Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 31, 2015

Iannis Xenakis

Iannis Xenakis: Diatope (Centre Pompidou Paris)
Il 4 febbraio di quest'anno (2001) è scomparso uno dei musicisti contemporanei più celebri, alla stregua di Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen. Un musicista, ma anche un teorico e un ricercatore puro che, ponendo alla base di tutte le sue articolazioni compositive il pensiero matematico, si avvicina nel modo di operare più a quello di un filosofo della scienza che a quello caratteristico degli artisti, uomini capaci di creazioni istintive, attratti da una ricerca estetica alle volte dichiaratamente fine a se stessa.
Si tratta di Iannis Xenakis, una figura singolare di uomo e di compositore che incarna quella di architetto della musica. Una caratterizzazione che è stata attribuita a molti grandi autori del passato (da Bach a Brahms a Schönberg), ma che nel caso di Xenakis aderisce in modo particolare, non solo per essere stato architetto dello spazio costruito, collaborando per dodici anni nello studio parigino di Le Corbusier durante le sue prime esperienze come autore di un nuovo genere musicale, ma soprattutto per la tendenza ad impossessarsi di uno stile demiurgico attraverso la speculazione sul concetto di simmetria, sull'idea delle masse e dello spazio-tempo.
La sua formazione sociale e culturale avviene negli anni della guerra civile greca, a cavallo degli anni Quaranta, nel clima impetuoso del Politecnico di Atene ove si delinea una personalità tormentata per la quale l'interesse politico non solo si configura come una sorta di necessità, ma trova alimento nel senso più profondo dell'essere greco e così le avventure spesso tragiche legate agli scontri in piazza, cruenti e feroci, si fusero alla lettura maniacale e parossistica della Repubblica di Platone e ad un neopitagorismo alle volte dilagante, soprattutto nella seconda fase della sua vita.
Xenakis quindi era tra i componenti dell'Atelier di Le Corbusier dagli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Egli è menzionato nel Modulor 2 come autore di studi sui pans de verre ondulatoires collegati alle ricerche musicali messe in pratica nella sua prima opera per orchestra Metastasis; si trova nell'elenco dei collaboratori dello studio di rue de Sèvres che Jean Petit elabora per il suo libro su Le Corbusier; è figura centrale nel rinnovato interesse per le esperienze legate allo stretto legame tra architettura musica e matematica.
Coloro che presentano Xenakis come un greco antico capitato nel mondo moderno si avvalgono di un'immagine forse un po' romantica, nella quale tuttavia si individuano i tratti di interessi mai sopiti e che nel nostro secolo furono sottolineati anche da Matila Ghyka che nel suo libro sulla Sezione Aurea afferma che una certa cultura greca, quella forse più esoterica dei Pitagorici, attraversa la cultura occidentale come un fiume sotterraneo.
Nello studio di rue de Sèvres scorreva questo fiume e qui alla fine del 1947 il giovane Xenakis incontrò un humus fertile per le sue ossessioni compositive. In particolare le lezioni del maestro sui tracciati regolatori, sullo spirito matematico del Modulor e sul contrasto tra l'armonia della natura e l'intellettualismo delle regole si fusero con gli studi che in musica egli andava sperimentando sulle masse sonore, sulle loro variazioni regolari ed irregolari, sul rapporto aureo applicato alle scale di variazione dimensionale dei singoli elementi costitutivi delle composizioni.
Quando, all'inizio del 1956, la Philips contattò Le Corbusier perché progettasse il padiglione per l'Esposizione Universale di Bruxelles, Xenakis aveva già fatto l'esperimento della forma grafica dei glissando che descrivevano alcune trasformazioni continue dello spazio sonoro con Metastasis, l'opera per orchestra già precedentemente ricordata, che a sua volta era stata fortemente influenzata dalla lettura lecorbusieriana della scala proporzionale derivante dalle successioni di Fibonacci associate all'applicazione del rapporto aureo.
La prerogativa più evidente delle riflessioni lecorbusieriane in merito alle proporzioni armoniche è quella di mostrarsi cosciente del fatto che insistere sul carattere iniziatico, alle volte magico-rituale, del numero aureo non sembrava coerente con l'interesse scientifico ad esso collegato, quello, in particolare che consentiva di elaborare una griglia geometrica alla base della quale stabilire norme dimensionali per l'unità abitativa votata alla prefabbricazione.
Questo atteggiamento razionale - più coerente con il ragionare in termini matematici - sembra avvicinare ancora di più la figura del maestro di rue de Sèvres all'allora giovane musicista che, bisogna ricordare, non era ancora esploso in questo campo, ma si muoveva con grande indipendenza negli ambienti più estremi della ricerca contemporanea, mondi nei quali peraltro si agitava lo stesso Le Corbusier, i cui interessi nelle varie forme dell'espressione artistica erano sempre vivi.
Tra gli oggetti a reazione poetica progettati nello studio di rue de Sèvres, il padiglione Philips pare riassumere gli intenti più schietti, liberato dalla stereometria rigida degli angoli retti e dal platonismo dei volumi puri.

La forma deriva dalla contaminazione dell'idea iniziale della bottiglia con gli studi matematici di Xenakis sui conoidi iperbolici.
Fu nel mese di ottobre del 1956 che egli ricevette da Le Corbusier l'incarico di tradurre i suoi schizzi attraverso la matematica.
Lo sviluppo di questa idea in forma architettonica passa attraverso un processo compositivo per il quale è difficile affermare se la struttura matematica proceda o preceda l'immagine. Certamente vi si ravvisano momenti altalenanti di prevalenza dell'una sull'altra che sono raccontati nel libro Musica. Architettura
che riserva un intero capitolo a questa esperienza progettuale.
Per il momento solo il cemento è all'origine della nuova architettura. Esso prepara il letto in cui le materie plastiche di domani formeranno il fiume ricco di forme e di volumi racchiusi non solo nelle entità biologiche ma soprattutto delle matematiche più astratte.
E' l'affermazione di Xenakis al termine della lunga e dettagliata dissertazione sul Padiglione Philips.
