Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, ottobre 01, 2006

Leon Fleisher: il leone indomito

"Quando gli Dei vogliono colpire, sanno dove colpire", disse una volta Leon Fleisher a un intervistatore. Nel 1965, ad appena trentasette anni di età e all'apice delle sua fortuna, il grande pianista americano - che già godeva di fama universale grazie alle leggendarie incisioni discografiche effettuate a Cleveland con Georg Szell - fu colpito da una patologia neurologica chiamata "distonia focale»" che immobilizzò completamente due dita della sua mano destra. Seppur ferito, il leone affrontò la situazione con estremo coraggio. Dopo un periodo di riflessione, infatti, Fleisher decise di tornare sulle scene concertistiche eseguendo il repertorio per la sola mano sinistra: parallelamente, si dedicò all'attività didattica e alla direzione d'orchestra. Nel 1995, grazie alle cure di un'equipe di medici statunitensi, Fleisher ha riacquistato l'uso dell'arto malato, festeggiando l'evento con la registrazione di un disco dal titolo liberatorio "Two hands" (Vanguard ATM CD 1551).
Di recente Fleisher è stato protagonista di un concerto alla Società del Quartetto di Milano che lo ha visto cimentarsi in un programma assai impegnativo, comprendente due trascrizioni bachiane ("Schafe können sicher weiden" dalla Cantata BWV 208 e la Ciaccona dalla Partita n. 2 nelle versioni di Egon Petri e Johannes Brahms), tre brani a lui dedicati da altrettanti compositori statunitensi (Dina Koston, George Perle e Roger Sessions) e l'amatissima Sonata D 960 di Schubert. In tale occasione l'abbiamo incontrato rivolgendogli alcune domande.

Maestro, Lei ha studiato con una leggenda del pianoforte come Artur Schnabel. Quando e come lo conobbe?
L'incontro con Schnabel rappresentò per me un vero imprinting: per quanto concerne la musica lo considero a tutti gli effetti il mio padre spirituale. Lo conobbi nel 1938 a Tremezzo, sul lago di Como, dove teneva dei corsi estivi, io avevo dieci anni: trascorsi alcuni mesi con lui e da quel momento cominciai ad aprire veramente gli occhi sulla musica. Poi, nel 1939, lo ritrovai a New York e divenni suo allievo a tutti gli effetti: studiai con Schnabel per dieci anni.
Cosa Le è rimasto impresso dell'insegnamento e della personalità di Schnabel?
Naturalmente capirà che è molto difficile tentare di descrivere una cosa tanto importante in poche parole. Posso dire che studiare con Schnabel è stata l'esperienza determinante della mia vita: era una persona di cultura profondissima e di un'umanità unica, e tutto quello che faceva era ispirato. Attraverso Schnabel ho capito che cosa vuol dire essere musicisti e ho respirato a pieni polmoni la storia del pianoforte: non bisogna dimenticare che lui aveva studiato con un grande pianista come Theodor Leschetizky, a sua volta allievo di Carl Czerny. Un albero genealogico che porta direttamente a Beethoven. Pochi ricordano poi che Schnabel fu un compositore dotato e profondo: i suoi quartetti e le sue sinfonie sono lavori molto interessanti e complessi, sarebbe giusto e doveroso recuperarli al repertorio.
Curiosamente alcune fonti riferiscono che Lei debuttò in un concerto con orchestra sotto la direzione di Pierre Monteux, altre parlano di Bruno Walter. Vuole sciogliere questo dubbio?
Ah, davvero? Sono contento che ci siano tante persone a parlare di me [ride]. Il mio primo concerto con orchestra, a sedici anni, fu sotto la direzione di Pierre Monteux, gran signore e musicista raffinatissimo: era francese, ma conosceva il repertorio austrogermanico meglio di molti direttori tedeschi. L'equivoco, forse, nasce dal fatto che con Bruno Walter poco tempo dopo ho debuttato nel Concerto in La maggiore K 488 di Mozart. Esiste una registrazione pirata, di quell'esecuzione. Rammento che quella volta scrissero male il mio nome sul programma, e devo dire che ne fui parecchio dispiaciuto.
Un altro evento determinante della Sua vita artistica è stato l'incontro con Georg Szell: insieme a lui e alla Cleveland Orchestra ha realizzato dei veri classici della discografia.
