Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, gennaio 21, 2024

Händel: Passion (Barhold Heinrich Brockes)

Uno dei vuoti più deplorevoli nella discografia 
händeliana è stato recentemente colmato da parte della Deutsche Grammophon (Archiv Produktion) con la registrazione della Passione sopra un poema di Brockes, composizione famosa ai suoi tempi e oggi poco o punto conosciuta, per quanto le storie la ricordino come uno dei caposaldi nella evoluzione delle Passioni musicali. L`importanza storica di questo lavoro di Händel, importanza che supera senza dubbio il suo valore artistico, è l'occasione fortunata offerta dal. disco per mettere a punto l'una e l'altra, meritano una breve ricognizione retrospettiva.
Le Passioni ebbero origine, come fatto religioso prima che musicale, dalle letture, o lezioni, stabilite dalla liturgia della settimana santa, e precisamente dalla Passio Domini Jesu Christi stralciata, nelle sue quattro versioni, dai vangeli e letta durante le messe della domenica delle palme (S. Matteo), del martedì santo (S. Marco), del mercoledì santo (S. Luca) e del venerdì santo (S. Giovanni). Inizialmente la lezione veniva letta (ossia salrnodiata) dal diacono: ed è verosimile che egli adattasse la voce ed il ritmo ai vari personaggi e momenti per rendere più espressivo ed evidente il racconto. A tale scopo, in tempi successivi, si usò affidare la lezione a interlocutori diversi: il diacono leggeva sempre in canto piano, il testo dell'evangelista, il sacerdote le parole del Cristo e il suddiacono le parti dei soliloquentes (Pilato, Pietro, Caifa ecc.) e quelle della turba (coro degli apostoli e dei giudei).
Nel tardo medioevo il testo venne tradotto e si ebbero così da allora, lezioni anche in volgare: nella liturgia protestante, ad esempio, le lezioni si svolgevano o in modo tradizionale (ossia in latino), o in lingua tedesca, secondo la tradizione di Lutero. Verso la fine del Trecento la musica cominciò a penetrare nelle Passioni, attribuendosi prima il trattamento corale delle parti della turba e poi impadronendosi di altre parti. Si vennero così formando due primi tipi di Passione, sempre di impiego strettamente liturgico, ma nelle quali la musica aveva mansioni già impegnative: la Passione - mottetto, nella quale il coro cantava tutte le parti, appunto come nei contemporanei mottetti polifonici, e la Passione drammatica o a responsorio, nella quale soltanto le parti dell'evangelista e del Cristo erano recitare (in canto piano), mentre le altre parti erano musicate, anche a più voci.
Il prototipo di Passione-mottetto è la cosiddetta Passione di Obrecht (c. 1500), nella quale la parte dell'evangelista e le parti della turba sono a 4 voci e le rimanenti parti a 2, variamente combinate. Possiamo ricordare come altri esempi le Passioni-mottetto di Jacobus Gallus (in latino) del 1587, di Leonhard Lechener (in tedesco) del 1594, presente anche in disco sul.Bielefelder Katalog, e quella del boemo Christoph Demantius (in tedesco) del 1631, che merita di essere ascoltata nel disco Nonesuch H-71138.
Passioni drammatiche composero invece Claudinde Sermisy (1534) e Loyset Compère in Francia, William Byrd (1607) in Inghilterra, Giov. Matteo Asola e Francesco Soriano in Italia, Victoria e Guerrero in Spagna. Delle quattro Passioni di questo tipo composte da Orlando di Lasso intorno al 1580,il disco Dover HCR-ST-7268 ci fa conoscere la Passio Domini nostri Jesu Christi secundurn Matthaeum, nella quale le parti dell'evangelista e del Cristo vengono salmodiate rispettivamente da un tenore e da un basso e le altre parti, cantate a più voci, si aprono a un ispirato gioco polifonico. I più alti modelli di Passioni drammatiche restano però le tre passioni (S. Matteo, S. Luca e S. Giovanni) scritte in severo stile a cappella e in stretta osservanza dei testi sacri da Heinrich Schütz tra il 1664 e il 1666, quando cioè questo tipo di Passione poteva ormai considerarsi sorpassato. Il disco non si è lasciato sfuggire l'occasione di rendere possibile a chiunque l'ascolto di quei tre capolavori. E del pari ha messo a nostra portata l'austera e nobile Passione secondo S. Giovanni di Alessandro Scarlatti (1680?), anch`essa ancora fedele al testo del vangelo, ma scritta col basso continuo.
Fin dall'inizio del Seicento si era cominciato in molti casi ad ampliare il testo della Passione. Al coro di apertura (introitus), che enunciava il titolo e a quello di chiusura si erano venuti aggiungendo via via pezzi estranei alla lezione, recitativi e arie di libera invenzione. Schütz a differenza di quanto farà poi nelle sue tre Passioni, aveva introdotto il basso continuo e l'accompagnamento orchestrale nella sua Storia della Resurrezione del 1623, e da allora molte Passioni avevano seguito analoghi procedimenti, avvicinandosi come spirito e come forza ai concerti ecclesiastici italiani, con solisti, cori e strumenti; le storie citano come primizia del genere, una Passione secondo S. Giovanni di Thomas Selle, eseguita nel 1643. Con l'ampliamento e la deformazione dei testi e con l'assimilazione delle forme e degli stili operistici andava maturandosi l'avvento di un terzo tipo di Passione, la Passione-oratorio, che ebbe i primi esempi importanti nelle Passioni di Johann Sebastiani (1672) e Johann Theile (1673). Sebastiani fu anche il primo a introdurre il corale nella Passione. Agli albori del Settecento la Passione oratorio si differenziava ben poco dall'opera barocca, come contenuto musicale, anche se - naturalmente - l'elemento contemplativo si accentua e vengono evitati tempi e motivi di danza: ma ciò è comune angetto biblico o religioso passate sulle scene del teatro di Amburgo.
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Si deve a quel teatro, fondato nel 1678 da un gruppo di facoltosi melomani e morto di consunzione nel 1730, se la città anseatica divenne in quegli anni l'incontrastata capitale musicale della Germania. Compositori quali Theile, J. W. Franck, Kusser, Keiser e in misura minore Mattheson, Hãndel e Telemann alimentarono per oltre mezzo secolo in quel teatro il sogno ambizioso della formazione di un'opera nazionale tedesca, presentandovi in effetti moltissime opere in tedesco le quali però ricalcavano più o meno modelli italiani. Keiser ve ne fece rappresentare 116... Anche gli altri generi musicali furono coltivati in Amburgo con eguale fervore; e Oratori, Passioni e Cantate vi ebbero grande fortuna non solo per loro affinità di stile con l'opera, ma anche perchè trovarono sempre ottimi esecutori
