Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, marzo 01, 2015

Arturo Benedetti Michelangeli: Il pianoforte perfetto

Era divenuto il simbolo dell'arte pianistica dei nostri tempi. Si negava a ogni pubblicità, ma quanto più si celava dietro le partiture tanto più cresceva il suo fascino. Nell'esecuzione cercava di esaurire ogni aspetto dell'opera d'arte. Faceva pensare a un freddo scienziato ma in realtà aveva conquistato l'equilibrio tra ragione e poesia.

Il grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli è morto ieri all'ospedale civico di Lugano. Il musicista, nato a Orzinuovi (Brescia) 75 anni fa, viveva da molto tempo in Svizzera. La scomparsa di Arturo Benedetti Michelangeli priva il mondo non di un grande pianista, specie della quale, nonostante tutto, esistono numerosi esemplari. Ma di colui che ai giorni nostri della stessa arte pianistica rappresenta il simbolo. Per ogni musicista, per ogni musicofilo, per la gente comune, il pianoforte era, è lui. A onta del suo negarsi di decenni all'industria, alla pubblicità, alla stessa popolarità, del suo rinchiudersi come uomo in una fitta ombra donde usciva, e di rado, nella sola veste di musicista. Quanto più si nascondeva dietro quelle partiture pianistiche, quelle opere d'arte cui serviva solennemente da sacerdote, tanto più cresceva il fascino, nel senso etimologico, della sua figura di interprete. E' un vero paradosso, almeno in apparenza, che proprio la devozione il più possibile impersonale alla musica vista come oggetto di culto si trasformi nella causa di un fortissimo carisma personale dell'interprete. Egli viene proiettato prepotentemente in primo piano, l'esecuzione è atto di culto perchè il sacerdote è lui. Un intrico di sensibilità, di disposizioni, di virtù e virtuosismi individuali, da un lato, e di quelle fatalità storiche capaci di forgiarsi gli individui necessari, ne sono la spiegazione. Benedetti Michelangeli appartiene alla razza degli interpreti puri, degli interpreti assoluti, espressione di una sorta di "quaternario" della musica, nel senso di Gottfried Benn: la razza di De Sabata, Celibidache e Karajan, prodotto tipico e obbligato della fase tarda in cui il venir meno dell'impulso creativo concentra tutte le energie vitali dell'arte sull'aspetto ricreativo dell'interpretazione. Esso è divenuto il momento centrale della vita musicale, ormai un immenso umbrarum locus; e si carica di significati e responsabilità che epoche più ingenue e naturali, non ancora passate per le forche caudine del dissolversi del Romanticismo e della crisi del linguaggio artistico del nostro secolo, non avrebbero potuto immaginare. Ecco il terreno di coltura, malsano come sempre avviene per la grande arte, di Benedetti Michelangeli. Questo eccelso dei pianisti ha avuto per la gran parte della sua carriera, e sempre più negli ultimi anni, l'attitudine non a comunicare a un pubblico in modo vivo ed eloquente la sostanza di un pezzo musicale, come facevano gli eredi d'una tradizione umanistica cordiale e severa insieme, per esempio Edwin Fischer, Wilhelm Backhaus, Wilhelm Kempff: ma a voler nel corso dell'esecuzione esaurire ogni aspetto dell'opera d'arte fatta rinascere dalle sue dita, a non lasciarne in ombra il minimo anfratto; in una parola a restituirne quella mitica, forse impossibile, ma sempre inseguita, esecuzione perfetta, esecuzione ideale. Cui non è possibile togliere o aggiungere nulla: la suprema, l'irripetibile, anche se ogni volta, a ogni concerto, ripetuta a prezzo di uno sforzo, di una preparazione e di un sacrificio profondi tanto che possiamo a stento immaginare. E ne nasce anche una lotta del grande Arturo, che ormai s'è lasciato alle spalle gli altri obiettivi, con se stesso, non solo con l'opera di cui sempre più vuole attuare ogni virtualità celata nel mistero della notazione: con se stesso, per l'avventura di raggiungersi, forse di superarsi. Un'arte che per definizione risiede in zone così estreme richiede al suo sacerdote una tensione del pari estrema: non meraviglia che sia capace di distruggere. Senonchè, queste poche e incomplete parole corrono tutto il rischio di dare l'idea di una sorta di scienziato del pianoforte, teso verso una dimostrazione obiettiva e forse arida di un teorema. La colpa è solo delle parole. In modo parimenti approssimativo dirò l'ovvio correttivo che lo scopo dell'indagine di Benedetti Michelangeli era una rivelazione di poesia e di mistero, non una lezione anatomica. Egli rifuggiva dalle plateali esibizioni emotive, dagli eccessi espressivi, e pertanto il riserbo, insieme pudico, aristocratico e classicista del nostro grande musicista venne da taluno scambiato per freddezza: in realtà la delicatezza e la sensibilità delle sue interpretazioni, i chiaroscuri