Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, giugno 29, 2013

Conversazione con Riccardo Muti

Riccardo Muti (1941)
Incontro con Riccardo Muti, tornato a Ravenna per Pasqua. Una chiacchierata quattro giorni dopo il rientro da New York: Carnegie Hall, Chicago Symphony, concerti trionfali con venti minuti di standing ovations.

Nel colloquio Chicago è come la madeleine proustiana. Fa riandare l’interlocutore a remoti decenni statunitensi che dal passato volgono al presente. Ne nasce un gioco continuo di rimandi, sul filo del ricordo o della riflessione, fra USA e Italia, grande musica e grandi problemi della musica.
Negli anni settanta, quando iniziò la mia avventura americana, diressi numerose orchestre tra cui la Chicago, la Boston Symphony e la Philadelphia Orchestra. Con la Philadelphia fu amore forte e improvviso. Si sviluppò in una serie di concerti estivi. Un’intesa estiva, o meglio un violento atto d’amore; un legame durato dal 1972 al 1992 e coronato da una pubblicazione ad hoc e a ricordo («I venti anni di Riccardo Muti alla Philadelphia Orchestra»).
Dal 1976 Riccardo Muti fu direttore principale ospite – dopo il regno di Eugene Ormandy durato più di quaranta anni – e dal 1979 direttore musicale e artistico del complesso statunitense. Con un mare di dischi per la EMI – praticamente tutto il grande repertorio sinfonico – riversati su CD, raccolti in cofanetti, oggi allegati pure a riviste ed esposti festosamente in edicola.
Nell’86, quando fui nominato direttore musicale alla Scala, ritenni opportuno lasciare Filadelfia. Sarebbe stato troppo gravoso seguire seriamente due istituzioni: una basta e avanza.
Poi, quando lascia la Scala nel 2005, la libertà...
Mi sono trovato alla testa dei Wiener Philharmoniker e con oltre orchestre in tournée a New York e altrove. In giro, finalmente, senza preoccupazioni, dopo essere stato a lungo direttore stabile, con tutto il carico di impegni che questo comporta. Ho potuto insomma gustare la libera attività; assaporarla con i vantaggi che offre: tempo di cui puoi disporre come vuoi, senza appuntamenti fissi, senza attività amministrative sulle spalle. Insomma. Me ne andavo a dirigere a Salisburgo come a Vienna in santa pace. Potevo tornare a capo dei Filarmonici berlinesi con cui avevo avuto un rapporto strettissimo fino alla morte di Karajan. Non pensavo più a un «futuro americano» anche se dirigevo regolarmente negli USA oltre che per l’Europa. Mi accorsi però, negli spostamenti europei, che a Parigi e a Londra, ad esempio, veniva sistematicamente a farmi visita la presidente dell’orchestra di Chicago, Deborah Rutter. La Rutter mi chiese di dirigere concerti con la sua orchestra, anche di seguirla in una tournée. A dire il vero, non ne avevo molta voglia. Tra l’altro, per due volte mi ero trovato a declinare la proposta di direttore stabile della New York Philharmonic e la situazione diventava imbarazzante: no a New York, si a Chicago... mah? Mi pesava, poi, l’idea di ulteriori viaggi oltre Atlantico. Ancora. Non avevo più desiderio di incontrare nuove orchestre, visto che lo avevo fatto sempre: dagli anni di gavetta – quelli che non esistono più per i direttori d’oggi – ai decenni con i colossi del sinfonismo.
L’insistenza della Rutter ma anche Chicago, città sul lago Michigan di bellezza straordinaria, con una grande storia e nuove splendide architetture cresciute in questi ultimi anni, con Enrico Fermi, cui è dedicata parte dell’Università, che lì compì il primo esperimento nucleare. Chicago ovvero la svolta.
Infatti. Dopo trent’anni anni di vincoli, mentre pensavo a concerti «normali ma senza matrimonio alcuno», la tenacia della Rutter e il fascino di Chicago hanno avuto la meglio. Misi in programma, per il primo concerto-esperimento, la Sesta Sinfonia di Ciaikovski: la Patetica. Tempo poche battute, trovai una rispondenza, un voler lavorare appassionato, unici. Questo dopo esserci studiati reciprocamente come fanno gli animali e come peraltro capita con qualsiasi grande direttore e grande orchestra quando si incontrano e vogliono verificare se quanto hanno letto e ascoltato o sentito dire corrisponde o meno a verità e come. Mi accorsi subito di qualcosa di straordinario. Ogni cosa che chiedevo, con braccio e parole, aveva una risposta immediata e intensa, fatta di afflato ed emozione autentici. Da uno, due, tre concerti nacque una tournée europea che toccò anche Roma e Torino, Londra e Parigi. Era sbocciato un amore «da matrimonio» mentre si faceva infatti sempre più forte, nell’orchestra, il desiderio di avermi come direttore musicale.
E qui viene il «dopo Daniel Barenboim»...
Barenboim infatti era andato via. Due direttori quali Pierre Boulez e Bernard Haitink si dividevano gli impegni della Chicago Symphony in una sorta di interregno prestigiosissimo ma interlocutorio. Ricevetti più di sessanta lettere individuali piene di affetto e di ammirazione in cui ogni strumentista esprimeva il desiderio di fare musica continuativamente con me. Nel 2008 la scintilla si è così rinnovata. Come sempre, la richiesta è venuta dall’orchestra: come a Firenze, a Londra e alla Scala. Ero titubante ma un movimento così appassionato e un amore talmente contraccambiato, mi convinsero.
Si partì con la Messa da Requiem di Verdi, solisti Barbara Frittoli, Olga Borodina, Mario Zeffiri e Ildar Abdrazakov. E` il Requiem confluito su due CD: emissione autoprodotta dall’orchestra, come fanno tanti grandi complessi internazionali di fronte alla crisi del mercato discografico, registrando tutti i loro concerti e poi scegliendo cosa pubblicare. E` l’edizione del Requiem che in breve si è guadagnata due Grammy Award: il primo per il miglior album classico in assoluto, il secondo per il miglior album corale. E che il coro di Chicago sia una favola di emissione impeccabile, dolcezza e pienezza, flessibilità e colori è indiscutibile...
Proponemmo il Requiem nel settembre 2010 al Millenium Park in un concerto «Per Chicago» con trentamila persone – il parco venne chiuso per ragioni di sicurezza – dove i due grattacieli che si fronteggiavano portavano, rispettivamente, le insegne «CSO» e «MUTI» in un luminoso, ideale abbraccio. Il sindaco, poi, volle che per un mese la Michigan Avenue prendesse il nome Riccardo Muti.
Avventura splendida ma con un incidente di percorso qualche mese dopo: l’aritmia cardiaca, una brutta caduta dal podio che ha reso necessario una peraltro eccellente ricostruzione facciale. Cure sapienti e medici che hanno parlato di cuore sanissimo dopo che un pacemaker ha corretto tale aritmia e mantiene soltanto funzione di garanzia, di monitoraggio precauzionale.
In questo frangente l’orchestra mi è stata vicinissima anche con lettere assolutamente affettuose. Dopo essere stato dimesso dall’ospedale, due gruppi della Chicago Symphony, uno di ottoni e un altro d’archi, hanno tenuto due giorni di concerti come ringraziamento per le cure prestate, con la commozione dei pazienti, mia, di amici e della mia famiglia.
Non solo Grammy e, nel 2010, il titolo , il titolo di Musicista dell’Anno assegnato da «Musical America» ma anche, di recente, l’Opera News Award e il Premio Birgit Nilsson, il più ricco nel mondo della musica colta.
Questo 17 aprile «Opera News» mi ha conferito appunto l’Opera News Award. A consegnarmelo è stato Francis Coppola, regista de «Il padrino» e pure mio parente per parte di madre, tanto che siamo lontani cugini. Si e` poi aggiunto il Premio Birgit Nilsson, lascito di una fondazione voluta dal grande, scomparso soprano wagneriano e straussiano, la formidabile cantante svedese. Conferito la prima volta a Placido Domingo, il Premio viene assegnato ogni due anni a un artista del teatro e della musica dai criteri specialissimi: quelli stabiliti da una giuria internazionale di sette persone che decreta il riconoscimento all’unanimità. O tutti d’accordo, o niente. Il riconoscimento consiste in un milione di dollari e la cerimonia di consegna è prevista 13 ottobre prossimo al Teatro Reale dell’Opera di Stoccolma alla presenza della famiglia reale svedese.
L’Opera News Award ha coinciso con l’ultimo dei concerti con la Chicago Symphony tenuti nell’aprile alla Carnegie Hall di New York. In programma, una versione da concerto dell’Otello di Verdi; Berlioz con la Sinfonia Fantastica e il suo seguito, Lélio, voce recitante di Gérard Depardieu come a Salisburgo; un’ouverture di Cherubini, il poema sinfonico Les Préludes di Liszt e la Quinta Sinfonia di Shostakovich. Il tutto, fra concerti pomeridiani e serali, preparato in meno di quarantotto ore.
Sono stati appuntamenti straordinari, la stampa ha scritto di un passaggio tempestoso, di «Muti che ha preso Manhattan by storm», di un’orchestra che ha stabilito un legame ancora più forte con il suo direttore musicale e, cosa che mi ha davvero inorgoglito, che il complesso ha ritrovato il livello sommo dei tempi di Fritz Reiner.
Da Ravenna a Chicago passando per Salisburgo con l’ultima edizione mutiana del Festival di Pentecoste, che quest’anno cade nella prima metà di giugno. In scena, I due Figaro di Saverio Mercadante su libretto di Felice Romani, sequel di Barbiere e Nozze, dove Cherubino si spaccia per Figaro. Lavoro scritto nel 1826 per Madrid che descrive un arco tra la scuola napoletana ormai declinante e il nuovo stile rossiniano ornando il tutto con stilemi iberici. Un unicum, insomma, che si vale della nostra Orchestra Cherubini con Muti e del coro dei Wiener Philarmoniker e vede la regia di Emilio Sagi.
Il manoscritto de I due Figaro proviene dalla Biblioteca del Conservatorio di Madrid e l’allestimento è una coproduzione tra il Festival di Salisburgo, Ravenna Festival e il Teatro Reale di Madrid. Gérard Mortier, direttore artistico del Teatro madrileno, vorrebbe creare un gemellaggio fra la città spagnola, Ravenna e Napoli (Ravenna per meriti sul campo fra Cimarosa, Paisiello eccetera riproposti negli anni; Napoli come luogo deputato all’opera napoletana; si pensi anche ai rapporti politici fra Napoli e la Spagna). Si tratterebbe di riprendere – l’esperienza di un lustro a Salisburgo mi sembra sufficiente – il lavoro iniziato sulla Salzach e proseguire per vie nuove. Questa estate a Salisburgo [dove in luglio Muti compie gli anni: auguri sin d’ora per i suoi settanta prossimi venturi portati con agio mozartiano] dirigerò Macbeth con la regia di Peter Stein e due produzioni del Requiem di Verdi assieme ai Wiener Philarmoniker. Finiti impegni e tournée, ricomincia la stagione stanziale a Chicago dove ogni concerto ha due o tre repliche. Stagione che va da settembre a giugno, comprende il Festival estivo di Ravinia, vicino Chicago, tournée negli USA, in Estremo Oriente o in Europa e di nuovo concerti in loco.
L’Italia: il Ravenna Festival, l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli.
A Ravenna torno con i miei giovani «cherubini» per Mercadante prima del consueto «Viaggio dell’amicizia» che quest’anno é a Nairobi (so che a Nairobi bambini stanno imparando brani che canteranno con noi). Quanto ad opere di repertorio da proporre nei grandi teatri, sto pensando a un tris verdiano: Macbeth, Attila ad apertura della stagione 2012 e in fine Simon Boccanegra, l’unica grande opera di Verdi che mi manca. Ho progettato anche un Requiem verdiano al San Carlo.
Opera di Roma, 16 marzo scorso, Nabucco per i 150 anni dalla costituzione dello Stato italiano, «Va’ pensiero» non solo bissato a furor di popolo ma, su invito di Muti, cantato dall’intero teatro con il direttore che chiosa: «non vorrei che questo Nabucco o altre opere fossero il canto funebre dell’ignominiosa scure che si e` abbattuta» sulla musica e sulla cultura italiana. Col seguito, per così dire, «da bella favola», che sappiamo: il «Veni, vidi, capii» (il latino é un’opinione) di Giulio Tremonti.
Il Fus, Fondo unico per lo spettacolo, é stato ripristinato, pare. La visita di Tremonti dopo tanti appelli di tanti musicisti e artisti dello spettacolo, visita di un’ora, fatta a chi da più di quarant’anni si è battuto per la cultura, mi ha fatto piacere se ha contributo a ridare alle istituzioni i ventisette milioni di euro congelati. Diciamo che sono stato l’iceberg di una montagna: la parte che si è scontrata col Titanic ma in un incontro costruttivo. Sono poi felice che quanto accaduto a Roma in marzo sia rimbalzato ovunque e abbia dato un peso importante nel mondo al nostro paese. Un teatro intero che canta col coro é un segnale positivo. Restituisce un grande orgoglio a quell’Italia che di questi tempi ai giornali stranieri interessa per altri motivi decisamente meno nobili. E` un momento di ammirazione ossigenante. Ci sono però molte considerazioni da fare sulla situazione del Bel Paese con relativi provvedimenti. Bisogna permettere ai teatri italiani di respirare. Bisogna anche fare pensieri seri su come tali teatri devono marciare. Non col passo lento e obsoleto di programmi messi su da persone che non hanno competenza o conoscenza in materia di musica secondo nomine che, a loro volta, nulla hanno a vedere con la conoscenza e l’esperienza musicale. In America vedono il direttore musicale al vertice delle istituzioni. Il motivo per cui nei programmi il suo nome compare prima di tutti gli altri, senza la piramide italiana di sovrintendenti, direttori artistici eccetera. Mentre in Italia il direttore musicale non ha potere di firma se non la propria autorevolezza, che é comunque musicale ma non legale. Non può prescindere purtroppo dal controllo esterno, esercitato troppo spesso da burocrati. E` tempo di finirla poi con «discorsi di eccellenza» ovvero con gare, fra un teatro e l’altro, a chi è o sarebbe il più bravo. Va svecchiato tutto un mondo teatrale legato a formule parassitarie. Ogni teatro, poi, deve essere messo in condizione di dimostrare quanto sa fare e quanto vale. Ci vuole anche una maggiore collaborazione fra le diverse Fondazioni liriche, senza ambizioni infantili da primi della classe. Non è un caso che i grandi festival mondiali, oggi, guardino con meno interesse all’Italia. Questo perchè il nostro paese si è impantanato. E poi quella italiana é una realtà molto particolare, fatta anche di tanti piccoli, splendidi teatri. Ha caratteristiche sue proprie e imprescindibili. Insomma. C’è molto cammino da fare. Bisogna però che i luoghi siano operativi in maniera moderna e non risultino invece istituzioni assistenziali.
L’Italia e il mondo...
Chicago, Salisburgo, Roma, Napoli che vuole recuperare la sua grande storia sono tutti elementi cui un musicista italiano può guardare. Penso all’Orchestra Cherubini che ho creato e cresciuto, che si è guadagnata onori a Mosca e Parigi, è stata per cinque anni protagonista del Festival di Pentecoste a Salisburgo ed è il complesso in residence del Ravenna Festival. Orchestra che è stata diretta da bacchette somme come Kurt Masur e Yuri Temirkanov; che quest’anno offre un programma interamente lisztiano con Michele Campanella. Tutto questo è la dimostrazione che in Italia esiste una realtà giovanile importante. A patto, s’intende, che chi fa musica sia messo in condizione di dare il suo contributo. E qui sta il problema. Uno dei tanti.

