così sulla pelle e sull'anima, s'imponesse; e fu un successo.
«Io penso...». incomincia dunque quieta Cathy Berberian, «che forse io sono molto più libera di altri, perché ho avuto la fortuna di non arrivare alla musica contemporanea come se fosse una cosa diversa dall'altra, che si raggiunge dopo, una cosa strana, un po' assurda; ma di cantarla e di capirla subito, come cosa difficile, da conquistare, sì, ma naturale, ma giusta, e di vedere che anche gli altri la potevano sentire. Allora non ho bisogno di lasciare in qualche modo il resto per dimostrare che amo la musica d'oggi, e non ho bisogno di dimenticare l'espressione e la tecnica del passato per trovare quella di oggi, anzi proprio attraverso la musica e la tecnica e la mentalità di oggi posso arrivare meglio a quelle del passato. Per esempio, queste cose liberty, come le musiche che canto nei recitals da salotto buono che mi diverte inventare, le romanze dei nostri padri e dei nostri nonni, mi fanno divertimento e tenerezza, perché sono il mondo che non poteva più esistere, che l'arte più difficile e più importante ha rifiutato, ma a cui ha anche dato l'addio; cercare la voce per interpretarle in modo giusto sapendo che è proprio quello che non si deve fare per cantare la musica di Stravinskij o di Berio è dolce, ed è anche buffo. Ma per esempio Monteverdi è più vicino di quello che non si creda alla musica di adesso. Ad esempio, io ho imparato la tecnica della famosa nota ribattuta studiando un pezzo di Berio; c'era una ripetizione veloce d'una nota, era difficile, mi ero allenata bene, gliel'ho fatta sentire e mi ha guardato come si guarda una gallina che ha appena fatto il suo verso. Allora ho capito che bisognava trovare un atro modo, che facesse uscire la nota ribattuta come naturale, espressiva, come sul respiro. E così ho scoperto come va cantato Monteverdi».
Berio, naturalmente. É stato suo maestro nell'avventura musicale; e per un certo tempo suo marito, tanto che hanno una figlia e ormai persino due nipotini; ma anche adesso il loro rapporto è vivo, affettuoso, creativo e Cathy parla di Luciano come d'un genio della musica, il che ormai è parere assai diffuso; come d'uno che corre pericoli e ha difetti, opinione diffusa altrettanto; e anche come d'una persona che dà tutta se stessa, perennemente, attraverso lo schermo di egoismi apparenti, alla ricerca di ciò che sente di dover fare. «Ma sai che cosa vuol dire avere dato tanta vera musica».
Cathy lo sa. Ha imparato la forza della musica, quel tanto d`unicità e di verità che contiene, fin dai sei anni, quando a New York dove stava ha udito per la prima volta un disco di Tito Schipa: «Se il mio nome saper voi bramate...»; e tanto basterebbe a far sorridere sulla sfiducia nella corrispondenza d'intese nella musica ed in ogni cosa bella, se i rapporti imprevisti si annodano segreti, al di là degli schemi e delle formule. La famiglia non voleva, ma la piccola decise presto di diventar cantante; fingeva di volere diventare scrittrice, e frequentava i teatri, soprattutto musicali; si preparava ad ogni parte: studiava danza indiana in caso avesse poi potuto cantare nel futuro la Lakmé, provava il balletto spagnolo «nell'acme della presunzione», cioè sperando di fare un giorno la protagonista di Carmen. Studiava pianoforte, trucco, recitazione, le leggi essenziali della composizione musicale; «ma non ho una carta dove si dice che sono musicista: erano lezioni private, i miei mi tenevano lontano dall'idea della carriera di cantante, per il mio bene; trovavano che avevo una piccola voce di rana, il loro concetto di cantante era vicino invece al tipo della zia, che aveva cervello di gallina, ma grande voce di elefante». Cathy studiò continuamente: quando faceva il fattorino d'una ditta