Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, luglio 11, 2025

Paul Hindemith: Kammermusik

Paul Hindemith (1895-1963)
Le sette opere di Paul Hindemith intitolate 
Kammermusik nacquero negli anni Venti. Frutto della sua prima maturità artistica e di un periodo del dopoguerra dominato da una forte reazione verso gli eccessi emozionali del tardo romanticismo e dell'espressionismo, con esse Hindemith cercò di ritornare agli ideali di chiarezza formale e al modesto orgoglio nell'abilità artigianale, ideali che sembravano rappresentati nella maniera più perfetta dall'epoca barocca. Nelle sue prime opere Hindemith aveva incominciato a giocherellare con un cromatismo di stampo regeriano, col culto del bizzarro, persino (come nell'opera Sancta Susanna) con un'intensa emozione espressionistica. Ma istintivamente si era sempre sentito attratto dai valori musicali 'oggettivi' di forte tendenza polifonica, da una solida struttura, e dalla stabilità emozionale caratteristica del barocco. La Kammermusik portò alla piena maturità questi aspetti della sua personalità musicale, e determinò allo stesso tempo un impulso neoclassico nella musica contemporanea della Germania, non diversamente da Igor Stravinski il quale a Parigi aveva lanciato il grido di battaglia "di ritorno a Bach!". In effetti si può dire che le sette composizioni della Kammermusik di Hindemith - la prima è una suite per 12 strumenti, le altre sono concerti per una varietà di strumenti solisti con orchestre di dimensioni e organico diversi - è una specie di equivalente contemporaneo dei Concerti brandeburghesi di J.S. Bach.
Le Kammermusik furono composte in tre gruppi che non corrispondono esattamente ai tre numeri d'opera separati sotto i quali furono pubblicate. La Kammermusik n.1 fu scritta nel 1921 e unita come op.24 al brano per quintetto di fiati (Kleine Kammermusikche generalmente non viene considerato come parte della serie. I primi tre concerti dell'op.36 seguirono nel 1924-25, mentre l'ultimo dell'op.36 e i due concerti dell'op.47 furono tutti composti nel 1927. Hindemith stesso era un violista di calibro internazionale: fu lui a eseguire la parte solistica nelle premières dei concerti per viola (Karnmermusik n.5) e per viola d'amore (Kammermusik n.6). Ma le sue abilità come esecutore e musicista 'tuttofare', pratico e versatile si manifestano in maniera impressionante attraverso tutte le opere, e vengono dimostrate dalla sua affermazione che, in tutti i concerti dell'op.36, nell'insieme non aveva composto alcuna parte strumentale che non avrebbe potuto suonare personalmente, con un po' di esercizio!
Kammermusik: la parola significa "musica da camera "; la maggior parte di queste composizioni - se non addirittura tutte - prevede un organico che può essere definito adeguatamente come un'orchestra, sebbene di dimensioni ridotte. Tuttavia, le richieste poste agli strumenti sono certamente 'cameristiche' in confronto alle orchestre stravaganti del repertorio prima del 1914: e la serie nacque nell'ambito del primo festival di "Esecuzioni di musica da camera perla promozione della musica contemporanea" svolto nel 1921 a Donaueschingen nella Germania meridionale. Dal 1921 al 1930 Hindemith fu responsabile di questo festival annuale che ebbe luogo sotto il patronato del Principe Max Egon zu Fürstenburg, al quale dedicò la Kammermusik n.1. L'opera è per così dire una celebrazione del nuovo spirito dell'epoca. Un aspetto importante della scrittura, che rimane valido attraverso tutta la serie della Kammermusik, è che ciascun suonatore viene trattato come solista - almeno fino al punto in cui lo sono ad esempio i membri di un quartetto d'archi. L'organico ha una formazione diversa in ciascun'opera; il peso e la sonorità sono scelti con cura per equilibrare e contrastare lo strumento solista che viene posto in primo piano.
Ciononostante la Kammermusik n.1, op.24. n.1, e di concezione alquanto diversa dalle composizioni successive. I 12 strumentisti (che Hindemith sperava - con poco senso di realtà - di poter tenere nascosti dal pubblico durante l'esecuzione) sono il flauto, clarinetto, fagotto, tromba, fisarmonica, pianoforte, xilofono, quintetto d'archi e una batteria di percussione che comprende elementi esotici come una sirena e una scatola di latta riempita di sabbia. Questa suite spensierata dallo spirito irriverente presenta un chiaro riferimento alle prime esperienze di Hindemith quando suonava in orchestre da ballo e nei complessi che accompagnavano le commedie musicali a Francoforte e nei dintorni: l'opera è infatti caratterizzata da ritmi vigorosi, una strumentazione scintillante e un'impudenza incorreggibile. I primi tre movimenti sono un preludio audacemente dissonante, una marcia frivola e un 'quartetto' pastorale (così indicato da Hindemith) per i tre legni e una singola nota sul glockenspiel. Nel finale - intitolato "1921" a quanto pare in omaggio alla fondazione dei concerti di Donaueschingen - Hindemith scatena l'intero complesso strumentale in un'esibizione di humour anarchico. Il culmine giunge con la citazione nella tromba di un foxtrot contemporaneo in sol maggiore (del noto compositore di musica leggera Wilm Wilm), accompagnato da scale in tutte le altre 11 tonalità maggiori; il tutto conclude con una stretta esuberante degna di una grande commedia del film muto.
La Kammermusik n.2, op.36 n.2 è un concerto per pianoforte e 12 strumenti: non si tratta degli stessi strumenti della Kammermusik n.1 ma di una disposizione più convenzionale, se vogliamo più 'cameristica', di flauto, oboe, clarinetto, clarinetto basso, fagotto, corno, tromba, trombone, trio d'archi e contrabbasso. Fu dedicato alla pianista Emma Lübbecke-Job che ne eseguì la première a Francoforte sotto la direzione di Clemens Krauss nell'ottobre 1924. E' ancora presente qualcosa dello spirito anarchico dell'opera precedente - soprattutto nell'impertinente "Piccolo potpourri" che Hindemith inserisce tra il movimento lento e il finale - ma in generale l'opera ha più carattere di un concerto 'atletico' neobarocco, in cui ciascun movimento viene spinto in avanti da un irresistibile polso fondamentale. La scrittura pianistica è quasi sempre dominata dal contrappunto e intensamente ritmica, soprattutto nel primo movimento che ricorda una toccata con la sua vivace figurazione motoria. Il movimento lento è costruito su un modello estremamente bachiano: nelle sezioni esterne il pianoforte elabora alcune variazioni melodiche sopra un tema ostinato del basso, mentre la sezione centrale è un dialogo lirico a due parti per lo strumento solista. Dopo il "Potpourri" che ha la funzione di piccolissimo scherzo con le sue aspre giustapposizioni strumentali, il finale ritorna allo stile energico del primo movimento, ma con ritmi di danza 'contrari' e una maggiore varietà nella tessitura.
La terza Kammermusik, op.36 n.2, forse la più conosciuta della serie, è un concerto per violoncello in miniatura scritto per il fratello di Hindemith, Rudolf, con un accompagnamento di soltanto 10 strumenti (la medesima disposizione della Kammermusík n.2 ma senza il clarinetto basso e la viola). La successione dei quattro movimenti, lento-veloce-lento-veloce richiama alla mente la sonata barocca, e il primo movimento introduttivo, che esordisce con un nobile ed espressivo assolo del violoncello, affascina per il suo carattere rapsodico e lirico. Il secondo movimento è uno scherzo brillante in metro di danza, che deve parecchio all'effetto cumulativo dei ritmi ostinati del violoncello: qui Hindemith ottiene da un numero di suonatori estremamente ridotto un suono straordinariamente pieno e genuinamente 'orchestrale'. Anche il terzo movimento, il più lungo di tutti, è di una profonda espressività. Lo stile appassionatamente melodico e l'intensità seria ed elegiaca dimostrano eloquentemente che l'idioma della Kammermusik non esclude l'espressione di un intenso sentimento. Dopo questo meraviglioso movimento, il breve e rapido finale, pieno di una sicurezza ed humour haydniani, reca uno spirito più leggero e spensierato finché i vari strumenti sembrano 'evaporare' scomparendo dall'immagine e lasciando che il violoncello concluda l'opera da solo con un unico pizzicato.
La Kamrnermusik n.4, op.36 n.3, è un concerto per violino scritto per l'amico di Hindemith, Licco Amar, violino principale del Quartetto Amar del quale Hindemith era violista. In certo modo questo concerto concepito in cinque movimenti è il più ambizioso della serie; e diversamente dai due predecessori in cui lo strumento solista è un prímus inter pares, qui il violino viene trattato più come un tradizionale solista concertante. L'organico dell'accompagnamento, definito come "grande orchestra da camera", è formato prevalentemente da strumenti a fiato (la sezione dei legni comprende 2 ottavini, clarinetti in mi bemolle e clarinetti bassi, mentre gli ottoni sono rappresentati da una cornetta e una tuba bassa), e il corpo degli archi non comprende alcun violino; Hindemith ricorre anche all'impiego di piccoli tamburi - come tamburelli senza sonagli - comunemente impiegati nelle bande jazz contemporanee.
Non che il linguaggio musicale sia particolarmente influenzato dal jazz: in realtà si tratta di un'opera dal carattere prevalentemente strenuo e serio, come appare subito chiaro dal tutti nel breve movimento introduttivo che Hindemith ha intitolato "Signal" (Segnale). Questo viene immediatamente seguito da un atletico ed incalzante primo movimento che nella gamma e nella perfezione del suo sviluppo corrisponde più a un tipico primo movimento da concerto. Il movimento lento centrale è un "Pezzo notturno", che se non altro intensifica ancor di più l'inquieto umore meditativo. La parte del violino si muove principalmente nel registro acuto, mantenendo ed elaborando uno spirito di protesta lirica. Nei primi tre movimenti il concerto sembra invitarci a un paragone diretto con l'ugualmente serio Concerto per violino e orchestra di fiati di Kurt Weill, composto un anno prima nel 1924. Gli ultimi due movimenti sono più leggeri e formano una specie di finale in forma 'bipartita'. Il quarto movimento è una brillante invenzione su un vivace motivo di marcia nella cornetta, mentre il quinto, una specie di stretta conclusiva, è una bizzarra ispirazione che richiede il massimo virtuosismo; il violino rimane con una continua figurazione di moto perpetuo con alcuni commenti di una melodiosità quasi 'surreale' degli altri strumenti.
L'organico del concerto per viola, Kammermusik n.5, op.36 n.4, ha una componente di legni e ottoni ancora più grande della Kammermusik n.4, mentre gli archi sono ridotti a un piccolo gruppo di violoncelli e contrabbassi. Si tratta probabilmente della Kammermusik più nota dopo il concerto per violoncello, e nel suo equilibrio formale e la matura combinazione di allegria e serietà preannuncia inconfondibilmente i concerti più grandi che Hindemith avrebbe scritto negli anni Trenta e Quaranta. Il primo movimento è un'altra vivace struttura neobarocca dal moto rapido, ma viene seguito da un movimento lento di ampio respiro e profondamente sentito (Langsam) in cui un monologo malinconico della viola viene posto contro i ricchi timbri oscuri dei fiati. Il terzo movimento è un abile scherzo polifonico; e il finale conclude il tutto in uno stile burrascoso - una serie di variazioni abilissime su una allegra e alquanto volgare marcia militare bavarese, la cui orchestrazione rende chiara la necessità per la presenza di tanti strumenti a fiato.
La Kammermusik n.6, op.46 n.1, è un concerto per viola d'amore, il caldo e delicato strumento barocco con numerose corde che vibrano per simpatia, quasi andato in disuso ma per il quale Hindemith nutrì un affetto particolare. Dato che la viola d'amore ha ancora pochi esponenti, questo concerto è probabilmente il meno eseguito della serie della Kammermusík, pur rimanendo uno dei più riccamente concepiti e forse il più concentrato. Anche in questo caso l'orchestra da camera è limitata a 13 suonatori, ed è una versione ridotta dell'organico impiegato nel concerto per viola, con meno strumenti a fiato ma anche meno violoncelli e contrabbassi.
La viola d'amore vi aggiunge una sonorità nostalgica tutta particolare, con l'espressione più intima delle sette composizioni. Al vivace - ma pur sempre cantabile - primo movimento con il suo tema introduttivo dal passo fiero, succede un meraviglioso movimento lento (la cui durata è notevole rispetto alla lunghezza de|l'opera) dominato dalla florida linea cantabile dello strumento solista. Segue una serie di variazioni meditative nella maniera di una lunga cadenza accompagnata, che riprende alcuni elementi tematici già ascoltati precedentemente, e il concerto conclude con un breve finale costituito da una variazione più rapida e briosa della musica del movimento introduttivo.
L'ultima composizione della serie, la Kammermusik n.7, op.46 n.2 è un concerto per organo e 11 strumenti a fiato con l'aggiunta di qualche violoncello e un contrabbasso. Hindemith lo compose per inaugurare il nuovo organo alla Radio di Francoforte (allora diretta da suo genero Hans Flesch), alla quale Hindemith dedicò l'opera. La radio mandò in onda la prima esecuzione del concerto nel gennaio 1928 con Reinhold Merten come solista. Si tratta del più grandioso e festivo di tutti i concerti, ed è l'unico concepito nella forma convenzionale in tre movimenti; inoltre Hindemith vi sfrutta pienamente le ampie possibilità polifoniche dello strumento solista. Il primo movimento è una marcia piena di allegria, a volte di un comico senso di importanza; ma vi succede un ampio e profondamente espressivo movimento lento che esordisce con un lungo e meditativo assolo dell'organo. Mentre la musica evolve in una spaziosa fantasia polifonica, le tessiture orchestrali e l'atmosfera quasi religiosa di meditazione sembrano anticipare alcune sezioni della grande opera Mathis der Maler di Hindemith. Il finale è una fuga rapida ed emozionante con un soggetto che tende a salire melodiosamente annunciato dalla tromba. L'organo ben presto conferisce al discorso un tono di grandezza, e il contesto contrappuntistico varia tra il leggero e il serio prima che la serie finale di stretti porti il concerto alla sua conclusione in un'atmosfera di vigorosa festività.
Calum MacDonald
Traduzione DECCA 1992