intervista di Alberto Cantù ("MUSICA", n.227, giugno 2011)

sabato, giugno 22, 2013

Luciano Berio... circa "Sinfonia"

Luciano Berio (1925-2003)
Rossana Dalmonte, nel suo libro intervista "Luciano Berio. Intervista sulla musica (Laterza, 1981) chiede, tra tanto altro, a Luciano Berio...
 
Il principio della trasformazione di cui parlavi prima. Come colleghi il tuo uso del folklore, sia come gesto che come processo, con la funzione che la citazione e l’autocitazione hanno nelle tue opere? Penso a un’opera come Sinfonia, per esempio.
C’è una relazione molto stretta, a patto di non considerare la terza parte di Sinfonia, alla quale certamente ti riferisci, un collage di citazioni. Non ho alcun interesse per i collages e mi divertono solo quando ci gioco coi miei figli: diventano un esercizio di relativizzazione e di "decontestualizzazione" delle immagini: cioè un elementare esercizio di sano cinismo che, tutto sommato, non guasta mai. Questa terza parte di Sinfonia ha uno scheletro che e lo Scherzo della Seconda Sinfonia di Mahler, uno scheletro che spesso riernerge in carne e ossa vestito di tutto punto e che poi scompare e riappare... Ma non è mai solo: lo accompagna "la storia della musica" che lui stesso suscita in me, con tutta la sua pluralità di livelli e la moltitudine di riferimenti - quella, almeno, che mi è riuscito di controllare, considerando che spesso coesistono, simultaneamente, fino a quattro riferimenti diversi. Lo Scherzo della Seconda Sinfonia di Mahler diventa quindi un generatore di funzioni armoniche e di riferimenti musicali a loro pertinenti, che appaiono, scompaiono, si incamminano per la loro Strada, ritornano a Mahler, si intrecciano, si trasformano in Mahler e ci si nascondono dentro. I riferimenti a Bach, Brahms, Boulez, Berlioz, Schoenberg, Stravinsky, Strauss, Stockhausen, ecc. sono dunque anche segnali che indicano quale paese armonico stiamo attraversando, come dei segnalibri, come delle bandierine di colori diversi che si mettono nei punti significativi di una carta geografica durante una spedizione piena di sorprese. Era da molto tempo che avevo in mente di esplorare dall’interno una musica del passato, un’esplorazione creativa che fosse al tempo stesso un’analisi, un commento e un’estensione dell’originale, fedele al mio principio (che si perde nella notte dei tempi) che il miglior modo di analizzare e di commentare qualcosa o, per un compositore, fare qualcosa utilizzando i materiali di quello che si vuole analizzare e commentare. Il commento più proficuo alle sinfonie e alle opere e sempre stato un’altra sinfonia e un’altra opera. I miei Chemins sono l’analisi migliore delle mie Sequenze, così come la terza parte della mia Sinfonia è il commento più approfondito che avrei mai potuto condurre su una musica di Mahler. Originariamente l’idea di questa terza parte di Sinfonia non era però legata a Mahler ma a Beethoven. Pensavo infatti di far "esplodere" armonicamente gli ultimi tre movimenti del Quartetto in Do diesis rninore op.131 di Beethoven, senza però citazioni e, invece, con "bandierine" composte da me. Le parti vocali avrebbero avuto un carattere più strumentale e il testo, naturalmente, sarebbe stato di tutt’altra natura. Ho finalmente optato per Mahler non solo perché è spontaneamente proliferante, ma anche perché mi permetteva di estendere, di commentare e di trasformare tutti i suoi aspetti: anche quello della scrittura orchestrale. Mi interessava cioè una struttura portante che fosse ogni tanto riconoscibile nella sua veste originale. Tradurre in termini orchestrali l’op.131 di Beethoven sarebbe stata un’operazione piena di rischi e, dato l’assunto, non completamente giustificata. Questa operazione mahleriana, dunque, questo viaggio a Citera della terza parte della Sinfonia a bordo del vascello mahleriano, acquista pero un senso completo quando viene a sua volta commentato dalla quinta parte conclusiva di Sinfonia, che e di gran lunga la più complessa anche perché commenta, riassume e trasforma tutte le altre. Le prime quattro parti di Sinfonia stanno alla quinta come lo Scherzo di Mahler sta alla terza parte. Cioè lo scheletro, la struttura portante della quinta parte e costituita dalle quattro parti precedenti che però appaiono spesso in maniera sommaria, talvolta quasi stenografica e altre volte in forma completa. L’ordine di apparizione dei frammenti è però modificato. La seconda parte, per esempio, vi appare tutta intera, trascritta da cima a fondo, assieme a elementi preponderanti della terza parte e alcuni della prima, oltre a nuovi caratteri che si sono venuti via via formando. La seconda parte diventa cioè la struttura portante di molti altri elementi già ascoltati prima che appaiono a frammenti, contratti e assimilati, strumentalmente e vocalmente, agli elementi nuovi che commentano il commento del commento... La dislocazione imprevista e discontinua degli eventi già ascoltati prima provoca una sorta di arresto nello stream of consciousness, nel "flusso della coscienza" (musicale) che caratterizzava le parti precedenti e soprattutto la terza. La memoria viene continuamente sollecitata e chiamata in causa, ma allo stesso tempo essa viene negata e frustrata. Finalmente, o su un elemento della prima parte che confluisce a poco a poco tutto lo sviluppo che diventa perciò più omogeneo e unanime. La prima parte non concludeva, si era improvvisamente arrestata ed era rimasta aperta. La quinta parte conclude Sinfonia portando a un termine lo sviluppo, rimasto sospeso, della prima. La terza parte di Sinfonia e dunque il centro e anche il modello macroscopico di tutto il lavoro. Ha anche una funzione centrifuga nel senso che i suoi meccanismi coinvolgono la totalità del lavoro proiettando e ammassando nella quinta parte conclusiva frammenti di quella totalità.
Siamo ben lontani, come vedi, dal collage di citazioni. Sinfonia è un lavoro molto omogeneo che guarda dentro se stesso. Il trattamento del testo è di natura analoga allo sviluppo musicale ed è molto complesso.
David Osmond-Smith ha terminato un lungo ed esauriente studio su Sinfonia, con particolare attenzione all’uso dei testi. Semplificando al massimo, vorrei solo accennare al fatto che la prima parte di Sinfonia elabora frammenti di testi di Claude Lévi-Strauss (da Le cru et le cuit), come se fossero inizi di narrazione continuamente interrotta. E' il Lévi-Strauss-grande scrittore che interviene qui e non, in maniera esplicita, il Lévi-Strauss-grande-antropologo. Come dicevo prima, questa prima parte ha uno sviluppo musicale anch’esso interrotto - proprio nel momento in cui comincia a configurarsi come un concerto per pianoforte e orchestra; sviluppo che verrà ripreso e condotto a termine nella quinta e ultima parte. La seconda parte ha una struttura musicale totalmente diversa e non ha un testo vero e proprio ma soltanto un avvicendamento di elementi fonetici che conducono alla graduale "scoperta" e alla enunciazione del nome del martire negro Martin Luther King. Anzi, O Martin Luther King - per dare maggiore continuità e completezza alla sequenza vocalica. La terza parte ha un testo pilota di Samuel Beckett (tratto da The Unnamable), un testo proliferante così com’è
proliferante il "testo" musicale di Mahler che gli è parallelo. Una delle proliferazioni più importanti del testo di Beckett (non è la sola) è la sequenza di segnali verbali che descrivono, talvolta con metafore e altre volte in maniera esplicita, le varie tappe del viaggio armonico, quello musicalmente segnalato e puntualizzato dalle citazioni-bandierine. La quarta parte si bocca sulle prime due note e le prime due parole del IV movimento della Seconda Sinfonia di Mahler, tradotte in francese onde permettere un fuggevole collegamento con un’immagine di Claude Lévi-Strauss-grande-scrittore: appel bruyant. Quindi: "O Roschen roth! (rose de sang appel buyant)". La quinta parte, infine, parallelamente alla musica, riprende frammenti di testi delle quattro parti precedenti. I frammenti interrotti di Lévi-Strauss-grande-scrittore apparsi nella prima parte vengono finalmente completati, il discorso viene condotto a una sua possibile conclusione e l’uso del testo, così come si struttura musicalmente, suggerisce anche un suo fondamento scientifico, non solo poetico. Ed è infatti solo allora che cerco di rendere omaggio a Lévi-Strauss-grande-antropologo.
Si sta finalmente preparando una nuova versione discografica di Sinfonia. Quella esistente è sfortunatamente incompleta perché, come si fa di solito, fu registrata subito dopo la prima esecuzione delle sole prime quattro parti a New York, nel 1968. Riuscii a terminare la quinta parte solo tre mesi dopo quando mi convinsi profondamente della sua necessità.
 
Rossana Dalmonte intervista Luciano Berio (da "Intervista sulla musica", Editori Laterza, 1981)

venerdì, giugno 14, 2013

Gesualdo: il Quinto e il Sesto libro de’ Madrigali (1596)