di whisky come quando era usciere in una stazione radio e teneva lo spartito vicino a sé nella speranza che qualcuno dei musicisti le facesse domande; o quando era commessa d`un negozio di musica e si convinse che è utile anche un film con la vita di Chopin, protagonista Cornel Wilde. se all'improvviso tutti arrivano al banco a domandare dischi di Chopin. «Non voglio dire che cos'è la musica, non sono così presuntuosa. So che però è una cosa dove c'è dentro tutto di noi, anche se è astratta. So che non è politica, non è rivoluzione, anche se può accompagnare le rivoluzioni degli uomini che ci credono; o almeno non fa rivoluzioni in senso politico per se stessa. So che non è calcolabile in valori secondo la dottrina, perché avrà pure senso se quando annuncio Summertime nei bis d'un concerto impegnativo tutti svengono dalla gioia e sono lì che aspettano. So che non è da prender mai alla leggera, perchè ha la sua tecnica, il suo linguaggio, ogni volta diverso, e bisognerebbe imparare ogni volta quello giusto, e per esempio a me piacerebbe tanto adesso tenere un corso su come si canta l'operetta. So che bisogna studiarla molto. Senti, io non sono sapiente, ma leggo e studio continuamente i sapienti che capisco; tu dici che vivo come nessuna le cose d'oggi, ti ho anche. spiegato che mi servono per capire le cose di ieri; ma devo anche confessarti che la fatica maggiore è studiare la storia per capire l'oggi con la misura del passato; e questo è difficile, e siamo in pochi a farlo».
Cathy Berberian poi ha un gesto malinconico. «Purtroppo, adesso, ho un serio disturbo della vista che non mi lascia più leggere come facevo prima, divorando libri e partiture. Mi disturba quasi più per questo che non per la fatica dei concerti, dove devo imparare tutto perfettamente a memoria». La memoria, comunque, è una delle cose per cui Cathy è rinomata. C'è una spiegazione?
«Certo. Da piccola ero molto fantasiosa. Vivevo in una grande famiglia con cugini, zii, parenti poco ricchi che arrivavano per caso sempre all'ora dei pasti. Mi annoiavo, volevo evadere, mentivo. Dicevo cose che se ci penso adesso mi vergogno. Mio padre mi aveva regalato una casa della bambola e io provavo a convincere i bambini che c'era dentro della gente vera, piccolissima così, che l'abitava. E tante altre cose. La croce del bugiardo è ricordarsi di che cosa ha inventato, per non contraddirsi. É così che si sviluppa la memoria».
E adesso, le domando, hai limitato il repertorio? «Purtroppo», mi confessa. «Ho in programma per 1`immediato futuro solamente queste cose». E incomincia, con aria contritissima, un elenco di concerti. C`è la serata d'avanguardia, e quella antica; c'è la novità e la cantata ripescata; la serie d'operetta e quella di parodie; c'è il famoso recital delle donne compositrici nei secoli...
Seduta sulla zona di divanetto autentico che non si sfonda, con un'ombra nella voce che non si sa se di rimpianto per tutto quello che non può cantare nella storia (credo ormai una minoranza) o d`ironia per il mondo che non canta (e anche per quello che canta), Cathy Berberian snocciola titoli noti e sconosciuti, celebri preziosità e celebri melodie popolari, cose dotte e balzane. Per altri, sarebbe uno sfoggio, o un paradosso; ma per lei, son solo un moto d'esistenza. Come quando mi racconta d'un noto compositore che da giovane andava a trovare Berio e parlava con lui in sua presenza senza degnarla d'uno sguardo, come se non esistesse. «Scusami la parola», insorge Cathy ricordando ancora offesa, «ma se c'è una cosa che mi fa incazzare, è di non esistere, quando, invece, esisto».
Lorenzo Arruga

Dieci compositori d'oggi visti da Cathy Berberian
Boulez. Ho sempre diviso il mondo in due: quelli umidi e quelli asciutti. E lui è un asciutto.
