Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

Visualizzazione post con etichetta Celibidache. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Celibidache. Mostra tutti i post

mercoledì, giugno 23, 2021

Sergiu Celibidache: Ricordo di un incontro...

Si stava provando, sotto la direzione di Sergiu Celibidache, il "Cappello a tre punte" di De Falla e io dovevo intervistare il celebre direttore d’orchestra rumeno che mi aveva accordato tale privilegio. Sono andata, perciò, nel suo mondo, tra la sua musica, per assistere, prima dell’intervista, alle prove che si tenevano alla Sala Verdi del Conservatorio di Milano. Celibidache si rivolge ai professori con ferma gentilezza: può accadere, talvolta, che la sua voce si indurisca, ma solo quando l’orchestra non lo segue nella interpretazione dello spartito.
Lo avevo trovato un po’ affaticato: infatti, contrariamente al solito, dirigeva stando seduto. La partitura però non aveva segreti per lui e dirigeva a memoria senza perdere l’effetto della più sottile sfumatura relativa alla colorita suite spagnola. Al termine delle prove l’orchestra ha dato segni di stanchezza, ma Celibidache era come rinnovato.
Sono ricevuta nel suo piccolo camerino e subito mi colpisce la sua non comune affabilità e la gentilezza dei suoi modi: non sembra di avere di fronte un grande musicista, ma un vecchio amico.
Tutto in lui è eccezionale: il carattere forte e dolce, il fisico, lo sguardo penetrante, le mani lunghe, morbide e nervose, l’aperto sorriso che gli illumina il volto incorniciato da capelli brizzolati. Mi invita a parlare dando così inizio alla intervista.

D. Lei si considera una eccezione positiva o negativa del nostro tempo?
R. Positiva, perché la mia missione è di chiarire gli errori e le degenerazioni dell'interpretazione musicale.
D. Quale potere pensa di avere sull'orchestra?
R. Penso di possedere il prestigio che viene dal fatto di essere considerato un esperto in materia, un profondo conoscitore dei principi che cerco di realizzare. Dal lato psicologico ho una tale prontezza di riflessi che mi permette il controllo quasi simultaneo di tutte le parti. Io tratto ognuno secondo il proprio temperamento e le proprie condizioni specifiche.
D. Pensa di dirigere con umanità?
R. Certamente: la musica interessa l'essere umano, i suoi limiti e quello che può dare al di fuori di se stesso attraverso la sua sensibilità.
D. Allora, anche in un direttore d’orchestra è necessaria l'umanità?
R. Pensando a freddo è necessaria, ma quando si dirige ci si rende conto se si è o meno nell'umanità.
D. La musica è per lei l’unica via da seguire?
R. No, dal lato personale m’interessa molto di più il Buddhismo.
D. Il Celibidache direttore ed il Celibidache uomo si identificano in una stessa persona? Lei, cioè, dirige com'é?
R. Sì, esattamente.
D. Che cosa ammira più in un uomo?
R. Il carattere, la linea, l'intransigenza.
D. Qual’e il suo difetto maggiore?
R. L’intolleranza.
D. Mi dicono che lei sostiene di aver raggiunto un raro equilibrio interiore: Cosa può dirmi al riguardo?
R. Ho raggiunto un grado di equilibrio stabile e rifletto molto, anche se sono attratto dai piaceri. Il mio simbolo è tuttavia sempre l'intransigenza.
D. Si trova bene in questa epoca?
R. No, leggo del passato, dell’India. Penso che questa epoca sia decadente e materialista ed io sono nemico del materialismo diretto.
D. Cosa cambierebbe se questo fosse in suo potere?
R. Combatterei la bugia, le convenzioni sociali, la politica, tatto quello che fanno gli uomini.
D. Crede lei nell'amore?
R. Sì, ogni giorno ci prova l’esistenza dell'amore.
D. Lei sostiene che ogni musica rinasce nel momento stesso in cui si esegue. E' vero?
R. La musica vive quando la si esegue, ma molto dipende dall'orchestra che è un organismo imperfetto.
D. Lei ha la possibilità di ricreare e di far rivivere la musica: credo che lei cada in contraddizione quando sostiene anche di essere ormai cristallizzato.
R. Non sono cristallizzato perché sono combattivo e cerco sempre di operare.
D. Per me lei dirige con amore: perché tanti si ostinano a vedere in lei l`esibizionista?
R. Per mancanza di musicalità, di competenza e per le profonde lacune di cultura.
D. Perché ama circondarsi di tanta gente?
R. Perché ho raggiunto altezze musicali e cerco di dare agli altri quello che possiedo in me, in quanto pochi hanno idee chiare.
D. Questo, per amore degli altri o per amore di se stesso?
R. Per fare uscire dal buio gli altri e fare rintracciare la verità dentro cui tutti corriamo, ma non per auto-venerazione o come scopritore di nuovi principi.
D. A Siena lei mi ha colpito per la sua semplicità: fa parte della sua natura?
R. Fa parte della mia natura: io non sogno la carriera internazionale, non incido dischi, non partecipo a festivals, non vado negli Stati Uniti ove fanno poche prove: non desidero dirigere in quella nazione.
D. Ho considerato Celibidache al servizio della musica e non la musica al servizio di Celibidache: mi dica qualcosa in merito.
R. Servo la musica che vorrei fosse eseguita come fu creata dall'autore. Putroppo questo, oggi, è andato un po’ perso.
D. Si considera il più grande direttore di questi tempi?
R. No, neppure lontanamente. Ripeto che se in me c’è qualcosa di unico, questo va riferito alla tendenza di eseguire la musica come è stata creata. Nessuno ha raggiunto la perfezione nella identificazione di questi elementi.
D. In quale misura pensa abbia influito, nel suo successo, la sua prestanza fisica?
R. All'inizio della mia carriera, enormemente: il mio fisico faceva presa su tutti e interessava di più il mio fisico che non il mio modo di dirigere. Oggi, molti si sono accorti della mia vera natura. Ad ogni modo quello che faccio e che voglio non è questione del pubblico, ma dei musicisti.
D. Per me lei è un mistero, forse perché non lo conosco a fondo; ma è possibile conoscerla a fondo?
R. Ognuno al di fuori costituisce un problema filosofico per chi lo vuole conoscere a fondo: io non sono mai lo stesso con le persone perché con la gente che amo sono come mi vogliono, con quella che non apprezzo sono il contrario. Nessuno mi ha mai rivelato come sono senza obbligarmi indirettamente. Ma io so di essere enormemente adattabile, ma anche immutabile nelle mie posizioni, per questo, a volte, posso dare una falsa impressione. Sono adattabile perché mi trovo bene sia con i contadini, sia con i letterati.
D. Lei è sincero con se stesso e con gli altri?
R. Sì, sono sincero con tutti.
D. Lei ama la natura, specialmente quella selvaggia: allora lei è un primitivo?
R. Non è l'oggetto dell’amore che rende primitivi, ma il modo di amare.
D. Teme la incomprensione degli uomini?
R. Non la cerco. Da piccolo ero molto strano: fino all'età di otto anni non ho parlato e questo creava una barriera fra me e chi mi stava intorno, ma a quattro anni suonavo bene il pianoforte.
D. Ritiene di essere autosufficiente?
R. Non sono autosufficiente, ma cosciente di quello che faccio o non faccio.
D. Lei parla molte lingue?
R. Si, parecchie, anche se non ho talento ma spirito pratico.

Celibidache ha risposto con sicurezza alle mie domande ed anche le più forti non lo hanno imbarazzato. Ecco un’altra impressione: l’enorme sicurezza che egli ha di se stesso. Celibidache è un uomo perfetto, come è perfetto tutto ciò che scaturisce dalla volontà, dalla serietà, dalla incrollabilità di questo straordinario insieme di musica, di filosofia, di matematica.
Esco dal camerino accompagnata dal suo sorriso e con la convinzione che il mondo di Sergiu Celibidache è limpido come e limpida la sua musica. Sono, altresì, convinta della purezza dei suoi ideali che fa vivere nelle note musicali: è un uomo, un direttore eccezionale, un musicista preparato e completo.
Jolanda D’Annibale
("Rassegna Musicale Curci", anno XL n.1 - gennaio 1987)

sabato, maggio 22, 2021

Sergiu Celibidache: vivere la musica

Monaco, giugno 1987.
La mattina di un piovoso giorno di festa Sergiu Celibidache ci riceve nel suo studio luminoso al terzo piano del Gasteig.
Uno dei massimi musicisti del nostro secolo traccia per Piano Time le grandi linee del proprio pensiero: intransigente ma non intollerante, comprensivo ma senza compromessi, il maestro rivela la propria generosissima apertura per i problemi dei giovani e il proprio singolare, atipico e raro approccio alla musica.
Trascriviamo il suo dire con letterale fedeltà per conservare al dettato tutta la forza di una testimonianza severa, di grande significato morale, artistico e culturale.
Ringraziamo Sergiu Celibidache per la simpatia dimostrataci con l’esclusiva eccezionalità del gesto e per il contributo di idee donato alla nostra rivista.