Questa singolare aventura compositiva conforta la tesi che alla base di taluni eventi architettonici, forse quelli che celebrano in modo più completo l'iter che va dall'idea come pura astrazione alla sua realizzazione, sono i concetti il cui sviluppo è possibile attraverso l'intervento della matematica, perché:
... alcuni rapporti tra musica e architettura sono molto semplici da intuire confusamente, delicati da precisare e definire, e non è impossibile metterli in dubbio, poiché tutto ciò che è estetico è incerto. Ma a me sembravano clamorosi. È chiaro che musica e architettura sono entrambe arti che non hanno bisogno di imitare le cose; sono arti in cui materia e forma hanno tra loro un rapporto più intimo che altrove; l'una e l'altra si rivolgono alla generale sensibilità. Entrambe ammettono la ripetizione, mezzo onnipotente; entrambe ricorrono agli effetti fisici della grandezza e dell'intensità, con cui possono stupire i sensi e la mente sino all'annichilimento. Infine, la loro rispettiva natura permette un'abbondanza di combinazioni e sviluppi regolari che le collegano o le confrontano con la geometria e l'analisi.
La logica innovativa introdotta da Xenakis non riguarda solo un nuovo modo di affrontare il problema della costruzione delle strutture compositive, che esplicitamente rimanda a ragionamenti "antichi", ma presuppone la conoscenza e l'intuizione profonda da parte dell'architetto e del musicista delle nuove teorie legate al problema delle simmetrie. Non più e non solo caratterizzate da regolarità geometriche alle volte fin troppo evidenti, ma viste come parte sia della teoria dei gruppi che del calcolo delle probabilità; così sarà più facile intendere l'asimmetria come un'estensione della simmetria e più in generale, nel campo della speculazione probabilistica, affermare che anche il caso non si improvvisa.
Non esisterebbe quindi quella libertà totale alla quale il termine asimmetria, usato spesso in sostituzione della parola irregolarità, sembrava alludere, perché oggi sappiamo che anche questa ultima non presuppone necessariamente l'assenza di regole. Basti pensare alla vasta produzione di musica aleatoria, al decostruttivismo e a tutti quei fenomeni compositivi nei quali la forma caotica risulta essere il traguardo di una ricerca paziente e transeunte sulla condizione attuale del cosmo.
Già negli anni Cinquanta Xenakis sviluppava pensieri del genere e si interrogava innanzi tutto su cosa fosse una regola in composizione, se fosse possibile, per contrasto, produrre qualcosa in musica o in qualsiasi altro campo in totale assenza di regole, ovvero in maniera assolutamente libera.
Stravinsky insisteva sul fatto che per fare della musica sono necessarie le regole, lo stesso Xenakis affermava meno di dieci anni fa di essere convinto che
Bach, Beethoven o Bartók quando scrivevano le loro composizioni facevano dei calcoli, sia pure relativamente semplici. Si trattava di calcolare, disporre secondo un dato ordine, compiere delle operazioni di organizzazione intellettuale, ma al di fuori di questi calcoli ci sono le decisioni che intervengono per fare in modo che quei calcoli siano più o meno evidenti, scompaiano momentaneamente in un gioco di ellissi e ritornino.
L'idea cardine della composizione che in tal modo si configura risulta essere una specie di contaminazione tra il pitagorismo dei numeri e la dialettica parmenidea, se analizzata dal particolare punto di vista di Xenakis di una classicità prossima ventura, così la necessità, la causalità, la giustizia si confondono con la logica e, poiché l'essente nasce da questa logica, il puro caso è impossibile quanto il non essente.
Le operazioni attraverso le quali Xenakis trasferiva formule, concetti e simboli matematici nelle sue composizioni erano sempre dettati da un'opzione filosofica. Immerse nel clima sfuggente delle sue ipotesi sul mondo e guidate da un forte desiderio di astrazione, le sue opere impongono il passaggio dal calcolo delle probabilità alla logica formale, fatto che segna anche una sorta di recupero della matrice matematico-filosofica del neopositivismo logico novecentesco. La composizione non è dunque solo una metafora di percorsi logici, ma una loro rappresentazione proiettata ora nel mondo dei suoni, ora in quello degli spazi, oppure nei due universi all'unisono attraverso quelle complicate strutture di luce, spazio e suoni che sono i Politòpi, vere e proprie architetture sonore nate dalla convergenza della memoria dell'immagine fisica del Padiglione Philips, delle speculazioni teoriche su quella che viene definite come una nuova plastica sonora e dal ricordo del rumore dei bombardamenti nelle campagne dell'Attica, nel cielo notturno "striato dai riflettori della difesa antiaerea e dalle linee segmentate dei proiettili traccianti. ... ".

In queste spettacolari rappresentazioni, coinvolgenti tutte le sfere della percezione, lo spazio architettonico è concepito per contenere in posizioni stabilite altoparlanti e proiettori di luce che interagiscono vicendevolmente e le cui emissioni sono diffuse dalle pareti interne con studiati e alle volte mutevoli effetti sul pubblico rispetto alla sua casuale distribuzione.
Si trattava di installazioni architettoniche effimere, facenti parte della sperimentazione sulla continuità strutturale, perseguita attraverso l'applicazione rigorosa di un'idea matematico-formativa. Stesso principio adottato anche nella composizione dei brani musicali che ivi venivano fatti suonare, che alle volte risultano privi di significato al di fuori di questi spazi e che in generale adottano il principio della variazione della densità come costante ideativa, della quale ancora oggi sono da sviscerare tutte le potenzialità creative.
Era inoltre fatta propria la tesi del minimo delle regole, propria dalla legge generale dell'entropia, che alcuni anni fa era molto studiata per le potenzialità espressive nei vari campi artistici, e che conduce direttamente ad una definizione semplice delle composizioni stocastiche.