Stockhausen. È un falso-umido. Quand'eravamo tutti molto giovani, lo vedemmo in atteggiamento romantico. «Sto cercando Dio». spiegò a mee a Luciano Berio. Luciano m'ha raccontato che lo ha incontrato recentemente, e gli ha domandato: «E allora? L'hai trovato?». Mi pare che gli abbia risposto: «Sì. Sono io».
Xenakis. All'inizio. mi lasciava perplessa. Adesso mi convince molto di più. Ma siccome nel mio inconscio so che era ingegnere e architetto, mi è rimasta l'impressione che non abbia scelto la strada giusta; è molto dotato. ma talvolta mi dà l'impressione che abbia preso il suo hobby come professione; e fa un poco di sforzo. E poi: guarda ogni donna come l'unica al mondo!
Ligeti. Ha un orecchio molto buono, scrive cose corali deliziose. Ma ha anche cadute di cattivo gusto. Le sue musiche comiche o spiritose, per esempio, si possono ascoltare una volta sola. Poi si vuotano.
Kagel. Grandi gesti teatrali. poca musica. anche se buona. Ha grande fantasia. Le sue composizioni sono gags musicali in grandi proporzioni. La sua musica è un collage di follia. Ho visto un suo pezzo a Parigi: entravano musicisti facendo strani rumori. uno aveva la lamiera attaccata ai piedi e la faceva oscillare; altri altre cose. Poi entravano 16 cantanti, ognuno ripeteva frammenti di brani noti. all'impazzata: «pace. mio Dio-dio-dio-dio-dio». ad esempio; ma tutti insieme; erano imbarazzatissimi. Poi entravano sessanta strumentisti ed eseguivano pezzi solistici. In mezzo, Kagel dirigeva. truccato come Gustav Mahler. Affascinante.
Nono. Sto scrivendo un libro di memorie e considerazioni sulle cose della musica. Mi chiedo sempre: che cosa faccio quando arrivo al capitolo Nono? Gli altri credono che si tratti del capitolo numero 9. Non sanno il mio imbarazzo.
Bussotti. Fin troppo dotato. Siamo molto vicini. Dovrebbe mettere in scena le cose degli altri, e lasciar fare agli altri le sue. E poi tagliare. Le sue qualità sono grandi: deve guardarsi soprattutto da se stesso.
Cage. La somma dell'America. Schoenberg diceva: non è un compositore, è un inventore di genio. É un essere con una serenità interiore che sa comunicare. È il padre della musica aleatoria. Però quando sceglievamo insieme dei suoi pezzi perché li cantassi, mi costringeva sempre a scegliere quelli tutti scritti. Ha un sorriso sereno. che viene dall'intimo. Però tiene la lingua sempre dentro e fuori come una lucertola.
Berio. Umidissimo. Per me e il più grande. Avrà qualche manchevolezza. da qualche parte: nel teatro, probabilmente, anche se la sua musica non scritta per il teatro è teatralissima. Ma tutte le cose che scrive mi toccano. Non si vergogna di toccare la gente. Fa quello che fa perchè non potrebbe fare altro: c'è tutto lui. Ha un orecchio interno che gli permette di controllare tutta la musica che inventa.
Berberian. Non esiste. come compositrice. Lo so. lo so che ha pubblicato un paio di cose sue. Stripsody è un pezzo per pianoforte; ma sono solo trovate musicali. Una volta. su Communication, una rivista molto intellettuale francese, un musicologo. mi vergogno un po' a dirlo, ha dedicato alla Stripsody 33 pagine,di cui non ho capito neanche una parola.
("Musica Viva", N. 2, Anno V, Febbraio 1981)

mercoledì, giugno 11, 2025

Rai-Programmazione brani... ci pensa il... computer

Il numero di volte che un brano viene trasmesso ogni settimana dalla RAI viene controllato adesso da un computer il cui terminale è direttamente collegato con Roma. I limiti e le possibilità del nuovo diretto controllo in una intervista con Pierluigi Tabasso, dirigente dell'ente radiotelevisivo.

