Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, maggio 21, 2025

Philip Glass...

Philip Glass (Baltimora, 31 gennaio 1937)
Philip Glass, uno dei maggiori rappresentanti di quella particolare corrente di musica contemporanea, ha tenuto due indimenticabili concerti a Milano presentando la sua ultima, lunghissima composizione "Music In 12 parts", scritta per la nuova formazione: Jon Ginson, Dickie Landry, Ritch Peck ai fiati, Glass, La Barbara, Michael Riesman alle tastiere. La nostra intervista.

Dopo Roma, che negli ultimi anni é diventata una tappa d’obbligo per i rappresentanti di quella corrente particolare della musica contemporanea che rinnova la tradizione occidentale assimilando lo spirito dell'Oriente (Terry Riley, La Monte Young, Charlemagne Palestine ecc.), anche Milano ha avuto finalmente un primo assaggio di questa validissima "avanguardia". Sono state due serate indimenticabili, nel biancore quasi accecante di un grande salone della galleria d’arte di Salvatore Ala, durante le quali Philip Glass con il suo gruppo ha presentato due terzi della sua ultima, lunghissima composizione, "Music In 12 Parts".
I concerti erano gratuiti, ad invito (anche se in realtà chiunque risultava poi il benvenuto), ed il pubblico ovviamente ridotto numericamente ma in compenso straordinariamente eterogeneo. Meno d’un centinaio di persone, a sufficienza comunque per riempire completamente il salone, tra cui musicisti, critici, artisti, signore in pelliccia e giovanissimi appassionati in eskimo e jeans. Le due esibizioni di Glass hanno costituito in pratica l'inaugurazione di una serie di iniziative culturali, nell'ambito della galleria, che promettono di suscitare un sempre più vasto interesse (e la musica dovrebbe essere degnamente rappresentata anche in futuro). Nella prima serata ci sono state proposte le prime quattro parti della composizione, più un accenno alla quinta; nella seconda, il gruppo ha proseguito fino all'ottava parte. In tutto, più di tre ore di musica: musica viva, affascinante, sempre godibile, in cui la ricchezza di riferimenti culturali non scade mai ad arido intellettualismo, a sterile compiacimento. E viene spontaneo chiedersi perchè mai i soloni della musica "seria" si rifiutino di prendere in considerazione una corrente così vitale e già matura: forse perchè essa sfugge a regole che i grandi artisti e critici "contemporanei" ritengono valide per l'eternità?
"Music In 12 Parts" si basa, come precedenti opere di Glass, sul principio del "processo additivo", di derivazione orientale, che assume come suo fondamento la ripetizione di certi elementi variandone progressivamente la struttura ritmica e il rapporto armonico. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ne risulta monotonia: la musica emana anzi un fascino particolarissimo sfruttando le minime sfumature e raggiunge il massimo della sua efficacia proprio nei passaggi di tonalità. da una parte alla seguente (sicché gli intervalli necessari per concedere un po' di riposo agli esecutori vengono fatti cadere verso la meta di una data parte. e non tra una parte e l'altra). Glass è un musicista che considera essenziale presentare la musica dal vivo (i dischi sono per lui un aspetto secondario della sua attività) e ovviamente le sue composizioni sono impostate secondo il criterio dell'esecuzione in concerto, con ampio spazio per variazioni o deviazioni magari impreviste, purché aderenti allo spirito dello spartito. “Music In 12 Parts" è stata scritta appositamente per il gruppo che l'ha eseguita a Milano e nella composizione non sono previste parti solistiche, neppure per l'autore: per tutta la durata del pezzo gli strumentisti lavorano contemporaneamente, e il diverso "colore" delle varie parti si affida all‘alternarsi della preminenza tra le due sezioni della formazione, i tre organi elettrici (Philip Glass, Joan La Barbara, Michael Riesman) e i tre fiati (Jon Gibson, Dickie Landry, Richard Peck). Sopra all'intricato tessuto ritmico fornito dai tre organi, i fiati tracciano svariati disegni, a seconda degli strumenti impiegati (Gibson usa flauto e sax soprano, Landry flauto, sax alto, soprano e tenore, Peck sax alto e tenore), mentre si inseriscono spesso, a duettare con essi, i delicati vocalizzi della La Barbara. L'effetto complessivo è dolcemente ipnotico, ma, come si è detto, mai monotono in quanto le differenze tra le varie parti, pur nell’unità dell'impostazione, sono chiaramente individuabili: per conto mio, ho trovato "sinfonica" la parte 3, "jazzistica" la 4, "romantica" la 6, "primitiva" la 8, ma sono consapevole che si tratta di impressioni personali e discutibili. Le riporto per far comprendere quanto la composizione sia varia, pur basandosi su una struttura costante.