Maestro Celibidache, lei ha studiato in Germania e la sua formazione è quindi mitteleuropea: il suo approccio alla musica, di carattere fenomenologico, ha riferimenti con il pensiero filosofico di Husserl, di Heidegger?
Certamente: esso ha proprio là, in Husserl, il suo punto di partenza, ma ad un certo momento le vie si separano. In che cosa consista la separazione è un dettaglio che per lei potrebbe essere di scarso interesse.
Non emergendo, in Husserl, esplicite attinenze con il linguaggio musicale, lei ha dunque estrapolato dalla sua filosofia gli strumenti necessari alla formulazione di una particolare visione del fenomeno espressivo.
Non solo io. Altri filosofi tedeschi si sono occupati di questi problemi: si tratta di pensatori che non avevano alcun interesse ad essere riconosciuti, e alcuni addirittura non sapevano di avere scoperto queste cose, penso.
Lei, comunque, ha tirato le somme.
Certamente: io mi sono interessato a tutti coloro che hanno inteso obiettivare il materiale sonoro (a) un fine: quello di studiare il modo in cui il suono agisce sulla coscienza dell’uomo.
E’ dunque una verifica sull'uomo, l’individuo, il fruitore.
Solo quello. Non ci sono teorie: il fenomeno deve essere vissuto, profondamente, vissuto. L’intelletto è impotente.
A questo punto il giudizio estetico relativo all'opera appare scontato, abrogato.
Sì, perché si finisce per allestire scale di valore addirittura ridicole, e quindi sono fuori discussione: Beethoven, questo è importante, è riuscito, con le proprie opere, a creare condizioni attraverso le quali l’uomo giunge alla trascendenza. Ma anche a Bach è stato concesso questo, a Bramhs, e a tanti altri, senza potere affermare chi sia più grande o meno grande di un altro. Verdi vi è giunto malgrado la parola.
Nei suoi programmi convivono infatti Milhaud e Debussy, musicisti che le convenzioni storiche giudicano di differente peso.
Senz'altro, non esiste incompatibilità. Anche Milhaud talvolta è andato oltre il suono e quindi mi interessa.
Le sue ricostruzioni musicali sembrano avere alla base una rigorosa analisi del testo, alla quale è chiamata anche l’orchestra.
Non so se si possa definire analisi: certamente un accurato accertamento delle nostre possibilità che sono, in un certo senso, delle limitazioni nei confronti dell’idea del compositore; noi proviamo, con molte conoscenze tecniche, ad avvicinarci all'idea che lo ha animato.
Il segno è spesso definito costrittivo, inadeguato all'idea.
Io non direi così. Nella musica il segno è solamente piuttosto convenzionale, dato che nessuno sa che cosa sia la musica. Nella musica non c’è nulla di convenzionale, di simbolico, come invece c’è nel pensiero, nel linguaggio, nella scrittura. In musica tutto è einmal, nella sua accezione di “unico”. Una terza è quel dato rapporto di vibrazioni: la cosa importante è che lei possa lasciar agire questa terza su di lei: ciò presuppone l’esistenza di una coscienza limpida, vuota. Invece noi portiamo sempre un pesante fardello sulle nostre spalle, un carico di storia che crea le condizioni della cosiddetta interpretazione, fonte di infiniti, quindi discutibili giudizi. Qualora lei riesca invece a vuotarsi, ad atteggiarsi con la stessa spontaneità di un bimbo nei confronti del suono, lei avrà le stesse reazioni di tutti coloro che assumono il suo stesso atteggiamento nei confronti del fenomeno sonoro. La relazione con il suono, la nostra coscienza di esso, è unica: questo è il problema fondamentale posto dalla fenomenologia.
Quello che si chiama falsamente interpretazione è un elemento che non ha alcuna possibilità concreta di mettere radici nella conoscenza estetica dell’uomo: non esiste in musica interpretazione, si può verificare nel linguaggio, nel pensiero, dove si rintraccia una somma di convenzioni, di astrazioni, di simboli in cui ognuno trova quello che vuole e prende quello che può. Nel suono non è così. Naturalmente il pubblico che si avvicina al fatto musicale non libero, non liberato, appesantito di tutta la sua storia - emotiva e intellettuale - e dell’esperienza, non può riconoscere l’unicità dei fenomeni componenti la musica.
Esautorato il concetto di interpretazione, avanza l'idea, di una lettura oggettiva.
Non esiste né oggettività, in questo senso, né interpretazione...
...ma un’oggettività suggerita dal testo...
...ah no, perché l’oggettività dev'essere intesa nella lezione data da Husserl: intersubjektive Betreffbarkeit (capacità di) incontrarsi nell'altro, reciprocamente; qualora io mi incontri in lei e lei si incontri in me, si verifica l’unica forma di obiettività. Un’obiettività definita dall'intelletto sarà sempre in funzione dell’intelletto che si configura in ciascuno di noi in maniera sempre diversa. Ma la reazione del mondo affettivo dell’uomo al suono è sempre la stessa, è unica. C’è o non c’è: può darsi che il suono non solleciti alcunché nel mondo affettivo di un uomo, ma quando questa relazione si verifica - e il suono venga assunto per quello che è, con spontaneità, in una condizione liberata da tutte le ipoteche di cui parlavamo - la reazione ad esso è assolutamente comune in tutti, senza nessunissima differenza. Ma, vede? Già questa espressione - trovare una differenza, non trovare alcuna differenza - è il prodotto di un processo intellettuale che testimonia il nostro essere fuori la musica: in parole povere, lo ripeto, la musica non ha nulla in sé di intellettuale. Una cosa diversa è il lavoro di preparazione, come lavorare il suono, sapere come articolare un suono con un altro: tutto ciò - e molto altro - non attiene alla conoscenza; ma la spontaneità con la quale l’individuo deve vivere il suono non può assolutamente rapportarsi al passato né al futuro: hic et nunc (sottovoce, tra sé) hier und jetz; proprio così.
Un’espressione come “responsabilità dell’interprete”, perde quindi ogni significato.
Ma quale interprete! Dov'è l’interprete! L’interprete è un ignorante che partecipa ad una storia della musica definita da ignoranti che nulla sanno di queste cose. Ci si imbatte talvolta in situazioni senza senso quando un compositore afferma che un “interprete” ha lavorato meglio di un altro attorno al proprio testo. In che consista ciò è impossibile stabilirlo. Ben altra cosa è, invece, il riconoscimento del compositore secondo cui “non poteva essere meglio di così”; vede? La sua versione - che pure è una interpretazione del proprio testo, frutto e funzione della sua personale esperienza, del suo proprio sapere, della sua personale posizione nel mondo, davanti alla società, tutti elementi aleatori che gli inibiscono una condizione di libertà - si incontra, nel momento unico e irripetibile della ricreazione sonora dell’opera, nelle intenzioni dell’esecutore: ecco allora che si verifica quell'“incontrarsi nell'altro”, al di fuori e al di là di quel disegno oggettivo che diceva lei, ma che oggettivo non è; ecco che io mi incontro nel compositore ed egli riconosce: “non poteva essere diversamente”.
Badi che non è un complimento: si tratta invece della testimonianza di una realtà comune. Naturalmente queste posizioni non hanno oggi alcuna probabilità di essere comprese e accettate: oggi tutto sembra poggiare sul concetto di interpretazione: ma che cos'è l’interpretazione? Io non lo so. Lei può sapere tutto sul tempo, ad esempio, che è un fattore molto relativo nell'esecuzione: ebbene, cosa significa sapere tutto? Il tempo non è una realtà fisica, non è la velocità: il tempo non è altro che la condizione perché la molteplicità dei fenomeni che toccano la mia coscienza possano essere ridotti a una entità da trascendere, dopo essermene appropriato.
Che ruolo ha il dato storico presente nella realtà testuale?
Senz'altro un ruolo irrinunciabile, ma solo nella fase noetica. Ai fini della preparazione occorre infatti conoscere la diversità dei linguaggi, la caratteristica della strumentazione, occorre individuare il gesto appropriato ad un dato testo: ma non accadrà mai che nell'alzare la bacchetta su una partitura di Verdi io penso ai fatti storici che hanno definito la sua figura, hanno condizionato la sua apparizione e la sua personalità. No, a quel punto sparisce tutto. Tutto. Mentre invece la fase noetica - lo ripeto - è sapere, è aggancio al passato e speranza per il futuro: Ma la fase noetica non porta alla trascendenza, possibile solo in quella successiva, quando io mi sono appropriato di tutti i dati disponibili, ordinati dalla noetica, dove non esiste più altro che lo hic et nunc.
Maestro Celibidache, come entra lo Zen nel suo essere musicista, nella sua concezione di u n ’arte che si realizza in un linguaggio occidentale?
Ma la nostra arte non ha, e non è, un linguaggio! Se cerchiamo di definire i termini di un linguaggio, caschiamo un’altra volta nella convenzionalità, nel simbolo. Anche qui occorre fare delle distinzioni; musica pop: perché si chiama musica? Cosa intende lei per musica? E’ impossibile una definizione, se non a costo di ricadere ancora in una dimensione intellettuale. Occorre invece uscire - come ha sostenuto Goethe, ma anche Leopardi - dalla materia, che serve solo a indicare la presenza di una certa sostanza da cui è regolata, dominata: la realtà. Quando l’allievo Zen chiede al maestro che cosa ci sia dietro al pensiero, ottiene, come risposta,“la realtà”. Questo è il senso dello Zen. Il pensiero, la logica, tutta questa costruzione che tanto ci serve, da queste parti, nella vita quotidiana, non porta alla trascendenza. Ad essa ci porta solo la realtà, che non è definibile in alcun modo, anche se tutto ciò che facciamo sembra avere una propria realtà. Ma non si tratta di questo. Anche Goethe, quando definisce l’Urphänomen, il fenomeno originario, primordiale, utilizza una parola, ancora una parola. Ma nello Zen non c’è parola che possa toccare il suo senso profondo. Bene, la musica non è altro che una meditazione Zen, a condizione che si rinunci al pensiero. Se lei pensa alle quattro misure dei corni, ecco, ora entrano i secondi, tre misure al flauto che è troppo alto, non accederà mai alla meditazione; ma se le cose scorrono con fluidità lei esce dal contesto fisico che la lega al suono: suono che è il veicolo che la porterà a quella sostanza indefinibile - che sarebbe la realtà. Il suono, badi bene, e non la musica: la musica non ha nulla a che vedere con il suono; senza il suono la musica non può manifestarsi, ma la musica non è il suono Vede? (sorride) Non abbiamo alcuna chance per entrare realmente nel mondo nel quale viviamo: siamo costantemente fuori...
L’elemento intrigante, maestro, è sempre il segno, con la sua forte pregnanza...
Se lei attribuisce tanto peso la segno, rientriamo nella polemica. I segni sono invece solo tracce di una energia non definibile, sono indicazioni generiche sulla sua strada verso l’energia, che regola, domina tutto. Una cosa diversa, invece, è il suono. Quando il compositore lo ha concepito la sua fantasia era animata da un certo movimento, la cui caratteristica era la relazione fra suono e mondo affettivo: egli ha calato il suono in un linguaggio, se vogliamo, che è poi la scrittura. A questo punto è compito nostro studiare in qual maniera il linguaggio può giungere a esprimere l’unicità dello stato d’animo generatore di questa mediazione.