Sì, ricordo come fosse oggi il momento in cui Szell mi chiese: "vorresti incidere con me a Cleveland tutti i grandi Concerti del tuo repertorio?". Rammento che tentennai un pochino, perché tra me e me pensavo: "è fantastico, però così non potrò registrare dischi con Bruno Walter, con Bernstein e la Filarmonica di New York, con Ormandy e l'Orchestra di Philadelphia". Quando vide che non rispondevo subito, Szell aggrottò la fronte e sbottò: "Perché stai esitando, non vuoi fare dischi con me?". A quel punto tornai in me e mi affrettai a rispondere: "No, no, ci mancherebbe altro, e grazie infinite per avermi scelto". Non ebbi certo a pentirmene: è stata sicuramente la partnership artistica più importante della mia vita.
In che modo iniziò la Sua collaborazione con Szell?
Fu proprio per merito di Schnabel. Szell ammirava enormemente Schabel, loro due erano grandi amici. Ricordo che al principio degli anni'40 Szell venne a New York per dirigere alcuni concerti, se non vado errato con un'orchestra scozzese. Io avevo dodici o tredici anni: con Schnabel andammo a sentire uno di questi concerti e nell'occasione fui presentato a Szell. Mi trovai di fronte un uomo altissimo, che allora mi apparve addirittura imponente, con degli occhi di un blu estremamente intenso nascosti da lenti molto spesse. In America, per descriverle, diciamo "glasses like coke bottles". Come bottiglie di Coca-Cola. Così i suoi occhi sembravano ancora più grandi, enormi. Oltre che un musicista eccezionale, era un uomo immensamente carismatico: infatti durante quel primo incontro ero un po' in soggezione, davanti a lui. Schnabel però gli parlò molto bene di me, e e Szell apparve colpito e incuriosito. In breve, quando Szell nel 1946 venne a Cleveland per il suo primo concerto come direttore stabile, io fui il solista: un grande onore, per un ragazzo di neanche vent'anni. Ricordo che in quell'occasione suonai il Concerto in La minore di Schumann. Szell fu molto soddisfatto della no-stra collaborazione, così quando rimpatriai dopo il mio soggiorno in Europa e la vittoria al Concorso Regina Elisabetta del Belgio, iniziammo a lavorare regolarmente insieme. Poi cominciarono le incisioni. La Columbia Records registrava già con la New York Philharmonic e la Philadelphia Orchestra, ma era interessata a realizzare dischi anche con la Cleveland Orchestra. Così crearono una nuova etichetta sotto l'ombrello della Columbia. Questa etichetta era la Epic, per la quale feci diversi dischi anche come solista. La Sonata di Liszt e la Quarta Sonata di Weber, per esempio, credo siano riuscite piuttosto bene. La Epic deteneva anche la distribuzione americana della Philips. Il primo disco della mia vita, infatti, lo incisi per la Philips: I quattro temperamenti di Hindemith, con Simon Goldberg e l'Orchestra da Camera Olandese.
Un fatto curioso, visto che Lei è stato recentemente protagonista di un'importante riscoperta hindemithiana: è stato infatti il primo esecutore della Klaviermusik mit Orchester, da poco ritrovata fra le carte di Paul Witigenstein.
Si, è buffo. Ho cominciato con Hindemith e ora, verso la fine della mia vita, torno circolarmente a Hindemith. Beh, spero di andare avanti ancora qualche anno, a dire la verità (ride). La storia di questo rinvenimento è singolare. La vedova di Wittgenstein è mancata tre anni fa: viveva in una fattoria in Pennsylvania, e dopo la sua scomparsa i figli hanno cominciato ad aprire armadi, bauli e cassetti. In uno di questi cassetti c'era la partitura di Hindemith. Si era parlato di questo lavoro per lungo tempo, ma ormai tutti ritenevano che fosse andato distrutto. Fu scritto nel 1923, un periodo meraviglioso per Hindemith: stranamente però a Wittgenstein il pezzo non piacque, e così non lo eseguì mai. Poco dopo il ritrovamento, fui contattato dall'editore Schott, che mi chiese "sarebbe interessato a suonarlo in prima mondiale?". Non ci ho pensato sopra neanche un secondo: "Certo che sì!".
Ho avuto modo di ascoltare la Sua interpretazione della Klaviermusik, e davvero non si può dire che si tratti di un'opera "minore".
Davvero l'ha ascoltata? Quale?
Quella del 9 dicembre 2004, con Simon Rattle e i Berliner Philharmoniker.