Quando si parla di «computer» in campo musicale, viene naturale pensare alle ultimissime elaborazioni in musica contemporanea dove viene programmato a schede... un intero concerto, Ma qui si tratta invece di un tipo di controllo effettuato dalla Rai sul numero di volte che uno stesso brano viene trasmesso settimanalmente.
Il centro elettronico di controllo non è stato creato in questi giorni. è in funzione già da alcuni anni; la novità sta nel fatto che i dati elaborati vengono, in questi giorni, rigorosamente tenuti presente per la regolamentazione dei passaggi di ogni brano.
Ho chiesto ad un dirigente della Rai. Pierluigi Tabasso, capo del «Servizio dischi» da cui, tra l'altro, dipendono direttamente alcuni tra i più popolari programmi di musica come «Supersonic», «Folk-jockey», «Cararai» e «L'uomo della notte», in cosa consistessero le novità circa questi rigorosissimi controlli. Alcuni discografici parlano di pugno di ferro, di guerra al 45 giri, di eccessive limitazioni persino nelle visite dei discografici ai funzionari e programmatori (un programmatore dipendente dall'ufficio promozioni di una casa discografica non può accedere più di due volte la settimana nel palazzone di Viale Mazzini dove ha sede la Rai per proporre nuovi brani all'ascolto).
«In effetti - ha iniziato Tabasso - già da tempo, per distribuire equamente la programmazione dei vari dischi, consultavamo il centro elettronico, solo che, per conoscere i dati elaborati a Torino, dovevamo attenderne l'arrivo materiale, a mezzo posta. Ritardi postali. giorni festivi ecc. ci rendevano impossibile un tempestivo intervento per modificare scalette (successione di dischi da mandare in onda) dove un pezzo risultasse ultratrasmesso ed un altro meno di quanto fosse giusto. Perché, come saprai. i dischi in Rai sono scelti da programmatori, quasi tutti collaboratori esterni che,  non essendo in contatto tra loro, potrebbero al limite presentare in uno stesso giorno una scaletta con gli stessi dischi degli altri. creando cosi trasmissioni identiche tra loro e presentando uno stesso brano un numero eccessivo di volte.
Il controllo, che operiamo Zivelli ed io, si rende indispensabile, sia per questo motivo sia per evitare che qualche programmatore programmi qualche disco più del dovuto creando una situazione di privilegio di un disco, magari mediocre, nei confronti di un altro più meritevole. Per compiere meglio e con maggiore tempestività tale controllo abbiamo fatto installare a Roma un terminale del computer in maniera da avere a giro di ore in qualsiasi momento la situazione sotto controllo».
- Cosa intendi per provvedere? Cambiate a vostro giudizio le scalette dei programmatori sostituendo il brano - che «eccede» con uno meno programmato, a vostra scelta?
«Non lo facciamo arbitrariamente: invitiamo lo stesso programmatore a sostituire il brano in questione con uno che, sempre a suo avviso, abbia più o meno caratteristiche analoghe e che quindi non alteri la composizione ritmica della successione».
- Quanti «passaggi» al massimo, sono consentiti per ogni brano?
«Quattro».
- Al giorno?
«No. quattro la settimana; ma in qualche caso particolare possono essere portati a cinque».
- Ma non vi sembra troppo limitativo e non vi sembra di fare troppo «d'un erba un fascio»? Se capita un pezzo particolarmente buono, che finisca addirittura primo in classifica, che sia realmente gradito agli ascoltatori, voi dandogli un massimo di 5 passaggi settimanali non pensate di «bloccarlo» o comunque di andare contro il gusto del pubblico?