As a result of the impasse in serial music, as well as other causes, I originated in 1954 a music constructed from the principle of indeterminism; two years later I named it "Stochastic Music". The laws of the calculus of probabilities entered composition through musical necessity. But other paths also led to the same crossroads first of all, natural events such as the collision of hail or rain with hard surfaces, or the song of cicadas in a summer field. This sonic events are made out of thousands of isolated sounds; this moltitude of sounds, seen as totality, is a new sonic event. This mass event is articulated and forms a plastic mold of time, which itself follows aleatory and stochastic laws. If one of then wishes to form a large mass of point-notes, such as string pizzicati, one must know these mathematical laws, which, in any case, are no more than a tight and concise expression of chains of logical reasoning. Everyone has observed the sonic phenomena of a political crowd of dozens of hundred of thousands of people. The human river shouts a slogan in a uniform rythm. Then another slogan springs from the head of the demonstration; it spreads toward the tail, replacing the first. A wave of transition thus passes from the head to the tail … The statistical laws of these events, separated from their political or moral context, are the same as those of the cicades or the rain. They are the laws of the passage from complete order to total disorder in a continuous or explosive manner. They are stochastic laws.
Con l'ausilio dell'elaboratore elettronico a Xenakis fu possibile esplorare il vasto universo delle configurazioni basate sulla variazione di densità sonora, nello stesso modo nel quale si delineano le variazioni di densità materica o spaziale applicando le formule probabilistiche. Ne derivò un'estensione del concetto di entropia per l'introduzione di alcune operazioni selettive all'interno del procedimento statistico, derivanti dalla contaminazione con gli studi a catena che governano tali modificazioni. Si tratta delle cosiddette catene markoviane, esplorate dal matematico russo Andrej Andreievic Markov all'inizio del Novecento e il cui meccanismo costitutivo nelle strutture compositive, così come applicato da Xenakis, è stato diffusamente descritto nel citato testo Musica Architettura, nei capitoli "Tre poli di condensazione" e "Musica stocastica e markoviana".
Lo studio del comportamento fisico dei fenomeni sonori permette allora di conoscere la struttura interna delle densità musicali e di adottarla anche come paradigma compositivo degli spazi ad essi complementari.
A Xenakis interessava un concetto di musica capace di andare oltre i confini della musica, sia attraverso lo sconfinamento in altri mezzi espressivi, come avvenne per la trasformazione degli schizzi grafico-musicali di Metastasis in schemi architettonici per il Padiglione Philips, sia tramite la concezione poliestetica dei Politòpi e dei Diatòpi, sia tramite tecniche, spesso esaltate dall'ausilio dell'elaboratore elettronico, che associano la costruzione grafica (comporre in quanto scrivere una partitura) e la rappresentazione sonora (comporre per la produzione del risultato sonoro).
In ordine cronologico il primo Politopo realizzato fu quello del 1967 per il padiglione francese all'Esposizione di Montréal, consistente in una struttura di cavi tesi all'interno di un grande locale anonimo i cui grafici di studio della geometria descrittiva dei conoidi delle falde di questa struttura, tutta introversa, ricordano gli schizzi preparatori e i modelli in filo e carta realizzati per l'Expo di Bruxelles.
A Persepoli poi l'installazione fu realizzata all'aria aperta: sullo sfondo delle colline che incombono sull'Apadana si stagliavano intricate reti di filamenti luminosi realizzati con fari d'automobile, di luci in movimento comandate da studenti muniti di torce elettriche che descrivevano percorsi casuali, in un clima festoso e di happening coerente con lo scadere degli anni Sessanta.
Spettacolo analogo dovette tenersi a Cluny nel 1971
, ove il politopo fu installato all'interno delle terme romane, commissionato dal direttore del Festival d'Automne di Parigi, Michel Guy, che inizialmente intendeva chiedere a Xenakis un'opera lirica moderna. Qui le ragnatele di luce si materializzavano come tracce variabili di spirali e arabeschi luminosi sulla volta delle terme ed erano prodotte da 600 flash elettronici lampeggianti in una successione di 1/25 di secondo, comandati da una serie numerica predeterminata al calcolatore che riproduceva la musica su un nastro digitale.
Lo spettacolo richiamò migliaia di spettatori perché là ove la critica musicale si trova spiazzata dall'estremità stilistica come anche dalla polivalenza dell'opera - e più ancora dai misteri matematici della sua concezione, dalle raffinatezze tecnologiche della realizzazione scenica e dagli effetti combinati di luce e suoni - il pubblico si lascia guidare dalle sensazioni entrando solo così in perfetta sintonia con il messaggio di Iannis Xenakis che è sempre stato il giovane ateniese in piazza ai tempi della guerra civile, l'apprendista stregone della fucina lecorbuseriana, permeabile solo apparentemente alle meraviglie del nuovo e invece, come si è visto, affascinato e interessato solo dalle logiche più antiche e in qualche modo immanenti.
Questo Diatopo
sembra riassumere le ricerche iniziate nell'atelier di Le Corbusier e, in definitiva, rappresenta una sorta di conclusione di questa lunga prima fase di lavoro di frontiera fu quella realizzata davanti al Beaubourg, per il quale Xenakis concepì più progetti, ma quello che venne costruito consisteva in una tenda di 1000 metri quadrati di vinile rosso vivo semitrasparente, in modo tale che lo spettacolo fosse visibile anche dall'esterno. Questo guscio ha pressoché la forma esterna, semplificata, del Padiglione Philips e contiene al suo interno la rappresentazione di "la Légende d'Eer", mito tratto dalla Repubblica di Platone che narra del ritorno dal mondo dei morti.
Il mondo antico rivive così in una costruzione nata da una sorta di traduzione matematica del problema strutturale legato originariamente a fini di propaganda tecnologica; la letteratura più antica viene messa in musica con sistemi da alcuni considerati estremi, ma che visti con gli occhi di coloro che si interrogano se sia possibile una sorta di sintesi delle arti, o meglio di tutti i modi dell'espressione, sembrano presentarci Xenakis come quella figura di ricercatore scientifico e paziente che ha finito per stabilire le norme di una strategia compositiva fondata sulla matematica, sulla teoria degli insiemi, sulla logica, ma senza cadere nella trappola di trattare tali principi per se stessi, come puro godimento di un arido intellettualismo.

