Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

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sabato, giugno 17, 2023

Trascrizioni (Sono le trascrizioni un'offesa all'arte?)


Le trascrizioni che furono elaborate da 
Bach raggiunsero un numero così alto da potersi considerare come una sua abituale attività. Anche se una composizione era destinata a cambiare aspetto e colore nella scelta dello strumento per cui era stata trascritta, il lavoro rimaneva sempre ad un livello alto trasformandosi in una nuova creazione.
Tanto per citare alcuni esempi: la Fuga della Suite in si minore, creata prima per violino senza accompagnamento, fu dopo trascritta per organo. L'enorme differenza fra le due versioni - sia di qualità che di sonorità - fa pensare che in una trascrizione si potrebbe effettuare un'espressione completamente diversa, espressione che cambia, come detto sopra, a seconda dello strumento scelto. Sarebbe come sentire un episodio orchestrale prima affidato delicatamente solo ai legni e poi sentirlo più tardi brillantemente con le risorse dell'intera orchestra. Preferite uno o l'altro sarebbe dare poca importanza a quello che ogni musica richiede e cioè contrasto e sonorità.
Bach concepì ancora un'altra versione di quella Fuga e cambiando la tonalità da si minore a mi minore, la trascrisse per liuto. Quando Segovia la suonò in concerto con la chitarra (il cui suono rassomiglia in qualche modo a quello del liuto) trovò divertente leggere nella recensione di stampa piuttosto sarcastica del giorno seguente che se il pezzo aveva proprio bisogno di una trascrizione, perché poi cambiare la tonalità? (Evidentemente il critico aveva un orecchio assoluto ed attribuì la trascrizione all'esecutore). Segovia trovò anche divertente rispondere che era rimasto fedele a Bach quanto alla Fuga suonandola esattamente come era stata scritta! Questa seconda trascrizione è un'altra rivelazione nel mistero del suono e ci troviamo ora dinanzi ad una nuova, singolare personalità sonora. Non sarebbe assurdo anche il solo accennare ad un paragone? Tutto è scolpito dalla stessa mano, però con nuove linee.
E' ben conosciuto il fatto che le trascrizioni non sono accettate nei concorsi importanti di musica per due pianoforti. I Concerti di Bach scritti per due clavicembali (incluso quello spesso eseguito in do minore) non sono naturalmente soggetti ad alcuna restrizione. Eppure, il Concerto in do minore non è che una trascrizione dello stesso, scritto prima per violino ed oboe, raramente eseguito. Bisogna anche aggiungere che eseguire al pianoforte musica scritta per clavicembalo è, in certo senso, un'altra trascrizione. La musicalità del timbro pianistico, il maggior vantaggio di poter ritenere il suono più a lungo dopo la sua produzione, l'uso dei pedali e la maggiore possibilità coloristica, assumono nell'insieme un aspetto diverso. Il solo vantaggio che il clavicembalo possa avere sul pianoforte è nell'uso dei "couplers", ma si potrebbe ciò considerare un gran vantaggio sulle grandi risorse del pianoforte? Considerando che certa musica clavicembalistica guadagna in espressione se eseguita al pianoforte (sebbene questa teoria potrebbe non essere condivisa da tutti) il Concerto in do minore sopraccennato rappresenta, secondo la nostra opinione, una doppia trascrizione dalla sua prima creazione. E' pure importante far conoscere che il Concerto per due violini in re minore fu anche trascritto per due clavicembali in do minore. Questo ultimo, credo non venga mai eseguito, mentre l'altro, molto più espressivo, e eseguito frequentemente.
Bach attinse molta ispirazione dalla musica di Vivaldi ed allo scopo di ben conoscere e studiare lo stile di quest'ultimo ne trascrisse per organo ed anche per clavicembalo un gran numero dei Concerti Grossi per orchestra d'archi con uno o più violini obbligati. Il fervore che Bach sentiva per questo genere di trascrizione culminò nell'adattare per quattro clavicembali il Concerto scritto da Vivaldi per quattro violini, cambiando la tonalità da si minore a la minore, esigenza dovuta dalla limitata estensione della tastiera. Sarà stato certo un'interessante esperienza per il pubblico sentire in uno dei concerti estivi di Capodimonte, prima l'originale per quattro violini e poi l'adattamento per quattro clavicembali suonato allora su quattro pianoforti. Naturalmente, come in tutti gli altri Concerti, l'orchestra d'archi serviva di sfondo.
La testimonianza dei fatti, qui sopraccennati, denota che una trascrizione può considerarsi un lavoro d'arte quando viene fatta da mano maestra. In tal caso dovrebbe essere rispettata ed accettata in qualunque programma di concorso e in nessun caso dovrebbe essere considerata un'offesa all'arte anche nei programmi eseguiti in Olanda dove la parola trascrizione è quasi sinonimo di delitto!
Brahms era pure incline, se anche in modo più ristretto, a trascrivere una sua composizione per un mezzo diverso. Il famoso Quintetto per pianoforte ed archi nacque in origine come Quintetto per soli archi (mai pubblicato). In seguito fu trasformato in una Sonata per due pianoforti (che è pubblicata e che si nota non poche volte in programmi di musica per due pianoforti). Finalmente fu riaggiustata nella forma che divenne più conosciuta ed eseguita dalle altre, e cioè il Quintetto per pianoforte ed archi in fa minore.
Anche le variazioni di Brahms su un tema di Haydn hanno avuto per scopo due versioni, una per due pianoforti a quattro mani e l'altra per orchestra, ambedue eseguite spesso da prominenti pianisti specializzati in musica per due pianoforti e da prominenti direttori d'orchestra. Brahms ebbe mai in mente che la versione per due pianoforti potesse far sentir la mancanza dell'orchestra. Il pianoforte possiede un'individualità tutta propria, coloristica ed altamente musicale e completa, ciò che dovrebbe senz'altro soddisfare l'orecchio. Come per le trascrizioni di Bach, è necessario adattarsi al nuovo mezzo di sonorità, eppure si legge a volte che qualche critico nel sentire questo lavoro su due pianoforti deplorò la mancanza dell'oboe in qualche variazione o del corno in un'altra!
Compositori come Saint-Saëns e Castelnuovo Tedesco per nominarne solo due, ci hanno lasciato delle importanti trascrizioni dei loro lavori, sia dall'orchestra a due pianoforti che da uno a due pianoforti e non bisogna dimenticare Busoni che ci ha lasciato grandiose trascrizioni pianistiche di musiche di Bach e Mozart come pure una brillante trascrizione per pianoforte ed orchestra della Rapsodia Spagnola di Liszt. Liszt ci ha infine lasciato gran numero di ogni sorta di trascrizioni e sebbene talune abbiano di mira uno scopo virtuosistico (come dal repertorio operistico) altre conservano la linea puramente musicale ed espressiva delle trascrizioni originali, tanto da farci ritenere che i compositori stessi non avrebbero potuto superarle.
Lavori per organo trascritti per pianoforte
In linea generale, gli organisti non accettano l'idea che la qualità percussiva del pianoforte possa prendere il posto della qualità sonora dell'organo.
Se Bach non esitava (anzi ne era appassionato) di trascrivere per diversi strumenti alcuni dei suoi lavori, come anche alcuni di Vivaldi, trasportandoci in un nuovo mondo di sonorità, perché mai debba un ascoltatore, incline ad ammirare il suono dell'organo, opporsi a sentire un lavoro per organo col suono del pianoforte se la registrazione sonora organistica è musicalmente adeguata nella trascrizione?
A questo punto bisogna far notare che una trascrizione per due pianoforti a quattro mani tratta dall'organo, offre delle maggiori possibilità organistiche dal punto di vista della registrazione di quelle che possa offrire un pianoforte che possa disporre di sole due mani. Ciò che l'organista trova da obiettare è il fatto che il pianoforte non possiede la virtù della completa durata del suono fra una nota e l'altra che l'organo possiede, né il timbro dei diversi strumenti o la grandiosità dell'organo a pieno registro.
Questo è vero, ma d'altro canto vi sono dei vantaggi nell'uso di due pianoforti che mancano nell'organo: 1) la gradazione del suono in una linea melodica che è così importante per la sua espressività; 2) il contrasto dinamico fra diverse parti anche quando si dispone, nell'organo, di diversi manuali ed anche quando si tiene conto della maestria dell'esecutore nell'uso della registrazione. Questo contrasto manca nell'organo se si consideri che un tema non può risaltare con la sua dovuta chiarezza ed eloquenza quando è accompagnato da contrappunto, armonia o da qualche figurazione meno importante, incapaci di una ridotta sonorità.
Una trascrizione per due pianoforti (o dovremmo forse chiamarla adattamento?) può essere fatta bene o male. Se realizzando la registrazione organistica con logica e buon gusto, usufruendo bene delle quattro mani ed applicando tutte le risorse coloristiche del pianoforte, si potrebbe asserire che una composizione per organo bene eseguita su due pianoforti dovrebbe risultare musicalmente espressiva ed impressionante.
Ed ora un breve ma utile ammonimento al gentile ascoltatore: non aspettarsi né pretendere dal pianoforte quello che non possiede, cioè un diverso timbro, ma godere invece pienamente le particolari qualità sonore che questo magnifico strumento può rendere. Se Bach non fu avverso ai nuovi effetti che invariabilmente risultavano dal trascrivere un pezzo da uno strumento all'altro perché li considerava come nuove creazioni sonore, tanto più l'ascoltatore dovrebbe schiudere la sua mente e la sua immaginazione ad un concetto di musicalità più largo e profondo e ad un più esperto apprezzamento.
Ed ora per finire e rispondere alla domanda posta nel sottotitolo di questo scritto: «sono le trascrizioni un'offesa all'arte?›› Si, diciamo. Sono un'offesa all'arte se risultano mal fatte e nel qual caso non sarebbero meritevoli di una qualsiasi esecuzione, ma costituirebbero invece una rivelazione artistica e sarebbero degne di venir eseguite ovunque se fatte da mano maestra.
Silvio Scionti
("Rassegna Musicale Curci", anno XIX n. 2 giugno 1965)

