Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, ottobre 21, 2025

La «La cravatta bianca» di Beniamino Dal Fabbro

Beniamino Dal Fabbro (1910-1989)
Non sembri strano che di un libro di 
prose, apparso in una collezione di poesia, si parli in una rivista di musica. Ma «La cravatta bianca» (Mondadori editore, collezione «I poeti dello specchio») è di Beniamino Dal Fabbro, uno dei quattro o cinque critici musicali cui bisogna portare rispetto. Ciò non vuol dire che si possa o si debba, per cortigianeria o pavidità, essere sempre d'accordo, con lui. Vuol dire soltanto riconoscere, se non si è degli sciocchi presuntuosi o dei saccenti in malafede, la sbalorditiva cultura e la specifica preparazione di un uomo che combatte e ha sempre combattuto a visiera alzata senza essere scoraggiato dalle sconfitte né esaltato dalle vittorie.
Poeta e traduttore di poeti (esemplari al punto da assurgere a paradigma le sue versioni da Paul Valery, raccolte in un volume edito dal Feltrinelli) ha fra l'altro il dono di possedere la lingua italiana come pochi. Di essa si serve per la costruzione di un linguaggio che proprio nell'esercizio della sua attività di critico musicale piega, nel fervore della polemica o nell'analisi illuminante di una composizione o di una esecuzione, ad impensate e impensabili modalità narrative o ad un`acre ironia di natura enciclopedistica. La prosa critica di Dal Fabbro non grava mai sul lettore, piuttosto lo stimola e talvolta lo eccita, Tal'altra lo ingolosisce e perfino lo irrita sottilmente, sempre lo interessa, facendosi divorare fino all'ultima riga, non compiutamente saziandolo. Perché questo è un po' il segreto del Dal Fabbro esegeta: lasciare aperta ogni possibilità di sviluppo del discorso per le successive puntate. Occasionalmente, il periodare si allarga in ampie volute, ove i vocaboli anziché attingere al barocco (come si potrebbe supporre vistone l'aspetto da lontano) sgorgano con disinvoltura dai grandi movimenti dell'epoca nostra: il simbolismo, il surrealismo e, perché no, il cubismo, il futurismo, il dadaismo.
«La cravatta bianca» si denomina dall'ultimo capitolo, tragico, pietoso e crudele («...potrei scegliere i giorni in cui mi mettevo al collo una cravatta bianca, la mia bella cravatta di seta bianca, in opposizione d'odio e di sfida a quanti indossavano nere insegne, issavano sul nero berretto uccelli rapaci, si decoravano il petto con teschi umani di pirateria e di farmacia su fondo nero...»). Raggruppa prose liriche, saggi, dialoghi, aforismi, caratteri, ricordi, note di viaggio e di taccuino fino a comporre un perfetto ritratto intimo dell'autore. Si tratta, in sostanza, d'una serie di confessioni e non v'è bisogno di leggere tra le righe o di seguire dei corsi di psicanalisi o di psicologia onde comprenderle: l`uomo che si consegna nelle pagine de «La cravatta bianca» è due volte moderno: nella mancanza di esitazioni e nella denuncia della sua condizione di solitario. Le sue debolezze e i suoi furori, le sue passioni e le sue nostalgie, la sua melanconia e la sua esaltazione contrappuntano la carta geografica della memoria da lui disegnata a poco a poco. Colorata con l'ingenuità disarmante della fanciullezza («Firenze dopo il diluvio», con un'interpretazione della citta destinata ad avvinghiarsi ai ricordi personali del lettore in maniera inobliabile); con gli slanci e il ritegno, le effusioni e i pudori della giovinezza, appena stemperati da un'oggettività che sfiora l'indifferenza voluta («Quaderno di Villapluvia» e «Tre stagioni marine», per fare degli esempi); con l'esperienza, da tante prove filtrata, della maturità («Das Leben in Venedig», «Carte veneziane», «Interno I» e «Interno II», tanto per fare altri esempi).
I lombardi in genere e i milanesi in particolare nel capitolo «Carte milanesi» hanno modo di sentire il profumo, tutto e veramente poetico, di una città perduta e chi non ne ha mai vissuto le ore e i giorni rievocati da Dal Fabbro, scopre nello stato emozionale dell'archeologo (ma potrebbe trattarsi di un alluminatore intimista) i costumi e le civiltà di un altro mondo.
L'intero libro trabocca di musica e non solo e non tanto per l'armoniosità del linguaggio, quanto per la presenza vorrei dire fisica della più umana e della più divina delle arti, estrinsecata dalla creazione di atmosfere o dalla rievocazione di compositori e di esecutori o dal tratteggio degli strumenti. «Fu nella sala grande della Pensione Demidoff, dov'era uno strumento di mogano chiaro eccessivamente incrostato di madreperla, che per la prima volta ebbi a sedermi davanti agli avori d'una tastiera, con l`atteggiamento di chi si prepara a trarne dei suoni secondo una qualche regola o tecnica dell'arte» (pag. 21). Ancora qualche citazione. «Al segnale dell`ultime trombe faticherà Rossini a smuovere i suggelli dorati della sua dimora di marmo, a farsi largo tra le opulente figure femminili del trionfo funebre. Dietro l`alto spigolo della navata di Santa Croce, Cherubini aspetterà qualche minuto per non incontrarlo» (pagg. 39, 40), «D'una giovane pianista che ha dato un pubblico concerto nessun giornale osa dare un meritato giudizio negativo e nemmeno alludere a un suo grave fallo di memoria, mentre a insigni e anziani concertisti si sogliono addebitare le note false incidentali. Si viene poi a sapere che alla virtuosa è padre un colonnello dei carabinieri» (pag. 50) E Donna Laura? (pagg. 66, 67). E la musica in Via San Marco? (pagg. 112, 114). E i vari aspetti della musica a Venezia (pagg. 150, 151; 160, 161; 165, 166) e anche a Villapluvia? (pagg. 231, 235). E poi «Un alloggio nel melodramma» e il «Dialogo di Florestano e di un amico» e la recita della «Mignon» di Thomas.
Su tutto il libro s`innalza una testimonianza d'amore tenero e disperato per quel pianoforte nel cui crepuscolo (oggetto di un indimenticabile libro di Dal Fabbro, edito da Einaudi) sono destinate a dissolversi alcune delle pagine più belle della storia della musica. Questa testimonianza s'intitola «Pianoforte sul mare» e va dalla pagina 193 alla pagina 196, terminando con la seguente frase: «Stanotte vorrei ascoltare da questo muretto sepolcrale rosicchiato dalla salsedine gli echi del concerto, il piccolo, gracile, futile grandinìo del pianoforte laggiù, lontano dalla vita come dalla morte».
Giovanni Attilio Baldi
("Disclub" 19, anno IV, marzo-aprile 1966)