«In genere se un pezzo deve andar bene va bene lo stesso, comunque, anche se vi sono questi limiti, il provvedimento è essenzialmente mirante ad evitare gonfiature di pezzi "fasulli"; il discorso inverso a quello del brano decente che viene "limitato" è quello del brano inesistente, squalificato, ultracommerciale che viene gonfiato e che, tramite proprio il plagio quotidiano, riesce ad imporsi malgrado tutto. Noi pensiamo che questo sistema rappresenti realmente una garanzia per tutti: c'è più spazio per tutti, ora che non viene accaparrato in esclusiva da dieci o venti pezzi al giorno; oltretutto miriamo anche a presentare musica migliore, la vostra musica, ad esempio, che prima era alquanto sacrificata  da quella più commerciale».
- Culturalmente, quindi, il controllo più rigoroso dovrebbe risultare più vantaggioso; se fosse cosi ci sarebbe davvero, finalmente, da fare un elogio alla Rai. Ma c'è un altro problema, ed è quello che ogni casa discografica, anche quelle produttrici di dischi scadenti e squalificati, si affretterà a  sottoporre una gran massa di dischi assurdi, fidando sul turno dei quattro, cinque a settimana che spettano ad ogni  disco.
«Questo rischio viene annullato dal fatto che i nostri programmatori restano comunque e sempre arbitri della «scelta» e poiché si tratta di gente preparata, qualificata, senza dubbio eviterà i prodotti squalificati. Piuttosto, ora che la manna dei dischi ultraprogrammati è finita, può darsi che i discografici si decidano a produrre cose sempre migliori e  che affidino la vendita del prodotto alle sue qualità piuttosto che al numero di passaggi che in un modo o nell'altro cercano di ottenere».
- Venivano corrotti i programmatori? E' questo che vuoidire?
«Non sto assolutamente affermando questo, ma poteva essere carpita la buona fede di qualcuno. questo sì. In tutti i modi ora c'è il computer».
- E' il caso di dire che ora «la ...programmazione è uguale per tutti», grazie a mister cervellone. Noi ci auguriamo che questo maggior spazio che si è creato venga riempito con buona musica e non con altre canzonette che non attendono altro che di raggiungere il record di ben cinque passaggi a settimana.
Renato Marengo
("Ciao 2001", 28 Aprile 1974, N. 17, Anno VI)

martedì, giugno 03, 2025

Erik Satie secondo Alberto Savinio

Al nome di Erik Satie, si suole premettere la parola «ca
so». Si dice: il caso Erik Satie. Segno che in questo musicista è qualcosa di singolare. Infatti. Ma il caso Satie, meglio che dai musicologi, sarà risolto da uno psicologo. La condizione di Erik Satie è una condizione misteriosa e tragica. Frequente in tutte le attività umane, ma grave soprattutto nelle attività dell'arte, ossia nelle attività che implicano il miracolo della creazione. Condizione di colui che vuole ma non può. Se qualcuno fosse riuscito a far confessare a Erik Satie il suo segreto, egli avrebbe detto: «Voglio ma non posso». Ma questo segreto, un artista, un creatore, non lo confessa per nessuna ragione al mondo. Piuttosto morire. Perché questo segreto va di là dalle «confessate vergogne» di un Jean-Jacques Rousseau, queste furbesche civetterie. È un segreto «mortale». Il caso Satie è il caso di un uomo che voleva essere creatore di musica, ma non riuscendo a possedere i mezzi di una creazione musicale che lo soddisfacesse, si adoprò per reazione a distruggere la musica nella sua forma più vistosa. In altre parole, Erik Satie è un amante di Euterpe che, non corrisposto da lei, tenta di uccidere l'ingrata.
Ho delineato così i due aspetti di Erik Satie e diversissimi: dell'aspirante creatore, del distruttore. Sono dell'aspirante creatore le Sarabandes, il Socrate, ecc., del distruttore i Trois morceaux en forme de poire, le Pièces ƒroides, i Véritables Préludes flasques (pour un cbien), ecc.