Rosso Fiorentino
(Venus e Cupido)
Il Quinto Libro de’Madrigali insieme con l’ultima pubblicazione di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa”, il Madrigali a Cinque voci, Libro Sesto, furono pubblicati entrambi nel 1611 a Gesualdo, un villaggio (posto nel centro del sud Italia tra Napoli e Bari) che prende il nome proprio dall’antica e nobile famiglia del nostro compositore. Al centro del paese, su una roccia, si erge il castello privato di famiglia: per poter stampare questi libri Gesualdo affidò a Jacopo Carlino il compito di allestire una tipografia in un locale del castello. Queste due pubblicazioni furono poi ristampate postume: nel 1613, nella tipografia genovese di Giuseppe Pavoni, in una inconsueta e pregiata versione che il liutista Simone Molinaro ci propone “in partitura” (cioè con le linee melodiche delle voci stampate insieme, in modo da poterle leggere e studiare simultaneamente, come avviene oggi in una edizione moderna); e nel 1614 (Quinto Libro) e 1616 (Sesto Libro), nella consueta veste in cinque libri separati (un libro per ciascun cantante) nella tipografia veneziana di Bartolomeo Magni a Venezia (erede del celebre tipografo Angelo Gardano).
I due libri, che potremmo definire “gemelli”, furono entrambi curati da Pietro Cappuccio (che eviterà al principe il triviale lavoro di redazione che non si addice al suo stato d’aristocratico): questi firmerà le dediche a distanza d’un solo mese l’una dall’altra. Nelle nostre precedenti pubblicazioni della Naxos (dedicate alla registrazione completa di tutte le opere profane di Gesualdo) già osservammo quanto fosse inopportuno che un nobile si occupasse della stampa di musica e dei motivi per ricorrere ad un curatore manuale dei propri lavori. Sappiamo anche quanto fosse usuale per il nostro principe gemellare la pubblicazione delle proprie opere: era già accaduto nel 1594 quando furono pubblicati contemporaneamente, da Vittorio Baldini a Ferrara, il Primo e il Secondo Libro. Se quest’ultimo era stato il naturale seguito del Primo (o viceversa come suppongono alcuni recenti studi), così il Sesto prosegue il Quinto e conclude la poetica di un genio musicale che non conosceva limiti nella ricerca e nella creatività: egli aveva l’opportunità di sperimentare e superare i limiti convenzionali dell’inventiva musicale, in piena autonomia e libertà, svincolato da ogni tipo di assoggettamento. Solo in questa ottica potremmo giustificare le geniali anomalie presenti nella sua musica polifonica che ancor oggi stupisce e affascina sia l’avveduto musicista come l’ascoltatore amatore.
La grande distanza tra il Quarto Libro del 1596 e queste due pubblicazioni del 1611, ci costringe ad indagare gli avvenimenti che affiancano l’intenso lavoro artistico di Gesualdo: cosa avvenne in quei lunghi quindici anni di silenzio editoriale? Tale periodo coincide con lo spostamento dell’aerea d’interesse del compositore da Ferrara verso Gesualdo. Nel 1594, poco dopo le seconde nozze, Gesualdo (probabilmente infastidito dal mondo bisbetico della vita a corte, che non gli avrebbe mai condonato quella sua storia drammatica o la sua originalità di vita) lascia Ferrara con lo scopo di approfondire le curiosità nel campo culturale nel nord Italia: abbandonando la sposa nella sua città natale, parte per Venezia dedicandosi a perdersi nel labirinto delle calli di quella meravigliosa città lagunare. Visita le famose stamperie cittadine (quelle che pubblicano la maggior parte delle composizioni musicali sacre e profane del tempo), attratto particolarmente dalla sapiente arte tipografica di Angelo Gardano. Il meticoloso cronista Fontanelli è sempre a suo fianco con il compito di riferire la sua vita quotidiana alla corte degli Este (era la sua incombenza da quando il duca Alfonso II lo inviò per avere maggiori notizie del suo futuro e originale parente prima del suo arrivo a Ferrara; questi documenta la calorosa accoglienza da parte del doge e del patriarca di Venezia, di cui fu ospite. Accanto al sontuoso trattamento, registriamo una certa curiosità da parte della nobiltà veneziana a conoscere da vicino un personaggio così discusso. Pur tentando d’evitare, per quanto possibile, i vari inviti mondani a favore del tempo dedicato alla composizione musicale, avvenne che durante una cena offerta dal patriarca, Gesualdo fu invitato ad ascoltare un concerto in suo onore: al termine dell’esecuzione musicale si alza sulla sedia e di fronte a tutti rimprovera il cantante e il clavicembalista per la pessima esecuzione, tanto che Fontanelli confessa: “provai pena per loro”. Purtroppo il cronista non si dilungò a descrivere quali fossero le mancanze esecutive che adirarono il principe: l’occasione poteva essere fondamentale per conoscere le scelte esecutive desiderate dal compositore. Nella grande quantità di documenti che ci rimangono, nemmeno una frase viene spesa riguardo l’identità della cappella musicale del principe; non conosciamo nemmeno l’identità degli artisti e delle voci che cantarono realmente i suoi madrigali. Rimarrà il dubbio se questi fossero realizzati anche da strumenti o solo nella loro originale concezione “a cappella”. Chissà se le sue osservazioni potessero essere simili a quelle di Vincenzo Giustinani (1564–1637) nel suo Discorso sopra la musica de’ suoi tempi, 1628: “moderare e crescere la voce forte o piano, assottigliandola o ingrossandola, che secondo che veniva a’ tagli, ora con strascinarla, ora smezzarla, con l’accompagnamento d’un soave interrotto sospiro, ora tirando passaggi lunghi, seguiti bene, spiccati, ora gruppi, ora a salti, ora con trilli lunghi, ora con brevi, et or con passaggi soavi e cantati piano, dalli quali talvolta all’improvviso si sentiva echi rispondere, e principalmente con azione del viso, e dei sguardi e de’ gesti che accompagnavano appropriatamente la musica e li concetti, e sopra tutto senza moto della persona e della bocca e delle mani sconcioso, che non fusse indirizzato al fine per il qual si cantava, e con far spiccar bene le parole in guisa tale che si sentisse anche l’ultima sillaba di ciascuna parola, la quale dalli passaggi et altri ornamenti non fusse interrotta o soppressa, e con molti altri particolari artificj et osservazioni che saranno a notizia di persone più esperimentate di me. E con queste sì nobili congiunture i suddetti musici eccellenti facevano ogni sforzo d’acquistar fama et la grazia de’ Prencipi loro padroni, dalla quale derivava anche il loro utile”.
Gesualdo fu un personaggio discusso e amato già nella sua epoca, ricercato e temuto allo stesso tempo: se il suo punto di vista non fu mai quello della persona comune, ma quello d’un personaggio che ci offre un diverso modo di vedere le realtà che ci circondano, così la sua musica percorre strade non convenzionali, visioni espressive inedite, dissonanze che il musico di corte non poteva assemblare (o non poteva osare). La sua posizione sociale, il suo vissuto, la sua sensibilità e la sua arguta genialità artistica lo rendevano un’affascinante e ambìto personaggio di cultura. Se all’epoca il “fascino dell’assassino” (parafrasando un termine cinematografico) ne accentuò l’interesse da parte della vita salottiera ed effimera a cavallo del Seicento, oggi il Gesualdo musicista attrae maggiormente rispetto all’episodio che lo segnò nella vita. All’epoca colpisce la figura di Gesualdo, principe, nobile dell’alta società (educato agli alti valori aristocratici di una famiglia di secolare storia) che ristabilisce l’onore della sua casata uccidendo il bene più prezioso che possiede: l’amore verso Maria d’Avalos. Egli non fu mai un uomo del popolo, vittima e preda d’un proprio istinto violento (e quindi condannabile): egli fu obbligato a compiere un “delitto d’onore” richiesto dalle leggi dell’epoca per non essere deriso da tutti. Quel gesto, che lo riscattata nell’onore, lo condannerà nella società cortigiana.
A questo ritratto convenzionale addossatogli dalla società, Gesualdo risponde rifiutando la vita di corte e isolando se stesso e la sua musica. Se nelle antecedenti opere era costretto ad indossare il ruolo di violento uxoricida vendicativo, portandolo ad indagare una realtà musicale rabbiosa, irascibile, furiosa e turbinosa, ora desidera mostrare la sua sorte d’essere umano sofferente, tormentato, angosciato e afflitto da un destino che lo torturerà e strazierà fino alla morte: quest’uomo, che non aveva altro amaro riscatto dalla sua vicenda che ritirarsi nella musica, desidera farci partecipi degli incubi e delle ossessioni di uno stato d’animo provato, in cui la morte diventa protagonist morbosa dei suoi interessi e della sua poetica. Su ventitrè madrigali che compongono il Sesto Libro (un numero abbondante rispetto alle altre pubblicazioni) ben tredici contengono la parola “morte”: anche se, forzatamente, vogliamo dimenticare Gesualdo come violento assassino non possiamo dimenticare che, la morte segnerà ferocemente la vita quotidiana. Come una maledizione divina subentra sempre nella sua vita senza possibilità di scampo.