degli artisti del teatro.
Durante la settimana santa del 1704 Reinhard Keiser, allora direttore del teatro fece eseguire nella cattedrale una sua Passione (Der blutige und sterbende Jesus) che fece gridare allo scandalo i bravi pastori: era un vero melodramma e il testo, di Hunold detto Menantes, non era altro che un libretto d'opera nel quale anche le parole del vangelo erano sostituite da pessime rime. Non senza un po' di impertinenza il diciannovenne Georg Friedric Händel, oscuro dipendente di Keiser - da appena un anno era entrato nella sua orchestra come secondo violino - presentò, sempre durante la settimana santa dello stesso anno, una Passione secondo S. Giovanni (Das Leiden and Sterben Jesu Christi in gebundener Rede als Oratorium) sulla quale nessuno trovò da ridire, perché la narrazione seguiva fedelmente il vangelo con la sola interpolazione di arie aggiunte dal librettista Postel.
In quella sua prima Passione (che era anche il suo primo lavoro importante, poiché in precedenza non aveva composto che piccole cose di scarso valore) Händel dava prova non soltanto di una tecnica già sicura ma anche di una forte inclinazione per l'espressione drammatica. L'armonia e la strumentazione avevano una pienezza evidentemente tedesca, ma la melodia risentiva di felici influenze italiane: in complesso sia Postel che Händel avevano compiuto, ognuno nel proprio campo, «una mirabile fusione del nuovo col tradizionale.›› (Herbage, in Händel, di Abraham).
Forte fu la levata di scudi contro le eccessive libertà della Passione di Keiser-Menantes che indusse l'amburghese Barthold Heinrich Brockes (1680-l747) a scrivere un poema sulla Passione, pubblicato nel 1712 col titolo Der für die Sünden der Welt gemarterte and sterbende Jesu: nella prefazione egli afferma infatti di aver voluto offrire ai suoi concittadini un «divertimento legale›› ed edificante. ll poema ü interamente in versi rimati, ma la narrazione che è una media dei quattro vangeli, si mantiene in complesso abbastanza fedele ad essi, certo più di quanto non faccia il libretto di Menantes. Oltre all'evangelista, vi sono numerosi caratteri: Gesù, Pietro, Giovanni, Giacobbe, Giuda, Caifa, Pilato, Maria, un mercenario, tre donne, un capitano. Molti soliloquiae, introdotti con ogni pretesto ed  enunciati dalla fanciulla di Sion (un soprano, nella partitura di Händel) e da quattro anime credenti (soprano, alto, tenore e basso) commentano il racconto. In aggiunta alle parti tradizionali di turba, Brockes ha assegnato al coro quattro corali, a differenza di Menantes e di Postel che nei loro libretti non ne avevano messo nessuno. La fanciulla di Sion, presente anche nella Passione di Menantes, avrà poi come è noto una parte importante nella Passione secondo S. Matteo di Bach.
I pareri sul valore artistico del poema di Brockes sono stati in passato e sono ancor oggi molto discordi. Heinz Becker, compilatore delle ottime note illustrative che accompagnano l'edizione discografica di questa Passione, ce ne fornisce un interessante campionario, il quale va dai giudizi entusiastici dei contemporanei a quelli del tutto negativi di musicologi quali Chrysander, Schering, e Schweitzer, e da quelli favorevolissimi di un poeta come Eduard Mörike fino al verdetto piuttosto azzardato di un critico letterario attuale che considera Brockes uno dei primi grandi impressionisti... In verità fra tanti contendenti è difficile prendere partito, soprattutto se non si ha dimestichezza sufficiente con la lingua di Goethe: il bel fascicolo allegato all'edizione discografica in esame porta, è vero, vicino alla versione originale anche le traduzioni inglese e francese dell'intero poema, ma credo impossibile giudicare il valore di Brockes poeta attraverso le due anonime traduzioni. Tuttavia esse rivelano a prima vista il bagaglio di retorica e di esagitato pietismo contrabbandato dai versi di Brockes e il quasi masochistico entusiasmo nel descrivere e prolungare le sofferenze di N.S. con una ricchezza di dettagli semplicemente nauseante, benché tipica dello spirito del luteranesimo di quel tempo.» (Herbage c. s.). Questo gusto del macabro è però presente anche in Menantes.
Nessuno potrà però negare a Brockes di avere trovato ottima accoglienza presso i compositori. Keiser fu il primo a musicarne il poema (Amburgo 1712): seguì Telemann che presentò la sua Brockes Passion a Francoforte nel 1716; Händel compose la sua in data imprecisata dopo il 1716; e Mattheson durante la settimana santa del 1719 fece dare ad Amburgo la propria (già eseguitavi l`anno precedente) e le Passioni di Keiser, Händel e Telemann. Da allora, secondo Heinz Becker, l'usanza di eseguire insieme le Passioni dei «quattro evangelisti di Brockes» fu osservata in quella città fin verso il 1920. Ma molti altri compositori musicarono quel testo, fra i quali il più noto - Stölzel - nel 1729.
Non si conoscono le circostanze che indussero Händel a mettere in musica la Passione di Brockes e neppure la data esatta di composizione. Dopo il debutto amburghese del 1704 con la sua Passione secondo S Giovanni, si era dato anima e corpo al teatro, e le sole evasioni importanti dal campo del melodramma erano state, in quegli anni, l'oratorio sacro La Resurrezione e l'oratorio profano Il trionfo del Tempo e del Disinganno presentati a Roma nel 1708 il Te Deum per la pace di Utrecht eseguito a Londra nl 1713, i Chandos Anthems composti a Canons dopo il 1717 e la Water Music. C'erano stati inoltre viaggi (fra i quali quello in Italia durato più di tre anni), tanto importanti per lo sviluppo del  suo stile e per la maturazione del suo spirito universale: ma durante quelle lunghe peregrinazioni era tornato soltanto una volta - e precisamente nella seconda metà del 1716 - nella città di Amburgo, che aveva lasciato nel 1706. Da nessuna connessura di quelli anni, pieni di movimento, di progetti, di realizzazioni, di ricerche e di incontri fortunati, non traspare però la minima traccia del «lavoro di fabbricazione» della Brockes-Passion eppure, evidentemente, ci fu, anche se Händel era abituato a comporre in fretta.