Un’operazione di estrema difficoltà.
Sì e no. Non si può nemmeno parlare di difficoltà, a ben vedere, poiché se uno lo può fare non c’è difficoltà, ma se non riesce a liberarsi, allora è impossibile.
Quando lei intende, profondamente, allora lei esce dal contesto intellettuale: ma vede? Noi non abbiamo una parola per questa condizione: noi diciamo “intendere”, “capire”, ma questi sono termini che attengono ancora alla sfera intellettuale. E’ invece importante, necessario, potere “vivere” (erleben).
Per lei, maestro, lo Zen è stato una svolta o una evoluzione graduale della sua esistenza?
Si è trattato di una evoluzione graduale. Da giovane ho avuto la fortuna di incontrare a Berlino un maestro buddista che aveva trascorso quattordici anni in un monastero Zen. Io non capivo come, attraverso il Buddismo - che presentava una serie di regole comportamentali e d’arma - si arrivasse praticamente a non pensare; bene, quell'uomo sviluppò in me un interesse particolare per queste cose, ma io non avevo ancora compiuto un’esperienza Zen, e anche se mi era occorso, non ne avevo preso coscienza. Quell'uomo ha influenzato enormemente la mia vita; egli era aperto a tutti gli eccessi nelle cose del mondo: non conosceva moderazione; egli faceva tre volte quello che normalmente si potesse fare, anche nello studio, cui si dedicava con una intensità difficile a credere.Tutto ciò lo conduceva a una fine prevedibile, come una candela accesa alle due estremità; noi si discuteva fittamente sulle cose e i loro aspetti, sugli aspetti e la sostanza. Accadde poi che mi imbattei in un vero monaco Zen. Il mio primo impulso fu di conquistarlo, di mostrargli quanto io fossi addentro a tutti gli aspetti della disciplina Zen; egli ascoltava, ascoltava, sembrava trasparente, nulla rimaneva di quanto io gli andavo dicendo, poiché egli non si soffermava su nessuna mia affermazione. Si limitava a chiedere: "E dopo?" Allora io ricominciavo pazientemente, e con fiducia a parlargli, ma, giunto ad un certo punto, ho avvertito una sensazione di vuoto, come una macchina che, pur col motore in funzione, non riuscisse a muoversi.
Mi resi finalmente conto che a quel livello non c’erano vie d’uscita e gli chiesi:“maestro, com'è?” “Così, come quell'albero” rispose. Mi è sembrato molto, e nello stesso tempo niente. Ma io riflettevo sempre sull'immanenza di qualcosa su cui noi non possiamo avere influenza. Quindi di una realtà. Le ultime conquiste parlano di una energia centrale, ovvero un’intelligenza che tutto guida, ma a me sembra di potere dire più verosimilmente “realtà”, poiché se diciamo “intelligenza” riduciamo la questione a una dimensione umana. Che ci sia un ordine cosmico, non c’è dubbio; e che nell'ordine cosmico la speculazione intellettuale non trovi posto a nessuna attribuzione, è normale.
Forte di questa consapevolezza ho proceduto nell'avvicinamento ai significati più alti della disciplina. Ma subito, ricordo, chiesi dove si potessero trovare libri ad hoc, ed egli mi rispose semplicemente: “Lì”, indicando il mio cuore. Solo lì. Qual è una prima conclusione? Sullo Zen non si può dire nulla. E’ stato scritto molto - i tre libri di Suzuky, tutti i libri di Yashimara, gli insegnamenti di un maestro di successo, a Parigi - ma vanamente: lo Zen non si può insegnare. Ognuno di noi ha fatto, senza saperlo, innumerevoli esperienze Zen: lei entra in una sala, vede una persona e subito sente una certa affinità con essa. L’errore affiora quando noi, soggetti intellettuali, cerchiamo di capire in che consista questo feeling: noi intendiamo sapere sempre “cosa è”, intendiamo trovare sempre un oggetto per il pensiero: qui si esce dallo Zen. Lei mi chiede di parlare dello Zen, ma questo mi meraviglia un poco, poiché tutto quello che io faccio non è altro che Zen, praticato nella vita di tutti i giorni. Un concerto riuscito è una meditazione. Vede? Quanti libri sono stati scritti sulla meditazione? Su ciò nessun libro può dire una sola parola. L’unica definizione è quella tramandataci dal sanscrito: “Om, cui non pensare, è la meditazione.” Non pensare... dove Om, sillaba magica, solenne, indica l’origine dell’universo. Non pensare...Vede? Può sembrare difficile... ma tutti i mistici affermano che tutto ciò che l’uomo può pensare, certamente non è Dio. Bene, ora noi troviamo l’applicazione di questi sacrosanti principi nella vita di un uomo come Gesù, impegnato a indicarti in quale direzione devi andare per dimenticare il mondo e conquistare la realtà. Realtà, raggiunta con l’abbandono di ogni pastoia, di ogni costrizione, limitazione. Ma cos'è la realtà? La scienza la vuole definire dividendo e suddividendo: dall'atomo, oltre l’atomo: ma dividendo non si arriverà mai a una cosa che non sia divisibile. Qual è l’operazione contraria? Non certo la sintesi: l’uomo per sua natura non può fare che una sola cosa alla volta: l’uomo ha una coscienza che lo induce a ridurre la molteplicità delle cose che quotidianamente deve affrontare, all'unità; se ne appropria per essere libero e disponibile alla prossima riduzione, per la prossima trascendenza. Tutto il nostro divenire è sottoposto a questo processo. Cos'è una definizione? E’ una limitazione della generalità. A che corrisponde? Alla natura dell’uomo che - one pointedness - non può fare se non una sola cosa alla volta e che passa da una cosa all'altra con una vitalità e rapidità eccezionali.
Cos'è una legge? Una restrizione. Cos'è una equazione matematica? Una riduzione: Ma cos'è la musica? La musica è la possibilità offerta all'uomo di trascendere gli stati d’animo che il suono può provocare. Con ciò egli conquista la libertà, poiché se il suono gli ha provocato uno stato d’animo, ed egli non sa uscirne, egli non è libero.Anzi, sarà sempre più preso da numerosi successivi stati d’animo, suggeriti da altri episodi, ed egli non potrà viverne la realtà se non sarà libero.
Sono certo che lei, nel corso dell’esecuzione di Tod und Verklärung ha vissuto una condizione di trascendenza, pur non avendone preso coscienza. Vede? La generosità e la simpatia con cui lei si è aperto, quando me ne parlò, non erano provocate da quella che di solito si definisce “interpretazione”, o suggerite dalla sua cultura o dalla sua storia personale: erano invece l’emanazione di un processo trascendentale. Soltanto attraverso questo processo lei ha potuto identificarsi in me, trovare in me quello che ha trovato in se stesso. Lei infatti non disse “è bello”, che è un giudizio, che quindi va trasceso.
Il più alto, il più profondo complimento che mi si possa fare è dirmi: “E’ così, maestro”, “è la realtà”, “essere’’. Troppo spesso invece ci si smarrisce in definizioni, in giudizi...
Tornando un poco alla sua attività, quali sono i criteri di scelta del suo repertorio?
Non sono sempre personali: devo prendere in considerazione ad esempio le esigenze della città, le attese del pubblico. Io intendo programmare la Sinfonia n°12 di Sostakovic, ma il pubblico non ha ancora sentito alcune cose di Brahms, di Weber, per fare due nomi. Come vede si tratta di problemi di natura piuttosto pratica. Noi intendiamo fare il più possibile, indagare uno spettro il più vasto possibile.
Anche per questo lei rinuncia a Beethoven, un autore non molto frequente nei suoi programmi?
Non è assente. C’è da dire che molte sue sinfonie si offrono a un’orchestra di dimensioni ridotte. Noi siamo un’orchestra romantica, enorme: centotrenta esecutori; non c’è orchestra al mondo che suoni Bruckner come avviene con i Münchner...
...la fama dell’Ottava Sinfonia di Bruckner con cui lei ha inaugurato il Gasteig, ha fatto - senza dischi - il giro del mondo...
Eh, ma vede, noi dobbiamo fare la Prima Sinfonia, la Seconda, la Quarta, l’Ottava di Beethoven, che richiedono un organico piccolo; noi non evitiamo Beethoven, ma disponendo di questo strumento straordinario, siamo certamente più aperti a un repertorio che possa valorizzare la caratteristiche di quest’orchestra, e, devo dire, che ha cambiato la sua carta di visita nel mondo.
Lei ha ottenuto con altre orchestre - dal 1963 al 1971 ha lavorato assiduamente con l’orchestra della Radio svedese - risultati rapportabili a quelli realizzati con la Filarmonica di Monaco?
Certamente no. L’orchestra della Radio svedese era un organico rispettabile che però non aveva la profondità di suono dei Münchner, inoltre io non ho mai avuto la possibilità - non c’erano limitazioni di motivo fisico di lavorare come avrei desiderato: non sono mai stato direttore stabile dell’orchestra svedese, ma sempre solo direttore invitato: non ho mai fatto più di due periodi di tre settimane oltre a qualche tournée...
... lei richiede abbondanti tempi di prova...
...certamente, si tratta della fase noetica, quanto attiene al sapere, alla conoscenza, l’aggancio con il passato, al recupero degli stili, alla cultura che ha informato lo scenario in cui è nata una data opera: tutto richiede tempo, tempo fisico... dodici prove! Vede? Il programma che ha udito lei ieri è giunto alla settima prova, ne sono previste altre quattro, e infine la generale...
...i risultati sono evidenti
Questo non lo so, comunque io non posso fare altrimenti.
Lei ha un rapporto molto concreto con i suoi allievi: lei si dedica intensamente - lo ha sempre fatto - all'attività pedagogica e formativa. Che bilancio trae da questa attività?
Piuttosto negativo, purtroppo. Contro di noi congiurano le ristrettezze economiche in cui tutti, io compreso, ci muoviamo.
Seguire un corso - lei capisce- significa spostarsi, finanziarsi, provvedendo a tutto ciò che occorre lontano da casa. Insomma è difficile per tutti noi. Inoltre c’è la tragedia del giovane direttore il quale è l’unico musicista che studia non su uno strumento, ma davanti a un’orchestra che è già formata, con le proprie caratteristiche psicologiche. Egli è assolutamente disarmato, diversamente da chi siede davanti a un pianoforte e, nota dopo nota, con pazienza e con illimitate possibilità di tempo, conquista stadi sempre più avanzati. Ma il direttore come può? Questo giovane, dal momento in cui sale per la prima volta sul podio, deve affermarsi contro lo scetticismo dell’orchestra, scettica per definizione davanti a un giovane. Chi filtra dalla severa selezione? Colui che ha una volontà di ferro, colui che ha un temperamento estremamente duro; ma non ci sono garanzie che costoro conoscano anche la musica. La caratteristica delle nuove generazioni dei direttori è l’ignoranza! Non la mancanza di talento. Vede? Tutti coloro che oggi hanno un ruolo nella conduzione del mondo hanno talento - ma conoscenza: zero!