lunedì, aprile 02, 2018

Antonio Vivaldi: "Ottone in villa"


Chandos - Chan 0614(2) - (p) 1998
Il 1713 fu un anno importante per Vivaldi. Due anni prima aveva affermato il suo diritto ad essere ritenuto uno dei principali compositori strumentali d’Europa con la pubblicazione del suo primo volume di Concerti, L'Estro armonico op. 3; ma fu nel 1713 che l'ago della bilancia della sua carriera si spostò verso la musica vocale. Si trattò, in un certo senso, di un caso largamente fortuito giacché nell’aprile di quell'anno gli amministratori dell’Ospedale della Pietà (l'istituto di beneficenza veneziano che dieci anni prima aveva nominato Vivaldi maestro di violino) concessero al loro maestro di coro, Francesco Gasparini, sei mesi di congedo per malattia. Gasparini, comunque, non tornò più e così Vivaldi occupò il posto vacante componendo per i due anni successivi musiche per le Messe e i Vespri, un oratorio e numerosi mottetti. Nello stesso anno Vivaldi debuttò anche come operista, non nella natale Venezia ma nel centro provinciale di Vicenza.
Il primo teatro lirico pubblico di Vicenza era stato aperto nel 1656, ma venne distrutto da un incendio nel dicembre 1683. Ricostruito nel 1688 e riaperto l'anno dopo il nuovo Teatro di Piazza, noto anche come Teatro delle Garzerie, era molto piccolo. Il palcoscenico probabilmente misurava menu di dieci metri di profondità e l'auditorio meno del doppio di quella lunghezza, con ottantotto palchi disposti su quattro ordini che contenevano quattro posti ciascuno. Gran parte del repertorio operistico a Vicenza era importato di seconda mano dalla vicina Venezia, ma pare che nel 1713 sia stato introdotto un sistema diverso. Era stato aperto un nuovo teatro, più grande, il Teatro delle Grazie, e la decisione di presentare in prima esecuzione il 17 maggio l’Ottone in villa di Vivaldi, opera del tutto nuova, può essere stata il risultato di una rivalità commerciale fra i due teatri.
Oltre agli archivi della Pietà che contengono un verbale del 30 aprile 1713 nel quale gli amministratori concedono a Vivaldi un mese di congedo, abbiamo anche altre informazioni sulla sua attività in questo periodo. Una quietanza, recentemente scoperta, di pugno vivaldiano, datata 27 giugno, accusa ricevuta del pagamento di 310 lire a lui stesso, a suo padre e ad altri due violinisti per aver suonato in due Messe, due Vespri Solenni, mottetti, un oratorio ed un Te Deum, e di un ulteriore pagamento di 186 lire per la composizione e copia del suo oratorio. Questo oratorio La vittoria navale di Vivaldi, eseguito il 23 giugno nella Chiesa della Santa Corona a celebrazione della vittoria navale dei cristiani sui turchi a Lepanto nel 1571. Purtroppo di questo pezzo solo il libretto è sopravvissuto ma presumibilmente l'oratorio usava molti degli stessi cantanti e strumentisti di Ottone in villa. Le cronache riferiscono che Vivaldi


 "...con il suo miracoloso violino fe’ un intermedio di cornemuse e poi un ecco aplaudito in eccesso fra l`organo nostro grande e i1 suo violino con una fuga di tutti gli stromenti che raportò il Viva di tutti."