sabato, ottobre 11, 2025

Magister Umidus

Claude Debussy (1862-1918)
Non molti giorni or sono, nella Sala Regia di Palazzo Ve
nezia, in uno dei concerti di musica da camera organizzati dalla Radio, ho riudito La Sonata per violino e pianoforteil Trio per arpa, viola e flauto di Claude Debussy. E una volta ancora la sonorità larvale di queste musiche mi ha rammentato la disperata maledizione che il pellerossa pronuncia contro se stesso.
Silenzio!
Ecco attaccano le prime note del Trio:
«Mia madre mi ha generato nella pioggia e nella nebbia, perché io pianga come la pioggia e sia lacerato come le nubi. Maledetto il giorno della mia nascita, maledetta la notte nella quale fui concepito».
Mirabile relazione tra le leggi biologiche e le leggi religiose che lo spirito dell'uomo si è creato quaggiù. La biologia insegna che la condizione necessaria alla fecondazione dei germi è il buio perfetto. Come non scoprire una ineffabile relazione fra questa legge e la legge «religiosa» che impone di chiudere l'accoppiamento dentro l'angusto buio della notte? Uomini e donne si accoppiano anche in altre ore del giorno, e gli adulteri usano incontrarsi per lo più nel medio pomeriggio; ma sono accoppiamenti sterili.
Musica «geografica». Tale soprattutto la musica spagnola. Tale anche la musica russa. E s'intende che musica in cui il carattere geografico è dominante, è una musica inferiore - anche la musica dei «Cinque» dunque, con tutto che così bella e sonora di nostalgie - ma la sua tanta bellezza trae principalmente dall'anima del territorio, e dunque ha sempre un che di infinitamente patetico ma assieme di caduco, di mortale.
Anche la musica francese è «geografica», e questa sua sommissione alle ragioni terriere determina un suo costante stato di inferiorità, la vieta un alto e libero volo.
Da qui il suo perpetuo sforzo di volare -la sua insistente «leggerezza».
Mi riferisco soprattutto a Debussy, ossia al più francese dei musici francesi. Il quale, come una perfetta guida meteorologica, avverte che la Francia è paese umido e ventoso.
Ventosa è anche la musica di Franck il belga, la cui opera rientra nell'aura della musica francese. Costui diceva «les éoliennes», ma in verità si tratta della morne plaine di Waterloo percorsa da venti continui e di onda lunga. (Cfr. soprattutto la Sonata per violino e pianoforte, che propriamente è la messa in musica di una corrente d'aria).
La musica di Debussy è molle, fradicia, sgocciolante. Anche quella dell'ultimo periodo è più corposa, come la Sonata per violino e pianoforte citata in principio. Essendo bagnate le sue ali, il suo volo è basso e greve.
La voce di Claude Debussy suona gemente fra le nebbie. Dalle quali emerge talvolta come un liquido un fantasma, un fantasma di annegato, la faccia melmosa e lunare di lui: magister Urnidus.
Non riesco a sentire musica di Debussy, e non vedere assieme la faccia del suo autore. Pochi musici somigliano fisicamente alla propria opera, quanto colui che Gabriele D'Annunzio, nel Mistero di san Sebastiano, chiama magister Claudius. In questa mania di Gabriele D'Annunzio di cambiare i nomi anche delle persone, e di Ildebrando Pizzetti fare Ildebrando da Parma, di Claude Debussy fare magister Claudius, di Daniela Palmer fare Palma Palmer (di Giovanni Pascoli, D'Annunzio aveva tentato di fare «Giovanni di San Mauro»), è la spiegazione di quella lingua specialissima di Gabriele, nella quale le parole hanno un aspetto, un suono e un sapore diversi da quelli delle parole usuali, aderenti alle cose che esse nominano e piene del loro significato. Alcune musiche di Beethoven sembrano scritte da un volto giovanile, altre da un volto senile, ma diversissimi entrambi dal volto giovanile e dal volto senile di Beethoven. Debussy invece sembra non avere altra cura nella sua attività di musico, se non di scrivere il proprio ritratto perennemente, con una scrittura sonoramente diffusa e soprattutto liquida. Perché Debussy non è soltanto un nome scritto sull'acqua, ma è un volto ancora scritto sull'acqua, questo musico ofeliano. E non appena laggiù sul podio il maestro direttore, nero e preciso nella sua coda di rondine, e così diverso da Monsieur Croche «antidilettante», attacca le prime battute di Iberia, ecco che il volto di Debussy mi riappare nella mente; emerge sullo specchio d'acqua della mente; trapela sull'acqua stagnante della mente; si stende gonfio di sonno tra le ninfee immobili e marcescenti che le mani di un altro Claude - Monet - hanno sparso su questo stagno immobile come la morte, nel quale si fondono e muoiono per annegamento tutti i colori; i tratti ingreviti e allungati dal tempo, le palpebre pesanti e lunghe, e lunghi e pesanti i lobi delle orecchie, e lunghe e pesanti le labbra. E guardando questo volto che lentamente si sfalda nell'acqua e sul quale pesa a tocchi leggerissimi le sue zampe di vetro filato una zanzara gigantesca; soffocato da questo silenzio, da questi fiori di nebbia, da quest'aria di gomma strutta in cui non una eco rimane, non il più pallido ricordo sopravvive di un cielo turchino, di un cirro bianco, di una folgore che balza fuori dalla nube, di una voce che canta, di un uomo che chiama, di una donna che grida, di un bimbo che piange, di un uccello che passa, di un pesce che guizza, di una ghianda che cade giù dal platano, di un'acqua che corre, di un bue che muggisce, di un cane che abbaia, di un asino che raglia, di una gallina che chioccia, di una foglia che stormisce al vento, di un dormiente che sospira, di un treno che passa, di un piroscafo che fischia, di un motore che romba; mi torna su da un lontanissimo fondo di immagini dimenticate, spinta su da un fiato prigioniero, da un'umida angoscia, questa considerazione assurda: «Guarda, guarda Ofelia che ha messo la barba...» E a
proposito delle orecchie di Debussy, giova anche ricordare quel turco che era arrivato all'età di centocinquantaquattro anni, quando fu chiesto in isposo da un'americana, il quale ogni cinque anni aveva come una spinta di crescenza, che gli aveva allungato i lobi delle orecchie fino alle spalle.
Eppure Iberia, questa sequenza di immagini sonore ispirate dalla Spagna e alla Spagna dedicate, è la meno debussiana delle musiche di Debussy; tanto vivo è il sangue della Spagna, ostinato a non lasciarsi sopraffare da quel sinuoso, da quel dolciastro, da quell'avvolgente e asfissiante invito alla morte che sono i suoni di Debussy. Perché della morte la Spagna ha il gusto, né giova in questo luogo ricordare quanto e in quale modo lo ha saputo dimostrare, ma la morte spagnola non conosce preparazione, è una morte viva, un salto improvviso e spensierato nella morte; diversamente dalla musica di Debussy che è tutta una preparazione alla morte, e forse per questo in fondo essa è una maniera esangue di non morire, una vita minima e allungatissima, una debolissima e pallidissima forma di immortalità. Un giorno d'altra parte bisognerà disegnare l'atlante della moda nelle arti, seguire i suoi spostamenti sulla palla dell'orbe, indicare come fino a Berlioz l'Italia ispirò i musicisti francesi (Carnaval romain, Benvenuto Cellini, Aroldo in Italia) e come di poi questo compito se lo è preso la Spagna, ispirando Bizet, Debussy, Ravel.
Torno a guardare la faccia lunare di Debussy, immersa nell'acqua verdastra dello stagno. E a poco a poco la faccia di Debussy sparisce e solo l'orecchio rimane visibile, unica parte essenziale della testa di magister Claudius. Debussy è il più immusicato dei musici.
Colui nel quale la musica come vizio inibitore di tutte le facoltà che non sono quella dell'audizione esterna e dell'audizione interna dei suoni: facoltà di pensare, facoltà di guardare, facoltà di sentire, arriva alle sue conseguenze ultime. E l'orecchio di magister Claudius, enorme e grasso come una molle conchiglia, si posa più che in ascolto, si posa in ascoltazione sulla pelle della natura; e diventa microacustico per cogliere l'infinitamente piccolo dei suoni, siccome il microscopio coglie l'infinitamente piccolo degli aspetti. Perché il moto di avvicinamento dell'arte alla vita iniziato da Bizet, e del quale ho parlato un'altra volta a proposito della Carmen, continua ancora. E siccome Bizet ha staccato la musica dalla sua sublime convenzionalità e l'ha avvicinata alla vita naturale, Debussy per parte sua accorcia ancora le distanze, le abolisce addirittura, e il suo orecchio tocca, aderisce, s'incolla al corpo della natura, per cogliere le sue voci più piccole, le sue confessioni più gelose, come l'orecchio del medico si posa sulla schiena dell'ammalato per cogliere il canto profondo dei suoi bronchi. E ogni prospettiva manca nella musica di Debussy, questo più «naturale» dei musici, quella prospettiva che fa maestosa l'arte e solitaria, e sacra come un altare. E i suoni naturali sono colti nella loro nuda intimità, nel loro naturale disordine, nella loro disperata alogicità, nella loro distesa noia nel tempo, nella loro abbandonata inerzia nello spazio. E il tema manca, che è creazione e arbitrio dell'uomo, e non rimane se non un pulviscolo di elementi per terra che appena appena si muovono come dei vermi neonati, uno sciame di elementi minimi nell'aria, un nugolo di bollicine che salgono dal fondo del mare a un pieno così totale di esistenza, che non lascia buco, di una volontà di uomo. Natura sommerge l'uomo come una foresta tropicale, come un mare di sabbia, in un correre continuo di cose che sfuggono all'esame, si sottraggono al giudizio, e passano attraverso i filtri più stretti della volontà umana; un ondeggiare senza posa, un brulicare senza fine, un brillare ininterrotto in tanto continuo e universale essere, che l'essere stesso dell'essere si disgrega e sparisce. Quale altra causa cercare a questo non essere della musica di Debussy, a questo suo non lasciare traccia di sé, non memoria di suono; quale altra causa di questo suo essere troppo, di questo suo essere tutto? L'alleanza tra arte e natura è ormai perfetta. Nessun di più è consentito. Ed è per questo che la musica arrivata a Debussy, è come una locomotiva arrivata ai respingenti di un binario morto; e le tocca tornare indietro, ritornare a Bach, ritornare alla sua regione solitaria e astratta, lontana dalla natura allettatrice e deleteria.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)