Cos'è la conoscenza? L’apporto di una ricca analisi noetica. Analisi assolutamente necessaria, poiché prima di lasciare che il suono abbia tutta la sua influenza su di me, io devo imparare a lavorare sul suono.
Quali sono i suoi autori prediletti?
Tutti i maestri di cui affronto le partiture mi piacciono, e tra essi non ho predilezioni. Non dirigo mai pagine di compositori di cui non sia intimamente convinto, e ogni compositore nel momento della sua ricreazione sonora è, per me, assoluto. Una qualificazione come “migliore” perde di significato nel momento in cui io devo giungere alla sua unicità: chi è meglio dell’unico? Questo è il varco attraverso il quale io penetro nell'essenza reale della cosa musicale: questo è tutto. In questo momento io sono al servizio dell’idea, il mio compito è quello di ridurre l’idea del compositore all'unicità. Io, impegnato in questo compito, come potrei dare il meglio di me pensando:“Questo è bello, ma Bach lo è ancora di più?” No. La mia posizione annulla qualsiasi possibilità di riferimento ad altre cose alternative, proprio per pervenire all'unicità del significato dell’opera presa in considerazione, di ogni singolo fenomeno, in senso lato.
Quali sono i suoi interessi in questo periodo?
I giovani. Mi interessano molto i giovani perché mi ritrovo in ognuno di loro senza eccezione. Anch'io sono passato attraverso una lunga fase dominata dall'ignoranza; anzi, per otto anni ho diretto, in tutto il mondo, senza sapere nulla di musica. Non sono stato preciso: io sapevo, ma non mettevo in pratica le mie conoscenze; fin tanto che uno dei miei maestri, Heinz Tiessen, un uomo di cui il mondo non conosce nulla, mi ha convinto, invece di andare in America a fare carriera, a rimanere con lui. Anch'egli era assai consapevole, conosceva la via alla trascendenza, ma era uno scettico, e non aveva fatto carriera. Erano gli anni che andavano dal 1937 al 1952.
Alcuni di essi si riferiscono al periodo della sua collaborazione con Furtwängler
Non collaborazione, ma per me Furtwängler ha rappresentato la realizzazione pratica degli ammaestramenti di Tiessen. Infatti per la prima volta ho avuto delle indicazioni improntate a fenomenologia pura da un musicista. Il giovane Celibidache chiedeva: “Maestro, in questa Sinfonia, la transizione che va dalla tale misura alla tal altra del primo movimento, a che velocità si fa? Qual è il tempo giusto?’’Allora io pensavo che velocità e tempo fossero la stessa cosa. Egli rispondeva: “Tutto dipende da come suona. Se il suono è ricco, se in partitura figurano sei ottave, quindi di una enorme intensità, occorre staccare un tempo lento. Maggiore è l’intensità, più complessa la sostanza espressiva, più tempo occorre per realizzare la unicità: quindi un tempo più lento”.
Alcuni tempi da lei adottati sono variamente discussi, perché non intesi nelle loro vere ragioni...
Non si tratta, credo, di capire o non capire; ognuno possiede di un’opera, un modello che nel tempo si cristallizza e che diventa un falso appoggio: manca invece il vissuto diretto, l’esperienza reale.
C’è qualcosa che lei osserva criticamente nel mondo della musica, e che la rattrista?
Per i giovani che si affacciano alla musica non m’è riuscito di fare nulla di quanto avrei dovuto fare. Avrei voluto portare con me cinquanta allievi di talento; disporre di un’orchestra con cui fare esperienza, nutrirli, insegnare loro senza limitazioni organizzative. Invece abbiamo solo potuto improvvisare.. .Tra i miei allievi ce ne sono diversi italiani che mi seguono in modo irregolare soprattutto perché non possono permetterselo. Vede? Essi faranno le loro esperienze per quanto sarà loro possibile, con i mezzi e con gli strumenti che troveranno disorganicamente a disposizione, perdendo - come è accaduto a me - dodici, quindici anni. Anni di vita. Questo è molto triste e mi amareggia.
E poi, sempre in questo quadro, non si può non soffrire per l’andazzo cosi superficiale preso dalla musica: fare e sentire musica con l’orologio in mano: dov'è finita la coscienza del fatto musicale? Per non parlare dell’aspetto materiale: oggi si assiste ad un ribaltamento dell’ordine dei valori nel senso che è il cachet a decidere il valore dell’artista: quello che è caro deve essere anche buono, no? Questi sono vizi che generano pericolosi equivoci, ma una delle responsabilità maggiori, nel deterioramento dello scenario musicale, grava sulle istituzioni: esse dispongono di orchestre, di grandi possibilità economiche ma, nella maggior parte dei casi, sono guidate da gente inadeguata, al di sotto del più basso livello immaginabile.
Pensi cosa avrebbe potuto fare la RAI per la vita musicale in Italia, il paese più musicalmente dotato di tutto il pianeta. Cosa ha realizzato? Niente! Ha reso permanente un deleterio clima di improvvisazione. Ricordo molto bene che chi aveva il compito di decidere, anche ai massimi livelli, era nominato da un partito, senza avere alcuna competenza.
Non si può dire che in Italia manchino uomini all'altezza di questi ruoli, ma chissà dove sono! Certamente non al posto giusto!
Maestro, il mondo sa poco di lei...
.. .niente, non sa niente: sia preciso, non sa nulla ed è meglio cosi...
...e tutto ciò crea ed alimenta attorno a lei u n ’aura mitica...
...mah, è un’aura che io proprio non cerco, sa. Io sono un uomo normalissimo, e le doti eccezionali che mi si attribuiscono, sono in realtà doti che ha ciascuno. C’è una differenza, però, che in me si sono liberate, in troppi altri uomini non ancora.
Legge molto?
Studio, leggo moltissimo. E soprattutto quelle voci europee che, a partire dal Medioevo, tendono allo Zen. E’ una meta perseguita da innumerevoli creatori: pensi a Meister Eckhart, pensi a Goethe. Interessatissimo alla scienza e alla natura, uomo di indiscutibile universalità, egli era chiaramente proiettato verso lo Zen, soprattutto quando affermava: “Prima il sentimento, dopo il pensiero.” Questo ricorda curiosamente quell'altro motivo di riflessione: “Prima la musica, poi le parole” (sorride) che si riferisce all'impossibilità che la parola ha di accordarsi alla musica.
Anche J.J. Rousseau, in tempi non sospetti, dava uno straordinario rilievo al sentimento...
In quale filosofo non c ’è traccia di questo profondissimo abisso che gli asiatici hanno raggiunto? Anche il povero Croce, filosofo per alcuni lati ragguardevole, mostra nelle sue formulazioni alcuni aspetti fenomenologici. Fenomenologia non come uno sport del pensiero, ma, finalmente, nel disegno di Husserl, il quale accetta da Brentano che ogni coscienza è coscienza di qualcosa, ma quindici anni dopo definisce la fenomenologia come scienza della coscienza umana nel suo eigensein, nel suo proprio essere: ogni coscienza è coscienza di qualcosa, perciò coscienza in sé non esiste, nella sua concezione pura, nella sua propria essenza. Questo è un momento di contraddizione, e questo è il punto in cui le strade divergono, come dicevamo all'inizio.
Lei è autore, tra l’altro, di un concerto per pianoforte e orchestra. Ai lettori di Piano Time interessa certamente conoscere qualcosa su i suoi rapporti con il nostro strumento.
Ottimi, posso dire. E’ stato il mio primo strumento e cominciai a familiarizzarmi con esso all'età di quattro anni. Improvvisavo, senza insegnanti, e mi divertivo moltissimo a eseguire, trasportandola in tutte le tonalità possibili, una canzone molto in voga allora nella mia città. Era un divertimento straordinario, ed ero affascinato soprattutto dall'utilizzo dei tasti neri. Tutto ciò è stato di grande utilità, poiché da lì ho iniziato a conquistare una certa libertà nei confronti del suono.
In che rapporti è con il suo Paese, maestro?
Pessimi. Sono giunto all'età di settantacinque anni, nella vita ho fatto molte cose, e mi sembrava giusto fare qualcosa per la Romania. Mi ci sono recato, ho fatto concerti molto belli, riuscitissimi, e avrei voluto condurre un corso per direttori d’orchestra: tutto è saltato per iniziativa del direttore della Filarmonica e del direttore dell’Opera di Bucarest i cui due figli non avevano superato gli esami ad un mio corso in Germania. Queste sono le non nobili cause del fallimento, con conseguenze negative su quegli studenti tedeschi che avevano avuto borse di studio dalle loro università per seguire il mio corso. Non se ne è fatto nulla. Purtroppo. Si tratta di una storia sporca, squallida, che mi ha disgustato davvero profondamente.
Dove sta andando la musica?
Il problema è mal posto. La musica non esiste ancora: è il suono che, per ora, cammina. Oggi il mondo della creazione si identifica nel suono, nella scienza del suono: ma il suono in sé non ha alcuna importanza, diventa importante quando fa nascere qualcosa nel mondo emotivo dell’uomo, quando diventa oggetto di trascendenza. Non possiamo chiederci “dove va la musica”, come se la musica esistesse: essa ancora non esiste. Il suono sì, con la sua diabolica capacità di commuovere, di emozionare. Prendiamo la musica concreta e il suo più ovvio utilizzo, quello cinematografico: in una scena in cui viene assassinato un personaggio, il criminale non si vede, ma se ne sentono i rumori: bene, la componente sonora ti porta all'esasperazione, a un parossismo che noi, col nostro repertorio, mai riusciremo a provocare; ma badi che il suono generato per se stesso non porta alla trascendenza: è l’ordine che noi imprimiamo ad esso a favorire la sospensione dell’intelletto: solo allora la realtà si rivela. Non sarà però l’intellettuale a testimoniare la presenza della realtà o meno. Ad essa si avvicina, con tutte le probabilità di toccarla, solo chi abbia fermato il suo pensiero.
Un’ultima riflessione su qualche cosa che le stia a cuore.
Una riflessione ancora sul fatto di non disporre di sufficiente denaro da organizzare io stesso un corso di direzione d’orchestra. Questi giovani che mi seguono con enorme sacrificio non possono mai contare su un’orchestra con cui lavorare. Pensi dove giunge la loro buona volontà: un mio giovane allievo veneziano ha formato una piccola orchestra di venti archi e dopo un certo periodo di lavoro s’è portato l’orchestra qui a Monaco affinché io mi rendessi conto dei risultati ottenuti. Un italiano! Non è commovente tutto ciò? Com'è possibile rimanere indifferenti? Io oggi ho una carriera di grande attività, faccio concerti molto applauditi: e questi giovani? Essi rappresentano la potenzialità del futuro ed io non posso fare nulla o quasi per loro. Ora andrò a Saluzzo: cosa faremo? Ai giovani che si riuniscono attorno a me parlerò di musica e di pratica orchestrale poiché la loro massima ambizione è quella di suonare in orchestra. Ma in otto, nove giorni cosa si può fare? Un buco nell'acqua, o poco più.
Io direi, me lo conceda, che si tratta di uno dei tanti semi da lei sparsi negli anni, ognuno dei quali ha avuto una propria fortuna, ha dato un proprio frutto. Nessuno s’è perso, nessuno è caduto invano. Arrivederci a Saluzzo, maestro.
Arrivederci! Non manchi!
Umberto Padroni
(Intervista apparsa su “Piano Time” N" 54, 1987)