martedì, luglio 01, 2025

Schönberg: Verklärte Nacht

DG 410 962-1 - (P) 1984
Le due composizioni riunite in questa registra
zione sono pilastri angolari nella produzione cameristica di Arnold Schönberg: il Sestetto Verklärte Nacht (“Notte trasfigurata") op. 4 (1899) è il suo primo lavoro per complesso da camera con un numero d'opus ed è la sua prima composizione stampata; invece il Trio op. 45 (1946) è l'ultima opera di Schönberg per soli archi. 47 anni separano l'appassionato calore del lavoro giovanile dall'opera tarda dove il tempo sembra sospeso, e che rappresenta la sua esperienza alle soglie della morte.
Nel suo primo periodo creativo Schönberg si volse a musica a programma di ampio respiro e guardò ai grandi esponenti della musica sinfonica tardoromantica: “Sulla scena musicale erano comparsi Mahler e Strauss, e la loro apparizione era così affascinante che ogni musicista fu subito costretto a prender partito pro o contro. Allora avevo solo ventitre anni, prendevo fuoco facilmente, e incominciai a scrivere poemi sinfonici in un unico movimento ininterrotto, basandomi per l'ampiezza sui modelli di Mahler e Strauss... Punto culminante di questo periodo furono Verklärte Nacht op. 4 e Pelleas und Melisande op. 5" (Introduzione ai 4 Quartetti per archi, 1949). Pur richiamandosi a Mahler e Strauss, Schönberg impiegò per la prima volta la forma del poema sinfonico in un solo movimento in un'opera cameristica, impresa difficile ed audace in questo genere raffinato e per tradizione legato alla musica “pura”.
Dalle prime opere ancora sostanzialmente tonali il cammino di Schönberg compositore lo portò intorno al 1908 alla libera atonalità, a lavori radicalmente espressionistici di forte tensione e concentrazione, ricchi di violenti contrasti. In nome dell'esigenza di riorganizzare razionalmente il materiale cromatico egli elaborò poi all'inizio degli anni Venti il “metodo della composizione con dodici suoni che stanno in rapporto soltanto fra loro". Come sempre, un rigoroso lavoro tematico caratterizza le opere dodecafoniche di Schönberg; nuovo è tuttavia il ricorso a forme storiche, frequente all'inizio di questa fase. Le opere tarde, composte dopo l'emigrazione di Schönberg in America (1933) rappresentano una sintesi di tendenze eterogenee: mentre in alcune la tonalità allargata include tutti i dodici suoni, nelle composizioni seriali possono emergere effetti apparentemente tonali.
Verklärte Nacht e il Trio per archi segnano il punto di partenza e di arrivo di un cammino artistico di inflessibile coerenza, un cammino che Schönberg deve aver sentito come manifestazione di una volontà superiore: “Non ero destinato a continuare nella maniera di Verklärte Nacht o dei Gurrelieder o anche di Pelleas und Melisande. Il Comandante Supremo mi ha ordinato un cammino più arduo." (“On revient toujours“, 1948).
Per la composizione del Sestetto per archi Verklärte Nacht Schönberg si ispirò ad una poesia di Richard Dehmel tratta dal volume di liriche Weib und Welt (“Donna e mondo“) e in seguito ripresa nel romanzo in versi Zwei Menschen (“Due creature“). Pur parlando esplicitamente di “musica a programma", Schönberg nelle sue note del 1950 su quest`opera fa delle distinzioni su questo termine: “Il mio pezzo era forse un po' diverso da altre composizioni descrittive: innanzi tutto perché non era per orchestra, ma per complesso da camera, e poi perché non illustra nessuna azione né dramma, ma si limita a descrivere la natura e ad esprimere sentimenti umani... in altre parole la mia composizione offre la possibilità di essere apprezzata come 'musica pura'."
In una lettera a Schönberg (12-12-1912) Richard Dehmel confermò l'effetto del Sestetto come musica autonoma: “Ieri sera ho ascoltato Verklärte Nacht e sentirei come un peccato di omissione non dirLe una parola di ringraziamento per il Suo meraviglioso Sestetto. Mi ero proposto di seguire i motivi del mio testo nella Sua composizione, ma lo dimenticai presto, tanto fui preso dall'incanto della musica". E Schönberg scrisse a Dehmel (13-12-1912) di aver “rispecchiato musicalmente" nella propria composizione quel che i versi del poeta avevano “agitato” in lui.
Nella struttura della sua composizione Schönberg segue la poesia di Dehmel, articolando il pezzo (che è in un unico movimento) in cinque sezioni con diversi caratteri espressivi. Le parti che si riferiscono al vagare delle due creature e colgono le atmosfere della natura (I, III, V) inquadrano due episodi, le parole della Donna (parte II) e quelle dell'Uomo (parte IV). Nonostante questa chiara articolazione la forma si presta a diverse letture. In Verklärte Nacht è già preannunciata una disposizione formale che Schönberg doveva sviluppare e portare a grande perfezione nelle composizioni strumentali seguenti, in Pelleas und Melisande op. 5, nel Quartetto in re minore op. 7 e nella Kammersymphonie op. 9. Tutte queste opere in un unico movimento hanno un duplice significato formale, perché si possono intendere come un tempo in forma-sonata di ampio respiro e come sinfonia in diverse parti. Anche nel Sestetto, alla presentazione dei temi seguono complicate sezioni di sviluppo, e nella quinta parte vengono a congiungersi i complessi tematici che hanno significato programmatico, così che nell'insieme questa sezione presenta il carattere di una ripresa. Così pure la parte corrispondente alle parole della Donna (a sua volta in cinque sezioni) può essere intesa come movimento principale di un'opera ciclica; alle parole dell'Uomo toccherebbe allora la funzione di un tempo lento di sinfonia. Sarebbe tuttavia un errore vedere nella forma una sorta di rondò con ripetizioni delle sezioni A: sebbene le tre parti della “notte di luna" siano caratterizzate dalla presenza del tema iniziale (es. a, p. 16), si mutano nel carattere espressivo e nella funzione, perché proseguono gli episodi precedenti carichi di emozione. Dopo le agitate parole della Donna il tema iniziale entra in fortissimo "schwer betont“ (pesantemente marcato), appare più incalzante per la tensione verso l'alto di disegni in ottavi, finché la musica si calma e questa parte si estingue in accordi lungamente tenuti di mi bemolle minore. Nella parte conclusiva il tema in un dolce pianissimo s'irradia sopra gli arpeggi del secondo violino: nella poesia la natura per le due creature si era mutata da uno "spoglio, freddo bosco" in una "alta, chiara notte".
Ricchissima di materiale tematico è la seconda parte, la confessione della Donna. Una dopo l'altra incessantemente si formano nuove strutture in crescendo, gruppi che vengono condotti ad un punto culminante; qui Schönberg impiega da virtuoso la tecnica brahmsiana della variazione di sviluppo (entwickelnde Variation). Questa parte finisce con un espressivo episodio dal carattere di recitativo, che immediatamente conduce al tema della “notte di luna" della terza parte. Sebbene si colleghi a motivi apparsi in precedenza, anche il secondo episodio, con le parole dell'Uomo (parte IV/), è in sé concluso. Dopo l'inquieta conclusione della terza parte in mi bemolle minore il repentino passaggio a re maggiore e la vigorosa melodia introduttiva del violoncello hanno un effetto liberatorio. Un nuovo mutamento di atmosfera è prodotto da suoni armonici con sordina in fa diesis maggiore, che, abbelliti da animate figure di sedicesimi, esprimono - secondo le parole dello stesso Schönberg - la bellezza della luce lunare, sul cui sfondo egli ha collocato le parole consolatrici dell'uomo. Questo intenso lavoro tematico e l'intrecciarsi delle sezioni ricordano la tecnica wagneriana del Leitmotiv. L'uso di questa tecnica e l'impegnativo confronto con la grande forma in un unico movimento di matrice lisztiana rivelano l`influsso su Schönberg delle idee della scuola neotedesca_ Nell'articolo La mia evoluzione (1949) egli spiega quali elementi stilistici di Wagner e di Brahms egli avesse unito nel proprio stile in Verklärte Nacht:
La costruzione tematica e basata, da un lato, sulla formula wagneriana di “modello e sequenza" sopra un'armonia mutevole, e, dall'altro, sulla tecnica brahmsiana della variazione di sviluppo (come io la chiamo). Pure a Brahms va ascritta la disparità delle misure... Ma il trattamento degli strumenti, il modo della composizione e molte sonorità sono strettamente wagneriani... Penso pero che si possa trovare anche qualche elemento schönberghiano nella lunghezza delle melodie... nelle combinazioni contrappuntistiche e motiviche e nei movimento semicontrappuntistico dell'armonia e dei bassi in rapporto alla melodia. Infine v'erano già alcuni passaggi (ad esempio le batt. 137-139) di tonalità indefinita, che possono essere considerati anticipazioni del futuro.