Al termine della seconda serata, ho potuto incontrare Glass, che si e rivelato una persona gentilissima e ben disposta a discorrere della propria attività ed esperienza, senza alcun atteggiamento da “genio superiore". Poiché all’ingresso erano stati distribuiti dei volantini della Chatham Square, con l'elenco dei dischi realizzati da Philip e da membri del suo gruppo come Dickie Landry e Jon Gibson, ho iniziato la conversazione chiedendogli di spiegarmi di che etichetta si trattasse.
"E' un'etichetta indipendente, con sede a New York, che ho fondato io stesso tre anni fa, perché servisse da sbocco discografico per me e per i miei colleghi. Non avrei potuto trovare un compromesso con la mentalità delle grandi case discografiche, per le quali ciò che conta è soltanto il successo immediato. I miei dischi vendono regolarmente, in modo progressivamente sempre più cospicuo, nello spazio di anni. Ma le grandi Case ragionano in termini di mesi. Così mi sono messo per conto mio, mi sono legato ad un’organizzazione indipendente di distribuzione negli USA, e ho iniziato la nuova attività. Ora sto concludendo degli accordi per la distribuzione in Europa; fino a quando saranno definiti, continueremo ad accettare ordinazioni per corrispondenza. Una cosa è certa: la nostra musica diventerà, entro pochi anni, molto importante, ed è giusto che siano i musicisti stessi a gestire la produzione discografica".
Che genere di persone compongono il tuo pubblico?
"In media, giovani dai 20 ai 30 anni. Molti sono appassionati di rock, che hanno già sentito accenni di quel che facciamo noi in dischi di gruppi pop, come i Pink Floyd (strano che Philip non accenni a gente come Eno e Tangerine Dream; forse non li conosce - n.d.r.) e così sono già in parte preparati ad apprezzare la nostra musica. Per ora il nostro circuito abituale, negli Stati Uniti come in Europa, é stato quello delle gallerie d’arte, dei musei, delle associazioni culturali, ma ci stiamo organizzando per ampliare il discorso, usufruendo anche di altre possibilita".
Quali sono le più importanti influenze di cui risenti come compositore ed esecutore?
"Oh, sono tantissime, non saprei elencare neppure quelle veramente determinanti. Ti posso dire che ho studiato musica per vent'anni, in varie scuole, fino alla Julliard, ma tutto ciò che avevo imparato era la tradizione classica occidentale; a ventott'anni sono andato in vacanza nell'Africa Settentrionale e ho cominciato a scoprire che esistono tante altre musiche. Questo mi ha stimolato moltissimo. Ho conosciuto poi la cultura indiana e un po' alla volta queste influenze hanno cambiato il mio mudo di comporre, di concepire la musica".
Quali sono i musicisti cui ti senti più vicino?
"Conosco bene i miei coetanei, Steve Reich che fu mio compagno di scuola, La Monte Young ecc., e seguo con interesse il loro lavoro che si svolge in una direzione simile alla mia. Ma sono ben cosciente del fatto che ci sono oggi tantissimi musicisti molto giovani agli inizi e mi piacerebbe conoscerli meglio. Il punto fondamentale è che oggi è diventato facilissimo entrare in contatto con culture musicali diverse: viaggiare è cosa normale per i giovani, procurarsi dischi di folklore o di musica classica orientali o africani o, che so, polinesiani è ormai piuttosto semplice. Così questi nuovi musicisti possono partire con una base culturale più ampia atta a fornire nuove soluzioni e idee più avanzate".
Mi confermi che c'é una ragione precisa per far cadere gli intervalli verso la metà delle parti della tua composizione?
"Sì, è come dici tu: il cambiamento di tempo, di atmosfera è la cosa più importante. Per questo non possiamo smettere di suonare quando si passa da una parte all'altra: si perderebbero i momenti più significativi. Un‘altra cosa sarebbe presentare la composizione tutta di seguito; ma ciò avviene forzatamente solo in situazioni particolari. Eseguire "Music In 12 Parts" per intero richiede 5-6 ore di concerto. L'abbiamo fatto qualche volta, e abbiamo già in programma di riprovarci in giugno, a Parigi. Ma sono occasioni speciali. Nei concerti normali ricorro a questa divisione per non snaturare il senso della composizione".
"Music In 12 Parts" è il tuo ultimo lavoro?
“Si, le ultime parti, dalla 9 alla 12, sono state composte quest'anno. Ma è dal '71 che ci lavoro sopra. Alcune altre mie composizioni sono apparse su disco: "Music In Fifths" e "Music In Similar Motion", entrambe del 1969, e "Music With Changing Part" del 1970 che forma un album doppio. Altre ancora non le ho mai registrate: "Two Pages", "600 Lines" ecc.".
Suno stati, questi di Milano, gli unici due concerti italiani nell'ambito d'una breve tournée europea: Glass è immediatamente ripartito per Parigi, da cui avrebbe poi proseguito per New York. Ma ho l'impressione che lo rivedremo presto in Italia: l'interesse dimostrato per la sua musica prima dal pubblico romano ed ora da quello milanese sembra essergli stato molto gradito. "Sì, forse ci rivedremo in primavera"», s'è lasciato scappare prima di accomiatarsi.
Daniele Caroli
("Ciao 2001", 15 Dicembre 1974, N. 50, Anno VI)