Nella composizione di madrigali (che, mai come in lui, sono frutti assai maturi e ponderati ma contemporaneamente asprigni nel loro sapore) potrà continuare a parlare di amore e del rifiuto dell’amore, di morte e di sofferenza, di gioia e di dolore: lo farà con forme asimmetriche, volutamente non regolari nella scrittura, segnate da un dolore che non ammette equilibrio. Il testo, oltre ad essere fonte d’ispirazione, diviene pretesto d’espiazione: la cultura diviene riscatto dalla società. I madrigali descrivono sentimenti intimi ma non situazioni reali. Se queste sono state vissute in maniera reale, la sua arte le traspone in un mondo irreale, composto solo da emozioni, non da cronache di vita. I fatti appartengono alla vita reale, i sentimenti come gioia, dolore, sofferenza e i loro contrasti che macerano il nostro cuore, appartengono all’arte. Non esiste autobiografia nella sua opera in quanto la realtà non esiste: esiste solo il sentimento e l’espressività. Tramite l’arte si difese per rivalutare la propria immagine: nei madrigali e nella loro realizzazione estrema, fisserà un mondo che non è realtà ma solo essenza della vita.
Attraverso le parole, la musica diviene emozione, sentimento. La sfera affettiva viene mossa in chi ascolta. Se il Cinquecento musicale aveva ricercato bellezza attraverso un equilibrio, nelle ultime opere di Gesualdo assistiamo al dissesto di tale equilibrio, verso un’instabilità armonica e ritmica che offre all’ascoltatore solo divenire e mai staticità. L’eccezione diviene la regola. Mai una cadenza diviene realmente conclusiva ma sempre un esito inaspettato ci coinvolge: nella concatenazione armonica, quando modula in toni lontani da quello che l’orecchio desidera; nel fluire ritmico, quando nemmeno l’accordo finale suggerisce stabilità in quanto emerge sempre una voce in ritardo o in sincope rispetto le altre. Come scrive Claudio Gallico “l’assunzione di responsabilità espressiva lo conduce ad un’osservazione crudamente obiettiva di stati dell’animo. L’espressione, benchè altamente personalizzata, soggettivamente determinata, vive nell’immaginario, stilizzata in una selva di finzioni, di maschere. A quel punto la cultura rinascimentale è disintegrata”.
Nel Quinto e Sesto Libro il rapporto con il testo varierà rispetto la sua poetica precedente. Non sarà più il concetto poetico ad ispirare la musica ma la suggestione offerta dalla singola parola: da essa, e solo da essa, sgorga musica non più come effimero “madrigalismo” pittorico ma quale profondo significato offerto dalla sua suggestione. L’affresco musicale suggerito dall’immagine poetica si frammenta sempre di più. Il risultato ci conduce ad un’evidente discontinuità del discorso musicale: le ultime opere vivranno d’immagini brevi, interrotte, alternate da pause (mai così copiose nella letteratura madrigalistica), in cui il silenzio diviene preparazione, meditazione o sofferenza interna. Proprio il silenzio diviene pensiero musicale, vera essenza della musica o forse anche negazione d’essa stessa: voluta, desiderata, ricercata.
Tali sofferte e raffinate ricerche musicali erano destinati a pochi: chi desiderava conoscere il principe di Venosa lo preferiva nella veste d’assassino della moglie e del suo amante. Riconoscere in lui il segno della follia omicida (da qualche particolare celato che nessun altro aveva colto), vederlo camminare incontrastato e assolto dalla società (pur essendo un assassino), era sicuramente nell’interesse della corte di Ferrara come in quello della nobiltà della Serenissima Repubblica di Venezia che vivevano entrambi di pettegolezzi e vociferazioni. A Ferrara come a Venezia, egli poteva contare su ferventi sostenitori (ammiratori del suo originale genio musicale) ma contemporaneamente si doveva difendere da accaniti moralisti che vedevano in lui solo il lato violento e vendicativo. Nascono così molte maldicenze di cui non possiamo verificare l’autenticità: si mormorava, ad esempio, ch’egli picchiasse la sua seconda moglie e che avesse un lungo stuolo di amanti a causa del suo fascino d’artista meridionale ombroso. Forse deluso dal fatto di potersi rifare una vita nella città che era definita il fulcro culturale del mondo, in quella Ferrara che era la patria del madrigale, della musica di Giaches de Wert, di Luzzasco Luzzaschi, dell’eccezione esecutiva che vedeva (al contrario di tutto il mondo che preferiva voci maschili) alcune donne proporsi quale gruppo musicale chiamato le Dame di Ferrara, egli ritornerà nel suo castello a Gesualdo detestando tutta questa vita. Lontano da quella corte che definirà “covo di vipere”, in quella località che Fontanelli descrive come un “paese ameno et vago alla vista quanto si possa desiderare, con un’aria veramente soave et salubre”, potrà affidarsi ai suoi sudditi fedeli e riservati, dedicarsi finalmente alla caccia, alla composizione musicale, ai suoi affari pubblici e privati del grande territorio che aveva il piacere e l’onere di amministrare.
Ritornerà a Ferrara, ma solo per curare la pubblicazione del suo Terzo e Quarto Libro de’ Madrigali e per la nascita del figlio Alfonsino (Gesualdo aveva giá avuto un figlio da Maria d’Avalos, Emanuele). Quando la città di Ferrara passa inesorabilmente sotto il potere della chiesa di Roma perdendo la sua libertà, mentre la famiglia d’Este si trasferisce a Modena, la moglie Eleonora e il figlio Alfonsino, accompagnati dai suoi servitori e dall’onnipresente Fontanelli, si trasferiscono al castello di Venosa e poi insieme a Gesualdo. Purtroppo nel 1598, Alfonsino muore e secondo alcuni studiosi (che sostengono che le opere pubblicate nel 1611 sarebbero concepite nel periodo ferrarese), da questo momento Gesualdo non comporrà alcun madrigale ma solo opere sacre: le Sacrae Cantiones (1603) e i Responsoria (1611). Nel 1602 muore il cardinale Alfonso Gesualdo lasciando tutte le sue ricchezze a Carlo che divenne sempre più potente e ricco, ma contemporaneamente molto solo. Nel 1607 il primo figlio Emanuele si sposa con la contessa boema Maria di Füstenberg. La gioia di quest’avvenimento e del nuovo nipotino, non concessero felicità e serenità al nostro compositore aristocratico: Emanuele per anni non perdona al padre l’assassinio della madre, e Gesualdo non parteciperà alle nozze del figlio. Un segno di riconciliazione sembra essere la visita degli sposi nel 1609, con il perdono da Emanuele, ma un nuovo colpo del destino trafigge Gesualdo: il nipotino muore. Le sventure non terminano qui, minando definitivamente il desiderio di vivere del principe: nel 1611, con la moglie incinta, Emanuele cade da cavallo durante una caccia e muore anch’egli. Maria di Füstenberg partorirà una femmina, cagionando la conclusione della dinastia dei Gesualdo: appresa la triste notizia, il principe chiuderà lentamente il suo clavicembalo, farà testamento e si rinchiuderà nella sua stanza senza voler più vedere nessuno. Morirà diciotto giorni dopo, l’8 settembre 1611 mentre la moglie si ritirerà in convento.
L’abate Michele Giustiniani nelle sue Lettere memorabili, 1667, tratteggia un uomo costantemente malato e preso da quel sentimento d’espiazione da noi già tratteggiato: “una strana infermità la quale gli rendeva soave le percosse che si faceva nelle tempie e nelle altri parti del corpo, con frapporvi un involto di stracci. Stravagante ricompensa ch’avendo il principe con la melodia e soavità del suo canto e del suono recato agli astanti ammiratione e contento, ricevess’egli all’incontro nell’interne sue angoscie ristoro e quiete da fierissime battiture”. Alcuni studiosi affermano che il suo desiderio perverso di autopunizione non fosse solo dovuto alla colpa per l’uxoricidio, ma anche al senso di peccato per una celata vita amorosa: sappiamo con sicurezza che Gesualdo ebbe almeno un figlio concepito al di fuori del matrimonio, Antonio Gesualdo, perchè lui stesso lo cita alla fine del suo testamento, ma c’è anche chi cita un gravoso senso di colpa per una relazione con un bel ragazzo “atletico”, Castelvietro da Modena. Se non mancano documentazioni, a fatica comprendiamo quali testimonianze fossero vere e quali dicerie e pettegolezzi che (oggi come allora) affiancano le figure più eminenti e discusse del tempo. Sicuramente un principe di quel livello e di quella ricchezza aveva l’opportunità e la possibilità d’avere tutto ciò che desiderasse, fossero anche relazioni extraconiugali con ragazze o ragazzi: come prescelti, questi avrebbero goduto della protezione, del benessere o (come vediamo per il figlio naturale Antonio) d’un vitalizio da parte del ricco padre. Tutto questo, anche se contrasta con la delineazione di una persona afflitta e sempre malata dell’abate Giustiniani, potrebbe anche essere vero: il principe, nelle serate fredde invernali, avrebbe realmente gradito farsi riscaldare il letto e lenire la schiena con il corpo caldo di graziose adolescenti o anche d’avvenenti ragazzi? Personalmente queste ipotesi mi ricordano più quelle scene tardo-romantiche della vita di Ludwig di Baviera immortalate nel capolavoro cinematografico di Luchino Visconti piuttosto che la vita di un principe rinascimentale: ma tutto ciò fa parte di quel mondo di fantasie che accompagnano per secoli quest’autore che, oggi come all’ora, fa parlare di se e fa discutere…o, forse, solo ammirare.
Marco Longhini