domenica, aprile 11, 2021

Sergiu Celibidache: l’ultimo dei veri capi. E perché l’ultimo

Con l’indifferenza e l’ignoranza delle nazioni piombate nel pozzo nero dove non ci sono più né storia, né cultura, né umana pietà, le televisioni italiane, di Stato e private, in bella concordia, hanno trovato inutile far sapere ai milioni dei loro rincretiniti clienti che ieri è mancato ai vivi Sergiu Celibidache: il più estroso, il più generoso, il più permaloso, il più imprevedibile, il più assolutamente disinteressato dei musicisti, il direttore d’orchestra ormai unico per la magia della sintesi che reggeva il suo spirito, di istintiva potenza e maturata sapienza, l’interprete ispirato che sapeva ancora strappare alle stelle fredde e remote dei grandi creatori, qualche bagliore della scintilla divina.
Celibidache: un’ipotesi perduta dell’arte germanica. Un’ipotesi che rimase per decenni in bilico, latente, sempre sul punto di dissolversi. Un’ipotesi che rimase a lungo annebbiata dalla giusta ira di una ingiustizia subita, e più a lungo ancora fu sacrificata dalla ritorsione degli ingiusti che, come sempre accade, non perdonavano alla vittima l’ingiustizia subita. Restaurata, infine, per un ultimo tratto grandioso e malinconico, grazie a un’accorta, delicata opera di umanissima volontà, da cui scaturì, se non una guarigione ormai impossibile, almeno una delicata sutura e ricucitura psicologica e artistica.
Or sono tre anni, il Bundespresident von Weizsäcker riuscì, dopo un lungo lavorio di preparazione, a riportare Sergiu Celibidache, per un concerto di beneficenza a favore della Romania, libera dalla tirannide comunista, sul podio dei Filarmonici di Berlino, dopo quasi mezzo secolo di sdegnato rancore. In una profonda e amara analisi retrospettiva, Wolfgang Sandner si chiese “che cosa sarebbe stato di quell’orchestra, se, al posto dell’astuto Karajan, i suoi musicisti avessero eletto, a successore di Furtwängler”, chi più d’ogni altro ne aveva il diritto, “lo spigoloso, l’aspro, l’asociale Celibidache”.
E’ storia che pochi conoscono, e quando possono narrano e rinarrano, come Alberto Mantovani, la splendida tromba solista dell’orchestra bolognese che al maestro sempre rimase fedele dopo l’ennesima delusione coi bolognesi. Dopo la catastrofe del maggio 1945, esule in Svizzera l’epurato Furtwängler, morto tragicamente e forse suicida il successore Leo Borchard, riuscì provvidenziale agli impauriti Filarmonici che si erano riuniti in un cinema di Stegliz, il romeno trentatreenne sconosciuto esordiente che con stoica determinazione e durissimo lavoro in circostanze impossibili, li salvò alla palude che attende le orchestre in declino: dall’assedio di tante forze negative congiunte nella penuria economica: la mancanza di case, di progetti, di programmi, l’indifferenza ostile 
degli occupanti, l’opportunismo politico, artistico, la fatale discesa nella mediocrità. Ospite straniero nella Capitale della nazione vinta e demonizzata dove era venuto a studiare nei giorni della sua fortuna, Celibidache protesse l’orchestra in un’aura di soprannazionale innocenza, la riorganizzò e fortificò, lo elessero a direttore stabile. Durò quattro anni, fino al ritorno di Furtwängler. Quando la situazione ridivenne sicura, i filarmonici professori manifestarono tutta l’ingratitudine e l’ingenerosità proprie degli organismi collettivi, Furtwängler riprese la superbia che mai abbandona il buon tedesco e cancella, appena sia fuori dei guai, i benefici ricevuti. Congedato con frigidi e sbrigativi ringraziamenti, Celibidache si fece da parte, mal consolato da qualche partecipazione ai trionfali giri di concerti in Europa e nelle Americhe nei quali Furtwängler tornò a condurre l’orchestra, sua e soltanto sua. Celibidache prese il largo e, dopo alcuni anni errabondi, ebbe la direzione dell’orchestra di Radio Stoccolma (1962-1971) e, infine, dei Filarmonici di Monaco, che portò a livelli di Berlino e di Vienna. Da lontano assistè al compiersi della parabola dell’ingratitudine. Se riuscì a capire e accettare come inevitabile e giusto il ritorno dell’interprete unico, la scelta che i Filarmonici decisero alla sua morte, scegliendo a successore l’astuto, affascinante luciferino Herbert von Karajan, lo colpì con la sua violenza feroce, fino a scavare una permanente ferita nel suo carattere. Ho sempre osservato nei comportamenti di tutte le orchestre in cui la sorte mi ha fatto imbattere, che l’ingratitudine e l’opportunismo degli organismi anonimi diventa, tra i musicisti, specialmente spregevole. Nessuno, tra questi mestieranti, si levò a difendere i diritti morali e professionali del loro salvatore di pochi anni avanti. Sempre le orchestre scelgono la sicurezza del successo, il miraggio del denaro. Il cui luccichio venne sempre crescendo, negli anni di cui sto parlando, le royalties guadagnate coi dischi ne fecero un’ossessione. Quando, morto alla sua volta Karajan, si trovarono a soppesare le diverse candidature, i dirigenti dei Filarmonici si procurarono le liste dei dischi incisi da questo e quel maestro e, tra Sawallisch e Abbado, non ebbero esitazione: Abbado incideva per la Deutsche Grammophon e Sawallish per case meno risonanti. Abbado era in fase di decisa ascesa, scelsero lui. Forse oggi avrebbero qualche esitazione.
Oggi, davanti alla spoglia di questo romeno in cui s’era raccolta la migliore eredità dell’arte direttoriale germanica, ritorna molesta la domanda di Sandner, che cosa sarebbe divenuta l’Orchestra dei Filarmonici sotto di lui? “Certamente il catalogo dei suoi dischi sarebbe più magro, la sua fisionomia più asciutta e austera, il suo raggio d’azione più stretto”, non v’è dubbio su tutto ciò. Ma l’anima, il dettato, l’eloquio, il suono nulla hanno a che vedere coi successi commerciali e le vendite dei dischi. Forse, Berlino avrebbe avuto fino ad oggi un successore degno di Furtwängler. I caratteri che da lui ha ereditato, Celibidache li ha infusi nell’orchestra dei Filarmonici di Monaco, la sola rimasta tedesca, in quanto “locale”, delle grandi orchestre tedesche. Non per nulla fu questa la roccaforte bruckneriana fin dall’ultimo decennio dell’Ottocento; quando Franz Kaim, letterato e scrittore, figlio di un fabbricante di pianoforti di Stoccarda, la radunò per un serie di concerti privati nella sala dell’industria di famiglia, e due anni più tardi, nel 1893, la trasformò nel Münchener Philarmonisches Orchester, ch’ebbe, dal 1898 al 1945, tra i suoi direttori i massimi campioni del culto di Anton Bruckner: istituito, dopo la sua morte nel 1896, dall'allievo Ferdidand Löwe, cui succedettero Felix Weingartner e, dal 1920 al 1945, Siegmund von Hausegger e, infine, Oswald Kabasta, il maggiore di tutti, anche se l’aver svolto la parte più cospicua della sua opera durante la guerra, e il suicidio eseguito nel 1946, tolsero irradiazione alla sua fama, tuttavia affidata a poche incisioni, stupefacenti.
Nel mezzo secolo di regno di questa straordinaria dinastia di capi, fecero apparizioni ed esordi ospiti di assoluta eccezione, quali Hans Pfitzner e Max Reger. Fu coi Filarmonici di Monaco che Wilhelm, il promettente figlio del docente di archeologia alla locale università, Adolf Furtwängler, diresse il suo primo concerto pubblico, il 19 febbraio 1906, a vent’anni appena compiuti: il programma, un suo poema sinfonico e la Nona Sinfonia di Bruckner. Nel clima, insieme austero e cordiale, di quella straordinaria Monaco, il cui timbro intellettuale puoi ancora cogliere nelle annate di Jugend; in quell’atmosfera raccolta e lieta, si venne formando e solidificando, qui a Monaco e non nella vacua Vienna, la vera tradizione bruckneriana che i direttori, stabili e ospiti, succedutisi nel dopoguerra salvarono, da Hans Rosbaud a Eugen Jochum Joseph Keilberth, Fritz Rieger, che tenne il podio dal 1949 al 1966, e Rudolf Kempe (1967-1976), alla cui morte l’orchestra lavorò per tre anni con soli Gastdirigenten, fino a che, nel 1979, elesse a suo capo Celibidache.
Con Celibidache, l’orchestra dei Filarmonici di Monaco raggiunse e, per certi versi, superò le due considerate fino allora maggiori della cultura germanica, Vienna e Berlino. Il suono, il timbro portarono all’estrema finezza quella tinta bruna e serale che così bene esprime la Stimmung del tardo Ottocento. I cori dei suoi ottoni, ormai inimitabili, sfolgoravano davvero di quello che Oswald Spengler, per definire il colore di Bruckner, chiamò “oro antico”. Un oro bruno e rosso d’incendio, che a me ricordava sempre i barbagli incandescenti di che sfolgoravano i mosaici di San Marco quando i raggi del sole d’autunno li colpiscano. Ecco, l’anima di un’orchestra è espressione astratta, impossibile a definire in un giro di parole. Ma senti che Monaco la possiede ancora, e Vienna e Berlino, guaste dai saltimbanchi della direzione discarola e commerciale, l’hanno perduta.
Celibidache ci portava da Monaco quel suono; dove gli piacesse portarlo; dove non avesse conti sospesi, dispetti, punizioni pendenti col pubblico del luogo. Magari scartava la Scala, Firenze, Santa Cecilia, dove lo invitavano invano. E sceglieva, invece, Salerno dove era rimasto affascinato dalle forme normanne del Duomo, da un’atmosfera che gli parve magica: quasi un nuovo Wagner a Ravello. Per merito di un gruppo di audaci, è il caso di chiamarli, come quelli che nell’Ottocento si riunivano nell’oratorio di via Belsiana attorno alle Passioni di Bach, Salerno aveva visto crescere un suo festival che, sommando audiacia ad audacia, elesse a suo centro l’arte sinfonica di Bruckner. Direttori quali Sawallisch, Tennstedt, Janowski, vi avevano instaurato una breve e ancor fragile tradizione esecutiva che, in quell’anno 1993, raggiungeva il suo culmine con l’arruolamento, imprevedibile e quasi incredibile, di Celibidache coi suoi Filarmonici. Ricevendo gli annunci dall’Ente salernitano, provai un’ammirazione temperata da dubbi e interrogativi perché, scorrendo il programma del Brucknerfest di Linz, subito mi accorsi che per la prima volta mancava la gemma centrale, il concerto dei Filarmonici di Monaco che Celibidache dirigeva ogni anno nell’Abbazia di Sankt Florian. Chissà che cosa gli hanno fatto a Linz, non potei fare a meno di domandarmi, per indurlo a questo esilio. Che tuttavia non potè compiersi perché, sette giorni prima delle date previste per i due concerti, il vescovo di Salerno, monsignor Pierro, rifiutò di rinnovare la concessione della Cattedrale, dedicata a San Matteo. Fu proprio il Santo, così caro al cuore degli amici della musica, l’involontario colpevole del disastro. All’improvviso il nuovo vescovo si accorse che le date dei concerti coincidevano con la festa del santo patrono, e decise che il duomo e il suo cortile dovessero restare liberi per accogliere i pellegrinaggi, che per lui sono molto più importanti dei signori Bruckner e Schubert, di Beethoven e di Celibidache. Si accomodassero a cercare un altro posto. E’ un gran brutta storia, della quale bisognerà indagare meglio le ragioni, che ci sono. Lo farò un’altra volta.
Due anni dopo, il vecchio campione cadde e si fratturò il femore.“Celibidache cade e si rompe”, tale titolo beffardo e impietoso si lesse su un nostro quotidiano, “Metha prende il suo posto”. E il mondo va avanti, dopo un caso di ordinaria sostituzione. Proprio no, gridai la mia indignazione in uno scritto furibondo. Proprio no, scrissi. Nella sostituzione del Maggio fiorentino, mi parve disegnarsi la metafora di una fine. Si scavava il tratto conclusivo di una parabola disegnata da tempo: l’estinzione della direzione d’orchestra in quanto rivelazione demiurgica: incarnata, nella direzione d’orchestra in quanto rivelazione demiurgica: incarnata, nella memoria di una cultura, dallo studio di Nikisch, Strauss, Weingartner, Mengelberg, Kabasta, Böhm, Furwängler, Klemperer. La dinastia che nacque quando i creatori, Mendelssohn e Schumann e poi Wagner, tolsero la rivelazione dalle mani dei Kapellmeister e ne fecero un magistero, educando e allevando, da Bülow in poi, due generazioni di capi idonei a penetrare e attraverso la foresta cresciuta sul suolo sinfonico da Beethoven in poi.
Proprio Bruckner dovette misurarsi con l’indifferenza genetica e culturale, e proprio nella Quarta Sinfonia, che Celibidache doveva portare a Firenze, comprendere quali distanze separassero la corta vista di Dessoff, dei Herbeck, tecnicamente e spiritualmente impari alle sue partiture smisurate, dall’intuito d’arte, dal gesto sicuro dei Richter, Levi, Nikisch: gli interpreti ispiratici chiamai in uno scritto lontano, una razza che si estingue, minata e corrosa dalla lebbra di mondializzazione e commercializzazione. L’identificazione di un’arte con l’intero pianeta non avviene senza smarrire l’identità ideale, senza la recisione delle radici profonde, che sono sempre locali. Le maree opulente della musica occidentale invadono gli auditori dei lontani Continenti quando la fonte creativa, nella sua casa d’origine, si è seccata. Che la musica sia universale sol perché i caratteri fìsici e acustici la rendano, in apparenza, udibile da tutte le orecchie, sopra le cosiddette “barriere” delle lingue, è una falsa verità creduta anche da persone colte. Ma anche i babuini, le rane e le giraffe possiedono orecchie e non per questo sono partecipi della civiltà sinfonica. Quando finisce con l’Europa che la generò. Contemplo, senza isteriche inutili enfasi, le convulsioni di un’arte morta nella creazione e morente nell’interpretazione, e saluto in Celibidache l’ultimo di una nobile schiera. Ultimo: so che è una parola infausta, anche se il pettegolo quotidiano le ha tolto il brivido che racchiudeva. Ma in latino, la lingua dove tutto si chiarisce, ultimo è superlativo di ulter, che è al di là; la sua desinenza, il sanscrito tama, vuol dire ciò che è lontano, remoto, oltre il mondo.Arriva, in tutte le cose umane, vite, passioni, arti, istituzioni, l’ora che tutto tende a farsi ultimo. Ecco in quale senso non quotidiano, non comune, saluto Celibidache che conclude una nobile arte, quasi dappertutto estinta. Ci salveranno i Kappellmeister? Dubito. L’ora noiosa ritorna con la pletora dei Kapellmeister che si riprendono la predella, vispi, attivissimi, gran viaggiatori, gran lavoratori, grandi incassatori di sonanti parcelle, più che mai sicuri della loro eccellenza, ora che gli ultimi imbarazzanti paragoni sono sgomberati dalle Parche disciplinate alunne degli dèi e del fato.
Piero Buscaroli
(un estratto è apparso su “Il Giornale” di Sabato 17 agosto 1996, col titolo:“E’ morto a 84 anni
a Parigi il grande direttore d’origine romena. Addio Celibidache genio della musica”)