Come si può immaginare, date le circostanze della sua prima rappresentazione, 1’Ottone in villa è opera di piccole proporzioni. Richiede solo cinque cantanti, non ha coro (il che e tipico della maggior
parte delle opere italiane di quel tempo), non ha effetti scenici elaborati ed esige solo una piccola orchestra. Il libretto è del napoletano Domenico Lalli, con cui Vivaldi ebbe relazioni per varie imprese operistiche nel corso della sua carriera. Il libretto di Lalli per Ottone non è proprio originale: è basato su Messalina di Francesco Maria Piccioli, messo in musica da Carlo Pallavicino per Venezia nel 1680. Il gusto operistico negli anni successivi a questa data aveva subito varie vicende, e i cambiamenti di Lalli largamente riflettono recenti riforme del libretto: la trama è molto semplificata, i1 numero dei personaggi essendo ridotto da otto a cinque e i1 numero delle arie da sessantacinque a ventotto. Ne risulta uno spettacolo leggero ed amorale, nel quale la civettuola Cleonilla ha sempre il sopravvento e i1 credulo Imperatore Ottone (una figura tutt’altro che eroica!) non scopre mai la verità del modo in cui è stato ingannato.
Il libretto a stampa del 1713 porta una dedica firmata da Lalli a Henry Lord Herbert, figlio maggiore del Conte di Pembrike e Montgomery, che - come molti dei suoi contemporanei - stava facendo il Grand Tour. La lista dei personaggi originale era la seguente:


Cleonilla: Maria Giusti ("La Romanina”)
Ottone: Diana Vico
Caio Silio: Bartolomeo Bartoli
Decio: Gaetano Mozi
Tullia: Margherita Faccioli (Vicentina)
 
Il fatto che la parte di Ottone sia stata cantata da una donna e quella di Caio dal soprano/castrato Bartolomeo Bartoli avrà reso l'ambiguità sessuale del ruolo di Tullia/Ostilio perfettamente credibile ad un pubblico contemporaneo. Nessuno dei cantanti era di primo piano e soltanto Mozi canterà di nuovo in un'opera vivaldiana, sebbene Giusti e Faccioli abbiano cantato al Teatro Sant’Ange1o a Venezia dove Vivaldi era impegnato come compositore e come impresario. Il contralto veneziano Diana Vico sembra essersi chiaramente specializzata in ruoli maschili ed in questa veste entrò a far parte della compagnia di Handel al King's Theatre di Londra nel 1714.
Com'è costume dell’opera italiana del primo Settecento la musica di Ottone in villa comprende un alternarsi di recitativi e arie a solo, quest'ultime offendo a turno ai personaggi la possibilità di riflettere sull’azione che si è svolta nel precedente recitativo. Molti aspetti della prima maniera operistica di Vivaldi sono visibili nelle arie: interesse contrappuntistico nelle parti strumentali; leggere strutture di accompagnamento che spesso appaiono solo in due o tre parti; frequente omissione del basso durante i brani vocali; inusitati intervalli melodici quali terze diminuite e seconde aumentate; e subitanei cambiamenti di tempo.
L'opera si apre con una Sinfonia in tre movimenti. Il primo e più esteso deve al concerto grosso le contrastanti sezioni di piena orchestra con passaggi per un paio di oboi in terze ed ulteriori sfoggi di virtuosismo per i due violini solisti. Il secondo movimento è in forma binaria, ogni metà essendo prima suonata dagli oboi accompagnati dai violini e poi da tutti gli archi con raddoppio degli oboi. La stessa prima sezione di otto battute è poi trasportata dal do minore al do maggiore per l'Allegro conclusivo (pure in forma binaria); queste battute, in effetti, ricordano un passaggio dell`oboe nel primo movimento, con ciò producendo un'inconsueta congiunzione tematica fra tutti e tre i movimenti.
L'aria di Caio nell’Atto I, Scena 5, "(Chi seguir vuol la costanza”, sembra sia stara fra le preferite da Vivaldi. Inizia con un canone fra violini e basso, in ovvio motteggio al testo nel suo significato letterale, che deve essere piaciuto al compositore che  riadopera la musica in molte altre opere, fra le quali la versione l714 dell'Orlando furioso per Venezia, l'opera Tito Manlio per Mantova, svariate versioni del Laudate pueri Dominum, RV 602/602a/603, e il Concerto per violino RV 268. L'aria di Ottone nell`Atto I, Scena 7, “Frema pur' si lagni Roma” contiene molta scrittura in unisono per voce ed archi, con note fortemente ripetute, figurazioni balzanti e fioriture di biscrome che descrivono la determinazione dell'Imperatore. Poi questa scrittura è in contrasto con diversi brani di teneri Adagi in cui il suo pensiero si volge all'adorata Cleonilla. L'aria di Ottone, “Come l'onda", all’inizio dell’Atto II, presenta un tipico quadro musicale vivaldiano di tempesta di mare, mentre l'aria di Caio, “Gelosia tu già rendi l’alma mia”, descrive la violenza della sua gelosia in un pezzo di brillante virtuosismo con il quale termina il primo atto. Anche qui c'è una sezione più lenta, questa volta al centro dell’aria tripartita da capo, in cui impreviste armonie cromatiche ritraggono il dolore del suo amore respinto. Quest'idea di tempi contrastanti per conflitti emotivi è portata al suo estremo nell'aria di Tullia nell'Atto II, “Due tiranni ho nel mio cor[e]”, nella quale i "due tiranni" nel suo core, indignazione e amore, sono rispettivamente espressi da una musica vivace per tutti gli archi e gli oboi, e da passaggi più lenti e sospiranti per i soli archi superiori. Sebbene molte delle arie siano strumentate per i soli archi, l'Atto II, Scena 3 contiene una tradizionale aria in eco, in cui Tullia, dal suo nascondiglio, ripete in eco le parole di Caio, le sue ripetizioni delle sillabe finali giocando con l'italiano per alterare il significato del testo, il tutto accompagnato da coppie trillanti di violini e flauti dolci in scena.
L'Atto III è inusitatamente breve, in quanto che contiene solo cinque arie ed un breve coro conclusivo per tutti i solisti. L'aria di Decio, "L'esser amante", mostra l'influenza francese e con i suoi croccanti ritmi puntati anticipa svariate arie composte da Vivaldi in stile francese durante i pochi primi anni della sua carriera d'operista. L'aria finale di Caio comprende un a solo di violino che raddoppia la linea vocale all'ottava superiore. Nel ritornello finale dell'aria l'orchestra ha l'ordine di fare una pausa, per permettere al violino solista (che a Vicenza fu probabilmente lo stesso Vivaldi) d’improvvisare una cadenza. Questa sarà stata certamente un pezzo elaborato, giacché abbiamo la descrizione di un tedesco che assistette all’opera veneziana nel 1715, il quale dichiarò di essere stato strabiliato alla vista di Vivaldi Clic eseguiva una "Fantasia" posando le dita


"...ad un capello dal ponticello cosicché c'era appena spazio l'arco, suonando su tutt'e quattro le corde con fugati a rapidità incredibile."

Sebbene non sia provato che Ottone sia mai stato eseguito a Venezia, alcune singole arie vennero riusate in opere successive, e l'intera opera fu ripresa al Teatro Dolfin di Treviso nell'ottobre del 1729. Nove arie e buona parte del recitativo vennero tagliate per questa rappresentazione per la quale vennero scritti nuovi testi per le arie. La partitura autografa di Vivaldi, unica fonte superstite per la musica, fu chiaramente scritta per la rappresentazione originale del 1713 e poi riveduta per l'esecuzione successiva: sezioni del recitativo sono state stralciate o rievocate in tonalità diversa, e molte arie sono marcate "aria in bianco", pur mancando i testi delle nuove arie. L'edizione usata per il presente disco generalmente segue la versione 1713, sebbene siano stati adottati molti dei tagli nel recitativo che appaiono nel libretto successivo. Anche se neppure i più ardenti ammiratori dell’opera del Settecento potranno affermare che il testo del Lalli è un capolavoro drammatico, le orecchiabili melodie e la comunicativa energia della musica di Vivaldi offrono ampia prova che Ottone si merita qualcosa di più dell'occasionale ripresa moderna che le è stata finora accordata.