Alessandra Capanna

sabato, ottobre 24, 2015

XXII Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Venezia

XXII Festival... (1959)
Ma il Festival musicale di gran lunga più atteso svolto durante il terzo trimestre del 1959 (dall'11 al 26 settembre) e particolarmente seguito oltre che dalla Radio, attraverso tutte le sue manifestazioni, anche dalla Televisione Italiana, limitatamente ad alcuni dei suoi spettacoli, fu quello veneziano dedicato alla musica contemporanea e giunto quest'anno alla sua ventiduesima edizione. Offendo un programma ricco come mai nel passato, il XXII Festival Internazionale di Musica Contemporanea presentò venti composizioni in prima esecuzione assoluta, tre opere teatrali anch'esse in prima rappresentazione assoluta, quattordici lavori in prima esecuzione in Italia, e, oltre a tutti questi, ripropose composizioni contemporanee ormai classiche ed altre ancora non più nuovissime ma di attuale interesse.
Nel concerto sinfonico d'inaugurazione, diretto da Sanzogno a capo dell’Orchestra del Teatro La Fenice, figurarono una novità assoluta e tre prime esecuzioni italiane. Assolutamente nuova la Fantasia per clarinetto e orchestra di Antonio Veretti, "composta - a detta dell’autore - su di una serie dodecafonica, ma tenendo presente alcuni aspetti della tonalità", riconfermo le doti dl concretezza e il carattere costruttivo della concezione musicale di Veretti, presso il quale la tecnica dodecafonica, lungi dal condurre ad una rottura d’ogni schema formale  e ad un'esasperazione linguistica ed espressiva, si concilia perfettamente con le strutture musicali classiche; 1’ultima delle variazioni che costituiscono la Fantasia è appunto una Fughetta. Gli altri tre lavori, in prima esecuzione italiana, del concerto di inaugurazione furono: Alla memoria di G. B. Pergolesi, recitativo ed epitaffio su testo di G. B. Brezzo per tenore e orchestra di Wladimir Vogel, Musica funebre per archi di Witold Lutoslawski, e il Capriccio per orchestra, soprano e violino di Rolf Liebermann. Singolarissimo l’assunto dell’opera di Vogel di porre in musica un breve cenno biografico del musicista jesino e l'iscrizione di una lapide commemorativa, di per se stessi refrattari ad ogni amplificazione musicale. Il testo della cantata è infatti basato sulla narrazione di alcuni avvenimenti della vita di Pergolesi scritta da Guido Lorenzo Brezzo e riferita da Giuseppe Radiciotti nel 1910, e sopra un epitaffio il cui testo è tratto dalle iscrizioni delle lapidi poste sulla casa natale di Pergolesi e nell’atrio del piccolo teatro di Jesi. Per create una relazione con la musica di Pergolesi, senza impegnare direttamente temi delle opere del musicista, che difficilmente avrebbero potuto inserirsi in un materiale sonoro organizzato secondo il metodo dodecafonico, Vogel basa la serie fondamentale di dodici suoni su alcuni intervalli caratteristici della musica pergolesiana. L'aridità dei testi letterari non impedisce alla musica di Vogel di elevarsi spesso a quel grado di pura liricità che è uno degli aspetti più caratteristici dell’arte sua; la musica segue gli avvenimenti del riassunto biografico, mettendone in rilievo i passi pin significativi e mirando alla immediata comunicazione degli impliciti contenuti sentimentali. La Marcia funebre per archi di Lutoslawski considerato l’esponente di maggior rilievo della musica polacca contemporanea, giungeva a Venezia dopo aver ricevuto il suo battesimo al Festival di Varsavia nel 1958 ed essere stata riascoltata al recente Festival di Parigi. Composizione dedicata alla memoria di Bartok, ricca di fascino e densa di carica emotiva, traduce la sua dichiarata ispirazione in termini dodecafonici. Nel Capriccio Liebermann ha pienamente realizzato l’intento di "congiungere una sonorità chiara, di grande trasparenza, con una espressività di carattere lirico". Portatrice dell’elemento lirico è la voce del soprano leggero che si espande in preziosi vocalizzi avvolti dagli arabeschi virtuosistici del violino solista. Per mettere in maggior rilievo questo, Liebermann limita l’organico orchestrale agli strumenti a fiato, a due pianoforti, alla percussione e ai contrabbassi. Ottimi solisti nei lavori di Vogel, di Lieberrnann e di Veretti il tenore Herbert Handt, il soprano Margherita Kalmus, il violinista Anton Fietz e il clarinettista Giacomo Gandini.
Anche il concerto dell’orchestra "Philharmonia Hungarica" di Vienna diretta da Antal Dorati presentò tre prime esecuzioni italiane e una novità assoluta. Questa consistette negli Studi per un "Homunculus" di Roberto Lupi, ispirati all’Homunculus goethiano "quale antenato dei prodotti speculativi della cultura d’oggi". Musicalmente l’Homuncu1us si presenta come serie dodecafonica, mentre le sue esperienze, sulla traccia del dramma di Goethe, si descrivono attraverso nove pezzi, che sono altrettante variazioni sulla serie stessa. Ispirata al suggestivo paesaggio della pampa argentina è invece la pastorale sinfonica Pampeana terza di Alberto Ginastera, che fece seguito nel medesimo concerto all’introversa composizione di Lupi. Il lavoro di Ginastera tende invece alla chiara esternazione di sentimenti nati al cospetto dello spettacolo della natura, e perciò, pur imperniandosi anch’esso sopra una serie dodecafonica, non rifugge, all’interno di questa, di trarre partito da alcuni rapporti tonali. I Tre pezzi per violoncello e orchestra di Matyas Seiber, in prima esecuzione per l’Italia, compresi come l’opera precedente di Ginastera e la Sinfonia n. 1 di André Jolivet nel concerto di Dorati, piacquero per il loro sapiente sfruttamento delle risorse dello strumento solista - valorizzato anche in virtù dell'interpretazione del violoncellista Amaryllis Fleming - non disgiunto da un profondo contenuto espressivo. La Sinfonia di Jolivet costituisce senza dubbio uno dei saggi più cospicui della sua arte, ponendo in rilievo i caratteri essenziali che il compositore parigino è venuto sviluppando fino ad oggi nella sua musica: violenza dinamica esercitata attraverso un alto virtuosismo strumentale, come appare specialmente nel primo (Allegro strepitoso)e nell’ultimo tempo (Allegro corruscante), e senso del magico e dell’esoterico suscitato attraverso l’attenta decantazione del timbro e spesso ricorrendo a procedimenti della musica orientale (vedi il secondo tempo, Adagio misterioso).