giovedì, ottobre 02, 2025

Grandezza e inadeguatezza di Busoni

Angel SBL/3719 (2 lps)
In questo scritto cercheremo non soltanto di dimostrare come e perché il Concerto per pianoforte, coro maschile e orchestra op. 39 sia un lavoro fra i più emblematici di Ferruccio Busoni, ma anche e soprattutto, attraverso tale emblematicità cercheremo di vedere i limiti del compositore toscano: limiti che non vorranno abbassare la sua figura, ma, al contrario, innalzarla fino ai più alti fastigi della contraddittorietà tragica. Riteniamo, infatti, l'essere contraddittorio come una delle più significative, e generose, testimonianze dello stato, quasi insostenibile, in cui si era venuta a trovare, a cavallo fra i due secoli, la cultura borghese: latrice, per virtù propria, dei più qualificati mezzi atti a superare il momento di marcescenza e di demistificazione in cui era invischiata, ma .incapace, anche, di sceglierne uno. e uno solo, di questi mezzi: di scegliere, intendo, in senso rivoluzionario. I motivi di questa incapacità drammatica sono, ovviamente, diversi a seconda delle singole individualità che si trovarono coinvolte in tale problematica: ma ve ne è uno, di questi motivi, che può identificarsi con la 
«mediatezza», cioè con la pellicola culta che fa da tramite, separandoli anche, fra uomo e oggetto, una pellicola che si ispessisce fino a diventare, essa stessa, oggetto e, poi, oggettualità, cioè a dire infrastruttura immobile corroborata dalla posizione di vertice che, sempre più coscientemente, l'artista veniva assumendo in seno alla società borghese, dai falsi miti che tale posizione veniva creando in un àmbito essenziale, e dal distacco, sempre più marcato, che andava separando queste due entità. Un distacco che, nei casi migliori, trasformava tale pellicola in un campo reattivo efficace ma limitato, cioè incapace di infrangersi rivoluzionariamente e di permettere di ricominciare tutto da capo.
Questo è l'elemento che accomuna Busoni agli altri grandi musicisti, in un senso o nell'altro, progressisti dell'epoca (Mahler, Berg, Scbönberg, Hindemith, ecc.) o di poco posteriori: cercare di approfondire gli elementi singolari che concernono la poetica busoniana in particolare, significa collocare il musicista toscano in un'impietosa posizione analitica da cui non potrà non sortire, come effetto supremo, una chiarificazione dell'esatta essenzialità e della giusta posizione delle varie componenti, e, quindi, una maggiore precisione prospettica: anche a mettere nel conto le varie cose che saranno giudicate come negative.
Una delle più evidenti contraddizioni di questo poderoso Concerto, è articolabile nel modo che segue: si sa che Busoni «ripen» - ma questo verbo è completamente inadeguato - il linguaggio musicale ottocentesco; lo «ripensò» non tanto in senso ricapitolativo, quanto in senso analitico, cioè a dire con l'illusione di poterne rivivere tutti i nessi - musicali e, quindiesistenziali - grazie a un'operazione di scomposizione, e di singola messa a fuoco, di tutto quel formidabile, e formidabilmente posseduto, patrimonio. Ora, una prima contraddizione è data dalla polare distanza che separa il concetto di «operazione» da quello che concerne il «rivivere» a tutti gli effetti: contraddizione non palesata esplicitamente (ecco la distanza da Mahler), ma accettata implicitamente (e tragicamente; seconda contraddizione complementare) dal criticismo che accompagnava la cultura stessa del musicista. Criticismo innato: che inerisce alle cose, che le adombra, che le appesantisce; ma che non le supera, essendo, da sempre, il loro compagno di viaggio inseparabile (la vera dialettica nasce dalla separazione). Ma c'è dell'altro.
Questa contorta identificazione col linguaggio classico, a contatto con un'opera impegnativamente dilatata come il nostro Concerto, dà luogo a ulteriori complicazioni. Infatti, se pensiamo a uno dei presupposti fondamentali - presupposto fatto proprio da Busoni - dell'ideologia linguistica ottocentesca, e se indichiamo tale presupposto nel rapporto dialettico che si viene a creare fra interno ed esterno, fra microstrutture e macrostrutture. tra intimità e dilatazione, fra particolare e generale - vedremo subito come sia una tipica illusione del musicista toscano potersi espandere in senso lato dall'implicazione sui classici. Nel Concerto, il particolare, le microstrutture, l'interno sono  «a posto»: sono legati, tutti, alla condizione tesaurizzante e profonda dell'uomo di cultura. Ma quando ricercano il proprio opposto, si gettano allo sbaraglio: e il discorso di Busoni, perdendo il realismo individualistico che l'aveva caratterizzato, diventa - espanso - non già formalismo, non già convenzione, ma mera, tragica astrattezza. Vedremo meglio in séguito dove vada a finire questa astrattezza; per ora, basti averla ricordata come conseguenza d'un'intimità troppo solipsistica, troppo «se stessa», troppo esemplare: dove questa esemplarità non è altro che un rivolgersi all'oggetto per il tramite d'una pellicola (la «cultura») le cui parti dinamiche sono girate esclusivamente verso l'oggetto stesso e ignorano del tutto le represse esigenze motorie, dialettiche del soggetto. E il contrasto scoppia quando ci si rivolge a esso, al soggetto appunto, per secondare la necessaria varietà fisionomica di quel linguaggio; il soggetto, richiesto di uno scatto improvviso, incespica, cade e prende una strada che porta verso il nulla, verso la rappresentazione priva di qualificazione, verso l'astratto.
Il Concerto, composto nel 1904, risente di alcuni tratti specifici della cultura di quegli anni: di una certa tendenza mistico-eroica-iperbolica, per esempio, che fa venire in mente Scriabin (e nettamente scriabiniano è il secondo tema del primo movimento). Ora, scoppia, palese, un'altra contraddizione non appena si tenti di far entrare questo reale contrassegno «esterno» nell'impianto dialettico di Busoni: un impianto che, s'è visto, prevede un atteggiamento positivo, nei confronti del linguaggio ottocentesco nettamente «fermo», ovvero in grado di sviluppare una microscopica dialettica che non è quella delle sfumature, ma quella dei micromondi articolabili là dove si verifica un'adesione, a tale linguaggio, capillare, analitica, sottilmente fidente. Ora, questa tendenza all'accoglimento di certe tendenze di quegli anni, oltre che incompletamente realizzata (certi scorci linguistici scriabiniani, per esempio, non sono affatto, in Busoni, armonicamente squilibranti), si sovrappone a quella dialettica, diciamo, microscopica: ma senza arrecarle disturbo, senza interferire sul suo corso. Sicché, le due «voci» si espandono mirabilmente, ma restano l'una estranea all'altra, finendo col costruirsi, al massimo, come «attributi» che, sia pur generosamente accettati e sviluppati dall'artista, si articolano al di fuori della loro intima sostanza: vivono, cioè, contraddittoriamente rispetto alla loro essenza. Una vita classica la cui permeabilità - ripeto - intima e microscopica rimane un fondamentale attributo di Busoni ma che, impermeabile rispetto agli accadimenti esterni, decade, dal rango di tragica grandezza che occupava quando era «sola», al rango di inadeguatezza rispetto allo svolgersi esterno dell'argomento e, quindi, al rango di elemento ridotto a mera, ancorché ingiusta, formalità. «Ingiusta», s'è detto: l'essenza di Busoni, infatti, rimane, in sé, immutabile sui valori che abbiamo ricordato; è il contatto inesistente con una provocatoria - e non importa se, anch'essa, male intesa - vita esterna che la riduce al rango formale, inadeguato, vaniloquente.
Per comprendere meglio questa pur vanamente auto-provocatoria impermeabilità di Busoni, si può pensare all'intromissione, in due movimenti del Concerto, di motivi popolari e canzonettistici. Ci si riferisce subito a influenze mahleriane, non tanto per la esistenza di tali motivi in sé quanto per l'accurata conservazione di tutta la loro carica banale e volgare. Senonché Busoni a differenza di Mahler, cade pietosamente: cade perché tali banalità e volgarità scivolano su una forma rimasta allo stato, ripeto, di microscopica autenticità e immutabilità e, quindi, non sottoposta ad alcun procedimento critico. Ancora, dunque, due elementi impermeabili in urtante convivenza; ancora un'inadeguatezza di Busoni nei confronti d'un elemento generosamente e incautamente preso dall'esterno.
Ma, anche, una vittoria del senso interno. Ora, a tacere dell'inutilità - molto emblematica di per sé - di questi accostamenti, vale tale vittoria? In sé, come rassodamento d'un patrimonio, certo; ma l'auto-provocazione, inutile sul piano della risultante, non può essere considerata tale su un piano più generale: precisamente, sul piano che prevede un filtraggio, dell'auto-provocazione stessa, e una riduzione da parte del sostrato culturale di Busoni. Cosa, questa, che non avviene, e che, anzi, resta come testimonianza implicita d:un'insufficienza cui la riconosciuta generosità non attribuisce qualificazione alcuna. A meno che non si vogliano intendere questi trasbordi busoniani nel popolare come un tentativo di ripristinare l'aulico antropocentrismo goethiano o, semmai, mendelssohniano! Ipotesi ingloriosa, che vedrebbe il trionfo dell'elemento «estraneo», il suo rimanere prosaicamente, staticamente e pertinacemente tale. Ipotesi che lo stesso nobile e sofferto brulichio della vita interiore di Busoni ci invita recisamente a scartare.
A parte gli episodi citati (dei quali, sono quelli relativi alle divagazioni canzonettistiche assumono il ruolo di vigoroso disturbo), il Concerto riesce a dare, molto spesso, l'idea entusiasmante di una splendida «fantasia contrappuntistica». Parlare semplicemente di «talento musicale» e soffermarsi ad analizzarne i tratti, ci sembra impresa mistificatoria o, almeno, oscurantistica. E' molto più realistico ricordare che questa mirabile forza contrappuntistica riesce a tirarsi dietro, nel suo plastico incedere, ogni pur rilevante peso culturale di Busoni. E qui il compositore toscano ha veramente vinto col suo solipsismo che, superando il peso inibitorio della cultura analitica, ne ha fatto una componente, un elemento rappresentativo, ed è riuscito a imporlo, come sovrana ragione individualisticamente accentratrice, su tutto e contro tutto. E' arte di netta decadenza: non trionfa, per - ancora, malgrado tutto e dopo tutto - splendida ragione interne, la forma (come, per esempio, nel primo Schönberg), sebbene l'uomo che, mediatamente, adotta la forma, che riesce a fare, di essa, una summa che riesce a oggettivarla, malgrado le contraddizioni d'una soggettività a volte (s'é visto) inadeguata, in un ambito classico in seno al quale l'«estetica» é ancora in grado di essere retta da una moralità dinamica e commoventemente auto-formativa.
Ripeto: la decadenza é in agguato; e non solo nelle palesi e pesanti contraddizioni che abbiamo ricordato, bensì anche - e, più sottilmente, soprattutto - in quel concetto di oggettivazione, del fatto artistico, le cui originarie ragioni di autonomia incominciavano a essere seriamente minate, nel 1904, da un serpeggiante anelito globale originato - Marx insegna - dalla crisi di coscienza che stava principiando a caratterizzare quell'oggettività stessa. Busoni è al di fuori di tutto questo: gli si oppone implicitamente proprio con la pertinace percorribilità analitica delle sue ricordate microstrutture. Ogni centimetro conquistato - sia pur in modo del tutto parziale - da Busoni in questo fantomatico e inconscio braccio di ferro, é un inamovibile elemento della sua tragica e contradittoria grandezza.
Ottima l'incisione che, del Concerto, ha curato la casa «Angel» (SBL/3719) in due dischi (la quarta facciata é dedicata alla Sarabanda e Corteggio dal Doktor Faust op. 51). Protagonista di questa faticosa impresa è il giovane pianista inglese John Ogdon: un interprete sicuro, meditato e caratterizzato da un virtuosismo abbrunato, cioè come appesantito da implicazioni che, indipendentemente dalla loro natura e dalla loro origine, si prestano mirabilmente alla resa esatta del virtuosismo busoniano. Ottimo direttore, sul podio della «Royal Philarmonic Orchestra», si rivela Daniel Revenaugh.
Gianfranco Zàccaro
("Disclub" 30/31, anno VII, maggio-dicembre 1969)

sabato, settembre 20, 2025

Beethoven: Amico per sempre...