Già con questo Sestetto iniziano le resistenze alle esecuzioni di Schönberg. Racconta Zemlinsky:
Poco dopo scrisse un Sestetto per archi ispirato ad una poesia di Richard Dehmel. Per quanto ne so, era la prima musica a programma per un organico da camera. Cercai nuovamente di persuadere il comitato direttivo del Tonkünstlerverein a farlo eseguire. Ma questa volta non vi riuscii. Il pezzo fu “esaminato” e l'esito fu del tutto negativo. Un membro della giuria pronunciò il suo giudizio con queste parole: “Suona come se la partitura ancora umida del Tristano fosse stata strofinata!“ Questo Sestetto, Verklärte Nacht, è ora uno dei pezzi più eseguiti di Schönberg e di tutta la letteratura cameristica moderna. Schönberg non si lasciò fuorviare da questo apparente insuccesso; un paio di parole energiche e facete indirizzate ai suoi critici - e con questo aveva sbrigato l'intera faccenda, grazie alla sua natura a quel tempo ancora assai serena e ottimista" (Arnold Schdnberg zum 60, Geburtstag am 13. September 1934, Universal Edition, Vienna).
Nel 1917 il Sestetto per archi fu pubblicato anche in versione per orchestra d'archi: allora era consuetudine presentare musiche da camera in veste orchestrale (ad esempio Mahler eseguì il Quartetto op. 95 di Beethoven con un'orchestra d'archi). Molto più importante per gli interpreti è tuttavia una seconda versione per orchestra d'archi del 1943. Si tratta di una revisione in cui Schönberg tenne conto delle proprie esperienze come direttore e inserì i ritocchi derivati soprattutto dalla pratica esecutiva del Quartetto Rosé e del Quartetto Kolisch: indicazioni precise di tempo e di metronomo, una distribuzione delle parti fra gli esecutori più organica dal punto di vista tecnico, chiara distinzione di voci principali e secondarie e segni dinamici differenziati. Questa registrazione si basa sulla revisione del 1943.
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In California (la sua seconda patria), all'inizio dell`agosto 1946 Schönberg, che soffriva di asma, svenimenti e vertigini e versava in condizioni di salute sempre più precarie, ebbe una grave crisi cardiaca; era clinicamente morto e fu salvato soltanto grazie ad una iniezione praticata direttamente al cuore: “Sono risorto da una vera morte e ora sto molto bene", scrisse Schönberg in una lettera a Hans Heinz Stuckenschmidt. Già nelle prime tre settimane successive alla crisi cardiaca egli iniziò la composizione del Trio per archi, che finì cinque settimane dopo, il 23 settembre. Schönberg si è ripetutamente espresso a proposito del rapporto di questa composizione con la malattia e con l'esperienza della morte. Hanns Eisler, dopo una conversazione con lui, racconta:
Era morto... Era... già morto da un quarto d'ora [il tempo indicato è sicuramente un errore di Eisler]. C'e, come Lei sa, questa famosa iniezione che si fa direttamente nel cuore. Non appena Schönberg si riprese scrisse come primo pezzo un Trio per archi, che considero una delle più belle composizioni che egli abbia scritto; non lo penso soltanto io, ma tutto il mondo musicale. Quando dissi a Schönberg, che mi mostrava il manoscritto: “Ma signor Schönberg, è una composizione davvero grandiosa", mi rispose “Sa, ero così debole, non so proprio come lo ho scritto. Qualcosa ho messo insieme." Ma mi mostrò an-
che come ogni accordo rappresenta una iniezione.
Anche Thomas Mann accenna al contenuto autobiografico del Trio nelle sue annotazioni pubblicate con il titolo La genesi del Doktor Faustus;
In quei giorni è ricordato e desidero che anche qui sia ricordato un incontro con Schönberg, il quale mi parlò del suo nuovo Trio appena compiuto e delle esperienze misteriosamente insinuate nella composizione che sarebbe in certo qual modo un loro prodotto Disse di avervi rappresentato la sua malattia e la cura medica compreso il male nurse (l'infermiere) e tutto il resto. L'esecuzione sarebbe estremamente difficile, anzi quasi impossibile o possibile soltanto per tre suonatori del livello di virtuosi, ma d'altro canto molto grata in virtù di straordinari effetti sonori. La combinazione “impossibile, ma grata" entrò nei capitolo della musica da camera di Leverkühn.
Il Trio per archi è l'unico di Schönberg, come unico è il giovanile Sestetto. Inoltre il Trio è un esempio di uso non dogmatico della tecnica seriale nell'ultimo Schönberg (che del resto, contrariamente a ciò che molti credono, fu per tutta la vita uno sperimentatore non dogmatico): il materiale fondamentale dell'opera è costituito da una serie di 18 suoni, divisa in tre esacordi (A, B, A") e da una serie di 12 suoni ricavata dalle note iniziali e finali di questi esacordi; attraverso combinazioni dei gruppi si producono stratificazioni verticali che di volta in volta contengono l'intera scala cromatica.
Nella configurazione formale quest'opera tarda rivela una sorprendente somiglianza con Verklärte Nacht: anch'essa è in un unico movimento articolato in cinque sezioni, dove tre parti sono collegate fra loro da due episodi. La prima parte è caratterizzata soprattutto da timbri chiari e da stridenti suoni armonici in fortissimo, ed è facile porre in rapporto questa pungente presenza con il racconto di Eisler. Le angosce, le lotte, il manifestarsi improvviso della malattia si riflettono nella gestualità e nella dinamica molto discontinue di questa parte introduttiva. L'esteso primo episodio comincia con una frase ascendente dolce del violino, che sembra schiudere un nuovo, lirico mondo sonoro, un altro livello di coscienza. Battute di sottile irregolarità ritmica fanno sospendere il senso del tempo, momenti che producono un effetto di disorientamento - col legno, sul ponticello, flautando - creano eventi sonori estraniati. Così l'accento fondamentalmente lirico di questo episodio è talvolta compromesso, finché emerge un grande passaggio melodico in un danzante 6/8. La seconda parte, che inizia con una tranquilla successione di ottavi, si collega organicamente all'episodio precedente. Violenti contrasti dinamici rendono drammatico lo svolgimento successivo, che poi di nuovo provvisoriamente si placa in piani andamenti di sedicesimi con sordina, e dopo una rinnovata intensificazione sfocia in una melodia cantabile con carattere di Valse triste.
Il secondo episodio contrappone alla tenera conclusione della seconda parte martellanti decime e tritoni al violoncello. Dopo questo veemente inizio, la tempesta si placa di nuovo nella ripetizione in progressione di una frase di tre note al violino e in un canone a tre voci che inizia in sedicesimi non accentati, pianissimo (con tre p). Seguono con forte risalto i glissandi eseguiti dai tre strumenti, che “scivolano” lentamente verso l'abisso. Dopo unisoni ritmicamente pregnanti si prepara l'inizio della terza parte, dove attraverso il tempo sempre più lento e le note ripetute si crea addirittura l'impressione di una transizione “classica". Nella terza parte si ripercorrono ancora una volta in modo concentrato gli eventi musicali fin qui presentati. Si possono identificare chiaramente temi, figurazioni, caratteri delle parti ed episodi precedenti. Questa reminiscenza non è una ripetizione condensata, ma viene ad illuminare con la repentina rapidità di un lampo certe pietre costitutive del mosaico, che qui si ridispongono su un altro piano di configurazione attraverso la ripetizione, omissione, trasformazione e sintesi. Ad esempio, nella prima battuta dell'ultima parte viene citato l`inizio del pezzo, e le battute 4 e 5 sono riprese alla lettera, mentre la seconda battuta è variata e la terza è omessa completamente; le battute 8, 9, 12, 13 della parte iniziale sono ora unite immediatamente l'una all'altra: soltanto l'essenziale viene ancora una volta ripreso. Per Schönberg non si trattava evidentemente di creare una conclusione compiuta con carattere di ripresa, ma di una riflessione soggettiva su ciò che era stato vissuto: i punti fermi, le tappe di un processo psichico sono ancora una volta ripercorsi su un piano surreale al modo del montaggio di un film. Tempo e causalità sono sospesi e superati come in sogno, come sulla via verso un'altra realtà.
Juliane Ribke
(Traduzione: Paolo Petazzi)

domenica, giugno 22, 2025

Cathy Berberian: Canta, recita, inventa con l'orgoglio di esistere...