sabato, maggio 10, 2025

Variazioni Goldberg: Spazio aperto...

Guerrero, Citterio, Robinson, Maraldi e Watanabe: cinque interpreti doc uniti in un'avventura che regala nuova vita alle Variazioni più famose della storia della musica.

Opera nata come prontuario tecnico per clavicembalo irto di sperimentazioni ma, al tempo stesso, fecondo di soluzioni strutturali così intimamente sperimentali da riuscire ancora oggi a proporsi come ambito di confronto per differenti tipologie strumentali, le Variazioni Goldberg conservano un fascino conturbante capace di distinguerle da ogni altra composizione di Johann Sebastian Bach. Il violoncellista Jorge Alberto Guerrero - colombiano di Cali ma lombardo dai tempi del diploma - ci racconta il Progetto Goldberg, un'inedita trascrizione per due violini, viola, violoncello e clavicembalo. Al suo fianco Elisa Citterio, Nicholas Robinson, Gianni Maraldi e Takashi Watanabe, volti e nomi già noti a chi frequenta le avventure musicali di compagini come il Giardino Armonico, l'Accademia Bizantina, il Ghislieri Choir & Consort, o l'Estravagante.

La pratica della trascrizione, come riduzione di organici o come ausilio didattico, ha una lunga storia. Interessante soprattutto quando diventa stimolo per un nuovo obiettivo artistico. Come sono nate queste Goldberg?
«La genesi è stata casuale. Un paio d'anni fa Gianni Maraldi ci propose questo progetto. Iniziammo a studiarle rendendoci conto che avremmo dovuto intervenire molto sulle trascrizioni da lui procurate per trovare soluzioni più consone al nostro organico. Abbiamo quindi cambiato distribuzione delle parti, tempi, colori e articolazioni, anche durante la registrazione, cercando di far convivere la profondità dello studio con la massima spontaneità individuale. Elisa per prima ne ha trascritte alcune, ma la parte più bella del lavoro è stata quando, suonandole insieme, abbiamo cominciato a dar loro la nostra forma. L'esperienza strumentale di ciascuno di noi ha infatti permesso di trovare insieme nuove soluzioni. Di fronte a una trascrizione infatti occorre darsi delle regole e modificare le cose sulla base del fatto che il tutto deve suonare bene con l'organico a disposizione, pur seguendo nuove logiche. In questi ultimi anni ho recuperato più di 150 versioni discografiche per clavicembalo, pianoforte, trio d`archi (Sitkovetskij), orchestra da camera (Labadie) e quella jazz di Jacques Loussier. Questo mi ha motivato a portare avanti una proposta di registrazione con un nuovo organico, cosa che si è potuta realizzare grazie all'ospitalità, l'interessamento e il sostegno del Collegio Ghislieri di Pavia, senza il quale tutto questo non sarebbe stato possibile».
Un gruppo, il vostro, nato attorno a questo specifico progetto.
«Sì, anche se ci conosciamo da tanti anni. Nicholas ed Elisa sono considerati tra i migliori interpreti di musica antica in Italia ed è una fortuna averli insieme a noi, Gianni brillantemente ha pensato questa alchimia e io ho proposto Takashi, che ha inciso ultimamente una meravigliosa versione per cembalo  solo. Quale occasione migliore che avere con noi un cembalista che conosce l'opera a fondo ed entra a far parte di un progetto in cui le Goldberg diventano qualcosa d'altro?».
Questa interpretazione svela una dialettica interna molto densa. Vengono in mente, tra le altre cose, i Brandeburghesi e tutto quello che in maniera trasfigurata viene dalla musica popolare.
«Sì, vengono fuori tante cose. C'è chi considera Bach solo intelletto e spiritualità, ma io credo che ci sia molto di più, ossia tutte le passioni dell'animo umano. Nel nostro interpretare c'è spazio per tutto questo. Il fine ultimo non è solo il contrappunto, perché basta anche un intervallo a muovere l'animo in una certa direzione. Quando abbiamo iniziato a registrare ci siamo detti: “lasciamo che questa musica parli da sola”. Può essere ovviamente un rischio, ma il discorso deve avere una sua coerenza. È per questo che ho analizzato tutte le Variazioni, riguardato tutti gli organici e pensato alla struttura generale. Per esempio, dopo l'Adagio centrale, che riapre tutto come se fosse il secondo atto di un'opera, il disegno diventa più pressante. Tutto questo deve essere pensato, perché così si dimostra di aver compreso la composizione».