Chrysander asserisce ch'egli l'avrebbe composta durante il viaggio in Germania del 1716; Mattheson invece assicura che essa fu scritta a Londra (quindi dopo il rientro da quel viaggio, ossia nel '17) e a lui spedita per posta. Non vi sono ragioni per rifiutare la testimonianza di Mattheson, il che non esclude l'ipotesi, del resto verosimile, che il lavoro possa essere stato progettato durante quel viaggio precisamente ad Amburgo, dove Händel e i suoi vecchi amici Brockes e Mattheson si erano ritrovati dopo dieci anni: Brockes era stato suo compagno di università a Halle, e con Mattheson - geniaccio multiforme e bizzarro- la fratellanza era completa.
Un particolare, sempre riferito da Mattheson nel suo «Grundlagen einer Ehrenpforte», cioè che la grafia della partitura da lui ricevuta era insolitamente compressa, lascia supporre un lavoro di composizione affrettato. L'ipotesi potrebbe essere suffragata da qualche negligenza nell`accentatura del testo nel coro introduttivo e dal fatto che alcuni pezzi della Passione risultano presi a prestito più o meno integralmente dal Te Deum per per la pace di Utrecht e dalla 3a fuga per cembalo; o anche dall'esistenza di alcune affinità piuttosto palesi, ad esempio con uno dei Chandos Anthems o con la Resurrezione.
Per la verità diremo che la Brockes Passion ha pagato il suo debito riversando temi e brani propri in lavori successivi: Aci e Galatea, Giulio Cesare, Esther, Dehorah.
Accertare che un'opera di Händel è nata nella fretta è certo un`utile constatazione, ma non è ancora un giudizio e non può aver la pretesa di anticiparlo. La fretta fu molto spesso compagna del suo genio creatore, senza condizionare con questo la qualità delle musiche nate in quelle condizioni; anzi contribuì molte volte alla conquista d'impeto di idee e soluzioni che forse una sistematica economia di lavoro non sarebbe riuscita a rivelare. Nel nostro caso però il nemico di Händel non fu la fretta ma fu, con ogni probabilità, il libretto di Brockes nel quale ingombranti sovrastrutture soffocano il racconto della Passione, già molto indebolito dalla parafrasi in versi.
E' strano che compositori come Keiser, Telemann, Händel e Mattheson, già smaliziati dall`opera, abbiano seguito integralmente il testo di Brockes, senza creare di alleggerirlo dei rami superflui.
Molto diversamente operò J. S. Bach, qualche anno dopo, nel metter su con le proprie mani, o con l'aiuto di un poetastro rimasto sconosciuto, il libretto della sua Passione secondo S. Giovanni, eseguita a Lipsia il 26 marzo 1723. Anziché seguire l'esempio dei quattro compositori che ho nominato e musicare il poema di Brockes, già bell'e pronto, stampato e collaudato, egli preferì utilizzare soltanto alcuni brani (sette, secondo A. Schweitzer), inserendoli con qualche modifica nel dramma tradizionale insieme con alcuni corali luterani. Nell`autunno del 1720 Bach andò ad Amburgo per vedere se gli riusciva di ottenere il posto di organista in St. Jakobi allora quasi vacante, poiché il titolare, Reinken, aveva 87 anni. In quella occasione egli si occupò della Passione di Brockes e certamente ebbe modo di conoscere le partiture delle quattro versioni che, come ho detto, dal '19 venivano date il ciclo durante la settimana santa appunto in quella cattedrale. Ma si fermò soltanto sulla partitura di Händel, a quanto pare, e tanto se ne interessò che ne fece una copia. Datata 1720, essa si trova oggi nella Biblioteca di Stato di Berlino: le prime 23 pagine sono di mano di Bach; le rimanenti 40, scritte da Anna Magdalena risalgono certamente a data un po'  posteriore, perché i due si sposarono nel '21.
Questo documento bachiano costituisce la più alta referenza in favore della Passione di Händel; e la sua importanza come tale non viene affatto incrinata dal fatto che lo stesso Bach, in altra occasione e per non accertate ragioni, abbia ricopiato di sua mano anche la partitura di una certa Passione secondo S. Luca di autore ignoto, la quale non meritava davvero un simile onore. A partele sue qualità intrinseche, la Brockes Passion di Händel va quindi considerata anche come un modello sul quale Bach si basò per ideare e comporre la propria Johannes Passion. E non fu soltanto un modello scelto, diciamo così, a titolo precauzionale, ossia per evitare di cadere negli stessi errori: certi aspetti singolari del lavoro di Händel furono forse larghi di insegnamenti anche allo stesso Bach il quale con commentevole umiltà usò sempre studiare a fondo e meditare le opere di altri maestri. Così nell'Händel della Brockes Passion egli dovette notare la grandezza biblica e la mobilità dei cori drammatici, la potenza dei concertati, il trattamento delle parti solistiche, la colorita e varia orchestrazione volta soprattutto a spingere l'azione, l'abile sfruttamento delle risorse vocali.
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Dobbiamo essere grati all'Archiv Produktion di averci fatto conoscere questa Passione in una degnissima edizione discografica. Con i tempi che corrono, almeno in Italia, bisogna confessare che il disco è l'unico mezzo di accesso a buona parte della musica passata, presente... e futura, vista l'arretratezza dell'esplorazione diretta. Nel nostro caso, immesso anche che fosse dato ascoltare dal vero una Passione di Brockes, chi se non il disco potrebbe offrire la possibilità di ascoltarla ripetutamente, la facoltà di bissare quello che piace, di saltare a piè pari quello che non ci va, e di smettere quando siamo stanchi? Ci sono in questa Passione molte pagine, stupende per nobiltà di espressione, intensità di sentimento, evidenza drammatica e genialità costruttiva, le quali sono certamente riconoscibili come tali, ossia come stupende, anche di primo acchito: ma da esse emergono ad ogni nuovo ascolto miriadi di particolari interessanti, che prima erano passati inosservati. E anche le pagine meno felici della partitura - e ce ne sono non poche, bisogna ammetterlo - a strizzarle ben ben: attraverso varie pazienti audizioni ci confermano che il bello, magari in briciole, lo si può trovare dappertutto, anche dove meno si crede.