venerdì, giugno 07, 2013

Alberto Mantelli: il Terzo Programma Rai

Terzo Programma Rai
Il Terzo Programma, che inizierà le sue trasmissioni a partire dal 1° ottobre 1950, sarà diffuso dalle 21 alle 23,15 circa dalle stazioni a modulazione di frequenza di Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia e dalle stazioni a onda corta di Roma.
 
Se si considera la storia della radiodiffusione nelle sue linee essenziali, si disegnano a tutt'oggi tre momenti fondamentali di cui l'ultimo viene sorgendo sotto i nostri occhi proprio in questi anni.
Createsi le condizioni organizzative e tecniche della diffusione e quelle tecniche della ricezione, la radio si pose come fatto così nuovo e senza precedenti che visse i suoi primi anni quasi non altrimenti che come meraviglioso giocattolo, come magica scatola che sapeva trasportarci ovunque nel mondo al calar della notte. Chi non s’affidava allora con sempre rinnovato stupore al tappeto incantato, quasi emerso dalla favola, per trasvolare la notte dai velluti e dagli ori del primo teatro del mondo - sonoro come un oscuro alveare posato sulla riva di via Manzoni - al locale di Budapest a specchio del Danubio; dal misterioso pulsare del metronomo che segnava i silenzi di Radio Vienna e lasciava trasparire, come attraverso un retino tipografico, l'immagine notturna dell'agonizzante capitale di un mondo disfatto della prima guerra del nostro secolo, ai rintocchi solenni della torre di Westminster che recavano sul loro suono in ogni casa d’Europa quella del fiume, delle strade e dei giardini di Londra?
I programmi di quel tempo tendevano ad essere cosiffatti da intrattenere ognuno, da lasciarsi ascoltare indifferentemente in ogni casa ove fosse accesa una radio.
Se pure, per molto tempo da allora, il semplice fatto dell'ascolto recasse con se il magico fascino delle lontananze valicate, presto la radiodiffusione acquisì la coscienza della propria missione E si definì un modo di comporre e distribuire i programmi che, attraverso assestamenti di non essenziale rilievo, sussiste tuttora. Un modo che derivò dal dato di fatto reale ed inequivocabile che la radio è strumento destinato a tutti e pertanto ha il compito di fornire un complesso di prestazioni rivolte e adeguate alle esigenze dell'intera gamma dei gusti e delle predilezioni, delle attitudini e della cultura degli ascoltatori. Fu e rimane il metodo di programmazione che potrebbe definirsi di trasmissioni differenziate in un programma indifferenziato; il cui obbiettivo consiste nella composizione di una somma equilibrata ed armonica di elementi di genere diversissimo e tale pertanto da soddisfare, singolarmente prese, le esigenze di tutti gli ascoltatori.
Ne risulta un programma entro cui questi ultimi devono operare una scelta. Per la sua necessaria ed equamente distributiva costituzione, è un programma nel quale nessuno dovrebbe, in linea di principio, lamentare l'esistenza di trasmissioni non gradite. Il concerto sinfonico oggi e la rivista domani diffusi alla stessa ora, proprio col loro attrarre e insieme respingere rispettivamente due grandi gruppi di ascoltatori, caratterizzano questo metodo di programmazione che fornisce un programma rivolto a tutti, ma composto proprio per ciò di elementi che nel loro succedersi producono un generarsi contemporaneo di interessi, di repulsioni, di indifferenze.
L'originario concetto, ed esattissimo, della collettiva destinazione del programma radiofonico dovette incidere così fortemente nell’animo di coloro che da più di un ventennio lavorano per la radio e ogni giorno ne considerano i problemi, che la prassi delle trasmissioni differenziate in un programma indifferenziato rimase immutata.
Cosicché, mentre sotto ogni aspetto la produzione radiofonica veniva perfezionandosi, il metodo di programmazione non si modificava, pur essendo sensibile una sua fondamentale segreta deficienza: l'indifferenziazione dei programmi.

E' fenomeno caratteristico degli eventi profondamente nuovi e di grande incidenza sulla vita dell’uomo di subire una sorta di arresto, che si prolunga, per un certo tempo, dopo la loro comparsa. Ed è probabile che l’avvento della radiodiffusione sia soggiaciuto a ciò. Va però considerato del pari il fatto che l'estendersi dell'suo della radio come strumento di svago e di cultura, l'esser divenuta la radio una sorta di necessario strumento per l'uomo è fenomeno relativamente recente. E questo fatto proprio, il fatto cioè dell'ormai sempre più radicata presenza della radio nella vita dell’uomo, reca implicito che lo strumento che essa è, venga a corrispondere, nel modo migliore e più continuativo, a quanto possano chiedervi coloro che se ne valgono.
Non solo allora, per una spinta interna e naturale di evoluzione, ma anche per uno stimolo esterno tendente ad adeguarla alle esigenze del servizio che essa adempie, la radio si è affacciata ad una svolta del suo cammino. Una svolta di estrema importanza e la prima, forse, veramente decisiva dal giorno della sua comparsa.
Il passo che la radio si accinge a compiere, in questi anni successivi all'ultima guerra, consiste nell'affiancare alla prassi della programmazione indifferenziata quella della programmazione differenziata, tendente cioè ad operare una vasta, sia pur sommaria, ma fondamentale selezione nella folla degli ascoltatori. Non è difficile determinare il percorso di questa immaginaria frontiera e la spartizione che essa viene ad operare tra gli ascoltatori: raggrupparli sulla base di due fondamentali esigenze. Da un lato quelle di coloro che chiedono alla radio un puro, facile svago che non impegni se non al minimo l'attenzione. Dall'altro quelle di coloro che, per naturale tendenza o per acquisita attitudine, non solo sono disposti ad ascoltare, ma anche esigono programmi che richiedono, in vario grado, un'attenzione impegnata, Ed ecco raccogliersi, da un lato, le trasmissioni cosiddette leggere, dall’altro, quelle cosiddette serie o culturali.
L`avvio verso un tipo differenziato di programmazione ha avuto la sua prima realizzazione in Inghilterra dove, qualche anno fa, il complesso dei programmi irradiati dalla BBC si suddivise in tre distinti settori: leggero, culturale (e cioè i due termini della differenziazione) e medio, conservante il carattere indifferenziato di prima.
Questa riforma dei programmi attuata dalla BBC non fu un atto fortuito e arbitrario, un lusso insomma ed un capriccio di una grande organizzazione radiofonica. Ma fu per contro uno dei primi passi verso un nuovo indirizzo sul metodo di programmazione che rispondeva ad una situazione ormai divenuta matura.
Questa riforma poneva in essere un evidente vantaggio nei confronti degli ascoltatori: essi venivano così a disporre simultaneamente di due programmi differenziati e specializzati, uno serio ed uno leggero, per tutta la durata delle ore di trasmissione. Si determinava anche un sensibile vantaggio nei confronti delle trasmissioni serie o culturali considerate nel loro valore assoluto. ln questo senso: che il trasferimento di tali trasmissioni da un programma indifferenziato ad un programma speciale rendeva possibile ed agevole un loro intrinseco, sostanziale miglioramento in seno ad un programma indifferenziato una trasmissione seria o culturale finisce sempre col soggiacere a limitazioni derivanti dalla preoccupazione di quella generica, collettiva tollerabilità su cui si fonda il criterio della indifferenziazione. Confini che ovviamente ed istintivamente si stabiliscono sempre su di una quota alquanto più bassa, non solo delle rarefatte punte di più difficile ascolto, ma di una stessa media elevata.