Cathy Berberian (1925-1983)
Cathy Berberian stende un foglio immaginario che si srotola fra le mani come fosse una pergamena, poi fa un cenno d'intesa e scuote il capo, come a dire: no, troppo giusto, neanche così; e allora tende le mani aperte quasi verticali, palme rivolte verso lei all'altezza delle spalle, erge il petto, socchiude gli occhi, apre la bocca e l'assottiglia, e finalmente fa uscire una voce stentorea, declamante, lentissima, scuotendo leggermente il capo come ad approvare ciascuna delle note immortali che va cantando. «Se i languidi miei sguardi...», deglutisce, «...se i sospiri interrotti»... Si ricompone, parla con la dolcezza della desolazione: « Ecco, così al conservatorio insegnano a cantare Monteverdi, e così le cantanti riescono in pochi secondi a rendere noiosa la Lettera Amorosa. Io penso che ritengano che Monteverdi sia un autore del passato, e allora bisogna cantarlo ufficialmente, perché fa cultura. Ma io ho appena ricevuto questa lettera di Monteverdi, l'ha scritta l'uomo che io amo, sono ansiosa di sapere che cosa dice di me, se sono bella, se mi ama, se me lo ripete...». Esce dalla stanza, rientra, rapida, stringendosi a se stessa, fra le mani scartoccia ed accartoccia inquieta lo stesso foglio immaginario, e veloce, ansiosa, inarrestabile canta, a fior di labbra, guardando le parole, «Se i languidi miei sguardi, se i sospiri interrotti, se le tronche parole non han sin'or potuto, o bel idolo mio, farvi delle mie fiamme intera fede», sorride tutta per conto suo: «leggete queste note. Credete a questa carta»...
Cathy Berberian dice: «L'errore è sempre qui: far dell'arte una cosa che non c'entri con la vita. Nell'arte è necessario essere naturali, spontanei come nella vita».
La guardo: i capelli d'un bianco-argento da teatro, le grandi ciglia costruite come in un ritratto del Novecento. il colore fantasioso della sua faccia armena ironica dolce e fiera; e quei suoi abiti da casa che stanno sempre fra il poncho e il manto. quel suo stare fra il solenne e il gattone. «Mi chiamano, prendendomi in giro, mostro sacro. Ma io sono semplicemente come mi pare», Cathy Berberian dice. Il fatto è che per lei esser come le pare, essere nella vita, significa inventare: se stessa, il mondo attorno. A cominciare dalla casa: un estroso coacervo di ricordi alla rinfusa, di curiosità, di eleganze e di oggetti buffi. Domina il liberty: bicchieri colorati in vetrinette, statuine, le malinconie leggere d'una collezione di Pierrot; sgabelli e divanetti autentici su cui con allegria gentile la padrona di casa avverte se è conveniente o pericoloso sedersi; e in tutto un'armonia serena, non l'incombere del sospetto di museo, ma la presenza d'un effetto che ordina, d'un respiro naturale.
Ma come, Cathy, siamo nel «rétro»? Tu. sacerdotessa dell'avanguardia, interprete a cui sono dedicate tutte le più spericolate composizioni da cantare degli ultimi venticinque anni, Stravinskij. Berio, Cage, Bussotti, e così via...Tu, che hai scandalizzato i benpensanti di ieri e di oggi, con fenomeni, borborigmi, strilli, rulli, gridi, frammisti a suoni e silenzi, tu mi parli di Monteverdi in mezzo a un mondo liberty? «Ecco», dice Cathy Berberian. «Vedo se riesco a spiegarmi». Parla con inflessione dolce, la cadenza di chi è nato armeno in Massachusetts, ha vissuto a New York, insegnato in Germania, abita in Italia e canta in venti lingue in tutto il mondo, e che di tutti gli accenti ne fa, per dirla addirittura con Dante, «uno incognito e indistinto». «Io penso»... incomincia quieta. Chi conosce Cathy in pubblico nei giorni di lotta stenta all'inizio a riconoscerla nel tono calmo delle sue parole. La ricordo all'esordio anzi all'approdo alla Scala dopo tanta professione severa ma anche dopo tanta carriera vincente dato che è l'unica creatura, forse con Gazzelloni, che abbia saputo imporre sempre i musicisti interpretati, infilzando di forza spettatori diffidenti e tradizionalisti increduli. Portava nel programma i Folksongs strumentati e adattati da Berio e, sempre di Berio, la Sequenza per voce sola, quella appunto «for Cathy». Ma all'ultimo invertì l'ordine dei pezzi, e così, durante un normale concerto sinfonico, il pubblico che aveva appena lungamente applaudito La ritirata di Madrid di Boccherini-Berio vide centoventi professori d'orchestra sgombrare il palcoscenico e, fra la selva di leggii vuoti, entrare tutta sola questa donna, mettersi al centro del proscenio e incominciare la sua serie di versini, che, solo se accettati dall'inizio, ascoltati con attenzione, valutati per quello che significano riuniti, si compongono alla fine in una cosa compiuta e interessante. La gente dei concerti alla Scala non è proprio un`accolta di arditi; e la sorpresa gettò in sala un silenzio teso, pronto a rompersi in fischi, in «basta», in risate. Il pubblico guardò dunque Cathy, e spiò che faccia avesse mai l'avanguardia più spregiudicata; ma negli occhi di lei non vide affatto ciò che aspettava, la grinta di sfida degli avveniristi alla società borghese, lesse invece il monito duro, autoritario, affettuoso e dominatore di chi sta per imporre le sacre ragioni della musica. Si mise buono, per un attimo: e bastò, perchè la musica, inconsueta, discutibile, ma carica, ma intensa, vissuta così sulla pelle e sull'anima, s'imponesse; e fu un successo.
«Io penso...». incomincia dunque quieta Cathy Berberian, «che forse io sono molto più libera di altri, perché ho avuto la fortuna di non arrivare alla musica contemporanea come se fosse una cosa diversa dall'altra, che si raggiunge dopo, una cosa strana, un po' assurda; ma di cantarla e di capirla subito, come cosa difficile, da conquistare, sì, ma naturale, ma giusta, e di vedere che anche gli altri la potevano sentire. Allora non ho bisogno di lasciare in qualche modo il resto per dimostrare che amo la musica d'oggi, e non ho bisogno di dimenticare l'espressione e la tecnica del passato per trovare quella di oggi, anzi proprio attraverso la musica e la tecnica e la mentalità di oggi posso arrivare meglio a quelle del passato. Per esempio, queste cose liberty, come le musiche che canto nei recitals da salotto buono che mi diverte inventare, le romanze dei nostri padri e dei nostri nonni, mi fanno divertimento e tenerezza, perché sono il mondo che non poteva più esistere, che l'arte più difficile e più importante ha rifiutato, ma a cui ha anche dato l'addio; cercare la voce per interpretarle in modo giusto sapendo che è proprio quello che non si deve fare per cantare la musica di Stravinskij o di Berio è dolce, ed è anche buffo. Ma per esempio Monteverdi è più vicino di quello che non si creda alla musica di adesso. Ad esempio, io ho imparato la tecnica della famosa nota ribattuta studiando un pezzo di Berio; c'era una ripetizione veloce d'una nota, era difficile, mi ero allenata bene, gliel'ho fatta sentire e mi ha guardato come si guarda una gallina che ha appena fatto il suo verso. Allora ho capito che bisognava trovare un atro modo, che facesse uscire la nota ribattuta come naturale, espressiva, come sul respiro. E così ho scoperto come va cantato Monteverdi».
Berio, naturalmente. É stato suo maestro nell'avventura musicale; e per un certo tempo suo marito, tanto che hanno una figlia e ormai persino due nipotini; ma anche adesso il loro rapporto è vivo, affettuoso, creativo e Cathy parla di Luciano come d'un genio della musica, il che ormai è parere assai diffuso; come d'uno che corre pericoli e ha difetti, opinione diffusa altrettanto; e anche come d'una persona che dà tutta se stessa, perennemente, attraverso lo schermo di egoismi apparenti, alla ricerca di ciò che sente di dover fare. «Ma sai che cosa vuol dire avere dato tanta vera musica».
Cathy lo sa. Ha imparato la forza della musica, quel tanto d`unicità e di verità che contiene, fin dai sei anni, quando a New York dove stava ha udito per la prima volta un disco di Tito Schipa: «Se il mio nome saper voi bramate...»; e tanto basterebbe a far sorridere sulla sfiducia nella corrispondenza d'intese nella musica ed in ogni cosa bella, se i rapporti imprevisti si annodano segreti, al di là degli schemi e delle formule. La famiglia non voleva, ma la piccola decise presto di diventar cantante; fingeva di volere diventare scrittrice, e frequentava i teatri, soprattutto musicali; si preparava ad ogni parte: studiava danza indiana in caso avesse poi potuto cantare nel futuro la Lakmé, provava il balletto spagnolo «nell'acme della presunzione», cioè sperando di fare un giorno la protagonista di Carmen. Studiava pianoforte, trucco, recitazione, le leggi essenziali della composizione musicale; «ma non ho una carta dove si dice che sono musicista: erano lezioni private, i miei mi tenevano lontano dall'idea della carriera di cantante, per il mio bene; trovavano che avevo una piccola voce di rana, il loro concetto di cantante era vicino invece al tipo della zia, che aveva cervello di gallina, ma grande voce di elefante». Cathy studiò continuamente: quando faceva il fattorino d'una ditta di whisky come quando era usciere in una stazione radio e teneva lo spartito vicino a sé nella speranza che qualcuno dei musicisti le facesse domande; o quando era commessa d`un negozio di musica e si convinse che è utile anche un film con la vita di Chopin, protagonista Cornel Wilde. se all'improvviso tutti arrivano al banco a domandare dischi di Chopin. «Non voglio dire che cos'è la musica, non sono così presuntuosa. So che però è una cosa dove c'è dentro tutto di noi, anche se è astratta. So che non è politica, non è rivoluzione, anche se può accompagnare le rivoluzioni degli uomini che ci credono; o almeno non fa rivoluzioni in senso politico per se stessa. So che non è calcolabile in valori secondo la dottrina, perché avrà pure senso se quando annuncio Summertime nei bis d'un concerto impegnativo tutti svengono dalla gioia e sono lì che aspettano. So che non è da prender mai alla leggera, perchè ha la sua tecnica, il suo linguaggio, ogni volta diverso, e bisognerebbe imparare ogni volta quello giusto, e per esempio a me piacerebbe tanto adesso tenere un corso su come si canta l'operetta. So che bisogna studiarla molto. Senti, io non sono sapiente, ma leggo e studio continuamente i sapienti che capisco; tu dici che vivo come nessuna le cose d'oggi, ti ho anche. spiegato che mi servono per capire le cose di ieri; ma devo anche confessarti che la fatica maggiore è studiare la storia per capire l'oggi con la misura del passato; e questo è difficile, e siamo in pochi a farlo».
Cathy Berberian poi ha un gesto malinconico. «Purtroppo, adesso, ho un serio disturbo della vista che non mi lascia più leggere come facevo prima, divorando libri e partiture. Mi disturba quasi più per questo che non per la fatica dei concerti, dove devo imparare tutto perfettamente a memoria». La memoria, comunque, è una delle cose per cui Cathy è rinomata. C'è una spiegazione?
«Certo. Da piccola ero molto fantasiosa. Vivevo in una grande famiglia con cugini, zii, parenti poco ricchi che arrivavano per caso sempre all'ora dei pasti. Mi annoiavo, volevo evadere, mentivo. Dicevo cose che se ci penso adesso mi vergogno. Mio padre mi aveva regalato una casa della bambola e io provavo a convincere i bambini che c'era dentro della gente vera, piccolissima così, che l'abitava. E tante altre cose. La croce del bugiardo è ricordarsi di che cosa ha inventato, per non contraddirsi. É così che si sviluppa la memoria».
E adesso, le domando, hai limitato il repertorio? «Purtroppo», mi confessa. «Ho in programma per 1`immediato futuro solamente queste cose». E incomincia, con aria contritissima, un elenco di concerti. C`è la serata d'avanguardia, e quella antica; c'è la novità e la cantata ripescata; la serie d'operetta e quella di parodie; c'è il famoso recital delle donne compositrici nei secoli...
Seduta sulla zona di divanetto autentico che non si sfonda, con un'ombra nella voce che non si sa se di rimpianto per tutto quello che non può cantare nella storia (credo ormai una minoranza) o d`ironia per il mondo che non canta (e anche per quello che canta), Cathy Berberian snocciola titoli noti e sconosciuti, celebri preziosità e celebri melodie popolari, cose dotte e balzane. Per altri, sarebbe uno sfoggio, o un paradosso; ma per lei, son solo un moto d'esistenza. Come quando mi racconta d'un noto compositore che da giovane andava a trovare Berio e parlava con lui in sua presenza senza degnarla d'uno sguardo, come se non esistesse. «Scusami la parola», insorge Cathy ricordando ancora offesa, «ma se c'è una cosa che mi fa incazzare, è di non esistere, quando, invece, esisto».
Lorenzo Arruga