LA TRAMA
Atto I
L'opera si svolge nella villa di campagna dell'Imperatore romano Ottone, con i suoi ameni giardini cinti di viali alberati, stagni e fontane. Ottone è follemente innamorato della bella Cleonilla che, all'inizio dell'opera, si rivela intenta "a cogliere fiori per adornarsi il seno". Essa confessa che sebbene amata dall'Imperatore trova impossibile resistere al fascino di qualsiasi attraente giovanotto. Uno dei suoi vecchi amori era Caio Silio, ma egli è stato recentemente rimpiazzato nei suoi favori dal suo nuovo paggio, Ostilio. Cleonilla proclama a Caio di amarlo ancora, anche se a parte rivela che adesso trova Ostilio ancora più avvenente! Ottone arriva, anticipando il piacere di dimenticare onerosi affari di stato in questo leggiadro ambiente, ma Cleonilla lo provoca affermando che egli non può amarla veramente poiché passa così poco tempo con lei. Ottone chiede a Caio di aiutarlo a curarla della sua gelosia, mentre Caio si stupisce della credulità dell'Imperatore. A questo punto entra Tullia. Un tempo fidanzata a Caio lo ha seguito in spoglie maschili ed altro non è che Ostilio. "Ostilio" chiede a Caio se ricorda ancora di aver tradito la sfortunata Tullia. Caio, pur notando che il paggio somiglia straordinariamente a Tullia, non indovina la verità; egli dichiara che il suo nuovo amore per Cleonilla ha scacciato Tullia dai suoi pensieri, mettendo in dubbio nell'aria che segue i meriti della costanza, giacché l'amore diviene un peso senza varietà. "Ostilio" medita di vendicarsi.
La scena si sposta alle terme dove Cleonilla è appena emersa dal bagno. Sta ancora stuzzicando Ottone ma vengono interrotti da Decio, fedele consigliere di Ottone, il quale dice all'Imperatore che Roma lamenta la sua assenza. Ottone non se ne cura ma dopo che egli è uscito Cleonilla interroga Decio per sapere cosa si dice di lei a Roma. Decio non vede di buon occhio la sua impudicizia, e la sua aria, il cui testo sostituisce quello trovato nel libretto a stampa del 1713, le dice che essa si illude se crede che l'amore di un re possa supplire alla mancanza dell'onore vero. Partito Decio "Ostilio" arriva e immediatamente Cleonilla dichiara il suo amore per lui. "Ostilio" s'impossessa di questa dichiarazione per vendicarsi di Caio, incoraggiando Cleonilla a giurare la sua fedeltà amorosa a lui e la sua avversione per Caio. Caio, che ha ascoltato di nascosto, è inorridito e risolve di rivelare all'Imperatore la slealtà di "Ostilio", terminando l'atto con un'aria focosa che descrive la sua gelosia e il suo amaro cordoglio.
Atto II
In un ridente giardinetto infossato Decio avverte Ottone che Cleonilla sarà la sua rovina giacché Roma disapprova dei suoi numerosi e ben noti amori. Ottone cade dalle nuvole e in una tipica aria settecentesca a programma paragona il suo turbolento stato d'animo alle onde violente di un mare in tempesta. Decio rivela che si è deliberatamente trattenuto dal dire all'Imperatore che Caio è il suo rivale ma non vuole spiegare a Caio cos'è che ha tanto sconvolto Ottone. Caio apparentemente lasciato solo, riflette sulla sua infelicità ma viene ascoltato di nascosto da Tullia che gli risponde a guisa d'eco. L'eco, affermando di essere la voce di uno spirito infelice, tormenta Caio i cui dolenti sentimenti sono ritratti in un breve brano di recitativo accompagnato e dall'aria in eco che segue. A questo punto "Ostilio" si scopre e canta del conflitto nel suo cuore fra i "due tiranni", indignazione e amore.
La scena si sposta ad un padiglione rustico dove Cleonilla sta ammirandosi allo specchio. Entra Caio, ma le sue dichiarazioni d'amore vengono respinte con noncuranza. Caio le da una lettera che proclama i suoi sentimenti, ma mentre Cleonilla sta per leggerla arriva Ottone e gliela strappa di mano. Ottone legge che Caio è suo rivale, ma Cleonilla gli dice che Caio le ha semplicemente consegnato la lettera da passare alla persona a cui è effettivamente indirizzata, Tullia, che lo ha tradito. Il credulo Ottone le presta fede ed ella rinforza l'inganno scrivendo una seconda lettera - il suo personale appello a Tullia - che chiede a Ottone di consegnare. Giunge Decio con ulteriori notizie di congiure a Roma, ma Ottone tuttora si rifiuta di ascoltare una parola contro Cleonilla e fa chiamare Caio. Rimprovera il fedifrago Caio che dapprima crede di essere stato scoperto, ma poi si accorge, con suo grande sollievo, che Ottone è in collera non perché ha scovato la sua relazione con Cleonilla ma semplicemente perché Caio ha sollecitato l'aiuto di Cleonilla invece di rivolgersi direttamente al suo Imperatore. Rimasto solo Caio è colpito dalla furbizia di Cleonilla, mentre nella scena finale dell'atto il desolato "Ostilio" chiede ad Amore di porgerle aiuto.
Atto III
Su un sentiero ombroso ed appartato Decio nuovamente cerca di persuadere Ottone del pericolo che lo aspetta a Roma, ma l'Imperatore nella sua aria dichiara che nulla gli importa del trono o dell'Impero pur di trovare felicità nell'amore. Decio profetizza l'imminente caduta di Ottone giacché l'amore in un regnante è segno di debolezza, ma viene interrotto dall'arrivo di Cleonilla e Caio. Ella continua ad ignorare gli approcci di quest'ultimo, e quando appare "Ostilio" indirizza alternativamente parole d'amore a lui e di ripulsa a Caio. Caio pretende di seguire il suo consiglio e di allontanarsi, ma in realtà si cela. Cleonilla continua a dichiarare il suo amore per "Ostilio" che l'incoraggia nella sua aria, allo stesso tempo rivelando a parte che Cleonilla sta facendo uno sbaglio. La vista dei due che si abbracciano manda in furia Caio che si precipita su "Ostilio" con un pugnale. Le grida di Cleonilla richiamano Ottone e Decio che al loro arrivo esigono da Caio una spiegazione. Egli descrive la scena a cui ha appena assistito - Cleonilla e "Ostilio" che si baciano e abbracciano - e lo scandalizzato Imperatore gli ordina di portare l'azione a compimento e di uccidere il traditore. "Ostilio", però offre di giustificarsi e togliendosi il travestimento si rivela come la tradita Tullia. Nella sua vera veste Tullia adesso protesta l'innocenza di Cleonilla e accusa Caio di essere il vero traditore. Tutti fanno le meraviglie anche se Ottone si ricompone con straordinaria rapidità, esprimendo il suo desiderio di vedere Caio e Tullia sposi e chiedendo perdono a Cleonilla. L'opera termina con un concertato di giubilo generale.
 
