Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, giugno 03, 2025

Erik Satie secondo Alberto Savinio

Al nome di Erik Satie, si suole premettere la parola «ca
so». Si dice: il caso Erik Satie. Segno che in questo musicista è qualcosa di singolare. Infatti. Ma il caso Satie, meglio che dai musicologi, sarà risolto da uno psicologo. La condizione di Erik Satie è una condizione misteriosa e tragica. Frequente in tutte le attività umane, ma grave soprattutto nelle attività dell'arte, ossia nelle attività che implicano il miracolo della creazione. Condizione di colui che vuole ma non può. Se qualcuno fosse riuscito a far confessare a Erik Satie il suo segreto, egli avrebbe detto: «Voglio ma non posso». Ma questo segreto, un artista, un creatore, non lo confessa per nessuna ragione al mondo. Piuttosto morire. Perché questo segreto va di là dalle «confessate vergogne» di un Jean-Jacques Rousseau, queste furbesche civetterie. È un segreto «mortale». Il caso Satie è il caso di un uomo che voleva essere creatore di musica, ma non riuscendo a possedere i mezzi di una creazione musicale che lo soddisfacesse, si adoprò per reazione a distruggere la musica nella sua forma più vistosa. In altre parole, Erik Satie è un amante di Euterpe che, non corrisposto da lei, tenta di uccidere l'ingrata.
Ho delineato così i due aspetti di Erik Satie e diversissimi: dell'aspirante creatore, del distruttore. Sono dell'aspirante creatore le Sarabandes, il Socrate, ecc., del distruttore i Trois morceaux en forme de poire, le Pièces ƒroides, i Véritables Préludes flasques (pour un cbien), ecc.
Le qualità più schiettamente musicali di Erik Satie dovrebbero meglio apparire nella sua opera di aspirante creatore. E infatti così è. Ma questa opera è continuamente oppressa dal «voglio ma non posso». La musica «normale» di Satie ha il passo breve. È una musica prigioniera. Una musica in cella. Essa mi ricorda un particolare delle memorie di Kropotkin, in cui questo precursore della rivoluzione russa dice che, quando era prigioniero nella fortezza Pietro e Paolo di Pietroburgo, ogni giorno, per mesi e anni, a fine di neutralizzare gli effetti dell'inerzia corporale, durò a fare tanti passi avanti e indietro nella sua cella lunga cinque metri e larga tre, quanti ci vogliono a colmare una distanza di otto chilometri. Come abbia fatto Kropotkin a non uscire matto da quella marcia «schiacciata», io non so capire; penso tuttavia che non sfuggirebbe alla pazzia colui che ogni giorno continuasse a sognarsi le musiche «normali» di Erik Satie, nelle quali i suoni, ogni tre passi, sbattono sulle pareti di una ineffabile cella.
Nelle Sarabandes di Satie appare come il prefantasma di alcuni armonismi di Claude Debussy. Musica da dolce altalena. Non che le musiche di Debussy siano quanto a sé di piè veloce come il Pelide Achille, che anzi sono piuttosto come Ofelia annegata e soggette esse pure all'ondeggiare dell'acqua; ma le Sarabandes di Satie, per di più, segnano il passo, chiuse dentro un infrangibile cerchio, e più che tre sarabande diverse, sono le varianti di una medesima sarabanda. Musica povera e seduta. Modestamente seduta in una sedia di paglia.
Socrate è la musica più alta di Satie, più pura. E più monotona. Piú chilometricamente monotona. Ma qui la monotonia non è un involontario difetto: è un mezzo espressivo. È il fascino di questa musica. Bisogna entrare dentro questa monotonia, saturarsene e goderne. Musica che va avvicinata all'orecchio, come per una specie di miopia dell'udito. Come Toscanini avvicina orizzontale la pagina della partitura all'occhio, e rade la pagina con lo sguardo cortissimo. Musica per orecchie cinesi. Dicono che a un orecchio cinese, le nostre musiche anche più gravi sonano come altrettante marcette da circo. A sentire la musica del Socrate, è necessario fare mente locale. Quando mio figlio Ruggero aveva sette anni, lo vedevo piegare ad arco una cannuccia, tenderci su uno di quegli elastichini che i commessi di negozio girano intorno ai pacchetti, avvicinare il minuscolo apparecchio alla coclea, pizzicare la corda con l'indice, e al suono presso che impercettibile di quella microscopica nota sempre ripetuta, andare in visibilio. Resta a stabilire se mette conto ridursi alla condizione di un cinese o di un ragazzino di sette anni, per godere come si deve la musica del Socrate. Tanto più che la purezza di questa musica ha un che di «atteggiato», la sua tanta semplicità mette in sospetto di retorica rovesciata, e quanto al suo grecismo, esso è manifestamente maniera. Vero è che ai molto esercitati di grecità, la stessa grecità di Platone è sospetta. Un'avvertenza sullo spartito del Socrate segnala l'affinità tra la purezza di questa musica e la purezza del disegno di Ingres. Si vede che l'autore della nota confondeva Ingres con Puvis de Chavannes.