Dieci compositori d'oggi visti da Cathy Berberian
Boulez. Ho sempre diviso il mondo in due: quelli umidi e quelli asciutti. E lui è un asciutto.
Stockhausen. È un falso-umido. Quand'eravamo tutti molto giovani, lo vedemmo in atteggiamento romantico. «Sto cercando Dio». spiegò a mee a Luciano Berio. Luciano m'ha raccontato che lo ha incontrato recentemente, e gli ha domandato: «E allora? L'hai trovato?». Mi pare che gli abbia risposto: «Sì. Sono io».
Xenakis. All'inizio. mi lasciava perplessa. Adesso mi convince molto di più. Ma siccome nel mio inconscio so che era ingegnere e architetto, mi è rimasta l'impressione che non abbia scelto la strada giusta; è molto dotato. ma talvolta mi dà l'impressione che abbia preso il suo hobby come professione; e fa un poco di sforzo. E poi: guarda ogni donna come l'unica al mondo!
Ligeti. Ha un orecchio molto buono, scrive cose corali deliziose. Ma ha anche cadute di cattivo gusto. Le sue musiche comiche o spiritose, per esempio, si possono ascoltare una volta sola. Poi si vuotano.
Kagel. Grandi gesti teatrali. poca musica. anche se buona. Ha grande fantasia. Le sue composizioni sono gags musicali in grandi proporzioni. La sua musica è un collage di follia. Ho visto un suo pezzo a Parigi: entravano musicisti facendo strani rumori. uno aveva la lamiera attaccata ai piedi e la faceva oscillare; altri altre cose. Poi entravano 16 cantanti, ognuno ripeteva frammenti di brani noti. all'impazzata: «pace. mio Dio-dio-dio-dio-dio». ad esempio; ma tutti insieme; erano imbarazzatissimi. Poi entravano sessanta strumentisti ed eseguivano pezzi solistici. In mezzo, Kagel dirigeva. truccato come Gustav Mahler. Affascinante.
Nono. Sto scrivendo un libro di memorie e considerazioni sulle cose della musica. Mi chiedo sempre: che cosa faccio quando arrivo al capitolo Nono? Gli altri credono che si tratti del capitolo numero 9. Non sanno il mio imbarazzo.
Bussotti. Fin troppo dotato. Siamo molto vicini. Dovrebbe mettere in scena le cose degli altri, e lasciar fare agli altri le sue. E poi tagliare. Le sue qualità sono grandi: deve guardarsi soprattutto da se stesso.
Cage. La somma dell'America. Schoenberg diceva: non è un compositore, è un inventore di genio. É un essere con una serenità interiore che sa comunicare. È il padre della musica aleatoria. Però quando sceglievamo insieme dei suoi pezzi perché li cantassi, mi costringeva sempre a scegliere quelli tutti scritti. Ha un sorriso sereno. che viene dall'intimo. Però tiene la lingua sempre dentro e fuori come una lucertola.
Berio. Umidissimo. Per me e il più grande. Avrà qualche manchevolezza. da qualche parte: nel teatro, probabilmente, anche se la sua musica non scritta per il teatro è teatralissima. Ma tutte le cose che scrive mi toccano. Non si vergogna di toccare la gente. Fa quello che fa perchè non potrebbe fare altro: c'è tutto lui. Ha un orecchio interno che gli permette di controllare tutta la musica che inventa.
Berberian. Non esiste. come compositrice. Lo so. lo so che ha pubblicato un paio di cose sue. Stripsody è un pezzo per pianoforte; ma sono solo trovate musicali. Una volta. su Communication, una rivista molto intellettuale francese, un musicologo. mi vergogno un po' a dirlo, ha dedicato alla Stripsody 33 pagine,di cui non ho capito neanche una parola.
("Musica Viva", N. 2, Anno V, Febbraio 1981)

mercoledì, giugno 11, 2025

Rai-Programmazione brani... ci pensa il... computer

Il numero di volte che un brano viene trasmesso ogni settimana dalla RAI viene controllato adesso da un computer il cui terminale è direttamente collegato con Roma. I limiti e le possibilità del nuovo diretto controllo in una intervista con Pierluigi Tabasso, dirigente dell'ente radiotelevisivo.