giovedì, maggio 25, 2006

Sergiu Celibidache a Napoli

Dal 1971 il direttore rumeno non metteva piede in Italia. Deluso dall'ambiente musicale, snobbato dagli addetti, in continua tensione con i professori d'orchestra di tutti i complessi se n'era andato malgrado l'affetto che lo lega al nostro paese. C'era l'occasione di riascoltarlo dopo tanti anni, a capo dell'orchestra Filarmonica di Monaco di cui è direttore stabile dal 1979, e soltanto il San Carlo s'è inserito nel percorso di una tournée che aveva fatto tappa in Spagna e in Francia. Già questo la dice lunga sulla considerazione di cui gode un interprete che per molti anni nel Dopoguerra era considerato l'unico concorrente degno di Karajan. Certo, l'essersi sottratto al meccanismo commerciale discografico ha fatto sì che il suo nome circolasse con minore intensità di quello del direttore austriaco, ma ugualmente stupisce l'avarizia di consensi ottenuta da Celibidache, sicuramente il direttore più pensante e, a ragione veduta, provocatorio espresso dalla generazione post-Furtwängler, a cui è legato da circostanze non sottovalutabili (a ventisei anni, nel 1938, Celibidache si perfeziona a Berlino; nel 1945 prende la direzione dei Filarmonici di Berlino fino al ritorno di Furtwängler, nel 1952). Del personaggioC elibidache ci occuperemo in un prossimo numero, con la testimonianza della piacevole conversazione combinata fortunosamente dopo il secondo concerto napoletano; qui ci limiteremo a elementi di riflessione sull'originale statura di musicista e di affascinante direttore.
Il programma napoletano proponeva un accostamento un po' azzardato spettacolarmente ma storicamente perfetto. L'ultima partitura sinfonica di Haydn (la Sinfonia n.104, conosciuta come «Salomon» o «London») con la Sinfonia n. 4 in mi bemolle maggiore (meglio nota come «Romantica») di Bruckner, primo lavoro orchestrale bruckneriano che ebbe riconoscimenti pubblici. Se pensiamo a quanto di estraneo alla cultura viennese s'annida nel sinfonismo eclettico di Mahler, le due parti del concerto coprivano il cuore Il storico" del sinfonismo classico occidentale, in modo esemplare.
Due facce della medesima medaglia. Due facce dell'impostazione direttoriale di Celibidache che ideologizza le pulsazioni temporali mettendole in relazione con la "densità" del tessuto musicale complessivo: la sinfonia haydniana era infatti articolata in modo scorrevole, molto rilevata negli accenti e nelle cerniere formali inevitabili - tra l'altro i punti precisi gestualmente sottolineati con anticipo musicale vistoso - tutta giocata sulle sfumature agogiche e dinamiche sottilissime, soprattutto nelle risoluzioni o negli attacchi più segreti della trama orchestrale, uscendo lumeggiata con incisività, trasparenza e distaccata eleganza (come quella di un gesto affascinante, espressivo, implacabile anche quando si compiace di solleticare colori e vibrazioni con la bacchetta passata sussiegosamente alla sinistra).
Nella Quarta di Bruckner il procedimento applicato in modo contrario dà come primo esito la dilatazione ebbra dei tempi. La Sinfonia bruckneriana più popolare, anche perché la più breve, sembrava infinita; cronometrata avrebbe serbato delle sorprese. Ma non è certamente qui il punto interessante, piuttosto l'osservazione che la coerenza della lettura di Celibidache forniva alla partitura tutta una serie di motivazioni costruttive altrimenti ignorate. Ad esempio la parabola perfetta descritta dal lavoro era specchiata benissimo dall'esecuzione che "bloccava" per così dire, in un'articolazione spazialmente immensa (di qui l'impressione di granitica immobilità pure nella sensazione di un progressivo accumulo di tensioni e materiali musicali) le frange estreme dei movimenti esterni: l'arcano inizio della Sinfonia, il suo pigro costituirsi di temi e colori primigeni in un crescendo immane e fuori dal tempo - nello spazio, appunto - si rifletteva nell'ansiosità stagnante, nella decomposizione strutturale melodica cui l'ultimo movimento sembrava essere votato. L'indeterminazione timbrica e sentimentale vista nella fase di coscienza e poi in quella dell'irrimediabile distacco; possiamo anche azzardare il sostantivo nostalgia, ché la riflessione sulla «Romantica» stuzzicata dalla lettura densissima eppure così ariosa di Celibidache, lasciava spazio a un atteggiamento visionario, di riconquista e smarrimento, cui non erano estranee tinteggiature sensuali e naturalistiche (quelle mahleriane strutturali che aprono la Prima, e rievocano lo sprofondare wagneriano nel Reno). La stessa metamorfosi delle idee tematiche attraverso i vari movimenti della Sinfonia ne era evidente conferma; come la correlazione calcolata delle varie sezioni. Pensiamo al senso sollevante che accompagnava ogni irruzione del secondo tema nel «Mosso, ma non troppo presto» iniziale, in gara con l'ancora meno pensoso che cifrava gradualmente le riprese dello spunto iniziale. Pensiamo alla nascita, come dal nulla, del tema dei violoncelli nell'«Andante», alla tinta notturna e malinconica delle sommesse riesposizioni contrapposte alla riemersione del tema-base (ancora ai corni) tra il trasognato e il minaccioso; a sua volta in conflitto con la brillantezza ludica dell'episodio ripetitivo tra archi e fiati che prelude alla coda attraversata dal gioco imponente degli ottoni prima di sprofondare nel nulla. Dal nulla prende vita la fosforescente illustrazione dello Scherzo, mentre l'oasi «non troppo presto» del Trio veniva giostrata flessibilmente, tra rubati e ombreggiature timbriche lievi. Pennellate forti di luce e proporzioni sonore guidano invece il percorso del quarto tempo: una lettura geometrica, frammentaria quando non miniaturizzata, di aderenza totale al dettato disomogeneo della stesura sinfonica bruckneriana. Questa specie di trascendenza assaporata, rispetto alle procedure e al nitore costruttivo classico, tipica del mondo musicale di Bruckner era testimoniata dall'esecuzione in modo spaventosamente assiomatico.
Una lezione di civiltà musicale da lasciare ammutoliti e pensierosi, piuttosto che un'esecuzione da salutare con spontaneo entusiasmo di applausi unanimi. Ma non sono mancati di certo quelli per il maestro e la Filarmonica di Monaco, orchestra di rango, ben regolata in tutti i reparti (con una certa esuberanza dei fiati rispetto al resto), non eccezionale ma guidata con una professionalità e una forza di cui si può continuare a meravigliarsi.

di Angelo Foletto (Musica Viva. Anno VII n.11, novembre 1983)

mercoledì, ottobre 19, 2005

Sergiu Celibidache: la tenacia e l'intransigenza di un mistico della musica

Per il direttore rumeno Sergiu Celibidache l'arte è una disciplina dello spirito da coltivare con rigore.