Ah, proprio la prima mondiale. In quei giorni ero molto contento ed eccitato, ma anche particolarmente teso: non ho suonato al meglio delle mie possibilità. Le esecuzioni successive sono senz'altro più riuscite. Vengo proprio da Praga, dove ho eseguito questo brano con la Filarmonica Ceca e un ottimo giovane direttore statunitense, Robert Spano. In precedenza l'ho suonato anche con Blomstedt a San Francisco. Ora credo di averne preso veramente possesso.
L'ha già registrato per il disco?
Non ancora, ma ho in programma di farlo prestissimo.
Durante il lungo periodo della Sua infermità, ha sviluppato una grande conoscenza del repertorio per la sola mano sinistra. Cosa può dire in proposito?
Dico anzitutto che il repertorio per la mano sinistra non è affatto un ripiego, include alcuni capolavori assoluti. Il Concerto di Ravel è una vera magnificenza e occupa un posto di grande rilievo nella letteratura per pianoforte e orchestra tout court. Il discorso vale anche per il Quarto Concerto di Prokofiev: questi sono dei capolavori, ma anche Diversions di Britten è un pezzo molto bello e soprattutto splendidamente scritto. Parergon zur Sinfonia Domestica e Panathendenzug non credo siano invece da annoverare tra le cose migliori di Richard Strauss.
Quante volte ha eseguito il Concerto per la mano sinistra di Ravel?
Sa, a occhio e croce credo di averlo suonato almeno mille volte. La cifra le potrà sembrare abnorme, ma deve tenere conto del fatto che generalmente, negli Stati Uniti, i programmi concertistici vengono ripetuti tre o anche quattro volte.
Finora ha citato lavori piuttosto noti: la Sua esplorazione l'ha portata a individuare delle pagine importanti ma ancora sconosciute al grande pubblico?
Come no. Ancora tutti da scoprire, per esempio, sono i bellissimi lavori che il compositore austriaco Franz Schmidt compose per Wittgenstein: due Concerti, tre quintetti e una Toccata. In particolare il Concerto n. 1, costruito come una serie di variazioni su temi della Sonata "Primavera" di Beethoven, è decisamente curioso. Un gran bel pezzo è poi lo Studio in La bemolle maggiore di Felix Blumenfeld, che era un cavallo di battaglia di Simon Barere. Anche i Sei Studi per la mano sinistra op. 135 di Saint-Saens, che ho inciso per la Sony, sono squisiti e raffinatissimi.
Dopo Paul Wittgenstein, peraltro, Lei è stato probabilmente il pianista che ha dato maggior impulso alla nascita di nuovi brani per la sola mano sinistra.
Per ovvi motivi mi sono interessato molto alla figura di Wittgenstein: se nei trent'anni della mia malattia ho potuto continuare a suonare, devo dire grazie a lui. Era un uomo difficile, tormentato e complesso. Come saprà era fratello del filosofo Ludwig, ma aveva altri cinque o sei tra fratelli e sorelle: due di questi si suicidarono. La sua era dunque una famiglia infelice ma molto ricca, grazie a Dio. Quando suo padre Karl morì, nel 1913, lasciò una vera e propria fortuna in eredità ai figli: questo consentì a Paul di commissionare nuovi pezzi a molti grandi autori della sua epoca. Grazie a lui esiste anche dell'ottima musica da camera. Korngold, ad esempio, scrisse per Wittgenstein una meravigliosa suite in cinque movimenti per pianoforte, due violini e violoncello, che ho eseguito giusto pochi mesi fa a Philadelphia. In precedenza l'ho anche incisa per la Sony, con Joseph Silverstein, Jaime Laredo e Yo-Yo Ma. Purtroppo Wittgenstein e io non siamo stati i soli a soffrire di questa infermità: penso soprattutto al mio amico Cary Graffman. Anche lui ha avuto un ruolo importante nell'ampliamento della letteratura pianistica per la mano sinistra. Ad esempio Ned Rorem ha scritto per Gary un Concerto per pianoforte e orchestra davvero molto interessante. Per tornare alla sua domanda, sono contento e onorato di aver dato un contributo alla letteratura per la mano sinistra attraverso le mie commissioni. Tra i compositori che hanno scritto per me ci sono nomi importanti come Henze, George Perle o Roger Sessions, ma anche giovani autori molto bravi come William Dopmann, che ha composto per me Distances from a Remembered Ground, una serie di variazioni sull'ultima Mazurka di Chopin; oppure Jean Hasse, che mi ha dedicato un brano incantevole, Silk Water. Tutte queste musiche continuo ad eseguirle anche se fortunatamente mi sono lasciato questo problema dietro le spalle: ho recuperato l'uso della mano destra da ormai dieci anni ma non mi sembra ancora vero, e sono talmente felice che mi sembra di camminare a un metro da terra.