Eric Cross (Traduzione: Marcella Barzetti)

domenica, luglio 26, 2015

Federico Maria Sardelli e Vivaldi: la ricerca dello stile

Federico Maria Sardelli (1963)
Chi, per sapere qualcosa sulla biografia di Federico Maria Sardelli, si imbattesse in quella leggibile sul sito del Vernacoliere, la storica rivista satirica livornese di cui il Maestro è prestigiosa firma da molti anni, faticherebbe a vedere in lui l'esperto studioso vivaldiano, il musicologo e il raffinato direttore d’orchestra. Sardelli è flautista, compositore, disegna-tore, direttore e scrittore: una moderna ipostasi dell’homo faber cinquecentesco, potrei dire, pur temendo - con questa pomposa definizione - di finire bonariamente trafitto dalla sua caustica penna! Penna, tra l’altro, che ha appena dato alle stampe, per Sellerio (304 pagine, 14 euro), un romanzo dal titolo L’affare Vivaldi, un vero gioiello che ricostruisce la storia - quasi completamente reale - del ritrovamento dei manoscritti di Vivaldi, fra la Venezia dei decenni successivi alla morte del Prete Rosso e la Torino del Ventennio, in cui ha luogo la. preziosissima opera di riscoperta degli stessi ad opera di due studiosi appassionati, Gentili e Torri, musicologo dell’Università di Torino il primo, e direttore della Biblioteca Nazionale della città il secondo. Ed è da questo libro che parte la mia conversazione con il Maestro, impegnato a Valencia nelle prove dell’opera Narciso di Domenico Scarlatti.

Da cosa nasce l’idea di un libro del genere?
Le vicende che vi sono narrate sono note, nei documenti e nelle biografie vivaldiane, da tempo: ma la storia era cosi bella e rocambolesca, così - per l’appunto - romanzesca (pensi ai due bambini ebrei morti, nel cui nome le collezioni si riuniscono!) che non volevo scriverla in forma di saggio, con tanto di documenti originali, lettere, telegrammi, ritagli di giornali e un rigoroso apparato di note. Ho creduto che la forma romanzo mi avrebbe garantito un pubblico molto maggiore, e quindi mi sono anche divertito a ricreare un lessico para-storico, che riecheggia Goldoni,
Con tanto di supercazzola ante litteram!
Beh, di Francesco Vivaldi (fratello di Antonio) non si sa quasi nulla, eccettuato l’incredibile episodio in cui fa vedere in pubblico il pene: e quindi ho pensato che un tipo del genere potesse parlare come un Conte Mascetti dell'epoca!
Mi è parsa abbastanza ambigua, nel romanzo, la figura di Casella: come valuta storicamente il suo lavoro di recupero dei "classici italiani"?
Nel testo è un attore secondario, che appare alla fine nella "scuderia" del Conte Chigi Saracini: spero che non ne sia venuto fuori male, perché ebbe un'importanza certamente notevole, benché il suo approccio alle musiche italiane riscoperte fu equivoco, mancandogli gli strumenti paleografici per capire i manoscritti. All’epoca c'erano due fazioni, per così dire, che rispecchiavano altrettanti approcci verso questo repertorio: gli uni, guidati da Malipiero, sostenevano un’esecuzione fedele, "purista", gli altri, invece, fra cui Casella e Respighi, preferivano adattare le composizioni agli strumenti e alle forme moderne, ritenendo che la loro scrittura originale non sarebbe stata capita.
Che è anche la posizione, nel romanzo, di Ezra Pound...
Certamente: Pound fu, in musica, un totale dilettante, che vedendo i righi vuoti pensava che andassero riempiti con improvvisazioni!
Senza tornare a quei remoti esperimenti, è pero cambiato molto, nell'approccio al repertorio antico e barocco, negli ultimi 30-40 anni: penso al suo Orlando furioso in paragone con quello di Scimone! Ma cosa è cambiato, soprattutto?
Io sono cresciuto ascoltando i Musici, i Solisti Veneti, i Virtuosi di Roma, che hanno svolto un`opera benemerita: non capisco, quindi, chi oggi critica o deride quei gruppi o le vecchie edizioni a stampa curate da Malipiero. Lo voglio ribadire: con tutti i limiti del caso, fu un’epoca gloriosa, caratterizzata dal fuoco della riscoperta, in cui l’Istituto Vivaldi sfornava una media di 3-4 partiture al mese! Negli anni ’70 si è poi cominciato capire che, senza considerare i trattati che illustravano le prassi esecutive, si sarebbe andati poco lontano: non contava più solo il cosa, ma anche il come suonare. E un approcciarsi all'indefinito, a una realtà che ci sfugge, poiché la macchina del tempo non ce l’ha nessuno: ed è quello che anch’io con il mio gruppo Modo Antiquo ho sempre cercato di fare, chiedendomi sempre, per qualsiasi repertorio - da Perotino ai Beatles - come la facevano in quell'epoca, cosa si aspettava il pubblico, qual era il gusto corrente.
Ed è questo, quindi, il senso della filologia.
Esattamente! Spesso si usa quella parola. in maniera sprezzante, intendendo qualcosa di freddo, polveroso, saccente, ma in realtà è la lente per interpretare qualsiasi musica, qualsiasi periodo storico.
La provoco: so che lei è allergico al termine Ba-Rock, ossia quella proposta un po’ ruffiana della musica antica con una prassi quasi isterica: cosa ne pensa?
La parola mi fa rizzare i capelli, è un atteggiamento che mi fa infuriare tanto è l’amore per quel periodo storico, la cura che metto nel cercare di capire, con la massima cautela e lo scrupolo dell'approccio storico, quanto non sopporto di vedere svillaneggiare questa musica in modo circense, per compiacere il gusto presente. Si sentono gruppi di musica antica che fanno commistioni con la new age, oppure che introducono continuamente effetti speciali come picchiettati d’arco e di legno, pizzicati, rallentando e accelerando, corone, accentuazioni improvvise: ma quello che fanno è pop, non musica antica! Deve essere chiaro, altrimenti è una truffa in commercio se fossimo in una pasticceria, i NAS li avrebbero già fatti chiudere, ma purtroppo non ci sono i NAS nella musica barocca!
I principi con cui affronta Vivaldi li applica anche nel repertorio più tardo, ad esempio con l'Orchestra Filarmonica di Torino di cui è direttore principale ospite?
Il tratto comune è l'interessarsi a cosa facevano, cosa mangiavano, di cosa godevano i contemporanei di quel compositore, ossia entrare in un gusto e in uno spirito: qual era il contesto, come veniva recepito un brano, come gli esecutori dell’epoca lo suonavano, cosa era per loro rottura e cosa tradizione e di tutto questo cerco di fare una "traduzione sonora".
Lei ha un ruolo chiave negli studi musicologici vivaldiani: qual è lo stato dell'arte?
Con il convegno veneziano del 2007 - momento storico della musicologia vivaldiana degli ultimi anni - Peter Ryom si è ritirato lasciandomi la "patata bollente" del catalogo vivaldiano: dico così perché il musicologo danese ci ha lavorato dal ’68 a quell’anno senza far trapelare nulla tra un aggiornamento del volume e l’altro. Potevano quindi passare 15 anni senza notizie ufficiali, cosa che io, in accordo con l’editore Breitkopf & Härtel, ho deciso di cambiare, pubblicando un bollettino annuale con le revisioni del catalogo. Una sorta di glasnost vivaldiana! 
Lei ha anche un ricco catalogo come compositore (molte partiture sono disponibili su IMSLP) e il suo ultimo CD (recensito sul numero 263 di MUSICA) è un raffinato esercizio di stile alla maniera barocca: ma che senso ha oggi, non è un modo ingegnoso di sottrarsi ad un linguaggio contemporaneo?
Sarebbe un discorso molto lungo. Compongo da quando ho 11 anni, è una mia necessità interiore, e ho scritto tantissima musica, sia seguendo linguaggi contemporanei che à la maniére de: detto che non esiste un linguaggio contemporaneo, ma tante strade possibili, mi rendevo conto che la mia esigenza principale era di parlare ai miei contemporanei in maniera intelligibile. E se ogni volta mi creo un linguaggio che non è universalmente riconoscibile, mi precludo questa possibilità, mentre la koiné barocca funziona, veicola ancora emozioni, e mi è familiare. La domanda "che senso ha scrivere in una lingua morta" è lecita, ma ha maggior valore, per me, se questa lingua emoziona, comunica qualcosa.
Cosa distingue il suo complesso Modo Antiquo dai tanti, italiani e non, che frequentano lo stesso repertorio?
Non mi piace fare confronti, né vorrei fare nomi di colleghi, ma la caratteristica principale, che poi coincide con la mia visione estetica, e l'aderenza non già al testo scritto - che nella musica barocca non è mai completo o esaustivo - ma a quella congerie di informazioni che vengono dalle branche più differenti, dalla pittura alla poesia, ai resoconti di viaggio. Insomma, l'attenzione al contesto, che produce esecuzioni più pulite, più classiche, aliene dall'effettismo facile.
Ma tutto il coté tagliente e caustico del vignettista e dell’autore del Vernacoliere in qualche modo finisce nella sua attività di musicista?
Sono due mondi completamente separati, quando dirigo al massimo faccio qualche battuta con l'orchestra, né mi metto a fare vignette su Vivaldi. Ma fare ridere in musica è difficilissimo e, forse, anche inutile.