Le qualità più schiettamente musicali di Erik Satie dovrebbero meglio apparire nella sua opera di aspirante creatore. E infatti così è. Ma questa opera è continuamente oppressa dal «voglio ma non posso». La musica «normale» di Satie ha il passo breve. È una musica prigioniera. Una musica in cella. Essa mi ricorda un particolare delle memorie di Kropotkin, in cui questo precursore della rivoluzione russa dice che, quando era prigioniero nella fortezza Pietro e Paolo di Pietroburgo, ogni giorno, per mesi e anni, a fine di neutralizzare gli effetti dell'inerzia corporale, durò a fare tanti passi avanti e indietro nella sua cella lunga cinque metri e larga tre, quanti ci vogliono a colmare una distanza di otto chilometri. Come abbia fatto Kropotkin a non uscire matto da quella marcia «schiacciata», io non so capire; penso tuttavia che non sfuggirebbe alla pazzia colui che ogni giorno continuasse a sognarsi le musiche «normali» di Erik Satie, nelle quali i suoni, ogni tre passi, sbattono sulle pareti di una ineffabile cella.
Nelle Sarabandes di Satie appare come il prefantasma di alcuni armonismi di Claude Debussy. Musica da dolce altalena. Non che le musiche di Debussy siano quanto a sé di piè veloce come il Pelide Achille, che anzi sono piuttosto come Ofelia annegata e soggette esse pure all'ondeggiare dell'acqua; ma le Sarabandes di Satie, per di più, segnano il passo, chiuse dentro un infrangibile cerchio, e più che tre sarabande diverse, sono le varianti di una medesima sarabanda. Musica povera e seduta. Modestamente seduta in una sedia di paglia.
Socrate è la musica più alta di Satie, più pura. E più monotona. Piú chilometricamente monotona. Ma qui la monotonia non è un involontario difetto: è un mezzo espressivo. È il fascino di questa musica. Bisogna entrare dentro questa monotonia, saturarsene e goderne. Musica che va avvicinata all'orecchio, come per una specie di miopia dell'udito. Come Toscanini avvicina orizzontale la pagina della partitura all'occhio, e rade la pagina con lo sguardo cortissimo. Musica per orecchie cinesi. Dicono che a un orecchio cinese, le nostre musiche anche più gravi sonano come altrettante marcette da circo. A sentire la musica del Socrate, è necessario fare mente locale. Quando mio figlio Ruggero aveva sette anni, lo vedevo piegare ad arco una cannuccia, tenderci su uno di quegli elastichini che i commessi di negozio girano intorno ai pacchetti, avvicinare il minuscolo apparecchio alla coclea, pizzicare la corda con l'indice, e al suono presso che impercettibile di quella microscopica nota sempre ripetuta, andare in visibilio. Resta a stabilire se mette conto ridursi alla condizione di un cinese o di un ragazzino di sette anni, per godere come si deve la musica del Socrate. Tanto più che la purezza di questa musica ha un che di «atteggiato», la sua tanta semplicità mette in sospetto di retorica rovesciata, e quanto al suo grecismo, esso è manifestamente maniera. Vero è che ai molto esercitati di grecità, la stessa grecità di Platone è sospetta. Un'avvertenza sullo spartito del Socrate segnala l'affinità tra la purezza di questa musica e la purezza del disegno di Ingres. Si vede che l'autore della nota confondeva Ingres con Puvis de Chavannes.
Tormentoso dramma dell'artista, cui il miracolo della creazione è negato. C'è analogia tra il miracolo della creazione e il funzionamento dell'accendisigaro. Talvolta, al primo colpo di pollice, la fiammella si leva su come un pennacchietto azzurro. Le piú volte però sprizzano scintille ma fiammella non appare. Talvolta ancora, e per quanto il pollice fatichi, la rotella rimane nera. In questo caso l'artista cerca supplire con «falsi miracoli».