I vecchi amici ci abbandonano, amici nuovi vengono a 
noi. Se non oggi, questi a loro volta ci abbandoneranno domani. Volti che s'immergono nel buio di ieri, volti che emergono dal buio di domani. Sguardi che si spengono e sguardi che si accendono. Perdite e acquisti. Separazioni e ritrovamenti. Che alternarsi continuo! Che rimutarsi fatale! E come gli stessi morti continuano a rivivere per noi, a rimorire! E come i vivi talvolta spariscono a un tratto più che morti! E come voci che cantarono un secolo, due secoli, addietro tornano ancora come le stagioni! E come altre voci che appena ieri cantavano non tornano più! Tutti caduchi però più o meno, incerti, deboli della debolezza mortale, schiavi del tempo che presto o tardi li corrode, li distrugge, li annienta.
Solo lui, Beethoven, non ci abbandona mai.
L'altro ieri eravamo wagneriani, e ieri non più. Oggi siamo di nuovo wagneriani sebbene in altro modo, ma di domani che possiamo dire? Un giorno, fastiditi dalla ginnastica balorda dei giganti, assordati dalle continue minacce di un destino michelangiolesco, credemmo trovare nella spudorata frivolità di Rossini l'antidoto salutare, sperammo potesse aggiungere quel formidabile mangiatore di pasta asciutta la sua parte di suoni alla malinconica serenità della statuaria greca. Ma l'indomani subito che una opaca desolazione era calata sul Mediterraneo illusore, invocavamo già con nostalgia le melodie filiformi del pallido Bellini, spingevamo il cinismo fino a desiderare le ariette di Don Gaetano Donizetti, che chi sa per quale associazione di ricordi richiamavano alla nostra mente la trasformazione di Pinocchio in ciuchino. Altre volte ancora non trovavamo salvezza se non nelle pierotterie lunari di Robert Schumann, e la faccia scimmiesca e occhialuta di Franz Schubert ci si presentava come l'ultimo rifugio dell'illusione musicale. E possiamo negare di aver scoperto un giorno nel Trovatore il patos supremo degli eroi innamorati? Possiamo negare che persino il larvale magister Claudius trattenne un quarto d'ora, è vero, la nostra attenzione? Possiamo negare che delusi all'ultimo da tutti i morti, schifati e dai classici e dai romantici, offrimmo il nostro cuore intatto ai moderni, ai frenetici; poi lo passammo ai negri del jazz; e poi dimessa ogni speranza invocammo il caos, il nulla, il silenzio eterno?
Solo lui, Beethoven, non ci abbandonava mai, non ci ha mai abbandonati. Amico fedele, amico per sempre.
Quanto alle preferenze che taluni possono avere per altri musicisti, quanto allo stimarli più alti di lui e più puri, esse preferenze, essi giudizi sono transitori per loro natura, instabili e di carattere illusorio.
A ben considerare, è in momenti di malumore soltanto, è solo con animo deluso, è solo in qualche crisi di scetticismo che ci si sorprende a dire: "Mozart, Bach, Scarlatti sono più grandi di lui".
Queste preferenze celano sotto qualcosa del pis-aller, s'intonano a certe nostre disposizioni isteriche, a sovvertire il valore delle cose, a capovolgere la gerarchia dei valori, a prendere a calci la serietà della vita, a negare la grandezza dell'arte, a disprezzare il nostro stesso destino. Chi è che non traversa, che non ha traversato queste crisi di dispetto?
Ma non appena l'animo si placa, non appena si rasserena l'umore e le speranze ritornano a fiorire e l'avvenire riapre le sue porte, è lui, sempre lui che ci ritroviamo accanto, con la sua faccia camusa e la sua fronte gibbosa di genio sicuro, garantito, senza trucchi.
Perché Beethoven si è stabilito ormai nella nostra mente con quella saldezza, con quella immutabilità come nella memoria il ricordo, il volto di nostro padre.
Anche se non lo vediamo, anche se non pensiamo a lui, lo sentiamo presente tuttavia e consolatore.
La sua amicizia forte sappiamo che non ci farà mai difetto. Non ha le esigenze né le incertezze dell'amore, ma è generoso e dà senza chiedere.
Se il suo volto è severo per lo più, cupo alle volte e accigliato, che importa? Noi conosciamo bene quanto delicato, quanto amoroso, quanto tenero sa essere pure a noi il fantasma di nostro padre, il fantasma di Beethoven.
Rivivono in lui, nella sua voce, le cose migliori della nostra vita: ricordi che l'oblio non ha sommerso, memorie che hanno in sé virtù di non morire, diritto d'immortalità.
Ed è per questo che in sogni sereni e senza angosce, egli ridesta in noi fatti memorabili della nostra infanzia e della nostra gioventù, quelle memorie che il ricordarle ci conforta, le nostre azioni più nobili, più pure, più feconde. E lui, guidandoci per quel giardino calmo e bagnato di una luce tenue ma immutabile, ci tiene per mano come Chirone teneva Achille giovinetto.
È facoltà del suo animo nobilissimo non lasciare pentimenti in noi, e tanto meno nostalgie. Non agitazioni né sconforti, non quegli entusiasmi vacui, quelle vane esaltazioni che quando sfumano, ti lasciano balordo e con la bocca amara.
È l'uomo dal grande cuore lui, il consolatore per eccellenza. E quando sei smarrito, uomo, deluso, solitario e ogni speranza dintorno ti svapora come nebbia al vento, ripensa a lui, riascolta la sua voce, e subito risentirai il caldo generoso della vita, e ti assicurerai che tutto quaggiù non è deserto, ma è alcuna cosa ferma, stabile, sicura.
Taluni lo chiamano Titano. Canaglie! Come si fa a coprire di ridicolo l'uomo più rispettabile del mondo? Lui soprattutto che tanto delicato era nel non eccedere statura d'uomo? Lui così savio e indulgente? Lui che nei momenti pure in cui più alto si tirava, come nel quinto concerto per pianoforte e orchestra, o nella Sonata opus 106, e nei quartetti, si guardava bene dal superare la misura buona? Lui che spingeva la civetteria fino a non celare la fatica? Lui così "greco"?
La sua voce, in cui taluni incorreggibili maniaci del gigantesco sentivano non so che brontolar di temporale, ha veramente la dolcezza della paterna voce che dà consigli saggi e disinteressati.
Nelle estati folli o negli inverni pacifici, negli autunni morbidi o nelle primavere purulente, nelle campagne ossessionate dagli spettri elementari o nelle vaste metropoli ossessionate dagli spettri elettrochimici, nel gelo della solitudine o nel tepore della compagnia, nell'amore o nell'odio, nella speranza o nella disperazione, nel buio o nella luce, nel meriggio o nella mezzanotte - tu, Beethoven, dolce fantasma, per confortarci a consumare la vita, per confortarci a credere e a operare, stacci vicino né mai ti allontanare dal nostro fianco. Ascoltaci. Guarda come siamo soli e come tutti ci abbandonano. Resta con noi. Continua fino all'ultimo a guidarci, come finora ci hai guidati. Di questa tua grande bontà
non ti ringrazieremo mai, perché ti si farebbe offesa.
E ora caliamoci pure nel sonno senza timore: sordo e malato il vecchio Beethoven vigila su noi.
Alberto Savinio
originale su "La Nazione", 3-4 maggio 1936
(in "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, 1977)