Degli altri tre concerti sinfonici del Festival l'ultimo, diretto da Leonardo Bernstein, fu quello della New York Philarmonic Orchestra, la quale, in tournée attraverso l’Europa, venne ad eseguire a Venezia, insieme ad un anodino Second Essay op.17 di Samuel Barber, composizioni contemporanee ormai largamente note, quali The Age of Anxiey dello stesso Bernstein, The Unanswered Question di Ives e la Quinta Sinfonia di Sciostakovic. Ma i concerti maggiormente attesi furono indubbiamente i due dell’Orchestra Sinfonica di Roma della Radiotelevisione Italiana diretti da Scaglia e da Maderna, soprattutto perché in essi facevano comparsa alcune delle produzioni degli esponenti più qualificati della nuova generazione musicale.
Il concerto diretto da Maderna s’aprì coi gradevolissimi Impromptus 1-4 di Nicolò Castiglioni, attenti ad esaurire in brevi at
timi effetti sonori raffinati ed eleganti. Pure in prima esecuzione assoluta seguì, agli Impromtus di Castiglioni, la cantata Vor einer Kerze per contralto (solista Sophia van Santen) e orchestra di Boris Porena, su versi di Paul Celan, opera di ottima fattura che sembra segnare la conversione, non si sa se provvisoria, dalla tonalità alla tecnica seriale del giovane compositore romano. Lavoro di una personalità artistica ormai pienamente matura si rivelò invece la Composizione per orchestra n.2 (Diario polacco '58) di Luigi Nono inclusa anch’essa nel concerto di Maderna, e nuova per l’Ita1ia; in questo Diario momenti di lirica stasi si alternano a momenti di dinamica veemenza, andamento tipico nella musica strumentale del compositore veneziano qui rivissuto nell'umana partecipazione d’una realtà in storico e dialettico divenire. Accanto alle composizioni di questi giovani Maderna presentò in prima esecuzione assoluta: Forme sovrapposte di Mario Peragallo, Musica per archi ("Meloritmi") di Roman Vlad, e un Concerto per pianoforte e orchestra op. 30 di Hans Erich Apostel. Quest’ultimo di stretta osservanza schönberghiana, suono alquanto prolisso e accademico; di ingegnosa concezione costruttiva si dimostrarono invece i Meloritmi di Vlad, mentre in Forme sovrapposte Peragallo fece valere ancora una volta la sua brillante inventiva entro uno stimolante assunto compositivo; fondare il gioco e la costruzione musicali sulla mutevole combinazione di elementi strutturali, per così dire, prefabbricati.
Due giovani furono pure eseguiti nel concerto diretto da Scaglia: Aldo Clementi
e Flavio Testi, attivi ambedue a Milano sebbene assisi su posizioni estetiche lontanissime fra loro, anzi diametralmente opposte. Impegnato nella più avanzata problematica seriale, ch'egli sviluppa con assoluta intransigenza senza nulla concedere all’effetto fine a se stesso, Clementi in Episodi, già vincitori d’un secondo premio nel recente concorso internazionale della SIMC ed eseguiti nel gennaio del 1958 alla Radio di Bruxelles sotto la direzione di Maderna, s’impone per certa castigatezza di suono e di stile scabra e rude, schiva di qualsiasi compiacenza, e perciò coerente nel risultato e nell’impegno morale. Al contrario Testi, presente con la prima assoluta di un Concerto per violino, pianoforte e orchestra stupendamente eseguito dal duo Gulli-Cavallo, cerca la propria coerenza, che pure ottiene, nella consequenzialità d'un discorso accessibile a tutti in virtù d’una sintassi e di certe moderne locuzioni musicali ormai di dominio pubblico; Testi insomma impiega una sorta di linguaggio musicale di senso comune depositato soprattutto dall’eredità di Bartok, ma appunto, in questo Concerto, la sua insistenza mostra talvolta di sottovalutare le capacità recettive dell’ascoltatore, e di sopravalutare la sua pazienza. Di ispirazione bartokiana (e soprattutto nel tempo centrale) anche la Fantasia (Concerto) per pianoforte e orchestra di Martinu, il musicista cecoslovacco recentemente scomparso qui correttamente interpretato dalla solista Margrit Weber, e compreso nel medesimo concerto accanto ai giovani Clementi e Testi, e insieme ad altre prime esecuzioni italiane, quali l’insipida Suite dal balletto "Prométhé" di Maurice Ohana, l’arcadica Egloga ("La nouvelle Héloise") per arpa (Solista la brava Maria Selmi Dongellini) e orchestra d’archi di Alexei Haieff  l’efficace, anche se un po’ troppo esuberante, Ballata op.23 di Gottfried Einem.