Mi ero appuntato la VII Variazione in forma di giga, qui per violino e violoncello. Sembra una scelta perfetta per rappresentare l'origine della danza.
«Mi piace questa osservazione. Sulla prima edizione a stampa Bach scrisse a mano Giga, perchè deve averla sentita suonare come una Siciliana, cioè con un tempo più lento. Mentre la sua è una Giga puntata, ovvero più nello stile inglese o francese. Per intuito noi abbiamo sentito un sapore più popolare. A Nicholas, per esempio, venivano in mente i marinai inglesi».
In generale il procedimento di espansione verso il quartetto pone la questione di come trattare la parte residuale del clavicembalo che diventa una sorta di basso continuo. È corretto?
«Ogni movimento ha posto delle questioni. In un paio di Variazioni in cui la melodia della mano destra della tastiera è molto spiccata, l'abbiamo resa con violino e cembalo, avendo in mente le Sonate per violino e cembalo obbligato. Quindi la tastiera realizza tutto quello che c'è già, mentre il violino esegue la parte della mano destra. Poi però nel ritornello rientrano violoncello e viola, e diventa tutta un'altra cosa. In un'altra Variazione i violini suonano all'unisono come se fosse un Brandeburghese e il trattamento diventa più orchestrale. In quelle per solo quartetto d'archi la parte viene passata da uno strumento all'altro per richiamare quel gioco tecnico degli incroci nell'alternanza delle mani. Qui abbiamo trasferito un certo tipo di difficoltà tastieristica nella difficoltà del linguaggio del quartetto».
Quello che perde più presenza è il clavicembalo.
«Sì, nella nostra versione non suona sempre, perché in certi casi il contrappunto è talmente fitto, come nella Terza per due violini e violoncello, da non lasciare spazio ad altri strumenti. Nel tema, il clavicembalo comincia la prima parte con un tasto solo e nel primo ritornello mette armonie e contrappunti, arricchendolo in una maniera ancora più barocca di quello che è. In certi momenti invece è completamente ritmico come una batteria rock, in altri più discreto».
Non sembra casuale che questo tipo di sperimentazioni si leghi più alle Goldberg rispetto a opere come l'Arte della Fuga, un terreno appositamente pensato per muovere una ricerca.
«Nell'Arte della Fuga Bach dimostra cosa si può fare con il contrappunto. Scrive canoni, fughe doppie e triple, per aumentazione e diminuzione, moto contrario, a soggetti incrociati, fino alla fuga a tre. Nelle Goldberg invece esplora le potenzialità dello strumento. L'interpretazione che a me convince di più sulla genesi dell'opera è quella di Peter Williams (Bach: The Goldberg Variations, Cambridge Music Handbooks, n.d.r.) il quale sostiene che Bach avrebbe dato al figlio Wilhelm Friedemann i primi tre volumi dei Klavierübung e teoricamente le Goldberg sarebbero state il quarto. La storia del principe che dorme non c'entrerebbe nulla. In realtà le avrebbe donate al figlio per consentirgli di presentarsi ai principi con qualcosa di grande impatto. È un po' come dire: “figlio mio, ti do questo, così trovi lavoro”. E le Goldberg sono perfette perché hanno contrappunto, cantabilità, ritmica, sfoggio tecnico. Ma se prendi le fughette o le ouvertures alla francese, ti accorgi che è musica pura anche se la fai con i sassofoni o con il computer. Il tema poi è davvero sorprendente perché non è quello che si sente alla mano destra, bensì al basso, su cui vengono costruite tutte le variazioni. È come se fosse una Passacaglia di fine Seicento, i cui trattamenti successivi portano a fine Ottocento fin quasi all'inizio del Novecento. Si va dalle Sonate di Corelli a qualcosa che sembra lo scherzo di un Quartetto di Sostakovic o addirittura Bartók».
Non si può non pensare a Glenn Gould. Cosa ne pensa delle sue celebri interpretazioni?
«Le Variazioni di Gould sono stratosferiche. In tutti noi hanno lasciato un segno, dato che difficilmente uno ascolta le Goldberg nella versione di Wanda Landowska».
Michele Coralli
("Amadeus", Anno XXVIII, Numero 5 (318), Maggio 2016)