intervista di Nicola Cattò ("Musica", n.267, giugno 2015)

sabato, marzo 30, 2013

Tricentenario di Vivaldi: la poetica


Antonio Vivaldi (1678-1741)
Nessun periodo musicale come il barocco racchiude in sè la fusione completa di due elementi contrari e apparentemente inconciliabili quali sono la razionalità geometrica e l'irrazionale fantastico e simbolicamente analogico. Questo matrimonio impensabile è dovuto principalmente al seguente motivo: con il sorgere dello stile barocco la soggettività dell'artista acquista una dimensione espressiva e sociale emergente, che si delinea con maggior chiarezza rispetto a quanto accadeva nel rinascimento e mostra i tratti inconfondibili dell'irripetibilità. Ci troviamo, insomma, già di fronte alla figura dell'artista moderno con la sua consapevolezza interiore, con il suo non inserirsi nel ciclo produttivo delle istituzioni sociali: questi fenomeni, verificatisi talvolta anche nei secoli precedenti per quanto concerne le arti figurative e la letteratura (si pensi solo a Dante e Michelangelo), non sono tuttavia ancora corredati da una vera indipendenza economica del musicista, da una sua libertà professionale che prevarrà solo con il Romanticismo.
Il musicista del periodo barocco e pertanto condizionato da un complesso retaggio di tradizioni rigorosamente dedotte dall'alto, che in termini musicali e in senso traslato portano a stemperare la ormai pronunciata soggettività creativa in un linguaggio di stampo nettamente geometrico (allusivo di un "ordo ordinans" cosmico) e spesso ispirato a contenuti religiosi.
Tale dialettica, insita nella musica barocca, fra esuberanza creativa individualistica e retaggio filosofico-culturale dell'epoca, parrebbe poter imbrigliare l'estrinsecarsi dell'energia creativa, ma la prodigiosa alchimia del barocco è riuscita a cogliere da entrambe le fonti i presupposti per la propria consacrazione: è l'irrazionale creativo che si serve del razionale per assecondare la propria natura.
Mirabile accordo, questo, se considerato in chiave psicologica, fra le strutture più consapevoli e concettualmente filtrate della ragione da una parte e il flusso incontrollato e totalizzante dell'inconscio dall'altra.
Anche lo stile vivaldiano accoppia il rigoglio fantastico al nitore del disegno geometrico, ma ciò avviene con minore esasperazione speculativa e intellettuale ascetismo di quanto capiti, ad esempio, in Bach (esito estremo e punto di riferimento ineludibile di tutto il barocco musicale e, probabilmente, non solo musicale). L'emotività in Vivaldi è meno filtrata, meno protesa a cogliere sempre ovunque un decreto trascendente, ma più incline a far trasparire l'immediatezza cromatica dei sentimenti, le mezze tinte degli stati d'animo, che in Bach sono appena avvertibili dietro l'impassibile intreccio dei pensieri e la malinconia assorta dello sguardo.
La poetica vivaldiana, infatti, trae molti spunti creativi (al contrario di Bach) dalla componente naturalistica del barocco (quasi superfluo ricordare qui le "Quattro stagioni", non unico esempio del genere) ed è proprio per questo motivo che dal linguaggio di Vivaldi promana, come costante stilistica, un pulsante fermento espressivo, il quale pare essere sempre sul punto di spezzare il giro della frase melodica per dare vita a una lievitazione inventiva quasi sciolta da ogni vincolo timbrico e musicale. Questa latente ed implicita intenzione vivaldiana, cosi incotltenibilmente esuberante, di ridurre il fatto musicale ad una trasmissione pressoche esclusiva di impulsi inventivi (che in termini musicali si traducono in impulsi ritmici e ininterrotta germinazione melodica) corrisponde, in sostanza, e con diverse valenze caratteriali, all'analoga tendenza bachiana verso la riduzione del fatto musicale a una dimensione ontologica, esistenziale e di conseguenza anche teologica.
Appare dunque qui in modo esplicito la fondamentale differenza e in un certo senso complementarità della sfera bachiana e di quella vivaldiana: per quanto entrambi i musicisti pervengano alla formazione del proprio stile espressivo secondo i canoni classici del linguaggio barocco (il quale si fonda in primis su di una concatenazione geometrica di segmenti melodici per costruire l'intera frase musicale), l'uno - Bach - dispone il proprio linguaggio come struttura portante di un mondo, elemento costitutivo di una dimensione esistenziale, mentre l'altro - Vivaldi - atteggia implicitamente la propria arte quale delirante ornamentazione di strutture preesistenti.
Infatti il mondo veneziano in cui Vivaldi si muove è talmente articolato in termini culturali, architettonici e umani (ivi compreso il relativo cosmopolitismo di Venezia, centro primario per gli incontri intellettuali e gli scambi commerciali), da permettere al nostro musicista di fondarsi su di esso e divenirne l'espressione musicale più completa e definitiva. Al contrario i1 ben più chiuso e  introspettivo mondo bachiano (In Turingia e la Sassonia intrise di rigore morale protestante) sembrava suggerire a Bach la necessità di una autofondazione e di una autodeterminazione mediante un immenso sforzo costitutivo, che poggiasse su centri inamovibili e inalienabili. Si potrebbe quasi dire, per concludere questo paragone a distanza, che se per Vivaldi il fare musica crea modalità d'cspressione, per il Kantor di Lipsia si trattava invece di una improrogabile "conditio sine qua non" di vita e di realizzazione esistenziale, prima ancora che artistica.
I1 mondo e i criteri interpretativi della musica di Vivaldi sono oggi divisi, in Italia, in due opposte e metaforiche fazioni, che si spartiscono anche, più o meno, il mercato discografico vivaldiano: i Musici e i Solisti Veneti.
Mentre i Musici (che incidono per la Philips) tendono a sottolineare la fusione omogenea delle prospettive timbriche e del discorso strumentale, giungendo ad offrire un Vivaldi armonioso, levigato, raccolto, ma forse un po' troppo unidimensionale, i Solisti Veneti (che incidono per la Erato francese, distribuita in Italia dalla RCA) sono inclini a porre in risalto le angolature prospettiche dei diversi colori timbrici e una maggiore indipendenza (compatibile, è ovvio, con la riuscita sincronia dell'insieme) delle singole voci strumentali e del loro decorso melodico. L'interpretazione che ne deriva e cosi più brillante e nervosa, forse più moderna, pur senza eccedere in virtuosismi inutili e senza accusare difetti nella resa dei tempi lenti di Vivaldi, i quali sono sintomatici - nel vibrante contrasto con la frenesia dei temi veloci - dell'intenso e fondamentale rapporto fra la psicologia vivaldiana l'atmoafea di Venezia.
Solo chi è stato a Venezia infatti, specie se fuori dalla stagione turistica e lontano anche dalle ore del febbrile brulichio umano, ha potuto vedere da dove prende origine la disperata poesia di Vivaldi, assai più struggente di quanto non voglia far credere il luogo comune sulla spensierata allegria di questo individuo solitario, luogo comune ingannevole, alimentato dal florilegio delirante del suo ritmo, dalla pulsazione incontenibile di molte sue melodie. In verità si tratta di un estremo tentativo per animare il silenzio stagnante della laguna, l'immobile esalazione di quel mondo appena lambito dal fruscio mormorante di acqicioni, le ombre evanescenti delle cupole, dei ponti e la luce tremula delle lampade notturne.
Oppure i grandi spazi di Torcello, il suo silenzio secolare protetto dal fresco recinto delle mura romaniche, l'immobilità perenne del suo cielo, l'orizzonte a perdita d'occhio e nessuna traccia di un divenire umano, nessun segno dello svolgersi del tempo.
Ma forse l'immagine più consona all'arte di Vivaldi si ottiene in una giornata di sole invernale, stando seduti sui gradini dte, si profilano le cupole, si inseguono le linee, si compongono i volumi, si associano gli effetti e l'occhio si confonde nel fluire pietrificato dei marmi, nel loro levigato sovrapporsi, come fasce di un cosmo tolemaico. Sotto, presso ai gradini, a tracciare con questi un instabile confine, l'invito a perdersi in seno all'indistinto, il richiamo al profondo dell'inconscio che le acque ci lanciano sfiorandoci, mentre il labile sussurro persiste ad ascendere, con regolare ondeggiamento, un paio di gradini per quindi ritrarsi e scoprire un lembo di mondo sommerso, una frazione di mistero.
Tanto poco intercorre, in tutta Venezia, fra i prodotti definiti della mente e le emanazioni dell'inconscio, quanto poco separa le progettate strutture dell'arte dal grembo sognante delle acque, che si infiltrano nei canali, fra le case. La creatività di Vivaldi soggiace interamente a questa dinamica, sembra quasi abbandonarsi a essa: cosi si spiega la coesistenza, nella sua musica, di struggente malinconia e trabocchevole vitalità.