Va riconosciuto ai tecnici della Deutsche Grammophon il merito di avere saputo introdurre senza inconvenienti ben tre ore e due minuti di in tre soli dischi: tale è infatti la durata della Passione nell`edizione discografica. L'incisione e la stampa sono veramente molto buone. La registrazione ha colto fedelmente voci e strumenti per quanto riguarda le ampiezze stereofoniche, ma le prospettive sonore mancano purtroppo di profondità. E lo strano è che la registrazione ha avuto luogo proprio in una chiesa (St. Emmeran a Ratisbona, 1967), dove invece sarebbe dovuto avvenire tutto il contrario.
Le note illustrative di Heinz Becker (in tedesco, inglese e francese, già da me lodate per le ampie informazioni di ordine generale, forniscono anche un'intelligente analisi della partitura e alcuni confronti con le partiture di Keiser, Telemann e Mattheson, confronti che ci invitano a sperare in una futura presa di possesso del disco anche  nei loro riguardi. Le forme impiegate da Händel sono quelle in atto normalmente nelle composizioni vocali del tempo. L'introduzione è costituita da una Sinfonia alla francese, la quale fa corpo unico con uno stupendo concerto per soli, coro e orchestra. Il tutto dura circa 9 minuti e come grandiosità e dimensioni può essere paragonato ai cori  iniziali delle due Passioni di Bach, dei quali tuttavia non raggiunge l'incomparabile pathos; ma è già all'altezza del miglior Händel degli oratori inglesi. Segue il racconto della Passione, che ha inizio con l'ultima cena ed è svolto, per quanto riguarda il dramma vero e proprio, principalmente in recitativo: un recitativo che segue i modelli operistici, mantenendosi ovviamente su linee più semplici e castigate anche quando viene mosso dall'agitarsi della vicenda. Anche i vari caratteri vengono delineati nel recitativo: l'evangelista (l'ottimo tenore Häfliger, nel disco) ha la tradizionale dizione dei salmodisti, immutabile come il Verbo ma dolorosamente partecipe, gli interventi del Cristo hanno una nobile gravità, quelli di Pietro sono impulsivi, quelli di Pilade indecisi. La presenza del continuo, sotto il recitativo, é sempre molto sobria (anche nella realizzazione discografica), ma è anche pronta a farsi sentire quando occorre.
Questa ossatura di recitativi secchi sorregge un'impotente mole di forme chiuse e aperte variamente disposte, ma sempre in alternanza coi recitativi; 3 recitativi accompagnati (fra i quali due bellissimi di Gesù), 6 ariosi (già sul tipo dei plastici ed eloquenti ariosi inglesi), 26 arie a solo, 2 duetti, 1 terzetto, 1 secondo concertato per solo e coro, 12 cori, 4 corali, Fra le arie,9 sono col da capo, ma soltanto 3 di esse sono complete nelle tre sezioni (A B A), mentre le rimanenti 6 realizzano il tipo ridotto dell'aria tripartita, nella quale la ripresa è solo una breve appendice di chiusura. Naturalmente tutte le 26 arie seguono i moduli d'uso, e così vi sono arie cantabili, di portamento, agitate ecc. e perfino un'aria di bravura (proprio
come in Bach, del resto). Molte arie sono con strumenti obbligati, oboe, violino, violoncello; e perfino una, bellissima, con due fagotti. Una quindicina di esse si elevano sulla massa per felicità di invenzione, intensità espressiva e squisita fattura; prima fra tutte l'immortale Mein Vater! Scbau wie icb mich quäle (n. 8), con quel suo cadenzato sostegno orchestrale anch'esso «triste come la morte». Il tema pare derivi da un antico canto olandese e venne elaborato anche da Bach nella fuga in sol min. BWV 542.
Fra i pezzi d'insieme notevoli il bellissimo duetto tra Maria e Gesù (n. 42) e il terzetto n. 49 fra le anime credenti e soprattutto lo stupendo concerto n. 41 Eitt, ihr angefochten Seelen, per solo (fanciulla di Sion) e coro, che è l'embrione del Doppio coro iniziale della Matthäus Passion di Bach non solo per quanto riguarda il testo, ma anche per la musica. I cori hanno un peso grandissimo: sono 12 interventi assai brevi, davvero decisivi, pieni di carattere e di varietà. Sono già, benché trattenute in argini ristretti, le forze della natura che si scateneranno imponenti e vittoriose nei grandi oratori della maturità, dal Saul in poi. 1 corali invece sono armonizzati molto semplicemente su melodie del repertorio luterano tradizionale, come del resto molti corali nelle Cantate e nelle Passioni di Bach destinati, come questi, ad essere eseguiti anche dal pubblico all'unisono con le voci del coro. ,
L'orchestra, con le sue 6 parti (oboe I e II, violino I e II, viola e continuo) si basa specialmente sugli archi, ma vi sono importanti interventi anche solistici dell'oboe, lo strumento prediletto di Händel. Il continuo è realizzato da violoncello, fagotto, violone, cembalo e organo. Ottimi come sempre i solisti (che si valgano anche di strumenti barocchi) e gli strumentisti della Schola Cantorum  Basiliensis; e per precisione, leggerezza e fraseggio il famoso coro del Duomo di Ratisbona, diretto da Hans Schrems, recentemente scomparso. L'Archiv Produktion ha mobilitato anche uno scelto stuolo di artisti di canto fra i quali ricorderò, oltre, al tenore Häfliger, ormai specializzato come evangelista, gli ottimi soprani Maria Stader ed Edda Moser, il bravissimo controtenore Paul Esswood, il basso Adam (un Cristo un po' discontinuo, almeno, come Cristo), il tenore Jennings e il sempre a posto Jokob Stämpfli.
August Wenzinger, benemerito pioniere nel campo della musica barocca, è l'artefice principale, almeno in campo artistico, dell'impresa che ha avuto il suo finale coronamento nella registrazione della Brockes Passion. La lettura da lui condotta sull'edizione critica del Bärenreiter-Verlag ce la presenta in una versione misurata e insieme aperta alle espansioni del gusto barocco, sempre tenuta sotto i segni di una grande nobiltà e consapevolezza, Manca a noi, questa volta, come elemento di giudizio la possibilità di confronti, ma si può giurare sulla coscienziosità e sulla competenza del M° Wenzinger in tutte le fasi del suo intervento. Forse sopra la sua azione risolutiva di direttore grava una certa monotonia, che nasce dall'attenuazione dei contrasti e anche - pare un paradosso - dalla mancanza di difetti appariscenti. Caratteristica quest'ultima forse congeniale all'imperturbabile Wenzinger, ma non certo alla musica di Händel, ricca di eccessi e-difetti come il suo autore.
Domenico Borra
("Disclub" 30/31, anno VII, maggio-dicembre 1969)