A partire dagli anni '70 Lei si è anche dedicato intensamente alla direzione d'orchestra. Quali sono le Sue predilezioni, in questo campo?
Come direttore non ho sviluppato predilezioni particolari, ho spaziato in un repertorio alquanto vasto: a dirla tutta ho diretto anche parecchia musica che non mi piaceva, lo considero un buon esercizio di disciplina. Se proprio vogliamo individuare un settore privilegiato, avendo avuto occasione di lavorare con quasi tutte le maggiori orchestre del mio paese, mi sono occupato parecchio della musica americana: questo fra l'altro mi dato l'opportunità di conoscere diversi compositori che poi hanno scritto per me come pianista. La mia passione per la direzione d'orchestra, del resto, nasce da lontano: infatti la prima influenza della mia vita, ancora prima di Schnabel, è venuta da Monteux. Suonai per lui quando avevo otto anni, e fu appunto per suo suggerimento che andai a studiare con Schnabel. Inoltre, quasi tutti i Concerti del mio repertorio li ho eseguiti per la prima volta con Monteux. Lui teneva dei corsi di perfezionamento nello stato del Maine, e mi è capitato spesso di suonare delle sinfonie a quattro mani con i suoi allievi di direzione d'orchestra: Monteux ascoltava, correggeva e dava dei suggerimenti. In quelle occasioni tenevo sempre le orecchie ben tese, e ho imparato un'infinità di cose. Quando la scuola si ingrandì, chiesi a Monteux di lasciarmi provare a dirigere. Lui però mi disse: "No, perché una volta che avrai tenuto una bacchetta in mano, non vorrai più lasciarla. E tu devi assolutamente fare il pianista".
Nel campo del pianoforte Lei è giustamente considerato uno fra i maggiori didatti del nostro tempo. Cosa cerca di trasmettere, soprattutto, ai Suoi allievi?
Tutto deve cominciare dal testo: bisogna compiere ogni sforzo per cercare di comprenderlo a fondo, assimilarlo e rispettarlo. E' anche fondamentale stimolare la curiosità e l'apertura ad ogni novità. Non compio il terribile sbaglio di indirizzare i miei allievi verso la musica che preferisco, cerco invece di incoraggiarli a sviluppare una loro personalità e un loro gusto.
Lei è un osservatore privilegiato della vita musicale da ben settant'anni. Come giudica la nostra epoca rispetto a quella che vide i Suoi esordi?
Per capire quello che è successo nel Ventesimo Secolo bisogna partire da più lontano. Nell'epoca barocca e in quella classica il compositore e l'esecutore erano la medesima persona. Così i grandi strumentisti avevano gusto, inventiva, conoscenza, perfetta comprensione di come la musica deve svilupparsi e camminare. Poi, a partire dai tempi di Schumann e in seguito sempre più, cominciò a emergere la figura dell'esecutore che non era anche un compositore. Molte volte costui non era dotato del necessario bagaglio di conoscenze sul funzionamento della musica, e soprattutto di gusto: il problema principale era diventato quello di vendere biglietti e riempire le sale. Così la temperatura del gusto cominciò a scendere: magari il compositore scriveva "piano" sullo spartito, ma l'esecutore riteneva di ottenere maggior successo suonando "forte", e si concedeva libertà di ogni tipo. Tutto, insomma, cominciò a deteriorarsi quando l'esecutore iniziò a diventare più importante della musica. Secondo me sono state due persone, all'inizio del Ventesimo Secolo, a riportare al centro dell'attenzione l'integrità della musica e il rispetto del testo: Schnabel e Toscanini. In modi molto diversi, ovvio, perché erano persone totalmente differenti. Il loro pensiero, perfezionato e arricchito dai successori, ha rappresentato una svolta fondamentale. Non riesco davvero a pensare a nessun grande pianista di oggi che in un grado o maggiore o minore non sia stato influenzato da Schnabel. Negli ultimi vent'anni le cose però sono nuovamente cambiate, viviamo in una situazione assai difficile: attualmente sembra contare soprattutto il divismo, l'immagine. Oggi chi organizza i concerti o pianifica le uscite discografiche vuole delle stars: i musicisti devono essere bellissimi, attraenti, seduttivi: le copertine di molti CD ormai sembrano copertine di riviste di moda. Ma noi non siamo stars, la vera star è la musica.

intervista di Paolo Bertoli ("Musica", nr.175, aprile 2006)