Che il fenomeno ora descritto sia apparso ad un certo momento - e cioè nell'immediato ultimo dopoguerra - come una realtà di cui bisognava tener conto, lo prova il sorgere di iniziative tendenti a creare delle zone di ascolto, chiaramente circoscritte ed esplicitamente denunciate agli ascoltatori, entro le quali si agiva con la massima libertà verso punte più difficili e meno accostanti. ln regime di programmazione indifferenziata questa soluzione liberava parzialmente le trasmissioni serie dal vincolo di coesistenza e quindi di tendenziale livellamento versa il meno difficile. Non occorre ricordare le varie iniziative attuate in questo senso dalla Radio Italiana, tra cui la più notevole fu quella del Teatro dell'usignolo prima e dei Notturni dell'usignolo in seguito. Vere zone di ascolto specializzate e primo passo verso una differenziazione dei programmi. tesi come sono da ricordare le trasmissioni del Club d’essai messe in onda dalla Radiodiffusion Française.
Dicevo poc'anzi che la tendenza alla differenziazione dei programmi non deve essere considerata un fenomeno casuale e arbitrario, che avrebbe potuto indifferentemente determinarsi o non determinarsi.
Qui si sommano e si compenetrano due fattori interdipendenti.
L’uno, consistente nel fatto che la radio ha acquisito, negli ultimi anni, una presenza sempre più viva nella vita dell’uomo: dal che deriva che l’uomo è indotto a richiedere ad essa dei "servizi" meno
generici e più adeguati alle proprie intime esigenze.
L'altro consistente in questa precisa realtà: che il fatto culturale, inteso nel suo significato più comprensivo, batte alla porta dello spirito dell'uomo e in particolar modo dell’uomo occidentale. Se la condizione umana quale oggi sussiste (comunque e da qualsivoglia causa o complesso di cause provocata) può indurre ad un disperato e spensierato rifuggire dai problemi, ad un "lasciarsi vivere" piuttosto che a "vivere", questa condizione umana induce anche, oppostamente, a guardare nella vita, a interrogarla, ad affidarsi a quelle risposte che nella fuga dei secoli i grandi spiriti hanno dato ed eternato nelle loro opere e a quelle altre che, nel nostro tempo, si sforzano di dare artisti, pensatori e scienziati.
Quell'atteggiamento letterario del nostro tempo (ma non solo letterario, s’intende) che i francesi hanno battezzato "littérature engagée", letteratura impegnata, agganciata alla vita, non è forse il passo del letterato verso l’uomo vivente cui risponde, all'opposta riva, il passo dell’uomo verso la cultura?
La stessa diffusione di pubblicazioni che somministrano la cultura in pillole attraverso innumerevoli opuscoli, pur rivestendo il carattere indubbiamente di comoda, facile, veloce lettura, rimane un sintomo innegabile e non trascurabile dell’attrazione che oggi la cultura esercita sull'uomo.
ln seno al più esteso fenomeno della differenziazione dei programmi (che riveste uno spiccato carattere di tecnica di programmazione radiofonica) il nascere dei terzi programmi e gli stessi loro preannunci, costituiscono la risposta della radio all’esigenza di cultura propria dell'uomo contemporaneo.
Il Terzo Programma italiano - che inizierà la sua attività il 1° ottobre prossimo - rappresenta il passo decisivo della Radio Italiana verso la differenziazione dei programmi. Riforma che non più essere integralmente affrontata se non al verificarsi di quelle condizioni tecniche di massimo ascolto, sulla gamma di onde medie assegnate all’Italia dalla Conferenza di Copenaghen, che si verificheranno allorché sarà ultimato il piano di installazione di nuovi trasmettitori, oggi in via di realizzazione e prossimo ad essere totalmente attuato.
La comparsa del Terzo Programma riveste una singolare importanza ai fini dell'attività radiofonica italiana non solo in tal senso, ma nel senso pure di tradurre in atto con adeguata larghezza di mezzi quella ferma volontà di inserirsi fattivamente nella vita culturale che, fino ad oggi, trovava un naturale e giusto ostacolo nell’impostazione indifferenziata dei programmi. ln entrambi i sensi poi quest'avvenimento sembra testimoniare una situazione di vitalità della radiofonia italiana in seno alla famiglia radiofonica europea e, più estesamente, nei confronti delle più presumibili esigenze degli ascoltatori.
Due articoli di Salvino Sernesi, comparsi sul Radiocorriere (25-3l dicembre l949 e l8-24 giugno l950) hanno indicato rispettivamente: il primo, alcuni lineamenti del Terzo Programma italiano e la strada sulla quale esso si sarebbe avviato; il secondo, il punto a cui si era giunti dopo i primi sei mesi di studio e di lavoro. Tra l’uno e l‘altro di questi articoli uscirono, sul Radiocorriere e su alcune riviste e giornali, scritti di vari rappresentanti della Cultura italiana, i quali, nella diversità dei punti di vista che rispecchiavano, ci confermarono in quei criteri che erano parsi più validi fin da quando si era cominciato concretamente a pensare al Terzo Programma. Punti di vista diversi, ed anche contrastanti, che non parevano perdere tuttavia nulla del loro valore facendoli coesistere in quella cospicua somma di materiale - e cioè di "programmi" - quale risulta, ad esempio, dal piano di un solo trimestre di questo Terzo Programma.
ln realtà, il primo articolo del Direttore Generale della Radio Italiana aveva individuato, sia pure attraverso brevissimi accenni, le linee fondamentali sulla cui traccia, in seguito, parve opportuno procedere.
E le risposte a quell’invito alla discussione furono una riprova abbastanza confortante che v'erano buone e concrete ragioni per seguire quella rotta.
 