mercoledì, gennaio 10, 2024

Anton Webern: pagine di diario di Luigi Dallapiccola

Firenze, 22 ottobre 1945.
Da Vienna, in data 8 corr., un amico mi scrive: «...purtroppo debbo darLe anche una notizia estremamente triste. Webern è morto in un tragico incidente, proprio ora che la sua opera avrebbe finalmente trovato da noi una affermazione decisiva...››.

Praga, 5 settembre 1935.
Questa sera Heinrich Jalowetz ha presentato il Concerto op. 24 di Anton Webern, un'opera di brevità inverosimile (sei minuti di musica) e di concentrazione assolutamente singolare. Ogni elemento decorativo vi è eliminato. Nove strumenti partecipano all'esecuzione: tre legni, tre ottoni e due archi con pianoforte.
Non sono riuscito a farmi un'idea esatta del lavoro, troppo difficile per me; che - tuttavia  -  rappresenti un mondo mi sembra fuori discussione. Ci si trova di fronte a un uomo che  esprime il massimo di idee col minimo immaginabile di parole. Pur non avendo bene compreso l'opera mi è sembrato di rilevarvi una unità estetica e stilistica quale non avrei saputo desiderare maggiore.
Varia gente sorrideva, in sala, durante l'esecuzione;  cordialmente ilare sembrava anche la nostra delegazione. («Oh gaiezza latina, tu non sei ancor morta!››, si legge in Chantecler. Ma di tutte le cose si può ridere).
Non ho ascoltato tutto il programma di questa sera. Webern mi costringe a meditare.

Firenze, 4 aprile 1943.
AUDIATUR ET ALTERA PARS. Il Concerto op. 24 di Webern mi aveva colpito per quella caratteristica che non seppi definire che col termine concentrazione. Leggo sul Dizionario della Musica di Della Corte e Pannain: «...è  la completa soluzione e la distruzione degli elementi espressivi della forma. I più schietti esempi di questo tipo di musica, incapace d'ogni vitalità ed avvenire, ci vengono da Anton Webern››. A questo proposito non posso rinunciare ad annotare la definizione di Schoenberg, circa la concisione delle opere del suo primo discepolo: Un romanzo in un sospiro.

Londra, 17 giugno 1938.
La musica di Webern è troppo nuova per rivelare alla lettura tutte le sue proprietà timbriche. E il desiderio, appunto, di conoscere più da vicino l'opera di un Maestro a me troppo poco noto è stata una delle ragioni determinanti del mio viaggio. Per poter ascoltare Das Augenlìcht valeva bene la pena di traversare la verde Francia e di passare la Manica, in mezzo alla ridda dei gabbiani.
Das Augenlicht («La luce degli occhi››) è una breve opera per voci miste e strumenti: è stata presentata dai B.B.C. Singers, il complesso corale più portentoso che mi sia avvenuto di udire, e dall'orchestra della B.B.C., diretta con finezza demoniaca da Hermann Scherchen.
Anton Webern è un fiore isolato che non somiglia a nessun altro. È diversissimo da Arnold Schoenberg, suo maestro; è diversissimo da Alban Berg, che gli fu amico fraterno. Basterebbe riflettere su questa diversità per concludere che il sistema dodecafonico non è poi quel vicolo cieco che tanti pretendono; non quel fattore malefico che dovrebbe ridurre la musica di tutti i paesi a un minimo comune denominatore, come è stato affermato un po' troppo in fretta e ripetuto senza un minimo di controllo; bensì un linguaggio che racchiude in sé possibilità di svariatissime differenziazioni, i cui risultati non saremo forse noi a vedere.
Ciò che colpisce sopra tutto in Das Augenlicht a una prima e, purtroppo, sola audizione è la qualità del suono.
La scarna partitura che, alla lettura, sembra presentare mille passi problematici basterebbe da sola a dimostrare l'infondatezza di tante regole che i più svariati Trattati di Strumentazione si sono trasmesse, quasi per ereditarietà. Alludo, in primo luogo, al terrore quasi superstizioso che paralizza i trattatisti di fronte al pericolo di quei cedimenti della partitura che, in gergo, si chiamano buchi. I teorici, anziché consigliare lo studio dell'ultimo Bach, la riflessione umile e attenta sui Canones diversi dell'Offerta Musicale e su l'Arte della Fuga, anziché parlare di contrappunto e di polifonia, per difendere il giovane strumentatore dal pericolo delle sabbie mobili dell'orchestra, consigliano le parti di ripieno; quelle parti, esattamente, che hanno inzeppato mille partiture nella seconda metà dell'ottocento e troppe nel nostro secolo.
Webern ci dimostra come, anche qualora non lavori in senso strettamente contrappuntistico, possano bastare due note della Celesta o un lieve tocco del Glockenspiel o un tremolo appena udibile del Mandolino per unire fra di loro abissi che a tutta prima erano sembrati separati da distanze incolmabili.
L'organico dell'orchestra è limitato all'essenziale. E ciò non certo per smania di originalità né per desiderio di allontanarsi il più possibile dal suono dell'orchestra wagneriana o straussiana. Webern ha sondato tutte le possibilità di tutti gli strumenti ed è in grado di scrivere per quei complessi che a lui, in un determinato momento sembrano indispensabili.
Das Augenlicht, all'audizione, si rivela piena di poetica armoniosità: voci e strumenti, spesso fra di loro distanziatissimi, oppongono i loro piani sonori. La partitura sembra arricchirsi di quelle misteriose vibrazioni che le conferirebbe un'esecuzione sotto una campana di vetro.  La costruzione musicale ha un suo ritmo interno, che nulla ha in comune col ritmo meccanico. Meriterebbe una trattazione a parte certa raffinatezza di scrittura; l'osservare, ad esempio, come Webern eviti il più possibile quel brusco richiamo alla realtà che è rappresentato dall'accento sul tempo forte della battuta e che qui, inevitabilmente, spezzerebbe l'atmosfera di sogno che permea di sé la poeticissima composizione. Il suono, per il momento, costituisce la massima fonte che mi ha dato questo lavoro. Un suono che, da solo, basterebbe a farmi considerare Das Augenlicht una delle opere fondamentali del nostro tempo.
E in modo particolare si dovrebbe pur dire delle allusioni musicali che sembrano scaturire, come :suoni armonici lontanissimi, dalla serie dodecafonica e dai suoi sviluppi.