mercoledì, settembre 10, 2025

Gustav Holst

Gustav Holst (1874-1934)
Con la morte di Handel, avvenuta nel 1759 si assiste 
alla progressiva rarefazione di musicisti. Di fronte all'allarmante fenomeno l'Inghilterra reagisce importando compositori dall'estero e acclama quindi Geminiani, Cherubinj e Haydn. Si arriva così all'Ottocento, secolo parimenti dominato da figure minori. Si può dire infatti che l'Ottocento musicale inglese non è quasi esistito o, se è esistito per una inevitabile legge cronologica, lo stesso potrebbe definirsi «a century of musical nonsense», un secolo di sciocchezze musicali. Nella seconda metà dell'Ottocento si stabiliscono comunque in Inghilterra due musicisti interessanti: Hubert Parry e l'irlandese Charles Standford. Nasce Elgar. I primi due citati, per quanto prolifici, sembrano più consci della necessità di educare le future generazioni di musicisti, quasi a riscattare il vuoto pauroso che minaccia di allargarsi. Alla fine dell'Ottocento Elgar inizia a produrre. La sua prima composizione importante «Dream of Gerontius» avrà la fortuna di trovare un interprete che ne decreterà il successo in terra straniera: Richard Strauss. In patria, però, Edward Elgar trova subito una fitta schiera di detrattori, la esistenza dei quali è logica conseguenza del disorientamento in cui brancolava il pubblico da quasi un secolo. Si afferma che la sua musica è salottiera, orecchiabile e che reca tracce troppo marcate d'influssi teutonici. Nessuna delle critiche colpisce nel segno, né tiene conto della mancanza di una tradizione sinfonica continuativa per cui alle generazioni dei nuovi musicisti non restava che guardare alla Germania di Wagner o alla Francia di Debussy e Ravel. Elgar scopre onestamente le sue carte senza colpi di scena e offre il suo ingenuo lirismo spesso tinto di modi popolari alle generazioni disorientate ed affamate di novità. Queste però gli restituiscono l'ingenuo messaggio liquidandolo con frasi da sarcastico columnist. Non avvertono, prese come sono dall'accidia, che Elgar rappresenta il nuovo esordio della musica inglese, basato sul riproponimento di una forma sinfonico-corale, forse un'eco non ancora spenta dell'oratorio handeliano e raccolta dopo centocinquant'anni. L'esempio di Elgar verrà infatti ripreso da Vaughan Williams e dallo stesso Holst. Il primo infatti esordisce come sinfonista con la «Sea Symphony» per soli, coro e orchestra su testi di Walt Whitman e il secondo comporrà nel 1922 una «Choral Symphony» per soprano, coro e orchestra. E' difficile quindi non riconoscere in Elgar la paternità quantomeno putativa della rinascenza musicale inglese.
Holst, che nasce a Cheltnenham nel 1784 da una famiglia di musicisti d'origine svedese, si trasferisce nel 1893 a Londra per studiare alla Scuola Reale di Musica dove appunto insegna lo Standford. Qui egli trova come compagno di studi Ralph Vaughan Williams che dovrà diventare il massimo esponente del sinfonismo inglese. Lo Standford cerca d'infondere nei due allievi il magistero del contrappunto e il gusto per la melodia popolare, componente importantissima di tutto il Novecento musicale inglese. Holst disdegna il pianoforte e impara il trombone adattandosi a suonarlo nell'orchestra della Carl Rosa Opera Co. Dopo aver conseguito i necessari diplomi e titoli di studio, si dedicherà alla composizione ed all'insegnamento presso il Collegio Femminile di San Paolo per il quale comporrà la Saint Paul's Suite per archi (1913) che è una delle sue composizioni più note. Il 1934 sarà l'anno più triste per l'Inghilterra musicale perché vedrà la morte non solo di Holst, ma anche di Elgar e di Delius.
Una vita apparentemente poco interessante quella di Holst, ma ricca di problemi interiori e di ricerche incessanti. Già egli in compagnia dell'amico Vaughan Williams si era attivamente interessato di melodie popolari e le aveva amorevolmente raccolte, restituendone il fascino intatto in due composizioni autonome, «Six Choral Folksongs»› per coro maschile e «Twelve Welsh Folk-songs» per coro a cappella. L'interessamento di Holst e di Vaughan Williams per la musica popolare coincide anche con la fondazione della English Folk-songs and Dance Society ad opera di Cecil Sharp che fu il primo a stimolare la ricerca del patrimonio folklorico musicale inglese.
E proprio agli albori del Novecento si verifica un fatto sintomatico e di grande rilievo per le generazioni di musicisti europei che faranno astrazione dalla rivoluzione schönberghiana: la ricerca sistematica del folklore musicale e l'impiego di esso quale componente inscindibile del linguaggio. Troviamo quindi in Ungheria, Bartok e Kodaly, Janacek in Cecoslovacchia, in Francia, Debussy e Ravel adotteranno la scala esatonica e melodie basche, Hindemith in Germania, Respighi in Italia si rivolgerà a fonte ancora più antica: il gregoriano. Tale fervore è sintomo forse della necessità di un rinnovamento del linguaggio, rinnovamento attuato senza radicali rivoluzioni della sintassi. Certamente anche nell'Ottocento europeo numerosi compositori avevano attinto al patrimonio popolare, Liszt, Chopin, Brahms e Dvorak. Si trattava però di folklore abilmente travestito. Basta pensare alle rapsodie ungheresi di Liszt e di Brahms per rendersi conto che la melodia popolare vestita in abiti da sera suona troppo falsa!
Holst avverte in pieno la portata della rinascenza folklorica ed istaura con Vaughan Williams una corrente musicale tipicamente inglese e consapevole del fatto che il linguaggio deve progredire, mentre Elgar rimarrà pur sempre ancorato all'epoca vittoriana alla quale erano meglio accette le regole che le eccezioni.
Le influenze subite da Holst, ma assimilate soltanto in minima parte nel periodo formativo, possono riassumersi in un moderato wagnerismo iniziale. L'inf1usso del cromatismo wagneriano si evidenzia nei primi lavori meno impegnativi (buona parte dei quali reietti in seguito dallo stesso autore), ma si spezza e scompare con la scoperta del folklore il quale innesta una corrente neomodale. in Vaughan Williams l'esperienza neo-modale è più scoperta e si lega intimamente con l'impressionismo raveliano. Il Vaughan Williams era stato infatti allievo di Ravel a Parigi e subì in modo più diretto la lezione dell'impressionismo francese.
Anche Strawinski eserciterà su Holst un influsso modesto e comunque limitato all'ambito di certe soluzioni ritmiche e coloristiche. L'aver poi abbracciato una parte della cultura orientale (Holst studiò addirittura il sanscrito!) allargò vieppiù gli orizzonti del musicista. Ma non si trattò di evasione o di ricerca di un facile esotismo. Il Tovey giustamente vedeva in Holst «la vera espressione della nostalgia dell'occidente per l'oriente»Va rilevato inoltre che in quel periodo anche una buona parte della letteratura inglese denunciava una forte attrazione per le cose d'oriente. L'esperienza del sanscrito si ritrova soprattutto nelle opere «Rig Veda»«Sita», «Savitri» e «Beni Mora» che appartengono tutte ad un periodo creativo intermedio di Holst.
Complessivamente la musica dell'inglese ci appare tinta d'impressionismo. Non mosaico di frammenti, macchie sonore. Piuttosto, successione logica di momenti creativi in un quadro del tutto unitario. Si verifica in Holst, più che in Vaughan Williams, l'allentamento del tematismo e di conseguenza la impossibilità di continuare un discorso sinfonico secondo i canoni della sonata classica. (Tale impossibilità è più che mai evidente nelle opere della maturità di Leos Janácek, compositore atematico per eccellenza). L'impressionismo di Holst non è pura vernice; è risultante profonda, emozione sofferta e restituita in musica. «Egdon Heath» (1927) e «Hammersmith - Preludio e Scherzo» (1930) (i titoli delle composizioni corrispondono a precise località inglesi) sono capolavori del genere. Il primo ricrea il fascino straordinario di un bosco in autunno, colle sue atmosfere rarefatte e sospese e con un senso di desolazione rotto a tratti da una melodia popolare che si raggela come nebbia lontana. «Hammersmith» invece espone il dualismo tra vita quotidiana (il laborioso sobborgo di Londra dal quale trae il titolo) e vita contemplativa (il lento e compassato trascorrere del Tamigi).
Holst aveva scritto: «Studio soltanto le cose che mi suggeriscono musica». Anche «I Pianeti» composti tra il 1914 e il 1917 sono una interpretazione tutta personale e moderna della «musica mundana». Col suo senso di autocritica Holst arrivò persino a dispiacersi quando seppe che quest'opera era diventata popolare. Egli implicitamente affermava che un'opera d'arte diventava automaticamente superata nel momento stesso in cui era creata. Il passaggio continuo attraverso le più disparate esperienze testimonia tale sua costante insoddisfazione che e anche superamento, progresso. La definizione di Sir Malcolm Sargent: «he was a mystic, but not consciously a religious one» è doppiamente rivelatrice. Essa spiega sia il tentativo di conciliazione del dualismo antinomico su cui doveva poggiare tutto il mondo interiore di Holst, sia la tensione tutta trascendentale verso il superamento. «Hymn to Jesus» (1917) per coro e orchestra nella prima parte utilizza il testo e la melodia del «Pange Lingua» e del «Vexilla regis» e nella seconda, alcuni inni in lingua inglese. E' opera che può considerarsi religiosa nello stesso senso in cui sono religiosi i mottetti di Brahms op. 74 e op. 111. L'«Hymn to Jesus» è una delle composizioni che inoltre rivela la propensione degli inglesi per il genere sinfonico-corale a grande respiro cui prima accennavamo, ma non è la sola. Al pari di Vaughan Williams che esordì proprio come compositore di musica corale, Holst scrisse una messe di opere per coro e specialmente per quello femminile. Effettivamente i due compositori procedettero per un certo tempo affiancati, partendo da esperienze comuni e si influenzarono a vicenda, in quale misura è difficile stabilire. Sta di fatto che Vaughan Williams preferì avventurarsi sul terreno sinfonico con risultati veramente importanti per la musica inglese, mentre Holst raramente riusciva ad assestare il suo discorso in una forma costante nella quale il tematismo era il passaggio obbligato per giungere alla coerenza, anche se le leggi della forma sonata potevano interpretarsi con una certa elasticità. Cosa del resto avvenuta già nel secondo Ottocento mittel-europeo. Il Tovey scrivendo già nel 1929 su Holst avvertiva perspicacemente in quest'ultimo, nel differenziarlo dal Vaughan Williams, «l'ampia e chiara esplorazione delle regioni pre-armoniche». Holst fu infatti un esploratore che mai si fissò su una singola scoperta.
Per Holst la politonalità e la poliritmia sono elementi già acquisiti mentre per Vaughan Williams fanno ancora parte di una avventura o di una occasione. Anche nei procedimenti politonali di Holst possiamo vedere un tentativo di conciliare un'antitesi.
Si pensi al «Terzetto per flauto, oboe e viola» (1924), composizione veramente unica, nella quale gli strumenti in una formazione già rara e inconsueta, dialogano tra loro in tre tonalità differenti. E' un viaggio ideale lungo tre strade parallele che non si incontrano mai sotto il profilo tonale, ma che procedono tutte verso un unico punto comune che è unità di pensiero. Secondo quanto riferisce Imogen Holst in uno studio straordinariamente obiettivo « The music of Gustav Holst » (Londra, 1951) fu sufficiente che il «Terzetto» fosse scritto in tre tonalità diverse perché noti artisti lo giudicassero ineseguibile. Ma il tritonalismo non è la sola difficoltà. La partitura abbonda di indicazioni dinamiche, repentini cambiamenti di tempo, il tutto nell'ambito di poche battute, oltre a gustosi effetti poliritmici. E' un gioiello finemente cesellato, uno studio di atmosfere che ora si distendono nella enunciazione all'unisono di un tema modale che ricorda il «Dies irae», ora si rapprendono nei cinguettii del flauto in «staccato», ora si liricizzano nel motivo popolare esposto dall'oboe che, alla fine, viene interrotto dal flauto e dalla viola in un morendo da romanza schumanniana.
Altri esempi di politonalismo, però meno impegnato, sono reperibili in alcune composizioni pianistiche, tutte improntate a motivi popolari. A questo proposito, si potrebbe affermare che la musica popolare sta a quella classica, come il dialetto sta alla lingua colta. Sotto questo profilo, certa musica di Holst potrebbe definirsi «dialettale» come quella di Bartok. Anche quest'ultimo era giunto al bitonalismo attraverso lo studio sistematico del folklore non solo magiaro, ma anche rumeno e arabo. Imogen Holst, scrivendo sul padre, sostiene che il linguaggio della musica popolare costituiva una guida per Holst, pur non essendo il linguaggio suo proprio. Infatti, la lezione del folklore era stata assimilata da Holst in tanto in quanto offriva un nuovo modo espressivo, ancorché avesse radici antichissime. Non si tratta pertanto d'imitazione di uno stile. La musica di Holst ci appare talora «pensata» secondo i modi popolari, quando essa già non contenga chiare allusioni a terni e melodie folkloriche, come si verifica nella «Seconda Suite in fa maggiore per banda» (1911) che utilizza melodie dello Hampshire. Nell'ultimo movimento di quest'opera si rinvengono addirittura due canzoni distinte («Dargason» e l'ormai notissima «Greensleeves») sovrapposte simultaneamente.
A distanza di trent'anni, che esattamente tanti ci separano dalla scomparsa di Holst, la sua musica non ha perduto di freschezza, come se fosse stata composta ai giorni nostri. Anche se essa appartiene storicamente alla prima metà del Novecento, la sua stessa poliedricità e molteplicità d'intenti,. ne impediscono una collocazione definitiva Né d'altra parte può dirsi che sia espressione caratteristica di una scuola o di uno stile. E' summa di esperienze sovente disparate tra loro e mai esaurite. N\a assurge anche a simbolo già progredito della rinascenza della musica inglese che, grazie a Holst e a Vaughan Williams è riuscita a riconquistare la propria autonomia. Un bene perduto che ritorna rinnovato in meglio.
Edward D. R. Neill
("Disclub" 8, anno II, giugno 1964)