Quando si parla di «computer» in campo musicale, viene naturale pensare alle ultimissime elaborazioni in musica contemporanea dove viene programmato a schede... un intero concerto, Ma qui si tratta invece di un tipo di controllo effettuato dalla Rai sul numero di volte che uno stesso brano viene trasmesso settimanalmente.
Il centro elettronico di controllo non è stato creato in questi giorni. è in funzione già da alcuni anni; la novità sta nel fatto che i dati elaborati vengono, in questi giorni, rigorosamente tenuti presente per la regolamentazione dei passaggi di ogni brano.
Ho chiesto ad un dirigente della Rai. Pierluigi Tabasso, capo del «Servizio dischi» da cui, tra l'altro, dipendono direttamente alcuni tra i più popolari programmi di musica come «Supersonic», «Folk-jockey», «Cararai» e «L'uomo della notte», in cosa consistessero le novità circa questi rigorosissimi controlli. Alcuni discografici parlano di pugno di ferro, di guerra al 45 giri, di eccessive limitazioni persino nelle visite dei discografici ai funzionari e programmatori (un programmatore dipendente dall'ufficio promozioni di una casa discografica non può accedere più di due volte la settimana nel palazzone di Viale Mazzini dove ha sede la Rai per proporre nuovi brani all'ascolto).
«In effetti - ha iniziato Tabasso - già da tempo, per distribuire equamente la programmazione dei vari dischi, consultavamo il centro elettronico, solo che, per conoscere i dati elaborati a Torino, dovevamo attenderne l'arrivo materiale, a mezzo posta. Ritardi postali. giorni festivi ecc. ci rendevano impossibile un tempestivo intervento per modificare scalette (successione di dischi da mandare in onda) dove un pezzo risultasse ultratrasmesso ed un altro meno di quanto fosse giusto. Perché, come saprai. i dischi in Rai sono scelti da programmatori, quasi tutti collaboratori esterni che,  non essendo in contatto tra loro, potrebbero al limite presentare in uno stesso giorno una scaletta con gli stessi dischi degli altri. creando cosi trasmissioni identiche tra loro e presentando uno stesso brano un numero eccessivo di volte.
Il controllo, che operiamo Zivelli ed io, si rende indispensabile, sia per questo motivo sia per evitare che qualche programmatore programmi qualche disco più del dovuto creando una situazione di privilegio di un disco, magari mediocre, nei confronti di un altro più meritevole. Per compiere meglio e con maggiore tempestività tale controllo abbiamo fatto installare a Roma un terminale del computer in maniera da avere a giro di ore in qualsiasi momento la situazione sotto controllo».
- Cosa intendi per provvedere? Cambiate a vostro giudizio le scalette dei programmatori sostituendo il brano - che «eccede» con uno meno programmato, a vostra scelta?
«Non lo facciamo arbitrariamente: invitiamo lo stesso programmatore a sostituire il brano in questione con uno che, sempre a suo avviso, abbia più o meno caratteristiche analoghe e che quindi non alteri la composizione ritmica della successione».
- Quanti «passaggi» al massimo, sono consentiti per ogni brano?
«Quattro».
- Al giorno?
«No. quattro la settimana; ma in qualche caso particolare possono essere portati a cinque».
- Ma non vi sembra troppo limitativo e non vi sembra di fare troppo «d'un erba un fascio»? Se capita un pezzo particolarmente buono, che finisca addirittura primo in classifica, che sia realmente gradito agli ascoltatori, voi dandogli un massimo di 5 passaggi settimanali non pensate di «bloccarlo» o comunque di andare contro il gusto del pubblico?
«In genere se un pezzo deve andar bene va bene lo stesso, comunque, anche se vi sono questi limiti, il provvedimento è essenzialmente mirante ad evitare gonfiature di pezzi "fasulli"; il discorso inverso a quello del brano decente che viene "limitato" è quello del brano inesistente, squalificato, ultracommerciale che viene gonfiato e che, tramite proprio il plagio quotidiano, riesce ad imporsi malgrado tutto. Noi pensiamo che questo sistema rappresenti realmente una garanzia per tutti: c'è più spazio per tutti, ora che non viene accaparrato in esclusiva da dieci o venti pezzi al giorno; oltretutto miriamo anche a presentare musica migliore, la vostra musica, ad esempio, che prima era alquanto sacrificata  da quella più commerciale».
- Culturalmente, quindi, il controllo più rigoroso dovrebbe risultare più vantaggioso; se fosse cosi ci sarebbe davvero, finalmente, da fare un elogio alla Rai. Ma c'è un altro problema, ed è quello che ogni casa discografica, anche quelle produttrici di dischi scadenti e squalificati, si affretterà a  sottoporre una gran massa di dischi assurdi, fidando sul turno dei quattro, cinque a settimana che spettano ad ogni  disco.
«Questo rischio viene annullato dal fatto che i nostri programmatori restano comunque e sempre arbitri della «scelta» e poiché si tratta di gente preparata, qualificata, senza dubbio eviterà i prodotti squalificati. Piuttosto, ora che la manna dei dischi ultraprogrammati è finita, può darsi che i discografici si decidano a produrre cose sempre migliori e  che affidino la vendita del prodotto alle sue qualità piuttosto che al numero di passaggi che in un modo o nell'altro cercano di ottenere».
- Venivano corrotti i programmatori? E' questo che vuoidire?
«Non sto assolutamente affermando questo, ma poteva essere carpita la buona fede di qualcuno. questo sì. In tutti i modi ora c'è il computer».
- E' il caso di dire che ora «la ...programmazione è uguale per tutti», grazie a mister cervellone. Noi ci auguriamo che questo maggior spazio che si è creato venga riempito con buona musica e non con altre canzonette che non attendono altro che di raggiungere il record di ben cinque passaggi a settimana.
Renato Marengo
("Ciao 2001", 28 Aprile 1974, N. 17, Anno VI)

martedì, giugno 03, 2025

Erik Satie secondo Alberto Savinio

Al nome di Erik Satie, si suole premettere la parola «ca
so». Si dice: il caso Erik Satie. Segno che in questo musicista è qualcosa di singolare. Infatti. Ma il caso Satie, meglio che dai musicologi, sarà risolto da uno psicologo. La condizione di Erik Satie è una condizione misteriosa e tragica. Frequente in tutte le attività umane, ma grave soprattutto nelle attività dell'arte, ossia nelle attività che implicano il miracolo della creazione. Condizione di colui che vuole ma non può. Se qualcuno fosse riuscito a far confessare a Erik Satie il suo segreto, egli avrebbe detto: «Voglio ma non posso». Ma questo segreto, un artista, un creatore, non lo confessa per nessuna ragione al mondo. Piuttosto morire. Perché questo segreto va di là dalle «confessate vergogne» di un Jean-Jacques Rousseau, queste furbesche civetterie. È un segreto «mortale». Il caso Satie è il caso di un uomo che voleva essere creatore di musica, ma non riuscendo a possedere i mezzi di una creazione musicale che lo soddisfacesse, si adoprò per reazione a distruggere la musica nella sua forma più vistosa. In altre parole, Erik Satie è un amante di Euterpe che, non corrisposto da lei, tenta di uccidere l'ingrata.
Ho delineato così i due aspetti di Erik Satie e diversissimi: dell'aspirante creatore, del distruttore. Sono dell'aspirante creatore le Sarabandes, il Socrate, ecc., del distruttore i Trois morceaux en forme de poire, le Pièces ƒroides, i Véritables Préludes flasques (pour un cbien), ecc.
Le qualità più schiettamente musicali di Erik Satie dovrebbero meglio apparire nella sua opera di aspirante creatore. E infatti così è. Ma questa opera è continuamente oppressa dal «voglio ma non posso». La musica «normale» di Satie ha il passo breve. È una musica prigioniera. Una musica in cella. Essa mi ricorda un particolare delle memorie di Kropotkin, in cui questo precursore della rivoluzione russa dice che, quando era prigioniero nella fortezza Pietro e Paolo di Pietroburgo, ogni giorno, per mesi e anni, a fine di neutralizzare gli effetti dell'inerzia corporale, durò a fare tanti passi avanti e indietro nella sua cella lunga cinque metri e larga tre, quanti ci vogliono a colmare una distanza di otto chilometri. Come abbia fatto Kropotkin a non uscire matto da quella marcia «schiacciata», io non so capire; penso tuttavia che non sfuggirebbe alla pazzia colui che ogni giorno continuasse a sognarsi le musiche «normali» di Erik Satie, nelle quali i suoni, ogni tre passi, sbattono sulle pareti di una ineffabile cella.
Nelle Sarabandes di Satie appare come il prefantasma di alcuni armonismi di Claude Debussy. Musica da dolce altalena. Non che le musiche di Debussy siano quanto a sé di piè veloce come il Pelide Achille, che anzi sono piuttosto come Ofelia annegata e soggette esse pure all'ondeggiare dell'acqua; ma le Sarabandes di Satie, per di più, segnano il passo, chiuse dentro un infrangibile cerchio, e più che tre sarabande diverse, sono le varianti di una medesima sarabanda. Musica povera e seduta. Modestamente seduta in una sedia di paglia.
Socrate è la musica più alta di Satie, più pura. E più monotona. Piú chilometricamente monotona. Ma qui la monotonia non è un involontario difetto: è un mezzo espressivo. È il fascino di questa musica. Bisogna entrare dentro questa monotonia, saturarsene e goderne. Musica che va avvicinata all'orecchio, come per una specie di miopia dell'udito. Come Toscanini avvicina orizzontale la pagina della partitura all'occhio, e rade la pagina con lo sguardo cortissimo. Musica per orecchie cinesi. Dicono che a un orecchio cinese, le nostre musiche anche più gravi sonano come altrettante marcette da circo. A sentire la musica del Socrate, è necessario fare mente locale. Quando mio figlio Ruggero aveva sette anni, lo vedevo piegare ad arco una cannuccia, tenderci su uno di quegli elastichini che i commessi di negozio girano intorno ai pacchetti, avvicinare il minuscolo apparecchio alla coclea, pizzicare la corda con l'indice, e al suono presso che impercettibile di quella microscopica nota sempre ripetuta, andare in visibilio. Resta a stabilire se mette conto ridursi alla condizione di un cinese o di un ragazzino di sette anni, per godere come si deve la musica del Socrate. Tanto più che la purezza di questa musica ha un che di «atteggiato», la sua tanta semplicità mette in sospetto di retorica rovesciata, e quanto al suo grecismo, esso è manifestamente maniera. Vero è che ai molto esercitati di grecità, la stessa grecità di Platone è sospetta. Un'avvertenza sullo spartito del Socrate segnala l'affinità tra la purezza di questa musica e la purezza del disegno di Ingres. Si vede che l'autore della nota confondeva Ingres con Puvis de Chavannes.
Tormentoso dramma dell'artista, cui il miracolo della creazione è negato. C'è analogia tra il miracolo della creazione e il funzionamento dell'accendisigaro. Talvolta, al primo colpo di pollice, la fiammella si leva su come un pennacchietto azzurro. Le piú volte però sprizzano scintille ma fiammella non appare. Talvolta ancora, e per quanto il pollice fatichi, la rotella rimane nera. In questo caso l'artista cerca supplire con «falsi miracoli».
Triste ripiego. Nelle opere di Satie, il falso miracolo è presente. Talvolta in forme cornpromettenti. Fino in quella dei mistagogismi ispirati dal «Sar» Péladan. Esperienza e saggezza d'arte mi dicono che bisogna diffidare dell'artista che, come per rafforzarsi, come per acquistar sostanza, si iscrive a un determinato partito mentale. Io diffido perciò dello scrittore «cattolico», dello scrittore «comunista», dello scrittore che risale alle sorgenti dell'indianismo in cerca della verità. A suo modo anche Satie andava in cerca della verità. E probabilmente credé trovarla nel Socrate. Perrché questa ricerca della verità, questa fede, questo religiosismo erano tanto più urgenti nell'animo di lui, in quanto più imperiosamente egli si sentiva sollecitato dal demone della distruzione. Che è il carattere più vivo di Satie, e quello per quale questo macero e sprovveduto musico ha speranza di rimanere nella storia della musica.
L'uomo, e soprattutto l'artista, riflette nelle sue opere l'immagine dell'universo così come egli lo pensa. Per tempo lunghissimo, gli uomini pensarono l'universo in quella forma che noi chiamiamo aristotelica. Le scoperte di Copernico e di Galilei mostrarono la falsità di quella immagine. Malgrado ciò, gli uomini continuarono, e moltissimi continuano tuttora, a pensare l'universo verticale e a piramide. Né le sole menti basse, ma anche menti alte e imbottite di cognizioni, come Benedetto Croce. È solo nell'ultimo terzo del secolo passato, a buona distanza dalle scoperte degli astronomi, che alcuni artisti cominciarono a perdere fiducia nella forma dell'antico universo e a lasciarsi dietro le spalle la sua immagine ormai inerte. È Baudelaire, è Cézanne; poi, col solito ritardo della musica, Erik Satie. Tutti francesi. Perché nella mente francese, è più che in nessun'altra mente il senso della rivoluzione, cioè a dire il senso dell'accordo tra fisico e metafisico, nei continui sviluppi di questa doppia condizione. E questo loro compito naturale, i Francesi non lo dovrebbero dimenticare. Oggi soprattutto, che in un immenso movimento di reazione, gli uomini, dalle forme politiche alle forme della speculazione filosofica, sono avviati, per paura, per vigliaccheria mentale, a ricostituire un nuovo mondo aristotelico, e tanto piú illegittimo e assurdo, in quanto non su la fede può oggi poggiare un simile mondo, ma su una consapevole e imposta falsità.
Si disse: decadenza delle arti, della forma, della bellezza, della costruttività; e non era invece se non la fine della imitazione di un universo morto.
Oggi si parla della disintegrazione della materia. Anche in questo le arti sono anticipatrici. Nell'ultimo terzo del secolo passato, alcuni artisti cominciarono a dare mano alla disintegrazione della materia poetica. Opera ingrata ma necessaria. Nulla segnala che quegli artisti operassero consapevolmente. Ma operarono, e tanto basta. In musica, l'opera di disintegrazione fu compiuta da Erik Satie. In quella parte della sua opera che apparentemente ha carattere burlesco, meccanico, marionettistico, ironistico. È Parade, sono i Pezzi piriformi, ecc. Aspetti che ingannano. Come ingannano le didascalie umoristicamente sforzate, l'abolizione delle battute e delle agraffe tra basso e acuto. Scherzi che non fanno ridere nessuno, ma necessari a nascondere l'amarezza di quelle musiche, la necessaria crudeltà del loro compito. Che Vincent d'Indy abbia scritto Fervaal, non ha importanza storica. Che Henri Rabaud, per rimanere tra i compaesani di Satie, abbia scritto Marouf savetier du Caire, non ha importanza storica. Sparendo, queste opere non lascerebbero buco. Importanza storica invece hanno le musiche «burlesche» di Erik Satie: queste musiche che solo gl'ingenui tengono per ironistiche. Le quali musiche amarissime perché cariche di destino, tristissime perché nascondono il sacrificio del loro autore, hanno salvato la musica da una solenne morte per pompierismo.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)