Firenze, 2 gennaio 1942.
«...anche nella concezione della vita e nell'uso dei  valori cosiddetti intellettuali come la forma, lo stile, etc., lo Strauss è, soprattutto, un "barocco umorista" e caricaturista. Il carattere in lui, come in certi pittori spagnoli modernissimi, confina con la caricatura. Nel passato, sotto questo aspetto, non gli vedo veramente fraterno, che il Rabelais››. (GIANNOTTO BASTIANELLI, La crisi musicale europea, Pistoia, 1912, pag. 136).
Mi rendo conto di quanto sia difficile stabilire rapporti (abbiano questi valore critico o anche solo valore indicativo) fra musicisti e poeti, fra pittori e musicisti.
Il binomio Rabelais-Strauss e oggi per me inconcepibile (e debbo fare uno sforzo per giustificarlo anche se tengo conto dell'epoca in cui il Bastianelli lo intuì, lo espresse e tanto volle insistervi) allo stesso modo come sarebbe inconcepibile stabilire un binomio tra Francesco I, il fratello della Marguerite des marguerites de France, la cui epoca Rabelais rappresenta, e Guglielmo II, detto il Kaiser, che Richard Strauss interpreta.
Pure, come ridare a parole un'idea, sia pure pallida e approssimativa, di quello che possono essere le allusioni musicali se non ricorrendo a esempi letterari?
In James Joyce trovo il passo seguente (Ulysses, pagg. 524-525):
Stephen: Hm. (He strikes a match and proceeds to light the cigarette with enigmatic melancholy).
Lynch: (Watching him). You Would have a betterchance of lighting it if you held the match nearer.
Stephen: (Brings the match nearer his eye). Lynx eye.
Oppure quest'altro:
Stephen:  Married.
Zoe: It was a commercial traveller married her and took her away with him.
Florry: (Nods). Mr. Lambe from London.
Stephen: Lamb of London, Who takest away the sinsof our world.
E sembra, subito dopo, che la sgomentevole apparizione di Father Dolan sia dovuta a una concentratissima emanazione di suoni armonici.
Che si debba a James Joyce di avere introdotto gli armonici superiori nella letteratura?

Vienna, 9 marzo 1942.
Una sosta di dodici o di quattordici ore in questa città morta è inevitabile a chi ritorni in Italia dall'Ungheria. (Due controlli di polizia sono obbligatori). Tuttavia sono lieto perché questa sera, in casa Schlee, ho avuto la fortuna di stringere la mano ad Anton Webern. Un mistico, un piccolo uomo che parla con qualche inflessione dialettale austriaca, dolce ma capace di uno scoppio d'ira, cordiale al punto di trattarmi come un suo pari. (Le nostre comuni responsabilità, dice).
Senza timore, senza reticenze ormai si parla della guerra. Questo è fra tutti gli argomenti il più urgente, in ogni paese. È facile intenderci. Da quale parte della barricata ci si trovi sta scritto sulla nostra fronte. Con costernazione si parla della caduta di Singapore e della grandezzata compiuta dalla Scharnhorst, dalla Gneisenau e dalla Prinz Eugen qualche settimana prima. Ma si parla anche di musica. Non essendo stato presente Webern all'immenso successo londinese di Das Augenlicht gli dico della grande impressione allora provata. E Webern mi chiede subito: «Un'impressione anche sonora?››. (Il suono. Avevo capito giusto). Discutendo problemi di sonorità strumentale il finissimo ricercatore (che la storia non potrà ignorare per il suo enorme contributo alla formazione del nuovo linguaggio) afferma: «Un accordo di tre trombe o di quattro corni è per me ormai inimmaginabile››.
Viene fatto, incidentalmente, il nome di Kurt Weill. E Webern, all'improvviso, esplode. Punta l'indice verso di me (ma non ero stato io a pronunciare il nome di un compositore a lui non gradito!) e mi pone una domanda molto diretta. «Che cosa trova Lei in tale musicista della nostra grande tradizione centroeuropea, di quella tradizione che comprende i nomi (e qui comincia a enumerarli sulle dita) di Schubert, Brahms, Wolf, Mahler, Schoenberg, Berg e il mio?››.
Sono imbarazzato. Non dico che una risposta non fosse assolutamente possibile; ma ciò che mi confonde e che Webern abbia usato il termine «tradizione››, termine che - conoscendo le Variazioni, Op. 27, la cantata Das Augenlicht e, attraverso sia pure una sola audizione, il Concerto, Op. 24 - avrei supposto eliminato dal vocabolario weberniano. Non solo. Ma che si considerasse figlio della tradizione; che credesse, cioè, alla continuità del linguaggio... ). E che, infine, dimostrasse che ciò che lo allontanava da Kurt Weill non fossero questioni estetiche o di gusto, ma soltanto il fatto che Weill avesse rifiutata la tradizione centroeuropea.
Webern mi ha fatto grande impressione, anche come persona umana. E ripenso a quanto Theodor Wiesengrund Adorno ebbe a scrivere di lui anni or sono: «L'assalto che la costruttività di Schoenberg mosse contro le porte murate dell'oggettivismo musicale non è più (nelle liriche Op. 14 e Op. 15) che una vibrazione che giunge a noi da estreme lontananze. È l'anima solitaria che trema dinanzi alle porte murate e si abbarbica alla fede: null'altro le è rimasto››.

Fiesole, 3 dicembre 1943.
Oggi Anton Webern compie i sessant'anni. Un'anima solitaria che si abbarbica alla fede.... A Firenze, come ormai in tutte le città italiane, la persecuzione assume un ritmo preoccupante. Mi sento anch'io, più che mai oggi, un'anima solitaria....
Dicevo di dedicare al Maestro i Sex Carmina Alcaei, che gli presenterò a guerra finita, con la trepidazione che ben conosce chi sottopone un'opera sua ai giudizio di chi gli è di tanto superiore.