Einem comparve con i Fünf Lieder op.25 anche in un concerto da camera del baritono Hermann Prey, proposto, secondo l'intenzione del programma, entro un arco di sviluppo storico del Lieder tedesco che da Hugo Wolf (alcuni degli Eichendorff-Lieder scelti dal primo e dal secondo volume), passando per Wo1fgang Former (Vier Gesänge nach Vorten von Hölderlin) giunge, attraverso lui, a Hans Werner Henze, che chiudeva il concerto con le poetiche Cinque canzoni napoletane da un testo anonimo del XVII secolo. I concerti da camera non ci riservarono del resto novità, se si eccettuano tre decorativi Nuovi valzer per due pianoforti di Vittorio Rieti, impeccabilmente eseguiti in un recital dal
duo Gold-Fizdale insieme al Concerto, ai Cinq pièces faciles e e alla Sonata di Strawinskj, e a quella di Poulenc del 1955. L’asco1to in questa sede di alcuni classici della musica nuova fu tuttavia utilissimo proprio per ricondurre il giudizio sulle novità all’interno di una prospettiva storica; assai opportuno perciò fu il concerto di musiche da camera dedicato ad Alban Berg, cui presero parte il Quartetto Vegh, interpretando il Quartetto op.3 e la Lyrische Suite, e l'orchestra da camera del Teatro La Fenice col violinista André Gertler e la pianista Diane Andersen, sotto la direzione di Luciano Rosada, eseguendo il
Concerto per pianoforte, violino e tredici strumenti a fiato. Neppure nuovo ai più, anche se veniva eseguito per la prima volta in Italia, fu il Livre pour quatuor, di Boulez, risalente al 1949, interpretato dal Quartetto Parrenin in un concerto misto di musica elettronica di Pousseur, Maderna e Ligeti. Altra musica elettronica di Haubenstock-Ramati, Boucourechliev, Koenig, Zumbach, Evangelisti e Berio, si ascoltò in un concerto straordinario.Ma i maggiori richiami del Festival furono costituiti dalle manifestazioni a carattere spettacolare. Non diciamo del programma di danze e canti de1l’India eseguito dagli artisti de1l’Asian Music Circle, di natura piuttosto specialistica, ma delle Feste veneziane sull'acqua e di Giuochi e favole per bambini, entrambi trasmessi anche dalla Televisione Italiana, e soprattutto, sotto l'aspetto particolarmente musicale, le tre opere teatrali in un atto di Berio, Bruni-Tedeschi e Negri.
Feste veneziane sull'acqua furono un tentativo di rievocare le sontuose feste della Serenissima lungo i secoli XVI, XVII e XVIII in occasione di fauste ricorrenze, o in onore di illustri personaggi, oppure semplicemente per divertire il popolo. Se la manifestazione riuscì mancata dal lato spettacolare a causa dell'insufficiente regia di Filippo Crivelli, che non seppe fondere in superiore sintesi i vari ingredienti musicali, scenici e coreografici, fu grato tuttavia riascoltare le stupende musiche di Andrea Gabrieli, del Cavalli, del Partenio, del Galuppi, del Venier e del Marcello dirette da Umberto Cattini; e comunque Feste veneziane sull'acqua 
lasciarono intravvedere la possibilità di dar vita a una sorta di grandiosa féerie dell’arte, del costume e della storia veneziana, che, risolta in un’armonica totalità spettacolare da una direzione sensibile e capace, potrebbe costituire ogni anno anche un innegabile richiamo turistico.
Ottima invece la riuscita di Giuochi e favole per bambini a cura di Luciano Folgore, rappresentati al Teatro La Fenice con la regia di Enriquez e la direzione musicale di Gracis: nove brevi scene musicate da Ghedini (Girotondo), Tansman (Gli abiti nuovi del re), Mortari (Le lettere dell'alfabeto), Rota (Lo scoiattolo in gamba), Franci (Comica finale), Porrino (La bambola malata), Nabokov (Balletto), Henze (L’usignolo dell'imperatore) e Di Majo (Nardiello). Di tutte nettamente migliore quella di Henze per la penetrazione poetica della psicologia infantile attraverso un'acuta caratterizzazione timbrica.
Aspettativa vivissima era riservata alle opere in un atto Il Circo Max di Gino Negri e Diagramma circolare di Bruni-Tedeschi, e all'azione mimica Allez hop! di Luciano Berio, tutte anch’esse rappresentate in prima assoluta al Teatro La Fenice. Pur estremamente dissimili nella concezione e nel linguaggio, esse rivelano un carattere comune determinato dal loro enuclearsi in forme che, per un verso o per l'altro, non si offrono compiute e definitive, ma si dispongono a soluzioni possibili. Nel Circo Max tale senso di aperta disponibilità consiste nell'impressione di precarietà e di provvisorietà che proviene dal carattere estemporaneo dell'invenzione e del1'e1aborazione
musicale, e da una materia direttamente condizionata dagli interessi contingenti dell'attualità mondana. Per Negri la musica conta prima di tutto in quanto valga a dar voce ad un’ispirazione o ad un rifiuto d'ordine morale, ed egli lo dimostrò con questa sua operina, che più irriverente nei confronti della musica colta e della sua classica tradizione non si potrebbe immaginare. La validità del Circo Max è infatti tutta nel gesto della profanazione ("profanazione in un, atto" l’intitola appunto l’autore) che in esso si compie dei monumenti di Bach, Mozart, Beethoven, Brahms, ecc., mettendone i temi in bocca ai tipici personaggi da rotocalco e sposandoli alla loro satira, la quale è condotta al limite di questo contrasto, eppure fa centro in virtù d’un gusto musicale tanto più prezioso quanto più si regge su una materia volutamente squallida.Su un piano completamente diverso si pongono Berio e Bruni-Tedeschi, nei cui lavori l'apertura alla quale abbiamo accennato è invece suggerita dagli argomenti, che non si esauriscono nella loro chiusa vicenda, ma descrivono od alludono a processi continui circolari le cui deduzioni o soluzioni sono rimesse allo spettatore. Ma in Allez hop! si verifica parzialmente anche una particolare poetica oggi al centro degli interessi di quella che Guido Maria Gatti ha recentemente definito la "nouvelle vague" della musica contemporanea. Tale poetica, detta dell'"opera aperta", consiste nel proporre, nella composizione, non delle forme compiute, ma una molteplice possibilità di relazioni formali, che gli esecutori sono chiamati a risolvere liberamente, secondo tuttavia, l’orientamento razionale già suggerito in quelle proposte. La poetica dell’"opera aperta" ha già dato frutti cospicui nel campo della musica da concerto ed elettronica, con composizioni dello stesso Berio, di Stockhausen, di Pousseur, di Boulez, per limitarci a nominare i maggiori; oggi essa si avvia in opere come questa di Berio o come in quella di Paccagnini (Le sue ragioni), rappresentata recentemente al Teatro delle Novità di Bergamo e di cui riferiremo nella nostra prossima rassegna, a riformare in varie guise, seppure in modo non ancora radicale, anche le consuetudini del teatro musicale. In Allez hop! rapporti "aperti" di questo genere, cioè di libera reciprocità interpretativa, si dànno fra l’esecuzione musicale e il movimento di scena nel primo e nell’ultimo dei sei brani che compongono l’intero lavoro, il quale propone allo spettatore d’oggi una parabola arguta e non ermetica di significati ideata da Italo Calvino.