"Volevo fare la musica, non le note o delle immagini musicali, come gli altri. La musica non sono le note". Col senno di poi Sergiu Celibidache riguarda con tenerezza e con nostalgia agli entusiasmi giovanili, ne stigmatizza le intemperanze. Si stanno rievocando i primi anni di una carriera leggendaria. Poco più che trentenne, mentre era a Berlino in pieno perfezionamento con Hansi Tissen, venne chiamato alla Filarmonica in sostituzione di Furtwängler. Dal 1945 al 1952, guidò questa orchestra straordinaria; sette anni speciali che gli consentirono di affrontare un vastissimo repertorio e di rivelarsi come uno dei direttori più interessanti della nuova generazione. E nel Dopoguerra Celibidache, con l'aria da dandy, la gestualità singolarissima, gli atteggiamenti imprevedibili e il far musica turbante era il naturale e unico "concorrente" di Herbert von Karajan (di quattro anni più anziano). Ripassare la cronologia della Filarmonica di Berlino è istruttivo: rientra Furtwängler nel 1952, per tre anni, poi arriva (la famosa tournée statunitense che lo impose rocambolescamente al podio già più ambito del mondo) il trentasettenne austriaco Karajan, oggi incamminato verso i festeggiamenti dei trent'anni di sodalizio continuato con i berlinesi. In un certo senso Celibidache rappresenta l'anello di congiunzione storica tra la generazione degli interpreti ottocenteschi "umanistici" e quella moderna, senza offesa, "industriale". Un anello che appunto possiede dei padri il bisogno filosofico e la disciplina intellettuale, dei nostri giorni la sensibilità musicale sottilissima e capace di sintesi interpretative fulminanti su un repertorio molto vasto. Ma la "mitica" figura di Celibidache - poiché non ha voluto piegarsi all'industria discografica la sua lezione va inseguita direttamente o ricostruita attraverso testimonianze di spettatori e dei numerosissimi allievi aveva un cammino lunghissimo davanti a sé: a una svolta professionale straordinaria il direttore-Celibidache aveva ancora tutto da imparare.
Lo ricorda senza pudori: "Dopo sette anni di Filarmonica il mio insegnante alla fine di un concerto mi disse "che cretino, sei! Credi di essere un direttore invece non sai ancora niente. Pretendi di far musica senza averne dominato la forma organica". Aveva ragione. In quel periodo facevo molte bestialità, ero a cavallo di tutti gli effetti possibili, fisiologici, fonici e strumentali: andavo per il pubblico ma ero un dilettante come musicista direttore d'orchestra. Ho dovuto ricominciare da capo. Studiare la musica, la forma dei pezzi partendo da partiture molto semplici e brevi: Ouvertures di Telemann, Bach, qualche Sinfonia di Haydn. Una sorta di iniziazione alle questioni, poi divenute essenziali, della Fenomenologia musicale, cioè alla problematica che s'intreccia tra la struttura e la forma, tra lo "spessore" delle partiture e le esigenze naturali che devono regolare l'esecuzione. Per usare un esempio banale l'applicazione della fenomenologia all'esecuzione assomiglia al lavoro a mosaico: più sono i frammenti, più l'analisi sul complesso da ricostruire sarà minuta, più lunga e bisognosa di concentrazione. Ma, come quando si incolla un vaso andato in mille pezzi, il prodotto del restauro dovrà essere identico all'originale (sempre che si siano ricuperati tutti i frammenti... ), malgrado le differenze nel tempo impiegato a rimetterlo in sesto. Ciò significa entrare nella struttura intima della musica, riscoprirne le ragioni dall'interno: solo dopo un lungo approccio di questo genere si possono affrontare i problemi successivi. Un mondo per me nuovissimo, dominato con, applicazione, proprio quando m'ero illuso di essere già musicista. Dopo due anni di apprendistato con le piccole forme quasi per caso mi sono trovato a dirigere la Settima Sinfonia di Bruckner: per la prima volta ho avvertito un diverso dominio sulla forma musicale. Così a 42 anni, finalmente sono stato in grado di comprendere quanto come direttore posso toccare della musica e cosa non sono in grado di modificare, perché in realtà non è modificabile in nessun caso".
La rievocazione, lunga, ci serve per capire molte cose su Celibidache. Buona parte dell'intervista è infatti stata occupata dalle questioni relative all'applicazione di queste teorie all'esecuzione. Non siamo di fronte a quesiti accessori e soltanto teorici perché l'applicazione pratica si avverte benissimo all'ascolto e proprio nel concerto napoletano di pochi mesi fa (vedi Musica Viva di novembre) la nostra attenzione di spettatori era stata istintivamente sollecitata in quella direzione. D'altra parte il mondo di Celibidache è esclusivamente questo. Nella sua giornata non c'è spazio per comunicare all'esterno impressioni personali che non siano paradossali ma perfettamente giustificate in relazione al concetto mistico e missionario del suo far musica. Poi c'è l'intransigenza proverbiale, la tenacia assurda con cui difende posizioni musicali e professionali, partiture e autori tutti. Poi ancora gli effetti di tale intransigenza: i leggendari litigi con l'orchestra - ma "non ho mai insultato un professore d'orchestra: ho solamente difeso sempre con veemenza i miei punti di vista", precisa - le prese di posizione assecondate da stupende imposture (quando era direttore stabile a Bologna fece il diavolo a quattro per lo spostamento del camerino del direttore al primo piano, prima sostenendo che quello al piano-palcoscenico era stato il camerino di Wagner, poi facendosi montare sul fondo del palcoscenico una specie di cabina di vimini in cui tignosamente andava a cambiarsi), l'aura dell'eccentrico da accontentare per ogni buon conto (per raggiungere un ricevimento dopo il concerto napoletano aveva preteso una macchina presidenziale: in ritardo per l'appuntamento, causa la cordialissima intervista realizzata grazie anche alla cortesia di Duilio Courir, è andato con decisione verso il Mercedes enorme e vuoto fatto venire dal San Carlo, sedendosi però... accanto all'autista). Celibidache a quattrocchi è di tutt'altra pasta. Un po' appesantito, dagli anni ma sempre fascinoso e imperiosissimo nello sguardo che trapassa dal mistico al sornione, il direttore rumeno sa benissimo di essere nella storia, ma sembra intenzionato a dimostrarlo con atteggiamenti meno appariscenti di una volta. Le risposte sono pacate, le provocazioni assorbite con eleganza, i giudizi taglienti ma dati come scontati (quelli sui colleghi, naturalmente), ma resta la dimensione imprendibile dello studioso pertinace, del teorico implacabile, del musicista puro che accanitamente cerca la verità e disprezza chi non condivide la strada scelta da lui per arrivarci. Come disprezza la mediocrità, la routine, l'abitudine, la semplice professionalità in un mestiere del genere. Tutto ciò risulta saldato nella conversazione affabile ma piena di punte, in cui vengono disinvoltamente mescolati luoghi comuni e originali verità, elucubrazioni filosofico-musicali e giudizi al limite della querela, appassionate difese professionali e nazionali - "noi italiani..." ha continuato a dire, soprattutto quando l'analisi della nostra situazione musicale era più impietosa - e concezioni assolutistiche della direzione d'orchestra. Qui abbiamo cercato di radunare tutto, senza tradire l'ordine sparso degli argomenti affrontati, ma ci rimane il cruccio di non avere a disposizione per questa stesura un carattere tipografico particolare, corsivo beffardo da usare per molte frasi ironiche o gustosamente provocatorie immesse nel discorso. Ma il rischio era di dover far comporre tutte le risposte col medesimo carattere, variando appena il corpo, a seconda se il sasso gettato nello stagno era innocente o un ciottolo di quelli sagomati che non sbagliano bersaglio quando sono lanciati dalla mano giusta. "Sono sempre stato agitato, con la voglia di sapere e di mettere grande intensità in tutto", ribatte a chi gli chiede se è cambiato qualcosa in questi ultimi anni di lavoro. Allora, riprendiamo da capo con l'importante apprendistato degli anni berlinesi.
Qual è stato l'incontro determinante in quel periodo?