Paolo Fenoglio, Gina Guandalini e Michele Chiadò ("Musica", anno 2, ottobre 1978)

domenica, agosto 19, 2012

Il tesoro nascosto di Vivaldi

Antonio Vivaldi (1678-1741)
Il tesoro nascosto di Vivaldi ricerche sul musicista veneziano nel tricentenario della nascita Studi.
Nell'immensa opera restano delle ombre.
Solo con la riscoperta del fondo di manoscritti custoditi nella Biblioteca Nazionale di Torino la figura del grande compositore è emersa dall'oscurità.
Tra gli interrogativi: i melodrammi che egli disse di aver scritto.


"Adì 6 Maggio 1678. Antonio Lucio figliolo del Signor Giovanni Battista quondam Agustin Vivaldi sonador et della Signora Camilla figliola del Signor Camillo Calicchio sua consone nato li 4 marzo ultimo caduto, qual hebhe l'acqua in casa per pericolo di morte dalla comare allevatrice madonna Margarita Veronese, hoggi fu portato alla Chiesa, ricevè l'essorcismi et ogli santissimi". Questo l'atto di battesimo estratto dai libri della Chiesa di S.Giovanni in Braserà a Venezia e reso noto nel 1965 da uno studioso inglese. Emil Paul. La scoperta del documento ha finalmente chiarito due elementi biografici di rilevante interesse: il momento della nascita e le cagionevoli e precarie condizioni di salute in cui Vivaldi si trovò dal primo istante di vita (si da essere battezzato ipso facto dalla levatrice), condizioni che giustificano la cronica «strettezza di petto» (l'asma bronchiale) che afflisse il musicista sino al momento della morte, avvenuta, in circostanze non ancora chiarite, a Vienna, il 26 o 27 luglio del 1741.
Quello della data di nascita è forse il più importante fra i ritrovamenti che in questi ultimi anni hanno arricchito le scarse e frammentarie notizie biografiche raccolte intorno alla figura del «prete rosso». Il secolare oblio disceso sui fatti della vita e dell'arte di Vivaldi dopo la sua morte disperse con irriverente facilità quegli elementi della storia e del giudizio che oggi gli stusiosi si affannano, fra mille stenti, a ricomporre in buon ordine.
E' possibile, tuttavia, che cogliendo l'occasione celebrativa dei trecento anni di nascita si giunga a delineare un quadro più preciso e più attendibile della complessa personalità di Vivaldi, sacerdote che prestissimo rinunciò ad esercitare il magistero, virtuoso ed educatore di musica, impresario teatrale, maestro dei concerti all'Ospedale della Pietà, compositore fecondissimo onorato ai suoi tempi in tutta l'Europa e destinato a rappresentare il momento più geniale dell'Italia musicale settecentesca, almeno sul fronte della produzione strumentale d'insieme.
La rinascita vivaldiana - e per ognuno dei grandi del passato musicale esiste una renaissance che ha una propria storia e un proprio apparato di memorie rigenerate e di esplorazioni avventurose - è recentissima ed in parte subordinata alle indagini che la musicologia tedesca compì, a cavaliere fra Ottocento e Novecento, sulla forma del concerto strumentale. Ma è solo con l'acquisizione del grande fondo vivaldiano alla Biblioteca Nazionale di Torino che la figura di Vivaldi doveva finalmente emergere dall'oscurità sino a rivelare, nel vorticoso turbinio di rivolgimenti critici di cui era protagonista e vittima l'interpretazione della storia musicale, un caso clamoroso di musicista prima ignorato persin da chi faceva professione di studioso e poi divenuto popolarissimo protagonista del mercato discografico e dell'attività concertistica.
Il fondo vivaldiano confluito nella massima biblioteca torinese occupa 27 tomi di un complesso di oltre 700 ora riuniti sotto le denominazione Foà-Giordano, ma inizialmente raccolti dal conte Giacomo Durazzo (1717-1794). ambasciatore della Repubblica di Genova a Vienna ( 1749-1752) e poi consigliere e direttore generale degli spettacoli presso la corte imperiale, sempre a Vienna (1754-1764), al tempo in cui Gluck stava per realizzare la sua riforma del melodramma. Successivamente il Durazzo fu ambasciatore della corte viennese presso la Repubblica di Venezia (1764-1784).
Con ogni probabilità, la raccolta degli importanti manoscritti fu iniziata a Vienna e poi ordinata a Venezia: lo potrebbe testimoniare l'ex libris in forma quadrata recante lo stemma nobiliare e la scritta Conte G. Durazzo A.C. (A.C. Ambasciatore Cesareo, cioè imperiale) che compare su molti volumi della raccolta. Come e quando il Durazzo sia entrato in possesso dei manoscritti vivaldiani (parecchi dei quali autografi) è ancora un mistero: certo, si tratta di musiche che giacevano negli archivi dell'Ospedale della Pietà, giunto alla fine del Settecento ad un pauroso stato di decadenza.
Morto il Durazzo, la raccolta passò al nipote Girolamo Durazzo, ultimo doge della Repubblica genovese (1739-1809) e successivamente al nipote di questi, Marcello (1770-1848) che lasciò in eredità la cospicua biblioteca al figlio Giuseppe Maria (1805-1893). Alla morte di quest'ultimo, il fondo fu diviso in due parti fra i figli: l'uno, Marcello, donò poi la propria al Collegio Salesiano S. Carlo di Borgo S. Martino (Alessandria): l'altro, Flavio, tenne presso di sé la sua quota, trasmettendola infine al figlio Giuseppe Maria.