Triste ripiego. Nelle opere di Satie, il falso miracolo è presente. Talvolta in forme cornpromettenti. Fino in quella dei mistagogismi ispirati dal «Sar» Péladan. Esperienza e saggezza d'arte mi dicono che bisogna diffidare dell'artista che, come per rafforzarsi, come per acquistar sostanza, si iscrive a un determinato partito mentale. Io diffido perciò dello scrittore «cattolico», dello scrittore «comunista», dello scrittore che risale alle sorgenti dell'indianismo in cerca della verità. A suo modo anche Satie andava in cerca della verità. E probabilmente credé trovarla nel Socrate. Perrché questa ricerca della verità, questa fede, questo religiosismo erano tanto più urgenti nell'animo di lui, in quanto più imperiosamente egli si sentiva sollecitato dal demone della distruzione. Che è il carattere più vivo di Satie, e quello per quale questo macero e sprovveduto musico ha speranza di rimanere nella storia della musica.
L'uomo, e soprattutto l'artista, riflette nelle sue opere l'immagine dell'universo così come egli lo pensa. Per tempo lunghissimo, gli uomini pensarono l'universo in quella forma che noi chiamiamo aristotelica. Le scoperte di Copernico e di Galilei mostrarono la falsità di quella immagine. Malgrado ciò, gli uomini continuarono, e moltissimi continuano tuttora, a pensare l'universo verticale e a piramide. Né le sole menti basse, ma anche menti alte e imbottite di cognizioni, come Benedetto Croce. È solo nell'ultimo terzo del secolo passato, a buona distanza dalle scoperte degli astronomi, che alcuni artisti cominciarono a perdere fiducia nella forma dell'antico universo e a lasciarsi dietro le spalle la sua immagine ormai inerte. È Baudelaire, è Cézanne; poi, col solito ritardo della musica, Erik Satie. Tutti francesi. Perché nella mente francese, è più che in nessun'altra mente il senso della rivoluzione, cioè a dire il senso dell'accordo tra fisico e metafisico, nei continui sviluppi di questa doppia condizione. E questo loro compito naturale, i Francesi non lo dovrebbero dimenticare. Oggi soprattutto, che in un immenso movimento di reazione, gli uomini, dalle forme politiche alle forme della speculazione filosofica, sono avviati, per paura, per vigliaccheria mentale, a ricostituire un nuovo mondo aristotelico, e tanto piú illegittimo e assurdo, in quanto non su la fede può oggi poggiare un simile mondo, ma su una consapevole e imposta falsità.
Si disse: decadenza delle arti, della forma, della bellezza, della costruttività; e non era invece se non la fine della imitazione di un universo morto.
Oggi si parla della disintegrazione della materia. Anche in questo le arti sono anticipatrici. Nell'ultimo terzo del secolo passato, alcuni artisti cominciarono a dare mano alla disintegrazione della materia poetica. Opera ingrata ma necessaria. Nulla segnala che quegli artisti operassero consapevolmente. Ma operarono, e tanto basta. In musica, l'opera di disintegrazione fu compiuta da Erik Satie. In quella parte della sua opera che apparentemente ha carattere burlesco, meccanico, marionettistico, ironistico. È Parade, sono i Pezzi piriformi, ecc. Aspetti che ingannano. Come ingannano le didascalie umoristicamente sforzate, l'abolizione delle battute e delle agraffe tra basso e acuto. Scherzi che non fanno ridere nessuno, ma necessari a nascondere l'amarezza di quelle musiche, la necessaria crudeltà del loro compito. Che Vincent d'Indy abbia scritto Fervaal, non ha importanza storica. Che Henri Rabaud, per rimanere tra i compaesani di Satie, abbia scritto Marouf savetier du Caire, non ha importanza storica. Sparendo, queste opere non lascerebbero buco. Importanza storica invece hanno le musiche «burlesche» di Erik Satie: queste musiche che solo gl'ingenui tengono per ironistiche. Le quali musiche amarissime perché cariche di destino, tristissime perché nascondono il sacrificio del loro autore, hanno salvato la musica da una solenne morte per pompierismo.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)