"Senza dubbio quello con Victor de Sabata. Quando venne a dirigere Tristan und Isolde nel 1938, ero molto giovane. Ma ricordo l'impressione enorme delle prime prove e le ore lunghissime passate nei gabinetti, nascosto con la partitura, per poter non essere cacciato dalle prove. La concezione sua del suono può essere accostata soltanto a quella di Arturo Benedetti Michelangeli: ma aveva altre qualità straordinarie, la ricchezza paralizzante del far musica, l'intelligenza di tecnico e pensatore sopraffino. E poi, a differenza di Furtwängler, era anche un direttore completo".
Dopo Berlino ha avuto ancora incontri con lui?
"Molti. Uno alla Scala lo ricordo con affetto speciale. Per il piano di prove di un concerto avevamo discusso lungamente: le ore richieste gli sembravano eccessive in rapporto al pezzo ch'era in repertorio all'orchestra. Quando però mi seguì lavorare, nella prima prova di concertazione, ebbe la squisitezza di dirmi che soltanto allora aveva capito quanto il mio progetto di prove era adeguato alle intenzioni".
Prima ha detto "a differenza di Furtwängler...". Cosa esattamente voleva dire?
"Che il mitizzato Furtwängler, musicista enorme, era un pessimo direttore. Non aveva gesto, espressività fisica e poche idee precise al momento di concertare, tanto che talvolta realizzava letture incredibilmente insensate. Ricordo un'esecuzione della Nona Sinfonia di Schubert, credo nel 1948; alla fine salutandolo non resistetti alla tentazione di sbottare: "caro maestro, a proposito dell'ultimo tempo, le devo confessare di non aver capito nulla". "Nemmeno io", rispose subito; eppure dall'aspetto puramente formale non c'erano ragioni apparenti per eccepire.
E' che Furtwängler aveva capito un principio fondamentale, l'importanza del tempo in relazione al suono. Questa coscienza gli consentiva di portare il fatto musicale in una dimensione d'obiettività".
Quindi malgrado il giudizio sul direttore, Furtwängler ha avuto una certa influenza sul suo modo di pensare la musica?
"Gli devo moltissime cose. Proprio nell'ambito del pensiero musicale, delle concezioni perfezionate di Fenomenologia musicale. Furtwängler aveva perfettamente capito - forse intuito spontaneamente, per un magico istinto musicale - che il problema principale dell'esecuzione moderna, cui ho dedicato tanto studio, era di trovare il modo di equilibrare la "pressione verticale" (data dalla densità strumentale e armonica della partitura) e la fluidità "orizzontale" in modo da rendere intrinsecamente giusto il tempo".
Il celebre "tempo di Celibidache"...
"Non è una mia invenzione, tutti possono possederlo. E' un'entità che non dipende dal metronomo ma dalla qualità e dal tipo degli elementi musicali in gioco, da condensare. E' un catalizzatore di fenomeni".
Dunque un tempo che non esiste come definizione di misura?
"Non è nemmeno una realtà fisica. E' condizione mentale che permette di ordinare gli elementi del discorso musicale; quindi non si può neppure decidere a priori, scientificamente. Cosa significa croma-uguale-sessanta oppure Allegro? Nei minuetti delle Sinfonie di Haydn ci sono sei diverse indicazioni di Allegro e magari l'esecuzione per tutti sarà identica perché uguale la struttura musicale. La modalità di unificare le espressioni determina il tempo: più sono gli elementi da ridurre, come nei tempi conclusivi delle sinfonie di Bruckner, più naturalmente disteso sarà il tempo. Ma non esistono regole, in musica non c'è nulla di statico. Nemmeno nell'uomo. S'è mai sentito di pulsazioni cardiache uguali?"
Ma il tempo avrà relazioni con lo spazio?
"Cos'è lo spazio? La musica non è fatta di impressioni musicali che si succedono ma la sua espansione consegue al valore armonico inteso in senso architettonico spaziale, palpitante all'analisi fenomenologica. Questa molteplicità di tensioni, affidate all'azione riduttrice del tempo sono lo spazio. Una dimensione indefinibile ma operante, che il più grande genio della storia della musica, Frescobaldi (Bach è stato un continuatore) aveva già chiaramente applicato. Ho avuto la fortuna di scoprirlo".
Quanto a molteplicità di tensione anche Bruckner non scherza.
"Bruckner è stato uno sperimentatore totale. Ha scoperto ad esempio la triangolazione sinfonica che sostituisce la struttura classica basata sull'opposizione dei temi".
Torniamo ai parametri musicali. Cos'è il suono?
"Se il suono è qualcosa, il direttore è un cretino. Il suono è uno strumento, un veicolo che ci serve per attirare la musica: è anche uno specchio del proprio mondo emotivo, ma non è questo che deve interessare. Non è di natura intellettuale come non lo è la sostanza del suono cercata. La musica non è suono anche se il suono può diventare musica, a patto che venga considerato come un'esca per la musica stessa".
A questo punto mi pare ovvio affrontare il discorso sull'interpretazione.
"Cosa significa interprete? Non credo che l'interpretazione esista, esiste semmai la chiaroveggenza, l'unico modo che consenta di rilevare l'opposizione sentimentale data dalle note, variabile come momento, situazione e via dicendo. Spesso il musicista di oggi è diventato imitatore, cerca la ricostruzione della semplice morfologia della musica: la topografia di una partitura. Quella nessuno può cambiarla, non si modifica, esce da sola. E' un errore occuparsene.
L'impegno del musicista dev'essere di segno contrario: liberarsi da quella struttura primordiale ch'è la morfologia, trascendere il mondo fisico del pezzo; ricostruire la dimensione astrale partendo dal materiale primitivo. Non si può chiamare semplicemente interpretazione tutto ciò, è un processo di sublimazione dal mondo, di scoperta della quarta ottava. Pensiamo a uno Stradivari: il suo fascino sta tutto negli armonici, nell'inconfondibile trascendenza di quel timbro che accarezza la dimensione astrale. La nostra funzione dev'essere simile".
La funzione pratica del direttore d'orchestra come si può precisare?
"Deve saper scatenare le potenzialità espressive di ogni strumento, esigere la perfezione di lettura. Non posso ammettere i pressapochismi o la scarsa dedizione".
La sua intransigenza è mitica...
"Certo, sono intransigente. Me ne vanto. Lo sono prima di tutto con me stesso poi con gli altri, perché credo in quel che faccio. Ne sono certissimo. Solo una discussione acerrima e motivata potrebbe farmi cambiare idea, ma di solito non lascia spazio alle repliche. Alla polemica comunque non mi sottraggo, mi piace disputare. Lei ad esempio non mi contrasta abbastanza: questa intervista mi diverte poco."
Da questa intransigenza deriva la carriera e una certa scelta di repertorio?
"Poca carriera nel senso commerciale della parola. Ho sempre avuto orrore dei dischi, e questo era un handicap notevole. Diciamo che il mio modo di vedere il lavoro con la musica ha condizionato non le mie scelte ma la frequenza con cui queste scelte potevano essere portate in pubblico con legittimità".
Il diniego all'opera: una questione di scelta anche questa?
"L'esecuzione operistica comporta troppe imprecisioni e compromessi. Già è difficile e mai perfetto l'equilibrio di un concerto. Così ho dovuto rinunciarvi. Ma conosco e amo moltissimo il repertorio lirico, così da quando sono a Monaco mi sono battuto per realizzare esecuzioni in forma d'oratorio. L'anno scorso ho diretto Così fan tutte, nella primavera dell'85, per l'inaugurazione del nuovo auditorium della Filarmonica, ho programmato nella stessa forma un'esecuzione del Wozzeck di Berg".
Lei è sempre rimasto in disparte rispetto ai colleghi. Forse non ne condivide l'azione?
"Troppi direttori d'oggi si accontentano della topografia dei pezzi invece di cercare la musica. L'imitazione sciocca di Toscanini ha portato guasti irreparabili. Per me l'esperienza toscaniniana ha avuto poca importanza, ma ne riconosco l'obiettivo significato storico. Vedo però una schiera di cattivi discepoli".
Ma non ci saranno soltanto quelli. Herbert von Karajan, ad esempio...
"Buon direttore ma scarso musicista. Possiede una falsa idea della musica. Come la maggior parte dei bravi direttori, di quelli che vanno per la maggiore, è attento soltanto al primo stadio, alla struttura primitiva e superficiale della musica. Non s'è mai posto il problema che mi ha tormentato per anni della gerarchia dei parametri musicali, di quel che va lasciato allo stato naturale e di tutto il resto che invece va vivificato visionariamente, ricreato".
Un concetto in effetti espresso anche da Karajan, il quale a proposito della funzione del musicista "rievocatore" supponeva una sorta di prosecuzione nel tempo, di reincarnazione degli uomini d'arte. E' d'accordo?
"Io so che c'è continuità, non lo suppongo. Siamo già vissuti. Il corpo di oggi ha lo stesso valore di un vestito che si può cambiare: le esperienze non possono morire, non muoiono. Si tramandano direttamente".
Il suo misticismo non è dunque solo artistico ma filosofico?
"Credo fortemente alle presenze trascendentali, necessarie alla nostra esperienza musicale. Cerco nella meditazione filosofica e religiosa certezze alla mia concezione assolutistica della musica e dell'arte come missione, come rigore indefettibile, come disciplina dello spirito da trasferire negli strumenti espressivi scelti. Sono allievo e devoto anche di un guru indiano, Saj Baba, dal quale mi reco almeno due volte all'anno: da lui posso apprendere quando abbiamo vissuto, da dove proveniamo e come possiamo trovare la forza morale che consente di analizzare in modo profondo la propria vita e il senso dell'arte da trasmettere all'uomo".
C'è molta utopia in tutto ciò.
"E' il nostro mondo, fatto così. Utopia è forse la non-coscienza della dispersione fatale destinata a molti sforzi. Ma il nostro compito non deve cambiare, se soltanto una parte del mondo, del pubblico, è in grado di percepire quest'opera di apostolato etico".
In questo impegno che parte ha l'insegnamento?
"Insegnare è un mio dovere, non potrei fare diversamente. Ma insegnare non significa soltanto comunicare ai giovani la capacità di affinare le qualità analitiche applicate alla musica: vuol dire far capire la necessità di stare insieme, l'utilità della discussione e della teoria applicata alla direzione d'orchestra, instillare il rispetto e la devozione per il far musica..."
I suoi corsi infatti si descrivono come singolarmente organizzati.
"Sono aperti a qualsiasi giovane che voglia imparare. Non mi interessano i soldi, né le gratificazioni di scuola tant'è che molti musicisti che hanno lavorato per anni con me posso dirlo ora, tranquillamente sono rimasti pessimi direttori e lavorano nel mondo musicale solo perché raccomandati o per altre ragioni clientelari. I corsi non hanno durate prescritte né programmi prefabbricati. Stiamo come in una grande famiglia, si passano insieme i momenti liberi, si approfondisce la teoria, la fenomenologia musicale; la pratica viene dopo, ha la sua importanza enorme. Ma se l'individuazione degli elementi musicali del discorso è fatta con coscienza, le fasi successive vengono compaginate naturalmente. Si fanno allora prove con gruppi da camera, con le piccole forme, con partiture che esprimano chiaramente e con nitore i nessi biologici esistenti tra accordi e tensione musicale. Importante fin dall'inizio è far emergere la necessità di studiare non superficialmente l'armonia e il contrappunto. Perché la gerarchia delle strutture musicali sia rispettata pienamente al momento dell'esecuzione".
Non ha mai pensato di fissare i suoi insegnamenti in qualche manuale?
"Me l'hanno chiesto molte volte. Ma non è possibile scrivere di queste cose. Sono concetti che autonomamente non esistono, come il tempo non hanno caratteristiche fisiche: ogni cosa va verificata sulla pratica musicale".
Da qualche anno ha abbandonato definitivamente l'Italia. Come direttore, come docente. Come mai?
"Le orchestre italiane sono diventate cattive, la situazione musicale in genere peggiora anno dopo anno. Ci sono meno talenti di casa e i teatri prendono di tutto: vedo direttori che fanno carriera e non sanno il mestiere. Gli italiani sono i più musicali, ma i più ignoranti. I conservatori poi non fanno che peggiorare il quadro: come potranno insegnare musica con coscienza gli stessi professori d'orchestra che sono imprecisi, poco professionali e menefreghisti?
Così si smarriscono le pure qualità italiane. Una volta si veniva da noi per imparare il canto, oggi si va in America dove ci sono le scuole migliori e la naturale tendenza alla virtuosità e all'emulazione ha fatto concentrare i migliori insegnanti. E il vibrato all'italiana, elettrico e inconfondibile? Per ascoltare qualcosa di simile dobbiamo aspettare gli israeliani delle nuove generazioni. Noi continuiamo a fidarci della storia che sta alle nostre spalle, basandoci sull'incredibile capacità di "replica" che ci viene naturale. E' un bel peccato".
Però lei persevera nel dire, quasi inconsapevolmente, "noi italiani". Vuol dire che qualcosa di buono ce la riconosce.
"Amo in fondo tutto degli italiani. In musica la duttilità assoluta. Ma il mio ricordo è legato anche alla gente, al modo di comunicare con gli altri. Nelle cose semplici: la cordialità e familiarità del personale di teatro non ha confronti. In altre nazioni, in Germania dove lavoro da anni, ti rispettano come figura, senza preoccuparsi dell'uomo. Io invece credo alla necessità di trovare contatti anche su questa dimensione. In Italia non mi sono mai mancati. Per questa ragione non vorrei tornare a lavorare in Italia come musicista. Ma come didatta, a tenere dei corsi, subito".
Angelo Foletto
(Musica Viva, Anno VIII n.1, gennaio 1984)