Terzo Programma: programma culturale. Questa specificazione, pur nella sua apparente genericità, è quella che meglio di ogni altra ne definisce le caratteristiche. A condizione, beninteso, che si assuma il termine "cultura" nel suo senso più vivo e reale di espressione della vita spirituale ed anche, estendendone alquanto l’accezione, di riflesso vivente e sensibile della problematica in cui l’uomo d’oggi esiste, lotta e si sviluppa. Sarebbe ingenuo segnare delle frontiere da non attraversare, delle zone proibite da non violare quando ben si conosce quanto sia umano e talora inevitabile andar fuori del segno.
E' ovvio che nel dire "cultura" nel senso espresso poc'anzi si è inteso evitare di identificarla con la pura erudizione che è, essenzialmente, presupposto e strumento di cultura, e che come tale non può essere l'oggetto fondamentale di una sede aperta sulla collettività come è la radio.
Posta questa esigenza di ordine generale, a cui si è cercato e si cercherà di mantenersi fedeli con ogni sforzo e con ogni mezzo, occorre rapidamente accennare ai criteri seguiti nella formulazione dei programmi.
Fra tutti essenziale - e in derivazione diretta dal concerto di cultura cui or ora si accennava - è valso il principio di mettere l'ascoltatore, in occasione di ogni singolo "numero" del programma, di fronte ad una più o meno estesa prospettiva culturale e non mai (nei ragionevoli limiti del possibile) di fronte ad un fatto estetico, morale, economico, sociale concluso in se stesso e cioè avulso da una catena di antecedenti e di conseguenti, dall’ambiente storico o artistico circostante. Nel tradurre in concrete simile criterio si è cercato di operare con gli accorgimenti più diversi e, in molti casi, facendo leva sul
"mezzo" radiofonico che parve offrirsi come strumento assai ricco di risorse; evitando nel contempo la via tanto semplice quanto, a nostro avviso, meno efficace del commento illustrativo.
Ed ecco delinearsi un primo criterio, largamente adottato: la disposizione ciclica della materia. Eccetto casi e circostanze particolari, i cicli sono stati composti e disposti in modo che i loro singoli elementi avessero una sufficiente e compiuta ragion d’essere; e simile disposizione ha consentito di proiettare ogni parte costitutiva del ciclo su di una superiore, più estesa e più: comprensiva unità.
Un secondo criterio e costituito - a proposito degli Omaggi, dei Ritratti e delle Confessioni e colloqui - dal collocare le personalità o gli aspetti delle personalità presi in esame, entro l'angolo visuale più ampio che il soggetto posse consentire, con l'intervento, all'occorrenza, di più collaboratori ad una stessa trasmissione. Anche qui, nel limiti del possibile, evitando indicazioni dirette o comunque troppo esplicite e operando con un gioco di elementi convergenti che suggeriscano all’ascoltatore più che non gli dicano, lo instradino più che non lo conducano. E potranno entrare in gioco accorgimenti propri del mezza radiofonico.
Per indicare un esempio: la vivezza dell’incontrarsi, dell'incrociarsi e dell’integrarsi dei ricordi su Pirandello, che sorgeranno intorno al microfono dalla viva voce d'un gruppo di amici del Maestro, dovrebbe dare un risultato di testimonianza e di illuminazione della sua personalità forse non ripetibile in altra sede che non sia la radio. Un risultato che dovrebbe ripercuotersi come una suggestione e come un complesso di dati integrativi sulla trasmissione Omaggio a Pirandello di cui queste testimonianze costituiscono un elemento.
Un terzo criterio - pensato in funzione di creare molteplici valenze culturali attorno alle singole componenti di un programma e di conseguenza un largo e ricco gioco prospettico - trova la sua applicazione nelle Serate a soggetto. ln esse l'intero complesso delle trasmissioni di una serata, nella quale possono concorrere testi musicali, teatrali, narrativi, gravita intorno ad un soggetto che potrà essere di volta in volta una personalità artistica (Gide, Clair, Schumann), un mito (Orfeo), una città come espressione di culture e di civiltà (Vienna, mondo di ieri), un traguardo storico-culturale (Parigi, l830) e via dicendo. ln questo caso il mezzo radiofonico potrà giocare attraverso un vero e proprie "montaggio" o anche semplicemente attraverso l'accostamento dei testi collocati ad integrarsi o a reagire a vicenda.
Formule meno esplicite e meno complesse delle Serate a soggetto, ma sempre giocate sull'accostamento di testi tra di loro in qualche modo affini, sono state assunte quale altro frequente criterio di composizione del programma ovunque se ne presentasse l'occasione.
Il concetto di cultura quale si é inteso dovesse valere a insegna del Terzo Programma e quale si è poc'anzi indicato va al di là di quella che potrebbe chiamarsi "cultura umanistica" e si estende includendo l'impostazione e la trattazione dei molteplici problemi di cosiddetta attualità che toccano da vicino l'uomo contemporaneo. ln essi, anche quando la cronaca sembra agire più scopertamente, vi è sempre un aspetto o una faccia in cui il dato pratico e contingente si incontra con un motivo ideale, con un valore umano che li fa assurgere a quel piano di interessi spirituali da cui il Terzo Programma non vuole estraniarsi, pena un isolamento della vita, un distacco dalla realtà che potrebbero infirmarlo alle sue stesse basi. ln questo senso è stato studiato un complesso di rubriche, pressochè tutte concepite secondo diversi tipi di formulazioni radiofoniche.
Il Terzo Programma d’altra parte, pur col suo forte aggancio a quei problemi di attualità politica, sociale, economica che gli consentono di poggiare e di radicarsi nel vivo della vita contemporanea, dovrà essere estraneo alla cronaca e al minuto contingente svolgersi degli avvenimenti: per questa ragione, che pertiene alla sua più tipica fisionomia, esso non ospita alcuna forma di Giornale radio durante le sue trasmissioni. Solo programma riferibile al Giornale radio, e ricorrente una volta alla settimana, è l’Avvenimento della settimana, sorta di articolo di fondo che prende le mosse dall'evento più rilevante dei sette giorni che precedono la sua trasmissione.
E' noto, infine, come i programmi della Rete Rossa e della Rete Azzurra vengano distribuiti nel corso della settimana secondo uno schema fisso determinato dal carattere complementare delle due reti e della conseguente necessità di evitare che lo stesso genere di trasmissione possa cadere contemporaneamente sull'una e sull'altra rete.
Il carattere nettamente differenziato del Terzo Programma dai programmi della Rete Rossa e della Rene Azzurra consente una sua quasi assoluta autonomia. Ma questa autonomia e questo essere svincolato da uno schema fisso è soprattutto una necessità per il nuovo programma, Solo infatti una completa libertà di movimenti nella disposizione della materia può permettere un lavoro di "impaginazione" delle serate secondo i criteri più innanzi illustrati.
L'esperienza radicalmente nuova consistente nel dar vita a questo Terzo Programma non può non accompagnarsi ad una certa inevitabile percentuale di incognite che sarebbe ingenuo non attendersi.
La meèa di un’attività quale è quella che oggi si inizia, e cioè il tradursi in atto di un complesso molto esteso di proponimenti, e lontana e i primi mesi di realizzazioni ci diranno se e come la rotta prevista dovrà essere modificata.
 
Alberto Mantelli

sabato, giugno 01, 2013

Accardo d'antan...

Salvatore Accardo (1941)
Salvatore Accardo iniziò giovanissimo lo studio del violino diplomandosi al Conservatorio di S. Pietro a Majella di Napoli con Luigi D'Ambrosio, perfezionandosi quindi all'Accademia Chigiana di Siena con Yvonne Astruc, allieva di Enesco. Accardo ha vinto numerosi premi internazionali fra i quali, nel 1958, il Paganini di Genova diventandone il primo vincitore dall'anno di istituzione del Concorso, il 1954. Ha suonato più volte il Guarneri del Gesù appartenuto a Paganini e possiede egli stesso due splendidi strumenti: uno Stradivarius "The Firebird" ex Saint-Exupery del 1718, ed un Guarnieri ex Lafont del 1733. Accardo ha suonato in tutto il mondo con le maggiori orchestre ed i più celebri direttori. I1 suo repertorio comprende tutte le opere significative per violino, dalla musica barocca a quella contemporanea. Malgrado l'intensa attività solistica, Accardo trova il tempo di dedicarsi con passione alla musica da camera e all'insegnamento. Titolare del corso di perfezionamento all'Accademia Chigiana di Siena, e animatore delle Settimane di Musica d'Insieme di Napoli, settimane durante le quali solisti di fama internazionale si riuniscono per fare musica da camera.
 