lunedì, settembre 01, 2025

Isolde Ahlgrimm: L'Offerta Musicale, le Sonate per viola da gamba e gli Harnoncourt

Philips A 00300 L
Il decimo volume delle Opere Complete per Clavicembalo comprendeva l'Offerta Musicale completa, suonata da Ahlgrimm, Rudolf Baumgartner, Alice Hamoncourt, Kurt Theiner, Nikolaus Hamoncourt e Ludwig von Pfersmann. Il saggio di accompagnamento trattava di Federico il Grande di Prussia e della storia dell'esecuzione e della ricezione dell'Offerta Musicale, in cui Ahlgrimm notava il declino della fuga nel XIX secolo. Particolare risalto veniva dato al flauto, e l'esecuzione di von Pfersmann, ancora una volta su un flauto in legno del 1835, era uno dei punti salienti di questa pubblicazione. L'Offerta Musicale, come l'Arte della Fuga, era stata a lungo considerata di natura teorica, in particolare i criptici piccoli canoni. Questa fu la prima registrazione completa dell'opera e ripristinò la strumentazione originale di Bach. La successiva registrazione autentica non sarebbe avvenuta prima di vent'anni dopo, sebbene negli anni '60 esistessero diverse versioni che trascrivevano i ricercari per clavicembalo per orchestra.
L'undicesimo volume era dedicato alle tre sonate per viola da gamba, registrate nel gennaio 1955 da Isolde Ahlgrimm insieme al ventiseienne Nikolaus Hamoncourt, allora violoncellista della Vienna Symphony e allievo di Paul Grümmer. Il suo primo ensemble barocco era stato il Wiener Gamben-Quartett, fondato nel 1950 con Alice Hoffelner ed Eduard Melkus. Questo gruppo aveva anche eseguito l'Arte della Fuga poco dopo, ricevendo recensioni contrastanti. Quando registrò con Ahlgrimm, Hamoncourt, ora sposato con Alice Hoffelner, aveva da poco formato il suo ensemble, il Concentus Musicus Wien. Il violinista e violista Kurt Theiner, cognato di Hamoncourt, nonché membro fondatore del Concentus, si unì agli Harnoncourt nella registrazione di Ahlgrimm dell'Offerta Musicale (BWV 1079). La seguente nota fu aggiunta alla versione originale:

In questa registrazione sono stati utilizzati solo antichi strumenti ad arco italiani della scuola di Amati. Eventuali modifiche e modernizzazioni apportate nel corso del tempo sono state accuratamente rimosse e il carattere sonoro originale è stato ripristinato.

Philips A 00 327 L
Per le sonate per viola da gamba, con Hamoncourt alla parte solista, Josef Herrmann ancora una volta suonava il basso. Nelle note alla sua registrazione del 1956 con Desmond Dupré, Thurston Dart sottolineava che la parte del basso dovesse essere suonata a 16' (sul clavicembalo) quando la parte solista rientrava nell'estensione del basso di 8'. Gli ammiratori dell'opera odierna di Nikolaus Harnoncourt troveranno queste prime registrazioni molto interessanti e, sebbene non corrispondano tecnicamente ai suoi sforzi successivi, lo spirito era certamente propositivo. Ahlgrimm suonava il clavicembalo Ammer del 1937 senza il suono di 4', per ottenere la massima integrazione con gli strumenti ad arco. Ritmo, fraseggio e articolazione in queste esecuzioni sono tutti molto avanti rispetto ai loro tempi.
La viola da gamba, allora ancora agli albori, ha tuttavia fatto grandi progressi da quando queste registrazioni furono realizzate, grazie al lavoro di August Wenzinger a Basilea, dello stesso Hamoncourt e, in misura ancora maggiore, del belga Wieland Kuijken e del suo allievo di punta, lo spagnolo Jordi Savall. Queste prime esecuzioni, le prime delle sonate di Bach realizzate utilizzando una viola da gamba anziché un violoncello moderno, sebbene ben al di sotto degli elevati standard di competenza odierni, sono ancora interessanti dal punto di vista storico. Hamoncourt suonava uno strumento a sette corde costruito nel 1683 da Christoph Klingler, successivamente convertito in violoncello, che Fiala aveva fatto restaurare alle sue condizioni originali nel 1937. Durante il restauro, gli accessori da violoncello del XIX secolo furono rimossi e lo strumento fu dotato dei suoi tasti originali, cosa insolita per suonare la viola da gamba a quel tempo. Per la parte del basso continuo, Hermann suonava il vecchio strumento Johannes Maria del 1530.
Oltre alle tre sonate, era inclusa anche la Trio Sonata (BWV 1038), il modello originale di Bach per la Sonata per gamba in sol maggiore, con Rudolf Baumgartner che suonava un violino della scuola di Amati del 1680, e von Pfersmann che utilizzava ancora il Bürger del 1835. flauto, e Hamoncourt, un violoncello di Francesco Ruggieri, Cremona 1683. Baumgartner, per il quale Ahlgrimm nutriva sempre grande stima personale e professionale, suonava perfettamente a suo agio sul violino barocco (sebbene usasse ancora la mentoniera), e von Pfersmann, che Ahlgrimm considerava uno dei migliori e più sensibili suonatori di Vienna, era anche lui un esecutore elegante, sebbene il suo modo di suonare non fosse propriamente idiomatico come lo intendiamo oggi. La vera rinascita del flauto barocco era ancora lontana.
Tuttavia, l'esecuzione sullo strumento originale doveva pur iniziare da qualche parte, e l'esecuzione di von Pfersmann si collocava forse a metà strada tra il flauto moderno standard e quello del XVIII secolo.
Peter Watchorn
("Isolde Ahlgrimm, Vienna and the Early Revival",Routledge, 2007)