mercoledì, maggio 21, 2025

Philip Glass...

Philip Glass (Baltimora, 31 gennaio 1937)
Philip Glass, uno dei maggiori rappresentanti di quella particolare corrente di musica contemporanea, ha tenuto due indimenticabili concerti a Milano presentando la sua ultima, lunghissima composizione "Music In 12 parts", scritta per la nuova formazione: Jon Ginson, Dickie Landry, Ritch Peck ai fiati, Glass, La Barbara, Michael Riesman alle tastiere. La nostra intervista.

Dopo Roma, che negli ultimi anni é diventata una tappa d’obbligo per i rappresentanti di quella corrente particolare della musica contemporanea che rinnova la tradizione occidentale assimilando lo spirito dell'Oriente (Terry Riley, La Monte Young, Charlemagne Palestine ecc.), anche Milano ha avuto finalmente un primo assaggio di questa validissima "avanguardia". Sono state due serate indimenticabili, nel biancore quasi accecante di un grande salone della galleria d’arte di Salvatore Ala, durante le quali Philip Glass con il suo gruppo ha presentato due terzi della sua ultima, lunghissima composizione, "Music In 12 Parts".
I concerti erano gratuiti, ad invito (anche se in realtà chiunque risultava poi il benvenuto), ed il pubblico ovviamente ridotto numericamente ma in compenso straordinariamente eterogeneo. Meno d’un centinaio di persone, a sufficienza comunque per riempire completamente il salone, tra cui musicisti, critici, artisti, signore in pelliccia e giovanissimi appassionati in eskimo e jeans. Le due esibizioni di Glass hanno costituito in pratica l'inaugurazione di una serie di iniziative culturali, nell'ambito della galleria, che promettono di suscitare un sempre più vasto interesse (e la musica dovrebbe essere degnamente rappresentata anche in futuro). Nella prima serata ci sono state proposte le prime quattro parti della composizione, più un accenno alla quinta; nella seconda, il gruppo ha proseguito fino all'ottava parte. In tutto, più di tre ore di musica: musica viva, affascinante, sempre godibile, in cui la ricchezza di riferimenti culturali non scade mai ad arido intellettualismo, a sterile compiacimento. E viene spontaneo chiedersi perchè mai i soloni della musica "seria" si rifiutino di prendere in considerazione una corrente così vitale e già matura: forse perchè essa sfugge a regole che i grandi artisti e critici "contemporanei" ritengono valide per l'eternità?
"Music In 12 Parts" si basa, come precedenti opere di Glass, sul principio del "processo additivo", di derivazione orientale, che assume come suo fondamento la ripetizione di certi elementi variandone progressivamente la struttura ritmica e il rapporto armonico. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ne risulta monotonia: la musica emana anzi un fascino particolarissimo sfruttando le minime sfumature e raggiunge il massimo della sua efficacia proprio nei passaggi di tonalità. da una parte alla seguente (sicché gli intervalli necessari per concedere un po' di riposo agli esecutori vengono fatti cadere verso la meta di una data parte. e non tra una parte e l'altra). Glass è un musicista che considera essenziale presentare la musica dal vivo (i dischi sono per lui un aspetto secondario della sua attività) e ovviamente le sue composizioni sono impostate secondo il criterio dell'esecuzione in concerto, con ampio spazio per variazioni o deviazioni magari impreviste, purché aderenti allo spirito dello spartito. “Music In 12 Parts" è stata scritta appositamente per il gruppo che l'ha eseguita a Milano e nella composizione non sono previste parti solistiche, neppure per l'autore: per tutta la durata del pezzo gli strumentisti lavorano contemporaneamente, e il diverso "colore" delle varie parti si affida all‘alternarsi della preminenza tra le due sezioni della formazione, i tre organi elettrici (Philip Glass, Joan La Barbara, Michael Riesman) e i tre fiati (Jon Gibson, Dickie Landry, Richard Peck). Sopra all'intricato tessuto ritmico fornito dai tre organi, i fiati tracciano svariati disegni, a seconda degli strumenti impiegati (Gibson usa flauto e sax soprano, Landry flauto, sax alto, soprano e tenore, Peck sax alto e tenore), mentre si inseriscono spesso, a duettare con essi, i delicati vocalizzi della La Barbara. L'effetto complessivo è dolcemente ipnotico, ma, come si è detto, mai monotono in quanto le differenze tra le varie parti, pur nell’unità dell'impostazione, sono chiaramente individuabili: per conto mio, ho trovato "sinfonica" la parte 3, "jazzistica" la 4, "romantica" la 6, "primitiva" la 8, ma sono consapevole che si tratta di impressioni personali e discutibili. Le riporto per far comprendere quanto la composizione sia varia, pur basandosi su una struttura costante.
Al termine della seconda serata, ho potuto incontrare Glass, che si e rivelato una persona gentilissima e ben disposta a discorrere della propria attività ed esperienza, senza alcun atteggiamento da “genio superiore". Poiché all’ingresso erano stati distribuiti dei volantini della Chatham Square, con l'elenco dei dischi realizzati da Philip e da membri del suo gruppo come Dickie Landry e Jon Gibson, ho iniziato la conversazione chiedendogli di spiegarmi di che etichetta si trattasse.
"E' un'etichetta indipendente, con sede a New York, che ho fondato io stesso tre anni fa, perché servisse da sbocco discografico per me e per i miei colleghi. Non avrei potuto trovare un compromesso con la mentalità delle grandi case discografiche, per le quali ciò che conta è soltanto il successo immediato. I miei dischi vendono regolarmente, in modo progressivamente sempre più cospicuo, nello spazio di anni. Ma le grandi Case ragionano in termini di mesi. Così mi sono messo per conto mio, mi sono legato ad un’organizzazione indipendente di distribuzione negli USA, e ho iniziato la nuova attività. Ora sto concludendo degli accordi per la distribuzione in Europa; fino a quando saranno definiti, continueremo ad accettare ordinazioni per corrispondenza. Una cosa è certa: la nostra musica diventerà, entro pochi anni, molto importante, ed è giusto che siano i musicisti stessi a gestire la produzione discografica".
Che genere di persone compongono il tuo pubblico?
"In media, giovani dai 20 ai 30 anni. Molti sono appassionati di rock, che hanno già sentito accenni di quel che facciamo noi in dischi di gruppi pop, come i Pink Floyd (strano che Philip non accenni a gente come Eno e Tangerine Dream; forse non li conosce - n.d.r.) e così sono già in parte preparati ad apprezzare la nostra musica. Per ora il nostro circuito abituale, negli Stati Uniti come in Europa, é stato quello delle gallerie d’arte, dei musei, delle associazioni culturali, ma ci stiamo organizzando per ampliare il discorso, usufruendo anche di altre possibilita".
Quali sono le più importanti influenze di cui risenti come compositore ed esecutore?
"Oh, sono tantissime, non saprei elencare neppure quelle veramente determinanti. Ti posso dire che ho studiato musica per vent'anni, in varie scuole, fino alla Julliard, ma tutto ciò che avevo imparato era la tradizione classica occidentale; a ventott'anni sono andato in vacanza nell'Africa Settentrionale e ho cominciato a scoprire che esistono tante altre musiche. Questo mi ha stimolato moltissimo. Ho conosciuto poi la cultura indiana e un po' alla volta queste influenze hanno cambiato il mio mudo di comporre, di concepire la musica".
Quali sono i musicisti cui ti senti più vicino?
"Conosco bene i miei coetanei, Steve Reich che fu mio compagno di scuola, La Monte Young ecc., e seguo con interesse il loro lavoro che si svolge in una direzione simile alla mia. Ma sono ben cosciente del fatto che ci sono oggi tantissimi musicisti molto giovani agli inizi e mi piacerebbe conoscerli meglio. Il punto fondamentale è che oggi è diventato facilissimo entrare in contatto con culture musicali diverse: viaggiare è cosa normale per i giovani, procurarsi dischi di folklore o di musica classica orientali o africani o, che so, polinesiani è ormai piuttosto semplice. Così questi nuovi musicisti possono partire con una base culturale più ampia atta a fornire nuove soluzioni e idee più avanzate".
Mi confermi che c'é una ragione precisa per far cadere gli intervalli verso la metà delle parti della tua composizione?
"Sì, è come dici tu: il cambiamento di tempo, di atmosfera è la cosa più importante. Per questo non possiamo smettere di suonare quando si passa da una parte all'altra: si perderebbero i momenti più significativi. Un‘altra cosa sarebbe presentare la composizione tutta di seguito; ma ciò avviene forzatamente solo in situazioni particolari. Eseguire "Music In 12 Parts" per intero richiede 5-6 ore di concerto. L'abbiamo fatto qualche volta, e abbiamo già in programma di riprovarci in giugno, a Parigi. Ma sono occasioni speciali. Nei concerti normali ricorro a questa divisione per non snaturare il senso della composizione".
"Music In 12 Parts" è il tuo ultimo lavoro?
“Si, le ultime parti, dalla 9 alla 12, sono state composte quest'anno. Ma è dal '71 che ci lavoro sopra. Alcune altre mie composizioni sono apparse su disco: "Music In Fifths" e "Music In Similar Motion", entrambe del 1969, e "Music With Changing Part" del 1970 che forma un album doppio. Altre ancora non le ho mai registrate: "Two Pages", "600 Lines" ecc.".
Suno stati, questi di Milano, gli unici due concerti italiani nell'ambito d'una breve tournée europea: Glass è immediatamente ripartito per Parigi, da cui avrebbe poi proseguito per New York. Ma ho l'impressione che lo rivedremo presto in Italia: l'interesse dimostrato per la sua musica prima dal pubblico romano ed ora da quello milanese sembra essergli stato molto gradito. "Sì, forse ci rivedremo in primavera"», s'è lasciato scappare prima di accomiatarsi.
Daniele Caroli
("Ciao 2001", 15 Dicembre 1974, N. 50, Anno VI)