Prima d'intraprendere la carriera di solista, ha mai suonato in orchestra?
Da ragazzo ho suonato nell'orchestra del conservatorio di Napoli, dove studiavo. Quella è stata la mia unica esperienza di violinista d'orchestra.
Come mai ha studiato il violino?
Mio padre era un buon violinista dilettante. Era appassionato d'opera e suonava spesso arie operistiche e tutte le canzoni napoletane. Quando avevo tre anni, nel 1944, mi fu regalato il mio primo violino: un “quartino”, con cui mi divertivo a ripetere tutto quello che sentivo suonare da mio padre. Dapprima nessuno mi ha spiegato come si suonasse lo strumento: facevo tutto da solo. Imparai istintivamente molti problemi tecnici: anche ad individuare le distanze fra una nota e l'altra. Successivamente ho preso qualche lezione da un amico di famiglia che mi ha insegnato soprattutto il solfeggio. Il solfeggio costituisce una base essenziale nello studio della musica: pensi che, in Italia, ci sono dei direttori di conservatorio che non hanno la licenza di solfeggio... Successivamente ho studiato con Luigi D'Ambrosio, col quale ho proseguito fino al diploma. A quel tempo la scuola napoletana era molto importante. Oltre a D'Ambrosio c'era Tufari, che poi si trasferì a Milano: dalla sua scuola sono usciti dei grandi violinisti, come Ferraresi per esempio.
Quando ha avuto inizio la sua carriera di solista?
Subito dopo i concorsi di Ginevra del 1956 e di Genova del 1958.
Cosa si prova quando si partecipa ad un concorso importante?
Molta emozione. Soprattutto quando, alla fine, la giuria si riunisce e si deve aspettare il risultato. Si teme sempre che ci siano delle “combinazioni”.
Ci sono realmente queste “combinazioni” nei concorsi?
Ce ne sono molte, moltissime. Capita spesso che il migliore non vinca.
Cosa ha provato suonando, al concorso di Genova, il violino dl Paganini?
E' una sensazione, difficile a spiegarsi. Tenere sotto il mento lo strumento che suonava Paganini, il grande Paganini, è un'emozione, per noi violinisti, grandissima. Paganini ha cambiato radicalmente la tecnica violinistica. Lo stesso violino è cambiato con Paganini, nel manico, nella tastiera. Il violino di Paganini era un po' più grande del normale: più alto e più lungo. Paganini aveva delle mani incredibilmente lunghe e aveva trovato questo strumento che faceva per lui. Gli altri erano troppo piccoli per le sue mani.
Lei ha fama di essere un grande interprete paganiniano. Sente particolare affinità per questo compositore?
Questo è un luogo comune' he, devo dire, mi infastidisce non poco. Tutti dicono: “Accardo suona Paganini”. Accardo suona Paganini come se io non sapessi suonare altro. Mi sembra che non sia vero: basti pensare che la mia incisione delle sonate di Bach ha vinto recentemente il premio di «miglior disco dell'anno a Londra. Questo fatto potrebbe di poter smentire questo luogo comune. Se suono bene Paganini non è una colpa. Lo dico perché sono in molti a pensare che se si suona bene Paganini non si possono suonare altrettanto bene altri autori.
Pensa che la tecnica violinistica sia molto evoluta dai tempi di Paganini?
Non lo credo. Se Paganini potesse tornare oggi a suonare, darebbe certamente dei punti a tutti noi...
La rivista inglese *Records and Recordlngs” le ha dedicato la copertina nel giugno dello scorso anno. Lei pensa che la sua fama all'estero sia più legata al disco o al concerto?
Credo a tutte e due le cose. Si può dire che oggi non ci sia un artista che si dedichi esclusivamente al disco o al concerto: l'unica eccezione penso sia quella del pianista canadese Glenn Gould. Una volta il disco era un punto d'arrivo, una prerogativa pressoché unica dei grandi artisti. Oggi, invece, incidono tutti. Molti giovani cominciano la carriera proprio col far dischi.
A proposito dl dischi: come mal dalla sua discografia mancano I grandi concerti romantici, come quelli dl Beethoven e di Brahms?
Ho inciso il concerto di Beethoven nei mesi scorsi e dovrebbe essere presto pubblicato. L'incisione del concerto di Brahms è già programmata per quest'anno. Purtroppo i grandi concerti romantici sono solo questi...
E i concerti di Bruch?
Ho terminato da poco anche l'incisione dell'opera completa di Bruch per violino e orchestra. In questa raccolta ci sono molti pezzi sconosciuti, mai incisi prima, come il “terzo concerto>”, la “sonata” e diversi “adagio” per violino e orchestra.
Ci sembra che ci siano molte composizioni violinistiche che oggi non vengono quasi mai eseguite. E' il caso delle opere di Vieuxtemps, di Wieniawski, dl Lalo, di Chausson e dello stesso Bruch. Si può parlare di decadenza di una certa parte del repertorio violinistico?
Wieniawski e Vieuxtemps sono stati dei grandissimi violinisti. La loro musica è valida e non va considerata come musica di second'ordine, anche se in un certo senso lo è. Sono pagine che andrebbero eseguite con rigoroso spirito filologico. Fino a ieri succedeva che molti interpreti usavano aggiungere qualcosa di loro a queste partiture: dove c'era un “crescendo” eseguivano un “diminuendo”, dove c'era un “diminuendo” facevano un “crescendo”,... Oggi sta cambiando molto in questo senso: gli esecutori si sforzano di studiare a fondo la scrittura del testo. E una cosa molto importante. Per eseguire le opere di quegli autori è essenziale ricreare la loro originalità. Troppo spesso, invece se ne è messo in luce solo il lato deteriore.
Come spiega la scarsa fortuna del concerto dl Schumann?
In quel concerto il violino non emerge chiaramente dal contesto strumentale sinfonico. Per questa ragione i grandi virtuosi lo hanno trascurato.
Secondo lei c'è un concerto per violino che meriterebbe dl essere riscoperto?
Ne parlavo proprio pochi giorni fa col direttore Kurt Masur. Il “terzo concerto” di Bruch è forse uno dei più interessanti concerti per violino e meriterebbe di essere meglio conosciuto. E' una composizione complessa, assai lunga, una sorta di grande sinfonia concertante.
Fra i grandi violinisti del passato, C'è qualche nome che le è particolarmente caro?
Sulla base dei dischi che ho ascoltato vorrei ricordare i nomi di Busch, il più grande violinista della scuola tedesca; Hubermann, il prototipo del violinista-musicista moderno, e Kreisler: nessun violinista ha avuto un suono bello come il suo, un suono commovente, triste, pieno di nostalgia per la sua vecchia Vienna.
È vero che lei è un ammiratore di Milstein?
E' un violinista che ammiro moltissimo. Ho frequentato i suoi corsi di perfezionamento a Siena. Soprattutto il suono, in Milstein, è affascinante. Vorrei però aggiungere che il violinista che più ho ammirato è stato David Oistrach.
E di Heifetz cosa pensa?
Heifetz è un violinista straordinario. Il suo nome sta al violino come quello di Horowitz al pianoforte. E' un grandissimo artista, anche se musicalmente gli si possono contestare tante cose... Ma è facile criticare.
Lei insegna?
Insegno d'estate all'Accademia Chigiana di Siena: è un corso di perfezionamento per giovani violinisti. Mi piacerebbe molto poter insegnare di più. Il mio sogno è quello di metter su una scuola violinistica, una scuola aperta anche ai bambini, dove si insegnano “le basi” del violino. Quando avrò più tempo e farò meno concerti mi dedicherò volentieri a questo tipo d'insegnamento.
Cosa pensa dell'insegnamento musicale in Italia?
Lo dico sempre anche ai miei colleghi: bisognerebbe chiudere tutti, proprio tutti i conservatori e poi ricominciare da capo. Gli insegnanti dovrebbero essere selezionati seriamente mediante concorsi: come si faceva una volta. Oggi troppe persone salgono in cattedra senza le qualifiche ed i titoli necessari. Conosco insegnanti di pianoforte, nei conservatori, che non hanno neppure il diploma di “ottavo anno”.
Sappiamo che lei colleziona strumenti d'autore. Abbiamo letto che lei ha trovato dl recente a Parigi uno strumento preziosissimo.
Quella è già una storia vecchia. e ho trovato ora uno ad Amsterdam che è una meraviglia. Si chiama “Uccello di Fuoco”, è uno Stradivari del 1718. L'ho trovato nel laboratorio di un vecchio liutaio dove mi ero recato per far riparare un archetto.
Quanti strumenti porta con sè quando va in tournée?
Ho sempre due strumenti con me. Questo sia per ragioni di repertorio - alcuni pezzi riescono meglio su uno strumento piuttosto che su un altro - che per motivi di sicurezza. In caso di danni, ho sempre uno strumento di riserva. Non sempre c'è un liutaio dietro l'angolo per il "pronto intervento".
Sono naturalmente strumenti importanti, vero?
Certo. Oltre allo Stradivari ho sempre con me un “Guarneri del Gesù”, due strumenti di diversa personalità. Il “Guarneri del Gesù”, per esempio, ha un suono più scuro, che più si adatta a certi brani...
Per esempio?
Per esempio sul "Guarneri del Gesù", suonerei il concerto di Brahms, mentre sullo Stradivari suonerei il concerto di Beethoven.
Cosa pensa della recente prassi discografica di realizzare incisioni dl musica antica mediante l'uso di strumenti originali?
Credo che le persone che suonano strumenti antichi non sanno suonare bene sugli strumenti “moderni”, e trovano cosi la scusa “fiologica”, per mascherare i loro limiti. Troppo spesso questi esecutori sono stonati e non credo proprio che la colpa sia, come si vuol far credere, degli strumenti antichi che “non tengono” l'accordatura. Ma voglio dire di più: io penso anche che molti musicisti che si specializzano in esecuzioni di musica contemporanea fanno cosi perché hanno dei problemi con la musica tradizionale come quella di Bach, di Vivaldi, di Beethoven.
Oltre al violino suona altri strumenti?
Si, la viola.
Lei suona spesso musica da camera?
Si. Prendo spesso parte alle “Settimane musicali di Napoli”. E' un festival di musica da camera che si tiene per due settimane ogni anno. Vi partecipano musicisti provenienti da ogni parte del mondo. Le prove sono aperte al pubblico; la sala è sempre piena, soprattutto di giovani. Fa piacere veder dei giovani che vengono ad ascoltare le prove di un quintetto di Brahms o di Beethoven e che per questo magari marinano la scuola o rinunciano a una partita a pallone... Durante le “settimane”, eseguiamo sovente pagine poco note del repertorio cameristico com'è il caso dei sestetti per archi di Brahms, i quintetti di Brahms, di Mozart o “la Trota” di Schubert. Il quintetto “la Trota” di Schubert non si ascolta quasi mai in concerto data la difficoltà di reperire un organico adatto: un pianista, un contrabbassista e un trio d'archi.
Quali saranno i suoi prossimi dischi?
Uscirà fra poco la mia nuova incisione dei Capricci di Paganini. Questi verranno pubblicati nella loro veste integrale, cioè con tutti i ritornelli. Non credo sia accettabile l'esecuzione dei Capricci di Paganini senza queste ripetizioni. L'esecuzione dei ritornelli è essenziale: la composizione acquista, in questo modo, maggior completezza. Un crescendo o un diminuendo possono essere eseguiti, a breve distanza di tempo, in modo differente. Anche in disco la cosa ha un SUO senso. Ho dovuto persuadere i dirigenti della mia casa discografica ad accettare la mia proposta di incidere i Capricci nella versione integrale. Cosi facendo l'incisione occupa tre facciate anzichè due. Ho avuto allora l'idea di suggerire l'incisione di altri brani come la “sonata” e le “variazioni sull'inno inglese”, per riempire la quarta facciata. Cosi abbiamo raccolto in due dischi l'opera completa per violino solo del compositore genovese.
A quale dei suoi dischi si sente più affezionato?
Devo dire che mi riconosco in tutti i dischi che ho finora inciso. Mi ha soddisfatto particolarmente il concerto di Beethoven, anche perchè ho avuto dei partner d'eccezione in Kurt Masur e nella magnifica orchestra del Gewandhaus di Lipsia.
C'è un disco che vorrebbe poter incidere?
Si. Mi piacerebbe poter fare per il disco i concerti di Mozart nella nuova edizione secondo I'Urtext. Tengo molto a questo progetto e spero di poterlo realizzare, cosi come ho potuto realizzare altri miei «sogni» passati: l'incisione delle sonate di Bach, dei Capricci e dei concerti di Paganini. Un altro progetto che serbo per il futuro è quello di poter dirigere il Requiem di Verdi. Chissà forse...
Ci sono molte differenze nell'urtext mozartiano?
Ci sono molte differenze di note, di arcate, di articolazioni musicali, di coloriti. Le differenze riguardano anche la parte orchestrale.
Ricorda qualche episodio divertente della sua carriera?
Un episodio divertente mi capitò a New York qualche anno fa. Alla dogana fui fermato da un funzionario che si era insospettito vedendo i miei violini. “Lei non ha la faccia del violinista”, mi disse testualmente. Non riuscendo a convincerlo con le parole ho dovuto prendere lo strumento e suonare qualcosa. Solo allora, fra l'ilarità generale, la situazione si sbloccò. Un altro episodio singolare mi capitò in Cile, sempre alla dogana. Il doganiere apri con circospezione I'astuccio dello Stradivari e mi chiese serissimo: “Questo violino è nuovo?”. “No, è vecchio”, risposi. “Ah, va bene. Quand'è cosi passi pure”.
 
Intervista rilasciata a “Musica”, Anno 2, ottobre 1978