giovedì, agosto 21, 2025

Elijah di Felix Mendelssohn


L'Italia com'è largamente noto ed autorevolmente si 
deplora è il paese più antimusicale del mondo. Nonostante i grandi tenori, i loggionisti di Parma, i mandolini, San Remo e Napoli, o forse proprio a causa di essi, in Italia la musica è la Cenerentola nelle scuole. Non può quindi meravigliare il fatto che un festival dedicato all'Espressionismo come il XXVII Maggio Musicale Fiorentino, generoso tentativo di far capire alla gente che qualcosa si è pur mosso ai primi di questo secolo al di fuori della cinta daziaria di Firenze sia stato accolto dalla grande maggioranza del pubblico e, cosa ben più grave, da quasi tutti i più qualificati rappresentanti della fauna musicale locale come un vero e proprio crimine di lesa patria.
Questo recente episodio di malcostume civile oltre che di ignoranza non solo è tipico di tutta una situazione, ma fornirebbe utilmente lo spunto ad una parabola o ad un apologo critico sulla grama condizione delle cose musicali nel bel paese la dove il si suona, ridotto oggi ad una morta gora provinciale afflitto dal gracidio di burbanzosi e vacui retori, i quali si ammantano dei cenci di un Umanesimo che non ha più senso alcuno.
Non ci si stupirà, stando così le cose, se l'oratorio che è un genere musicale nato in Italia, come dice il nome, e fu illustrato da un Caldara e un Alessandro Scarlatti, musicisti ai quali tesero attento orecchio Bach e Haendel, abbia poi vigoreggiato in Germania e in Inghilterra assumendo col passare dei secoli fisionomia specificamente protestante e sia oggigiorno al di qua delle Alpi un rarissimo genere di importazione e come tale avvicinabile e fruibile solo attraverso rare esecuzioni soprattutto radiofoniche o per mezzo del disco.
Chi voglia coltivare questo fertilissimo settore della storia della musica e non si accontenti di aspettare ogni anno il settembre e prendere il treno per Perugia (almeno finché i valorosi organizzatori della Sagra Umbra resisteranno nella loro disperatissima lotta contro gli scarsi finanziamenti e l'indifferenza locale e romana) dovrà consultare attentamente i cataloghi delle case discografiche e potrà allora colmare molte gravi lacune, sempre che abbia anche il coraggio di sfidare le ire dei soloni della critica per i quali dischi ed analfabetismo musicale sono sinonimi. Noi non dubitiamo, anzi siamo sicurissimi che tutti i nostri illustri critici possiedano perfettamente a memoria la partitura dell'Elia di Mendelssohn, anzi abbiamo la certezza morale che se lo vanno fischiettando per la strada tutti i giorni, ma da poveri dilettanti e ignoranti quali siamo non possiamo non plaudire all'iniziativa della Decca, che nella collana Ace of Clubs, ad un prezzo accessibilissimo, ci mette a disposizione proprio quel raro Oratorio che Mendelssohn scrisse per la città di Birmingham e nella quale fu eseguito il 25 Agosto l846.
Resta per noi un piccolo e affascinante mistero para-musicologico il fascino che il grande profeta solare evidentemente dovette esercitare su quella squallida cittadina industriale (una specie di Campobasso su grande scala) se i suoi musicalissimi abitanti sentirono il bisogno di commissionare nove anni dopo un altro Elia al celebre direttore e compositore Michele Costa. È un inquietante quesito che giriamo al primo solerte critico di tendenza sociologica post-adorniana non riuscendo con i nostri deboli lumi a cogliere il rapporto dialettico tra la produzione di forbici e coltellerie e il fiero nemico di Jezabel e di Achab.
Ci limiteremo pertanto a registrare obbiettivamente il fatto che in una modesta cittadina inglese (e non a Londra o a Dublino) fu allestita la prima esecuzione di questo Elia, con cui l'apollineo Mendelssohn, musicista viziato dalla fortuna, colmato di doni aurei dalle Grazie più di quanto non fosse squassato dal soffio terribile delle Furie, gran signore e supremo dilettante della musica, si accostò per la seconda volta alla Sacre Scritture, dopo aver composto nel 1836 un Paulus, che è arrivato in Italia solo nel 1953. E non si può a questo punto non lodare Gianandrea Gavazzeni per la sua recente ripresa (Aprile 1964) di questo oratorio in un concerto romano che ha avuto accoglienze lietissime di pubblico e di critica. Ma per tornare ad Elia o meglio ad Elijah (che in inglese suona incredibilmente Ilaigia), ad un primo ascolto ci pare che esso si inserisca in uno dei due filoni nei quali il genere dell'oratorio si biforca. Su un versante del sacro monte troviamo Schütz, Bach e Brahms, tutti chiusi nella loro severa corazza polifonica e austeramente ripiegati nella meditazione fervida e in un intimo lirismo che fiorisce, specie nelle arie di Bach, in esempi definitivi e riuscite altissime. Questo filone scorre sotterraneo e ci sembra riconoscerlo solo due secoli dopo nella sovrumana e spoglia grandezza delle due postreme cantate di Webern o nell'affresco di Moses und Aaron. La seconda e più produttiva tendenza prende le mosse dalle gioiose ed estroverse creazioni del musico di Halle ed ha come carattere più evidente il giubilo alleluiatico e la piacevolezza illustrativa. Siamo qui alla Bibbia per i poveri (non c'erano ancora i Fratelli Fabbri), alla divulgazione del verbo sacro in grandi affreschi coloriti e mossi, nei quali tace ormai la voce severa dello storico e scompaiono le pause di fervore religioso dei corali nei quali la Gemeinde si univa agli esecutori, entrando attivamente nel gioco. Il diavolo del teatro fa capolino ad ogni istante a sommo dispetto del Lord Ciambellano che in Inghilterra vegliava geloso affinché non si trascinassero sulle tavole polverose i sacri argomenti. Da Haendel prendono le mosse Haydn con i suoi due oratori così moralistici e biedermeier ante litteram, il Berlioz dell'Infanzia di Cristo e tutta la fioritura dell'Oratorio inglese fino al Sullivan di The Prodigal Song e all'Elgar di The apostles. È un genere narrativo e piacevole in cui al momento giusto si inserisce Mendelssohn con il suo Elijah che può a buon diritto considerarsi cittadino inglese, come The Seasons o il Messia.
Si accennava sopra al dilettantismo di Mendelssohn e sarà bene chiarire che il termine è da intendere in una particolare accezione. È infatti noto come il ricco amburghese fosse un musicista fin troppo esperto ed astuto, grande direttore d'orchestra e fine musicologo. A lui si deve il recupero della Matthäus Passion nel 1829 e basterebbe questo a garantirgli la gratitudine dei posteri. Se si può parlare di un dilettantismo di Mendelssohn, noi lo vedremmo piuttosto in quella sua eterna e un po' sospetta felicità inventiva così priva di sottofondi inquietanti, in quell'essere sempre disposto a tutte le occasioni. Schumann lo esaltò novello Mozart, ma si tratta purtroppo di un Mozart senza il demonismo del Don Giovanni e senza l'orrido della Sinfonia in Sol Minore. È un musicista che ammiriamo e ascoltiamo volentieri, ma che non riusciamo ad amare, in quanto non ci propone mai interrogativi inquietanti. La sua imperturbabile olimpicità di agiato petit-maitre può a volte irritarci. Orbene questi caratteri non sono certo contraddetti da Elia; solo che in questo lavoro, nonostante la consueta lucentezza dell'involucro e la eleganza della confezione, ci pare avvertire un maggiore e più profondo e più sostanziale impegno umano del compositore.
La prima delle due parti in cui l'oratorio si divide è la più convenzionale e specie nella grande ed abilmente impostata scena della sfida di Elia ai sacerdoti di Baal, preceduta dal drammatico scontro con Achab, il modello haendeliano (e soprattutto del Belshazzar) traspare continuamente. Le suggestioni gestuali e teatrali sono continue soprattutto nella condotta delle voci. Non stupisce apprendere che Elia fu rappresentato nel 1923, a Worcester, come dramma musicale, a cura di Charles Manners. Un grande pezzo di teatro è la scena dell'invocazione del popolo per la pioggia, con la voce di fanciulli solisti, che si staglia sullo sfondo del coro.
All'inizio della seconda parte la figura della Regina Jezebel ci mantiene in un clima che con tutte le cautele definiremmo sempre un po' melodrammatico. Il motivo della Regina proterva adoratrice di Baal e persecutrice di Israele doveva affascinare Mendelsson che qualche anno dopo scriverà delle musiche di scena per Athalie.
Ma al momento in cui il profeta solo si rifugia sulla vetta del monte Horeb per sfuggire alla furia di Jezebel, l'ispirazione del musicista prende veramente ala e tutta l'ultima parte dell'oratorio è una grande meditazione sulla solitudine dell'uomo di fronte ai problemi massimi. Elia non è solo. Lo circondano e lo confortano gli angeli (si ascoltino il trio e il coro stupendi all'inizio della quinta facciata) e la Stimmung di questo finale che è unicum nella storia dell'oratorio è quella di una serena accettazione del destino, premiata dal Dio di Israele con la vittoria definitiva sugli infedeli. Abbiamo brevemente sottolineato le tre grandi scene in cui si articola il testo (Elia e i sacerdoti di Baal, Elia e la Regina, Elia sul Monte Horeb) ma non si può dimenticare il breve episodio iniziale della vedova a cui il profeta fa risuscitare il figlio, piccola scena intima o quadretto di genere in cui splende il timbro lucente del soprano Jacqueline Delman, interprete appassionata e rigorosa. Quanto agli altri interpreti non si saprebbe immaginarne di più immedesimati e fervidi. E' questa una edizione autentica e di puro stile che molto deve alla bacchetta sensibile di Joseph Krips e all'apporto dei due cori, dei quali si segnala in modo particolare Io stupefacente coro dei ragazzi della chiesa parrocchiale di Hampstead che sotto la guida di Martindale Sidwell non fanno rimpiangere i piccoli cantori viennesi, per lo smalto delle voci e la limpidezza della emissione. Una lode particolarissima va al tenore George Maran che nella sua prima aria, If with all your hearts you seek Me centra un tono di dolce intimità che ritroviamo con uguale eleganza e rigorosa calibratura, nella deliziosa romanza dei tenori di Sullivan. E non sembri irriverente l'accostamento. La contralto Norma Procter piega una voce caldissima alle sfumature di un'interpretazione che per la tenuta e il livello ricorda la grande Ferrier. Quanto al protagonista, il baritono Bruce Boyce, dotato di voce gradevole e di bello squillo, si cala perfettamente in un personaggio ricchissimo di sfumature psicologiche che vanno dall'ironia e dallo scherno nel dibattito coi sacerdoti di Baal al fervore dell'aria con viola obbligata It is enough, o Lord, nel classico schema tripartito (ABA). Essa è il vero culmine dello spartito e non sfigurerebbe al confronto con le più celebrate pagine di Giovanni Sebastiano.
Tornando alla fisionomia individualissima dell'opera, della quale non ci si stancherebbe mai di illustrare la singolarità, vorremmo segnalarne il carattere prevalentemente intimistico, quasi di oratorio da camera. Infatti Mendelssohn non mira qui ad effetti di grandiosità nei cori o di forte spicco nelle arie. Il suo oratorio è una serie di gemme amorosamente sfaccettate dalla sapiente mano di un prezioso orefice dei suoni, la cui misura è veramente mozartiana. Non c'è la voce dello storico a guidarci nei meandri dell'azione ma entriamo subito e agevolmente in medias res dopo una brevissima introduzione di Elia, seguita da una ouverture. Le arie sono relativamente poche e tendono a confondersi con gli stupendi ariosi (nei quali sono alcune delle più alate riuscite dello spartito) in un tono medio elegiaco ed auletico. Accompagnano caldi gli archi e parsimoniosamente cantano gli strumentini. I tratti descrittivi di marca haendeliana (si pensi alla descrizione delle piaghe nella prima parte di Israele in Egitto) sono relativamente pochi ma discretissimi.
Sarà azzardata l'ipotesi di un influsso diretto di questo oratorio su l'Enfance du Christ di Berlioz (I854)? Comunque ci pare indubbio che questi due piccoli capolavori del romanticismo minore siano molto vicini come atmosfera e ne suggeriremmo un ascolto comparativo.
Nel ringraziare nuovamente la Decca per la sua iniziativa deploriamo la mancanza assoluta di dati storici e di note illustrative, anche se siamo grati per il testo integrale dell'oratorio, che certo non è facile da reperire. L'incisione è buona anche se i cori non hanno un particolare rilievo.
Giulio de Angelis
("Disclub" 9, anno II, luglio 1964)
Nota discografica
Felix Mendelssohn - Elijah, Op. 70
Jacqueline Delman (s), Norma Procter (c), George Maran (t), Bruce Boyce (br), Michael Cunningham (ragazzo - soprano) - London Philharmonic Choir dir. da F. Jackson - London Philharmonic Orchestra dir. da Josef Kríps.
DECCA ACL 220/222 (SERIE ACE OF CLUBS)