giovedì, maggio 01, 2025

Alberto Savinio: Orchestre

Alberto Savinio (1891-1952)
In media io mi sento un'orchestra alla settimana. Molto 
spesso due. Parlo di orchestre sentite direttamente, non trasmesse. Se aprissi anche la radio di casa mia, allora sentirei orchestre tutti i giorni e dalla mattina alla sera. Ma la radio io non l'apro se non per le notizie necessarie. In casa mia io lavoro e mi circondo di silenzio. Non apparecchi che immettono suoni, dunque, ma apparecchi che intorno a me prosciugassero l'aria di ogni suono: che facessero per me ciò che la signora Carlyle faceva per suo marito, comperando e tirando il collo a tutti i galli e galline in un raggio di mezzo chilometro intorno alla sua casa, perché i chicchiricchí e i coccodè non turbassero le meditazioni del suo Thomas. E anche per una ragione morale. «Voglio conservare l'iniziativa» anche dei miei godimenti estetici. Un'orchestra mi piace andarmela a sentire da me, per volontà mia propria, e magari affrontando e superando quegli ostacoli di carattere materiale come tram, camminate, ecc. che sono la riprova dell'esercizio della nostra volontà. Ascoltare un'orchestra in pantofole e veste da camera, è il modo più passivo di ascoltare un'orchestra. Come mettere in bocca cibo già masticato. Oltre che una violazione di domicilio, l'immissione di suoni nella nostra casa è un trasformarci da creature attive e volitive, in creature passive e abuliche. Perché non si studiano gli effetti della musica trasmessa? Io prevedo un lento ma sicuro effetto devirilizzante. La vita collettiva, la progressiva diminuzione della solitudine e del silenzio, il propagarsi dell'architettura razionale che sostituisce la pietra, il legno e comunque le materie opache col vetro, allarga le finestre, abolisce le camere cubiche e fornite di finestre piccole e armate di solide persiane, fiaccheranno il carattere dell'uomo e a poco a poco lo distruggeranno, lo ridurranno a non pensare più e dunque a non volere. Poiché non c'è predica né provvedimento pubblico o privato che possano arrestare il progresso fatale e il generalizzarsi della vita collettiva e «razionalizzata», io propongo la costruzione di luoghi appositi fatti a imitazione dei bagni pubblici e delle pubbliche latrine, nei quali l'uomo si ridurrà di tanto in tanto per cura e magari in determinate ore della giornata, ove non vedrà altri uomini, non sentirà voci che gli parlano né rumori che lo frastornano, e ove potrà ricaricarsi di pensiero e di volontà. Ai quali silenziatoi e isolatoi pubblici sarà bene provvedere senza por tempo in mezzo, se non si vuole che la potenza mentale dell'uomo scenda al livello della potenza mentale dei galli e delle galline cui la signora Carlyle tirava il collo intorno a casa sua, perché non disturbassero il lavoro del suo Thomas. Si faccia in modo che ogni uomo degno di tal nome abbia per suo conto una signora Carlyle, o almeno i benefici di questa saggia e prudente signora.