Firenze, 22 ottobre 1945.
I Sex Carmina Alcaei saranno dedicati, con umiltà e devozione, alla di Lui memoria.
Luigi Dallapiccola
("Disclub", anno I n. 1 ottobre 1963)

lunedì, gennaio 01, 2024

David Oistrach: Il fazzoletto a quadri

Nella seconda metà dell'Ottocento si 
afferma il concertismo quale lo conosciamo ancor oggi, e nella seconda metà dell'Ottocento viene creata in Russia una civiltà musicale che, pur nella sua specificità, si incanala nelle tradizioni centro-europee. I russi ospitano molti concertisti - a cominciare da Liszt e da Henselt, che viene "catturato" a suon di rubli d'oro e che rimarrà a San Pietroburgo per tutta la vita - e mandano in giro nel mondo i loro concertisti. Fino alla grande Guerra, così, San Pietroburgo e Mosca sono due centri nei quali la vita musicale rispecchia ciò che accade a Berlino o a Vienna o a Londra o a Parigi. Poi viene la guerra, poi la Rivoluzione. E con la Rivoluzione cambia tutto.
Chi ha un nome internazionale ed è in Russia, dalla Russia, se può, scappa subito. Chi ha un nome internazionale e non è in Russia, in Russia non rientra più. Una volta battuti i "bianchi", però, i Bolscevichi invitano artisti stranieri e lasciano andare all'estero i loro artisti. Rachmaninov era fuggito passando per la Finlandia, Prokofiev va in America - via Vladivostok - con il passaporto in regola, con il passaporto in regola vanno a Berlino Horowitz e Milstein. Ma siccome né Prokofiev, né Horowitz, né Milstein rientrano i visti per l'estero vengono annullati e chi vuole ancora espatriare, come Sapelnikov, deve scappare sfidando le guardie di frontiera.
I bolscevichi, in realtà, chiudono la stalla quando i buoi più pregiati ne sono già usciti. Ma chi non esce più sono i pregiati vitelli che diventeranno pregiatissimi buoi. Gli stranieri che vogliono andarci sono bene accolti in Russia anche durante gli anni Trenta,  e Prokofiev, che ci torna per fare il suo mestiere di concertista, decide addirittura di fermarvisi. Però i giovani escono solo più, dopo esser stati attentamente selezionati, per partecipare ai concorsi.
Il Concorso Internazionale, come meccanismo di individuazione dei nuovi talenti, è un'invenzione degli anni Trenta. Ai sovietici non interessa però immettere i loro giovani sul mercato internazionale: gli interessa di affermare, in una gara, la superiorità della loro scuola. I concorsi vengono dunque affrontati dai sovietici come prova di campionato mondiale. Un russo, Lev Oborin, vince già nel 1927 la prima edizione del Concorso Chopin di Varsavia, in russo - ahi! - espatriato vince nel 1931 la seconda edizione. I russi non vanno tanto bene con il primo Concorso di Vienna, 1934, ma nel secondo, 1936, piazzano Yakov Flier al primo posto ed Emil Gilels al secondo; Gilels vincerà nel 1938 la prima edizione del Concorso Ysaye, poi Regina Elisabetta del Belgio, che si svolge a Bruxelles.
Questo per il pianoforte. Ma non va peggio per il violino. Nel 1935 David Oistrach arriva secondo al Concorso Wieniawski di Varsavia: è battuto da Ginette Neveu, un genio, uno dei più grandi talenti violinistici che il nostro secolo abbia conosciuto. Nel 1937 i sovietici mandano a Bruxelles (il Concorso
Ysaye Regina Elisabetta alterna il pianoforte, il violino, la composizione), mandano a Bruxelles uno squadrone che sbaraglia tutti: i russi trionfano, solo Ricardo Odnoposoff, russo espatriato, riesce a conquistare il secondo posto, dietro a Oistrach, vincitore senza discussioni.
La tattica dell'Unione Sovietica era di vincere i concorsi. Se fosse solo una tattica o non anche una strategia non sappiamo. Dopo le vittorie le autorità sovietiche avrebbero mandato in tournée i poulains, magari per raccogliere un po' di valuta pregiata? Non possiamo saperlo, dico, perché con la guerra, nel '39, le frontiere si chiusero più di quanto già non lo fossero. E nel momento in cui gli Stati Uniti si allearono con l'Unione Sovietica le sale di concerto americane aprirono le loro porte alle musiche degli Shostakovich e dei Katchaturian e dei Kabalevski, ma i concertisti sovietici non attraversaronoil Pacifico.
Dopo la guerra venne, e per molti artisti fu peggio, la Guerra Fredda. Arturo Benedetti Michelangeli, che aveva preso parte al Concorso di Bruxelles, sapeva chi fosse Gilels, Giannino Carpi, che aveva preso parte al Concorso di Bruxelles, sapeva chi fosse Oistrach. Ma per chi non li aveva sentiti nel '38 e nel '39 Gilels e Oistrach erano solo nomi che venivano citati con ammirazione, e Richter e Kogan erano personaggi misteriosi. Nei programmi di concerto si leggeva che il Concerto per violino di Katchaturian, assai eseguito in occidente, aveva a Mosca un illustre interprete in Leonid Kogan, nei programmi di concerto si leggeva che la Sonata n.7 di Prokofiev, divenuta in breve molto popolare, era stata eseguita, prima che da Horowitz in America, da Sviatoslav Richter a Mosca. Si leggeva anche che la Sonata n.8 di Prokofiev era dedicata a Gilels, e che la Sonata per violino in re maggiore di Prokofiev, portata al successo da Isaac Stern, non era una sonata per violino ma una sonata per flauto rifatta per violino su richiesta di  Oistrach. Si leggeva, si leggeva... e non si sentiva niente, nemmeno i dischi, perché i Melodia non erano distribuiti in occidente.
Ma dopo la Guerra Fredda arrivò il Disgelo. Il disgelo mette in moto i fiumi e i fiumi trascinano a valle molti detriti e qualche albero rigoglioso. Il Disgelo propiziato dal premier Macmillan, che mise il colbacco in testa e sbarcò sorridente a Mosca, portò a noi Oistrach e Gilels. Cerano molti grandi pianisti negli anni Cinquanta (più, lo dico sottovoce, di adesso). C'erano molti grandi violinisti negli anni Cinquanta (più, idem, di adesso). Negli Stati Uniti il re era Heifetz, che non suonava in Europa. In Europa il re era Milstein, che andava avanti e indietro da una costa all'altra dell'Atlantico. Ginette Neveu, che sarebbe stata la regina, era perita in un disastro aereo. Le principesse erano Johanna Martzy, Gioconda de Vito, Ida Haendel. C'erano dei principi un po' fuori moda ma non ancora del tutto, come Elman, Thibaud,  Zimbalist, c'erano certi vecchi rispettatissimi consiglieri di corte come Enesco e Busch, c'era un'eminenza grigia come Szigeti, c'era un re che aveva perduto la corona come Menuhin, c'erano tre fenomeni che crescevano impetuosamente, Francescatti, Grumiaux e Stern, e c'erano Zaturecki e Spivakovsky e  Totenberg, che non erano proprio altezze  imperiali ma che la loro figura a palazzo la facevano.