Tormentoso dramma dell'artista, cui il miracolo della creazione è negato. C'è analogia tra il miracolo della creazione e il funzionamento dell'accendisigaro. Talvolta, al primo colpo di pollice, la fiammella si leva su come un pennacchietto azzurro. Le piú volte però sprizzano scintille ma fiammella non appare. Talvolta ancora, e per quanto il pollice fatichi, la rotella rimane nera. In questo caso l'artista cerca supplire con «falsi miracoli».
Triste ripiego. Nelle opere di Satie, il falso miracolo è presente. Talvolta in forme cornpromettenti. Fino in quella dei mistagogismi ispirati dal «Sar» Péladan. Esperienza e saggezza d'arte mi dicono che bisogna diffidare dell'artista che, come per rafforzarsi, come per acquistar sostanza, si iscrive a un determinato partito mentale. Io diffido perciò dello scrittore «cattolico», dello scrittore «comunista», dello scrittore che risale alle sorgenti dell'indianismo in cerca della verità. A suo modo anche Satie andava in cerca della verità. E probabilmente credé trovarla nel Socrate. Perrché questa ricerca della verità, questa fede, questo religiosismo erano tanto più urgenti nell'animo di lui, in quanto più imperiosamente egli si sentiva sollecitato dal demone della distruzione. Che è il carattere più vivo di Satie, e quello per quale questo macero e sprovveduto musico ha speranza di rimanere nella storia della musica.
L'uomo, e soprattutto l'artista, riflette nelle sue opere l'immagine dell'universo così come egli lo pensa. Per tempo lunghissimo, gli uomini pensarono l'universo in quella forma che noi chiamiamo aristotelica. Le scoperte di Copernico e di Galilei mostrarono la falsità di quella immagine. Malgrado ciò, gli uomini continuarono, e moltissimi continuano tuttora, a pensare l'universo verticale e a piramide. Né le sole menti basse, ma anche menti alte e imbottite di cognizioni, come Benedetto Croce. È solo nell'ultimo terzo del secolo passato, a buona distanza dalle scoperte degli astronomi, che alcuni artisti cominciarono a perdere fiducia nella forma dell'antico universo e a lasciarsi dietro le spalle la sua immagine ormai inerte. È Baudelaire, è Cézanne; poi, col solito ritardo della musica, Erik Satie. Tutti francesi. Perché nella mente francese, è più che in nessun'altra mente il senso della rivoluzione, cioè a dire il senso dell'accordo tra fisico e metafisico, nei continui sviluppi di questa doppia condizione. E questo loro compito naturale, i Francesi non lo dovrebbero dimenticare. Oggi soprattutto, che in un immenso movimento di reazione, gli uomini, dalle forme politiche alle forme della speculazione filosofica, sono avviati, per paura, per vigliaccheria mentale, a ricostituire un nuovo mondo aristotelico, e tanto piú illegittimo e assurdo, in quanto non su la fede può oggi poggiare un simile mondo, ma su una consapevole e imposta falsità.
Si disse: decadenza delle arti, della forma, della bellezza, della costruttività; e non era invece se non la fine della imitazione di un universo morto.
Oggi si parla della disintegrazione della materia. Anche in questo le arti sono anticipatrici. Nell'ultimo terzo del secolo passato, alcuni artisti cominciarono a dare mano alla disintegrazione della materia poetica. Opera ingrata ma necessaria. Nulla segnala che quegli artisti operassero consapevolmente. Ma operarono, e tanto basta. In musica, l'opera di disintegrazione fu compiuta da Erik Satie. In quella parte della sua opera che apparentemente ha carattere burlesco, meccanico, marionettistico, ironistico. È Parade, sono i Pezzi piriformi, ecc. Aspetti che ingannano. Come ingannano le didascalie umoristicamente sforzate, l'abolizione delle battute e delle agraffe tra basso e acuto. Scherzi che non fanno ridere nessuno, ma necessari a nascondere l'amarezza di quelle musiche, la necessaria crudeltà del loro compito. Che Vincent d'Indy abbia scritto Fervaal, non ha importanza storica. Che Henri Rabaud, per rimanere tra i compaesani di Satie, abbia scritto Marouf savetier du Caire, non ha importanza storica. Sparendo, queste opere non lascerebbero buco. Importanza storica invece hanno le musiche «burlesche» di Erik Satie: queste musiche che solo gl'ingenui tengono per ironistiche. Le quali musiche amarissime perché cariche di destino, tristissime perché nascondono il sacrificio del loro autore, hanno salvato la musica da una solenne morte per pompierismo.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)

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