Quanto all’azione drammatica di Brani-Tedeschi, il processo d’apertura diviene esplicito in scena attraverso la presenza di un conferenziere che illustra il diagramma circolare donde trae il titolo l’opera; diagramma che appare suddiviso in sei parti, ciascuna delle quali esprime una diversa congiuntura economica, una dall’a1tra generata e tutte riunite in un circolo chiuso e totale. I sei settori sono: produzione, superproduzione, crisi, dittatura e armamenti, guerra, rovina. Al suo termine il ciclo ricomincerà ineluttabilmente da Capo. L'assunto di Bruni-Tedeschi in Diagramma circolare trova esatta corrispondenza nello stile musicale, quale il compositore torinese è  già venuto sviluppando fino alla Messa per la missione di Nyondo, cioè fondato su chiare strutture architettoniche, ma anche aperto alla suggestione patetica. In Diagramma circolare l'affiorare ora dell'uno opera dell'altro aspetto segue ed ordina armonicamente il decorso didascalico dell'azione drammatica.
 
Piero Santi ("L'Approdo Musicale", n.7-8, Anno II, Luglio, Dicembre 1959) 

sabato, ottobre 03, 2015

I paesaggi sonori di Italo Calvino

disegno di Adriano Zannino
"Italo era intimidito dalla musica", scriveva Luciano Berio nel 1988. Ancora. oggi, a trent’anni dalla scomparsa di Calvino (1923-1985), la sua opera letteraria e forse una delle più musicali nella letteratura del secolo appena trascorso per la polifonia dei livelli di lettura dei romanzi e racconti, e il suo percorso creativo può essere paragonabile a una "architettura musicale" fatta di prospettive assai varie, di costruzioni proporzionate e armoniche. Il tracciato - a volte labirintico - del suo percorso narrativo sembra., inoltre, acquisire con il tempo caratteri sempre più musicali e può essere letto perfino come progressivo avvicinamento alle forme della musica; cosi le allusioni debussiane di Se una notte d'inverno  un viaggiatore o gli echi bachiani delle Variazioni Goldberg in Palomar. Dal "timore" per la musica, dalla (inconscia) affiliazione con forme musicali e architetture sonore e, non ultimo, dalla collaborazione diretta con il grande amico Luciano Berio, nasce tutta una rete di rapporti con l'arte musicale, ancora oggi da indagare. Lo studio comparato del rapporto letteratura/musica. - quel particolare momento in cui nel terreno fertile dell'opera letteraria viene immessa la componente sonora - risulta per noi, dunque, particolarmente interessante proprio perché ci permette di fare luce sull'evoluzione del suo percorso di narratore.
Già Elio Vittorini affermava, infatti, che l'arte di Calvino si sviluppa in due vie: da un lato gli scritti "realistici" del periodo '52-'63 (come La speculazione edilizia, La giornata d'uno scrutatore, Marcovaldo) che, rinunciando al gusto avventuroso della narrativa giovanile, appaiono grigi e asciutti nella sostanza e nel linguaggio; dall'altro, le "storie degli antenati" (come la "trilogia araldica" de Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, o come il racconto senza tempo Un re in ascolto) che non sono affatto fiabe, ma allegorie, cioè strumenti interpretativi per eccellenza del mondo che ci circonda. La compresenza delle due soluzioni ci permette di indagare la realtà da due prospettive, entrambe nel segno di un'acuta, aspra e ansiosa intelligenza; da qui si sviluppa l'u1tima fase dell'attività di Calvino, da Le città invisibili a Palomar, con il mutevole sperimentalismo e il sapiente uso delle tecniche più varie, talvolta con la perizia di uno scienziato, talvolta con una disinvoltura che rasenta la parodia.
Parallelamente al doppio approccio letterario e nella ricerca di una nuova prospettiva musicale, si possono indicare due "tragitti musicali" indispensabili, e di straordinaria modernità nell'arte di Calvino (lucidamente individuati nei preziosi Studi di Roberto Favaro): l’uso del paesaggio sonoro (o soundscape) e la riflessione sull’ascolto e sulla psicologia uditiva, entrambi affiancati da considerazioni sulla società, sui generi musicali, sull’architettura dello spazio sonoro, sulla musicalità della lingua.
Nel momento in cui lo scrittore trasforma i suoni reali (di natura o artificiali) in "suoni di carta" (quasi "evocati" dalla scrittura), l’opera letteraria costruisce in sé un autentico paesaggio sonoro, fatto di carta, allusioni, inchiostro: un’autentica partitura di suoni e rumori che si offre, anche all'interno della narrazione, come evento privilegiato per l'ascolto. Ma accade che il suono, proprio per il suo "essere nel tempo", tenda, nell’opera letteraria, a farsi memoria. Il suono di natura (pensiamo alla lezione pascoliana) non è, infatti, presenza viva ma traccia della sua assenza, del suo morire grammatizzandosi: nel momento in cui la "voce del mondo" è cristallizzata nella forma linguistica, lo scrittore porge al lettore l’estrema testimonianza della morte di quello stesso mondo che gli è vicino. Ed è cosi che nascono le "partiture naturali" de Il barone rampante (1957), in cui il giovane barone Cosimo Piovasco di Rondò - che sceglie di vivere sugli alberi in seguito a un futile litigio domestico - è capace ora di udire, nel silenzio del (suo) mondo, suoni e rumori di cui aveva perso ormai memoria e che ormai erano estranei, "morti" alla percezione degli altri uomini: "era il mondo ormai a essergli diverso [...] c'è il momento in cui il silenzio della campagna si compone nel cavo dell'orecchio in un pulviscolo di rumori [...] a ogni levarsi o scorrer via del vento, ogni rumore cambiava ed era nuovo. Solo restava nel cavo più profondo dell’orecchio l’ombra di un mugghio o murmure: era il mare".