sabato, maggio 10, 2025

Variazioni Goldberg: Spazio aperto...

Guerrero, Citterio, Robinson, Maraldi e Watanabe: cinque interpreti doc uniti in un'avventura che regala nuova vita alle Variazioni più famose della storia della musica.

Opera nata come prontuario tecnico per clavicembalo irto di sperimentazioni ma, al tempo stesso, fecondo di soluzioni strutturali così intimamente sperimentali da riuscire ancora oggi a proporsi come ambito di confronto per differenti tipologie strumentali, le Variazioni Goldberg conservano un fascino conturbante capace di distinguerle da ogni altra composizione di Johann Sebastian Bach. Il violoncellista Jorge Alberto Guerrero - colombiano di Cali ma lombardo dai tempi del diploma - ci racconta il Progetto Goldberg, un'inedita trascrizione per due violini, viola, violoncello e clavicembalo. Al suo fianco Elisa Citterio, Nicholas Robinson, Gianni Maraldi e Takashi Watanabe, volti e nomi già noti a chi frequenta le avventure musicali di compagini come il Giardino Armonico, l'Accademia Bizantina, il Ghislieri Choir & Consort, o l'Estravagante.

La pratica della trascrizione, come riduzione di organici o come ausilio didattico, ha una lunga storia. Interessante soprattutto quando diventa stimolo per un nuovo obiettivo artistico. Come sono nate queste Goldberg?
«La genesi è stata casuale. Un paio d'anni fa Gianni Maraldi ci propose questo progetto. Iniziammo a studiarle rendendoci conto che avremmo dovuto intervenire molto sulle trascrizioni da lui procurate per trovare soluzioni più consone al nostro organico. Abbiamo quindi cambiato distribuzione delle parti, tempi, colori e articolazioni, anche durante la registrazione, cercando di far convivere la profondità dello studio con la massima spontaneità individuale. Elisa per prima ne ha trascritte alcune, ma la parte più bella del lavoro è stata quando, suonandole insieme, abbiamo cominciato a dar loro la nostra forma. L'esperienza strumentale di ciascuno di noi ha infatti permesso di trovare insieme nuove soluzioni. Di fronte a una trascrizione infatti occorre darsi delle regole e modificare le cose sulla base del fatto che il tutto deve suonare bene con l'organico a disposizione, pur seguendo nuove logiche. In questi ultimi anni ho recuperato più di 150 versioni discografiche per clavicembalo, pianoforte, trio d`archi (Sitkovetskij), orchestra da camera (Labadie) e quella jazz di Jacques Loussier. Questo mi ha motivato a portare avanti una proposta di registrazione con un nuovo organico, cosa che si è potuta realizzare grazie all'ospitalità, l'interessamento e il sostegno del Collegio Ghislieri di Pavia, senza il quale tutto questo non sarebbe stato possibile».
Un gruppo, il vostro, nato attorno a questo specifico progetto.
«Sì, anche se ci conosciamo da tanti anni. Nicholas ed Elisa sono considerati tra i migliori interpreti di musica antica in Italia ed è una fortuna averli insieme a noi, Gianni brillantemente ha pensato questa alchimia e io ho proposto Takashi, che ha inciso ultimamente una meravigliosa versione per cembalo  solo. Quale occasione migliore che avere con noi un cembalista che conosce l'opera a fondo ed entra a far parte di un progetto in cui le Goldberg diventano qualcosa d'altro?».
Questa interpretazione svela una dialettica interna molto densa. Vengono in mente, tra le altre cose, i Brandeburghesi e tutto quello che in maniera trasfigurata viene dalla musica popolare.
«Sì, vengono fuori tante cose. C'è chi considera Bach solo intelletto e spiritualità, ma io credo che ci sia molto di più, ossia tutte le passioni dell'animo umano. Nel nostro interpretare c'è spazio per tutto questo. Il fine ultimo non è solo il contrappunto, perché basta anche un intervallo a muovere l'animo in una certa direzione. Quando abbiamo iniziato a registrare ci siamo detti: “lasciamo che questa musica parli da sola”. Può essere ovviamente un rischio, ma il discorso deve avere una sua coerenza. È per questo che ho analizzato tutte le Variazioni, riguardato tutti gli organici e pensato alla struttura generale. Per esempio, dopo l'Adagio centrale, che riapre tutto come se fosse il secondo atto di un'opera, il disegno diventa più pressante. Tutto questo deve essere pensato, perché così si dimostra di aver compreso la composizione».
Mi ero appuntato la VII Variazione in forma di giga, qui per violino e violoncello. Sembra una scelta perfetta per rappresentare l'origine della danza.
«Mi piace questa osservazione. Sulla prima edizione a stampa Bach scrisse a mano Giga, perchè deve averla sentita suonare come una Siciliana, cioè con un tempo più lento. Mentre la sua è una Giga puntata, ovvero più nello stile inglese o francese. Per intuito noi abbiamo sentito un sapore più popolare. A Nicholas, per esempio, venivano in mente i marinai inglesi».
In generale il procedimento di espansione verso il quartetto pone la questione di come trattare la parte residuale del clavicembalo che diventa una sorta di basso continuo. È corretto?
«Ogni movimento ha posto delle questioni. In un paio di Variazioni in cui la melodia della mano destra della tastiera è molto spiccata, l'abbiamo resa con violino e cembalo, avendo in mente le Sonate per violino e cembalo obbligato. Quindi la tastiera realizza tutto quello che c'è già, mentre il violino esegue la parte della mano destra. Poi però nel ritornello rientrano violoncello e viola, e diventa tutta un'altra cosa. In un'altra Variazione i violini suonano all'unisono come se fosse un Brandeburghese e il trattamento diventa più orchestrale. In quelle per solo quartetto d'archi la parte viene passata da uno strumento all'altro per richiamare quel gioco tecnico degli incroci nell'alternanza delle mani. Qui abbiamo trasferito un certo tipo di difficoltà tastieristica nella difficoltà del linguaggio del quartetto».
Quello che perde più presenza è il clavicembalo.
«Sì, nella nostra versione non suona sempre, perché in certi casi il contrappunto è talmente fitto, come nella Terza per due violini e violoncello, da non lasciare spazio ad altri strumenti. Nel tema, il clavicembalo comincia la prima parte con un tasto solo e nel primo ritornello mette armonie e contrappunti, arricchendolo in una maniera ancora più barocca di quello che è. In certi momenti invece è completamente ritmico come una batteria rock, in altri più discreto».
Non sembra casuale che questo tipo di sperimentazioni si leghi più alle Goldberg rispetto a opere come l'Arte della Fuga, un terreno appositamente pensato per muovere una ricerca.
«Nell'Arte della Fuga Bach dimostra cosa si può fare con il contrappunto. Scrive canoni, fughe doppie e triple, per aumentazione e diminuzione, moto contrario, a soggetti incrociati, fino alla fuga a tre. Nelle Goldberg invece esplora le potenzialità dello strumento. L'interpretazione che a me convince di più sulla genesi dell'opera è quella di Peter Williams (Bach: The Goldberg Variations, Cambridge Music Handbooks, n.d.r.) il quale sostiene che Bach avrebbe dato al figlio Wilhelm Friedemann i primi tre volumi dei Klavierübung e teoricamente le Goldberg sarebbero state il quarto. La storia del principe che dorme non c'entrerebbe nulla. In realtà le avrebbe donate al figlio per consentirgli di presentarsi ai principi con qualcosa di grande impatto. È un po' come dire: “figlio mio, ti do questo, così trovi lavoro”. E le Goldberg sono perfette perché hanno contrappunto, cantabilità, ritmica, sfoggio tecnico. Ma se prendi le fughette o le ouvertures alla francese, ti accorgi che è musica pura anche se la fai con i sassofoni o con il computer. Il tema poi è davvero sorprendente perché non è quello che si sente alla mano destra, bensì al basso, su cui vengono costruite tutte le variazioni. È come se fosse una Passacaglia di fine Seicento, i cui trattamenti successivi portano a fine Ottocento fin quasi all'inizio del Novecento. Si va dalle Sonate di Corelli a qualcosa che sembra lo scherzo di un Quartetto di Sostakovic o addirittura Bartók».
Non si può non pensare a Glenn Gould. Cosa ne pensa delle sue celebri interpretazioni?
«Le Variazioni di Gould sono stratosferiche. In tutti noi hanno lasciato un segno, dato che difficilmente uno ascolta le Goldberg nella versione di Wanda Landowska».
Michele Coralli
("Amadeus", Anno XXVIII, Numero 5 (318), Maggio 2016)