lunedì, agosto 11, 2025

I sorci di Barilli

Bruno Barilli (1880-1952)
Tempo fa trovandomi col Maestro Ghedini si venne a par
lare di Brahms e Strawinski e sulle definizioni che di costoro potevano darsi. Ricordo che in proposito egli mi disse: «Veda quel che ne scrisse Bruno Barilli. Legga "Il sorcio nel violino"». Cosi mi diedi subito alla ricerca di quel volume che purtroppo risultò esaurito da tempo, ed introvabile. Neanche a farlo apposta, dopo qualche mese, Vallecchi ristampa tutti gli scritti di Barilli, riunendoli in un volume dal titolo «Il paese del melodramma» e facendoli precedere da una nitida prefazione di Enrico Falqui. Devo dire che niente in questo libro ci lascia delusi tranne il prezzo e quella maledetta mania che aveva Barilli di fare di Verdi la pietra di paragone del tutto. Ma forse dobbiamo credere a De Robertis quando afferma che Verdi fu per Barilli «una torre di dove ferire»? È certo che Barilli non aveva peli sulla lingua se si trattava di demolire, quando non ricorreva a quella eleganza piena di sorprese, basata su un fuoco di fila di aggettivi che solo uno spirito poetico sarebbe capace di sprigionare. E vediamo subito qualche esempio: Brahms: «Costruttore sapiente, autore bucolico e familiare. Si sente in lui la tranquillità del gran mangiatore che ha un grosso cervello da nutrire... Natura dura e massiccia... Severità serena, misura, ordine religioso e moderazione poetica composti insieme con la larghezza un po' tetra d'un nordico riflessivo sono i caratteri che distinguono Brahms dagli altri classici che lo precedono nella storia, e lo superano». La conclusione, per cosi dire, a sorpresa di questo giudizio ha qualcosa di entusiasmante.
Strawinski: «egli aveva nel muoversi, l'aria intristita e pigra di un topo, che ha mangiato l'arsenico».
Casella: «Là dove passa la sua musica, l'erba non rinasce più».
E infine Rubinstein: «Bocca di ranocchio, testa orientale, occhietti rossi d'ebreo, profilo greco tirato per i capelli».
Vivaci ritratti, spiritosi e caricaturali come la sua stessa faccia, inesorabilmente brutta e difficile al sorriso, disarmante. In uno stupendo disegno di Scipione (un pittore che sapeva scavare nell'animo dei personaggi da lui ritratti) Barilli potrebbe essere scambiato per una vecchia signora negata ad ogni propensione per l'indulgenza verso la specie umana. Ma Barilli fu tutt'altro. Era un uomo dotato di troppo buon gusto, intenditore d'arte, viaggiatore (Vallecchi ha ristampato anche il suo «Libro dei viaggi» deliziosissimo), critico, musicista e... poeta in tutte le sue cose e in quelle in cui gli altri si sarebbero invece abbandonati alla comodità della pedanteria accademica e dell'ermetismo.
Si legga quell'impareggiabile ritratto di Bottesini col quale s'inizia il volume. Questo è forse lo scritto più gustoso che sia mai stato dedicato ad un musicista, un rutilare d'immagini, un fuoco artificiale di aggettivi che sbalzano fuori plasticamente la figura del grande virtuoso di contrabbasso. E al povero Bottesini dimenticato da tutti, verrebbe voglia d'innalzare un monumento. E Willi Ferrero? Le pagine dedicate al fanciullo prodigio traboccano d'affetto: ma proprio in queste pagine mi è parso di cogliere un lato oscuro della personalità indubbiamente forte del Barilli, un lato che si presterebbe benissimo ai topi dai quali lo scrittore sembra ossessionato. Egli vede topi dappertutto, parla di topaie, intitola un suo libro «il sorcio nel violino», assimila musicisti a sorci (vedi Strawinski) e sogna sorci che lo assalgono mentre dorme, divorano i suoi manoscritti e infine, da lui scacciati, calano lestamente nel pianoforte come un esercito in ritirata. Il mio sospetto fu poi convalidato dallo stesso Maestro Ghedini il quale, riparlando del Barilli che gli fu amico, mi mostrò la riproduzione di un manoscritto di Schumann, raffigurante un pentagramma costellato di gatti e topi che si rincorrono. «Vede, mi disse, è la pazzia!». Certamente Barilli pazzo non fu, ma l'ipotesi che egli fosse affetto da un qualche complesso, sia pure innocentissimo, non mi pare priva di fondamento. Comunque fa parte della sua arte e per questo mi sento di rispettarlo ancora di più.
Venendo ora alla famosa questione di Verdi e di Puccini, bisogna esser grati al Barilli per aver coniato una gustosa definizione del primo: «ll suo alito ha un sano odor di cipolla», ma il guaio è che, scrivendo di Wagner, egli non riesce ad essere ugualmente originale, appunto perché da bravo verdiano egli è troppo preso dallo spirito di partigianeria. Ma è mai possibile che verdiani e wagneriani non riescano a coesistere senza escludersi reciprocamente? Questo appunto si domandava Furtwaengler in uno scritto che «Disclub» ha pubblicato recentemente, a proposito delle fazioni brahmsiane e bruckneriane. Comunque, Barilli è troppo intelligente per fare dei suoi operisti prediletti oggetto di apologie sperticate! E' un fatto, però, che essendo Barilli un musicista mediocre e forse mancato (ma un critico riuscito) egli non riuscì a frenare il proprio astio elegante verso chi ebbe più fortuna di lui come compositore.
Se il suo libro esordisce in chiave satirica e nello stile di un futurista che prende in giro il futurismo, le ultime pagine sono di una malinconia struggente. Qui assistiamo al decadimento progressivo del suo fisico, alla sua povertà sempre più incalzante, che arriva alla tragica proposta di un suicidio. Leggendo «Il diario di un vegliardo» è difficile non provare un profondo senso di commozione, così come le prime pagine ci hanno fatto ridere di gusto. Un libro, appunto, da leggersi sorridendo, ma con le lacrime agli occhi.
Edward D.R. Neill
("Disclub" 11, anno II, ottobre/novembre 1964)