L'unità del fondo venne ricostituita soltanto negli anni Venti del nostro secolo, quando Alberto Gentili (professore di storia della musica all'Università di Torino) venne a conoscenza che la parte del fondo toccato all'istituto salesiano stava per essere smembrata e venduta sul mercato antiquario. I due tronconi della raccolta, per farla breve, furono acquistati dagli industriali torinesi Roberto Foà e Filippo Giordano, i quali ne fecero dono alla Biblioteca Nazionale di Torino, rispettivamente nel 1927 e nel 1930, in memoria dei loro giovani figli, Mauro e Renzo, prematuramente scomparsi.
Nei 27 tomi vivaldiani «torinesi» sono contenute complessivamente 318 opere strumentali, 20 melodrammi, 30 cantate, 1 oratorio, 2 serenate sceniche, 47 arie e 64 composizioni sacre. E' su questo corpus che principalmente si è lavorato per ridare a Vivaldi un volto e una dimensione (molte altre composizioni, naturalmente, sono sparse in altre biblioteche europee, fra le quali è doveroso segnalare quella di Dresda, che conserva un centinaio di opere strumentali).
Cataloghi, biografie, studi critici si sono moltiplicati in un quarantennio, mentre si è provveduto anche alla pubblicazione delle opere strumentali: con l'eccezione delle più recenti scoperte, le edizioni Ricordi hanno pubblicato, fra il 1947 eil 1972, l'intero corpus strumentale in 530 fascicoli, in massima parte curati da Gianfrancesco Malipiero; della musica vocale sono disponibili a stampa una trentina di composizioni, mentre ancora in alto mare è il problema editoriale per quanto concerne le opere teatrali (un solo melodramma, La fida ninfa, è stato edito in partitura), il settore meno noto della produzione vivaldiana. Proprio su quest'ultimo aspetto creativo si appunterà verosimilmente l'attenzione degli studiosi in quest'anno vivaldiano nel tentativo di chiarire molti interrogativi, il primo dei quali riguarda l'effettivo impegno del compositore, che in una lettera degli ultimi anni vantava una produzione di 90 melodrammi contro i 45 a noi noti (più una serie di opere dubbie).
L'impressionante prolificità dimostrata da Vivaldi, nonostante le non brillanti condizioni di salute che sempre travagliarono il musicista, ha messo a  dura prova la pazienza degli studiosi, impegnandoli in un prodigioso gioco di rimbalzo: da un lato si trattava d'indagare sul musicista per stabilire un catalogo delle opere, e dall'altro lato, con un procedimento inverso, si trattava d'inventariare le musiche per raggiungere la verità sul musicista. A questa impresa si sono accinti i primi studiosi vivaldiani: Olga Rudge (1939 e 1941), Mario Rinaldi (1945) e specialmente Marc Pincherle (1948), autore di esemplari studi sul maestro veneziano, ancor oggi validissimi.
Sono poi venute altre catalogazioni (quella più corrente, adottata dalle Edizioni Ricordi, è opera di Antonio Fanna, fondatore dell'«Istituto Italiano Antonio Vivaldi», che ha riassunto le proprie fatiche in un catalogo, delle opere strumentali pubblicato nel 1967), mentre ad un inventario analitico del fondo Foà-Giordano ha provveduto Piero Damilano (1968). Contemporaneamente sono venuti gli studi di Remo Giazotto (1965, rifatto nel 1973) e quelli fondamentali di Walter Kolneder, autore di più volumi e saggi culminati in un volume sulla vita e le opere edito nel 1965.
Intanto sorgeva a Bruxelles un «Centre International de Documentation A. Vivaldi», mentre in anni più recenti prendeva corpo la creazione di una «Société Internationale A. Vivaldi» con sede a Hellerup (Copenaghen), presieduta da Peter Ryom (la società pubblica un bollettino di studi. Vivaldi Informations). A Ryom si devono le più recenti acquisizioni in fatto di catalogazione e classificazione delle opere vivaldiane: un volumetto di Table de concordale des oeuvres (1973) che mette a confronto le varie numerazioni e consente l'individuazione delle singole opere sulla base delle varie classificazioni; un catalogo tematico vero e proprio (Verzeichnis der Werke, 1974), edizione ridotta di un più ampio e dettagliato catalogo: un imponente volume di descrizione e analisi critica dei manoscritti (Les Manuscrits de Vivaldi, 1977), di circa 600 pagine. La classificazione del Ryom (abbreviata con le lettere RV=Ryom-Verzeichnis) è di quelle destinate a rimanere nel tempo per la precisione e il rigore scientifico che la caratterizza.
Ancora una volta si deve constatare l'apporto fondamentale arrecato agli studi vivaldiani dalla musicologia straniera: è alle analisi e alle indagini di Rudolf Eller, Klaus Beckmann. Reinhard Strohm. Michael Talbot — per citare alcuni nomi — che si devono i contributi di maggiore interesse storico, solo in parte controbilanciati dall'applicazione di un Adriano Cavicchi o di un Francesco Degrada.
Nel volgere di due generazioni la materia si è infiammata sotto l'urto dei conflitti critici: dalla esplorazione periferica e in superficie si è pervenuti al centro del problema, alla rappresentazione e percezione della dimensione storica del musicista, non più considerato come un'isolata presenza culturale (e, per assurdo, si è voluta configurare una contrapposizione dialettica, in sé inesistente, fra Vivaldi e Bach, in quanto esponenti singolari di due diverse concezioni della musica) ma inteso nel contesto del suo tempo, scosso dalle correnti che muovevano il mondo musicale del primo Settecento e animato dai fermenti che ancora agitavano l'ultima fase della civiltà veneziana.

Alberto Basso ("La Stampa", 4 marzo 1978)