spirituali, le velature timbriche e l'unico equilibrio da lui raggiunto fra ragione e poesia sono gli elementi che l'hanno reso diverso da qualunque altro. E' fatale che un artista siffatto abbia come suo territorio elettivo il grande pianoforte decadente di Debussy e Ravel. Il sogno timbrico dei due compositori che più di ogni altro nella storia hanno esplorato i valori puramente fonici della tastiera e hanno realizzato il piu' vasto spettro dei colori pianistici delle armonie poteva solo trovare la sua massima incarnazione grazie alla tecnica sviluppata da un artista allo scopo di concedere la specifica giustizia a questo stile. L'indagine di Benedetti Michelangeli toccava il peso che ciascun dito della mano, e quindi ciascuna nota di un accordo, con i suoi raddoppi, doveva avere in rapporto all'insieme; e i suoni armonici che se ne generavano (in una bellissima cronaca di un concerto di Bregenz, Maurizio Papini lo descriveva, staccate le mani dalla tastiera, assorto a inseguire gli ipertoni che ancora si sprigionavano dall'ultimo accordo, quasi il suo pensiero li guidasse come le dita i tasti). E quelle cascate di arpeggi dai quali sapeva trarre mille colori diversi; e quelle melodie alitanti su di essi o di tra il loro fluire, differenziate e leggere; e la capacità, davvero unica, di rendere aerea la polifonia pianistica... Il poeta del colore è il Benedetti Michelangeli più noto, diciamo pure più volgarizzato, ed è perciò quello su cui, nella presente triste rievocazione compendiaria, insisteremo di meno. Ancora di più e forse perché ancor più originale, ci era caro l'interprete del grande repertorio classico romantico. In esso, a partire dallo Chopin più elegante, classicista e quasi formalista che si sia mai ascoltato, il nostro genio non considerava nulla come acquisito, allo stesso modo che era miracolosamente capace di riscattare dalla loro fusione subordinata una per una delle note appartenenti alle voci cosiddette di accompagnamento. Allora avevi quelle Sonate di Galuppi e Scarlatti in cui non si trovava più la monotonia della formula compositiva, e quel polittico cromatico, valendo a ricomporre le linee di forza armonico melodiche, chiariva le ragioni della forma, dello stesso processo creativo, più d'ogni patentata indagine. E siamo ancora in un classico aurorale, poco frequentato. Allora avevi quel Mozart in cui la luminosità del timbro pianistico, la perfezione degli accenti, sin nel minimo frammento, ti dava il senso della vertigine: tutto è diventato musica, tanto si può cavare dall'apparentemente facile? Avevi quel Beethoven della Sonata op.111 in cui ti pareva che per la prima volta le variazioni venissero private di quell'alone di utopia che, ora più ora meno denso, sempre le circonda: e poche emozioni potevano pareggiare questa esperienza. Avevi quel Concerto di Schumann in cui la componente onirica era vista come l'aspirazione a un mondo negato di armonia interiore e di bellezza. Ogni tradizione di violenza espressiva era rovesciata. Avevi il Brahms degli Intermezzi, delle Variazioni e, soprattutto, delle Ballate: ove il canto puramente immaginario, assorbito e sublimato in una grande forma di musica assoluta, veniva poi inseguito, snidato nei rivoli di che si compone la polifonia brahmsiana, le voci gravi risonavano quali rintocchi di campana e una sorta di elegia funebre si dipanava con intimità di sentimento ed equilibrio di espressione che la rendevano ancor più struggente. L'aggettivo "funebre" torna di continuo quando si parla di questo artista. A tal punto egli ha coltivato l'isolamento come estetica, attuando in pieno quell'idea di Federico Nietzsche del "pathos della distanza" che la sua stessa vita era non solo, come ho detto, posta in ombra, addirittura assorbita, dalla sua missione artistica, sempre più rarefatta e distanziata nelle manifestazioni. E' come se egli avesse rinunciato del tutto a vivere per consentirsi, attraverso lo studio matto e disperatissimo, quella perfezione, quell'idea del suono come pura bellezza: luce e gioia per gli altri. Ed ecco perché le ultime sue esibizioni davano quasi, con un brivido, l' impressione di assistere a una specie di "nekyia", a un'evocazione postuma: quasi che egli fosse richiamato per la sola durata di un concerto da luoghi e tempi ormai troppo lontani. Così, egli è vissuto in rara coerenza rispetto alla sua visione estetica. Lo stesso "pathos della distanza" egli ha instaurato fra il mondo reale, quello dei concetti e dei sentimenti, e quello dell'arte: pura idea platonica della bellezza, elevata, chiusa in sé, intangibile. La sdegnosa risposta agli orrori del mondo, il rifugio da essi. Quale altra forma d' "impegno" è oggi data a un artista?

Paolo Isotta ("Corriere della Sera", 13 giugno 1995)