S'intende che quante orchestre io sento, altrettanti direttori io sento; perché ancora non c'è esempio da noi di orchestre «senza direttore», a simiglianza di quella orchestra acefala (o cavallo senza morso, o carrozza senza cavalli) che per alcuni anni funzionò in Russia (nel paese che attua ciò che il saggio e stanco Occidente pensa ma non ha il coraggio o il candore o soltanto la pazienza di attuare) dando un esempio di libertà maggiore della nave radiocomandata. Ma quale differenza fra direttore e direttore? La bacchetta ora è più pesante, or più leggera; l'orchestra ora più torbida, ora più limpida; i tempi ora più vivi, ora più smorti; il sentimento ora più caldo, ora più freddo; il temperamento ora più impulsivo, ora più fiacco. Ma quale differenza «radicale» fra interpretazione e interpretazione? Nessuna. Prendiamo due fra i direttori più pregiati: Victor De Sabata e Antonio Guarnieri. Bravissimi entrambi, nel senso che sotto la costoro bacchetta l'orchestra suona più levigata, si colora di colori più vivi, canta con accenti più vibranti, spicca oppure fonde meglio le varie sonorità. Questo e niente più. Comparata all'arte del dipingere, l'orchestra migliore di oggi si adegua alla pittura fine Ottocento, alla pastosità, al rotondo, allo sfumato, alla «pasta» di un Giacomo Grosso o di un Marius Pictor. Scegliamo paralleli più illustri: ha la finitezza e il polito della Salammbò, questo romanzo mancato, questo romanzo «pompiere» di Flaubert. Scegliamo paralleli più illustri ancora: ha il chiaroscuro del San Giovanni di Leonardo. Ma nel frattempo c'è stato l'impressionismo, c'è stato il cézannismo, c'è stato il postimpressionismo, c'è stato il «belluismo», c'è stato il cubismo, c'è stato il surrealismo e le equivalenti esperienze letterarie, filosofiche, psicologiche, metapsichiche. E ognuna di queste esperienze è un modo diverso di considerare l'anatomia dell'universo: ora considerando l'universo «decorticato» e con la fascia muscolare a nudo (Cézanne), ora considerando la sola struttura ossea dell'universo (cubismo), ora considerando la parte visibile ed effabile dell'universo e assieme quella invisibile e ineffabile (surrealismo). L'orchestra invece, raggiunta a suo tempo con grande sforzo e per merito di Debussy la condizione impressionista, continua per lo più a presentarci l'universo attraverso i suoni rigorosamente coperto della sua pelle (pelle quasi sempre di seta o di velluto), adorno di tutti i suoi peli, nei e capellatura all'onda, e vestita di abiti di garza a imitazione delle vignette pubblicitarie che nei primi anni del secolo magnificavano le virtù della Venus Bertelli. L'orchestra è rimasta fedele all'«ideale» di bellezza che era quello delle Biennali di Vittoria Pica e della Scena illustrata di Pilade Pollazzi. L'orchestra in altre parole è ancora wagneriana e dannunziana, ossia chiaroscurista, estetizzante e superficiale. Intanto, in un inattuabile sogno, noi immaginiamo una interpretazione «cubista» delle nove sinfonie di Beethoven, una interpretazione «surrealista» della Creazione di Haydn, e nel teatro della nostra generosa fantasia assaporiamo divini godimenti.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)