Non diversamente, fm dalle prime righe della novella Un viaggio con le mucche, decima delle venti che compongono il libro per ragazzi Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), Calvino indaga, sotto l’attento sguardo della propria scrittura, la tematica del paesaggio sonoro: "i rumori veri della città notturna si fanno udire quando a una cert'ora l'anonimo frastuono dei motori dirada e tace, e dal silenzio vengon fuori". Tuttavia la stessa novella, che fin dall’inizio si apre "musicalmente" all'ascolto del lettore, ridimensiona nel finale il paesaggio e il lavoro "campestre", proprio perché ormai la stessa natura - come testimoniano i suoi suoni - "è dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale".
Come già detto, la nostra è anche un'indagine sul piano più specifico dell’ascolto: l'ascolto del romanzo è  una lettura attenta e partecipata che riconosce proprio nella scrittura il miglior veicolo per esplorare e rendere "reali" territori sonori, acustici, musicali, virtuali. Proprio Roland Barthes ci ha sensibilizzato all’ascolto della "musica di carta", intesa appunto come ricezione e decifrazione, da parte del lettore, dei suoni presenti nel testo scritto, come azione attiva che ha il potere e la funzione di esplorare terreni sconosciuti. La lettura rappresenta il "1uogo di significanza" in cui avviene una sinestesia psicologica che accomuna impressioni, suggestioni, suoni, colori, immagini, ovvero una indivisione dei sensi psicologici che "accomuna le loro impressioni in modo tale da poter attribuire al1'uno, poeticamente, quanto accade all'altro". Proprio dal saggio barthesiano Ascolto (1976) è nato, per una sorta di proliferazione di idee e di stimoli, il racconto Un re in ascolto, terza parte della trilogia Sotto il sole giaguaro di Calvino, musicato da Luciano Berio nel 1984. La trama è molto semplice: il sovrano di un regno (intagliato sul Prospero shakesperiano) vive aggrappato al trono posto al centro del suo palazzo, terrorizzato dall’idea di essere spodestato. Da lì, solo attraverso l’ascolto dei suoni e dei rumori che lo circondano all’interno e al di fuori del palazzo, ha esperienza della realtà, dei luoghi, della storia, delle azioni che lì si compiono, del passare del tempo, ma anche dei pensieri, dei significati, dei drammi che si agitano nella sua mente e che agitano la sua coscienza. L’apparente immobilità de1l’azione non deve trarre in inganno: il palazzo è una "costruzione sonora" che ora si dilata ora si contrae, che si stringe come un groviglio di catene perché "c’è una storia che lega un rumore ad un altro". Il testo barthesiano ispiratore, che viene qui "narrativizzato" da Calvino, suggerisce, infatti, di poter considerare tre livelli di ascolto: l’utilizzo dei suoni, per avere percezione della realtà che ci circonda; la rappresentazione simbolica dei suoni, che attiva semplici associazioni o sinestesie tra arti diverse; l’ascolto come "ascolto della coscienza", individuabile direttamente con la psicanalisi, ampiamente utilizzato nell’approccio psicanalitico della narrativa moderna.Anche nelle sue opere ultime Calvino pone sintomatica attenzione alla tematica dell`ascolto. Le città invisibili (1972) propongono, sul piano della pura immaginazione fantastica, la possibilità di "vedere" le città che Marco Polo descrive con grande enfasi al Gran Kan dopo il suo lungo viaggio nell'Impero: tutto passa attraverso la sua voce, le sue urla spasmodiche, i suoi gesti che costruiscono mondi, situazioni, momenti di vita vissuta. Ma altra cosa e scrivere delle città. Il divario tra narrazione, scrittura e ascolto diviene qui tematica fondamentale: "Io parlo parlo - dice Marco Polo - ma chi m'ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei campanelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d'avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio".
Infine in Palomar (1983), romanzo sulla ricerca e sull’esplorazione, Calvino cerca di superare, nel paesaggio sonoro del gracchiare dei merli, in cui è spesso e volentieri immerso il protagonista, il livello della casualità organizzata dalla natura, e tenta di individuare anche qui un senso, un ordine, una ragione del caos. La lettura tende, dunque, a svelare il senso del suono paesaggistico, a concepire il silenzio come insieme di suoni mai colti, a scoprire le ragioni profonde di un legame suono/natura ancora tutto da comprendere per 1'uomo moderno. L’inclinazione all’indagine quasi scientifica - tipica dello stile narrativo di Calvino - si spin
ge fino a riflettere sul tema della significazione verbale, del divario tra veste fonica e contenuto delle parole, nel momento in cui l'elevazione del significante a significato acquista interessanti connotati musicali, riferibili all’opera e al pensiero estetico-musicale di Luciano Berio: "Se l’uomo investisse nel fischio tutto ciò che normalmente affida alla parola, e se il merlo modulasse nel fischio tutto il non detto della sua condizione d’essere naturale, ecco che sarebbe compiuto il primo passo per colmare la separazione tra tra che cosa e che cosa? Natura e cultura? Silenzio e parola? Il signor Palomar spera sempre che il silenzio contenga qualcosa di più di quello che il linguaggio può dire. Ma se il linguaggio fosse davvero il punto d’arrivo a cui tende tutto ciò che esiste? O se tutto ciò che esiste fosse linguaggio, già dal principio dei tempi?".
 
di Alessandro Cazzato ("Musica", n.266, maggio 2015)