Oistrach e Gilels vennero e... si verificò un fatto curioso. Ricordo la critica dell'Unità, quando Oistrach e Gilels suonarono al Maggio Musicale Fiorentino: osannante. Ricordo la critica di altri giornali: critica. Bravi sì, i due, ma... un po' antiquari, un po' démodés. C'entrava la politica e centravano gli affetti profondi. Ciò che non si diceva nei giornali ma che si diceva nelle conversazioni suonava così: Gilels non scalzerà Benedetti Michelangeli, Oistrach non scalzerà Milstein. Anche quando arrivò Richter accadde la stessa cosa: bravo sì, ma... O, come sentii dire in un  salotto milanese, dopo il Secondo di Brahms alla Scala con Celibidache: "Sì, ma... vuoi mettere il nostro Ciro?" Oistrach non scalzò Milstein, e Gilels non scalzò Benedetti Michelangeli. Però, un paio d'anni più tardi, e  anche prima, nessuno li avrebbe più barattati con niente.
Io ascoltati parecchie volte Oistrach alla radio, prima che in sala. E mise un po' in crisi il mio amore per Stern, per il quale stravedevo (non stravedevo per Milstein). Stern era un artista, e Oistrach era un artista. Ma Stern certe difficoltà le superava di slancio, Oistrach le dominava. Già avevo avuto questa  impressione ascoltando Oistrach in disco. Nel 1955, mi pare, avevo trovato in Svizzera il Concerto di Beethoven eseguito da Oistrach sotto la direzione di Sixten Ehrling.
Lo avevo fatto ascoltare ad un amico violinista, che aveva detto anche lui "Bravo, si, maper me il tetracordo è tutto sbagliato". A me l'intonazione di Oistrach non dava fastidio né nel Concerto di Beethoven né in ciò che da lui ascoltai alla radio. Oistrach mi ricordava invece qualcuno, o qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa. Un giorno lo capii.
Da bambino la mia passione era il tennis. Avevo visto giocare in Coppa Davis, avrò  avuto sette anni, il barone von Cramm, e mi era bastato per decidere che il tennis era la mia massima aspirazione. Durante la guerra scoprii nella soffitta di una nonna dieci o più amate dell'Illustmzione Italiana: vi lessi tutte le cronache del tennis e vidi nella mia immaginazione le partite di Borotra, di Lacoste, di Cochet, di Tilden. Di TILDEN!
Ecco, Oistrach suonava il violino come io immaginavo che Tilden rnaneggiasse la racchetta.
Quando alla fine vidi Oistrach in sala di concerto conclusi che era proprio il Tilden del violino. Salvo la figura. Oistrach era  grosso. Non avevo mai visto un grande violinista così grosso, c'era qualcosa di sproporzionato fra il suo busto e il suo violino, sarebbe stato più giusto a suonare la viola. Però quel violino, che sembrava piccolo, lui  lo trattava proprio come si tratta un bambino, non lo scuoteva mai, lo carezzava, e il violino suonava da solo.
La tecnica di Oistrach non era appariscente, ma per chi capiva di tecnica era addirittura agghiacciante. Un ex~violinista mi raccontò di averlo accompagnato, quando andò per la prima volta a Genova, a vedere il violino di Paganini, il Cannone. Oistrach guardava il violino nella teca, affascinato. Arrivò l'inserviente con la chiave, aprì la teca. Oistrach prese il violino nelle mani, lo guardò e lo  rigirò per parecchi minuti, borbottando parole incomprensibili. Poi lo impugnò dolcemente, prese l'archetto... Dal Cannone uscì una cannonata di scala di sol maggiore di tre ottave, in su e in giù, legata, potentissima, velocissima, intonatissima. Chi mi raccontò l'episodio disse di aver fatto un passo indietro, atterrito.
Chi non sa cosa sia il violino non potrà forse capire. La lunghezza della tastiera, toccata dalle dita della mano sinistra, varia leggermente da un violino all'altro. Bastano pochi millimetri di diversità, e tutti i movimenti, tutte le distanze devono essere riadattate. Suonare alla perfezione, al primo impatto, su un violino che non si conosce è un'impresa riservata a pochissimi: non so in verità a chi, oltre a Oistrach. Altro che tetracordo!
La tecnica era però l'ultima cosa che si notava in Oistrach. Anzi, non si notava affatto: il violino suonava da solo. Si restava invece soggiogati dall'eloquio, dall'oratoria forte, nobile, persuasiva, essenziale. Era una figura paterna, credo che i russi potessero ritrovare in lui uno zar antico che capiva il popolo e ne era amato.
Quando lo vidi entrare in scena notai prima di tutto la figura. Lo avevo visto in fotografia, non avevo immaginato che fosse così grosso. Poi notai il frak. Non credo che avesse portato il frak nell'Unione Sovietica; comunque, il frak che indossava era nuovo, di gran taglio, ben stirato. Non aveva la mentoniera...
Questo non lo notai perché allora ben pochi violinisti adottavano la mentoniera, la mentoniera Menhuín. "A che serve la mentoniera?" mi disse una volta un vecchio professore di conservatorio. "Serve a far guadagnare soldi a Menuhin, e basta. Un buon violinista userà un semplice fazzoletto, e nessuno riuscirà a strappargli lo strumento di sotto la mandibola". "Venga", mi disse (eravamo in corridoio). Andai nella sua classe, tolse il violino dalla custodia, cavò di tasca il fazzoletto e lo infilò nel colletto della camicia, piazzo il violino. "Tiri", mi ordinò. "Ma veramente..." "Tiri!" Tirai. "Tiri più forte, perdinci". Tirai più forte: il violino non cedette di un millimetro. "Vede?", concluse lui trionfante. "Lo so io, a che serve la mentoniera".
Oistrach non aveva la mentoniera, e credo che nemmeno due uomini grossi come lui sarebbero riusciti a strappargli il violino da sotto la mandibola. Aveva, si capisce, il fazzoletto. Lo cavò di tasca, lo infilo sotto il mento. Era grandissimo, a quadri bianchi e rossi. Fu come entrare magicamente nel Concerto campestre di Giorgione (o del giovane Tiziano che sia): noi eravamo lì seduti ed un grosso contadino ci offriva su una tovaglia contadina il cibo più sano e più appetitoso che la terra sappia produrre. Il cielo dietro di noi, era scuro, ma nulla poteva minacciarci finché la manna sgorgava dal piccolo violino.
Piero Rattalino
("Symphonia", N° 54 Anno VI, Settembre 1995)