Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, marzo 28, 2009

Puccini e la ripetizione

La stessa tecnica si ritrovava in Wagner, Mahler, Bruckner: il che conferma quanto genio formale ci fosse in Puccini.

La bohème non è "Che gelida manina" e "Mi chiamano Mimì". Tosca non è 'Vissi d'arte" ed 'E lucevan le stelle". Detto altrimenti: Puccini non è Puccini solo in virtù d'una manciata di irresistibili blockbusters da fischiettare sotto la doccia. A garantirgli la sopravvivenza sulle tavole del palcoscenico è piuttosto la capacità di inchiodarci per un'intera serata allo schienale della poltroncina, e d'irretirci, atto dopo atto, in una trama senza smagliature di gesti, musica e parole. E tuttavia, sono occorsi decenni per sganciarlo dall'immagine di cinico e facile 'praticone' delle scene teatrali. E' ben vero che il Lago (di Massaciuccoli) ispirava al lucchese la caccia alle folaghe e ai beccaccini, piuttosto che le centinaia di pagine nelle quali Wagner, esule su altro Lago (quello di Zurigo), aveva messo a fuoco la sua riflessione su Opera e dramma. Eppure è proprio una lucida e sofisticata visione della forma drammatico-musicale a far giganteggiare Puccini nel panorama dell'opera italiana postunitaria. Nei paraggi del suo primo grande anniversario (1958), René Leibowitz e Mosco Camer additarono indipendentemente l'uno dall'altro un'identica architettura a quattro 'tempi' sinfonici nei primi atti di Manon Lescaut e Turandot - le due opere che (a distanza di trent'anni) incorniciano il canone pucciniano. La scoperta non era esente da ingenuità, eppure fu tra gli inneschi di un'attenzione crescente per le strutture del teatro di Puccini. Ai giorni nostri, Steven Huebner si concentra su un dispositivo all'apparenza elementare: la pratica delle 'cornici', ovvero il ritorno di certi materiali tematici a inquadrare, racchiudere porzioni più o meno ampie del flusso musicale. Luso di questi 'telai sonori' (talvolta incassati gli uni negli altri) è duttile e inesauribile: attraverso di essi Puccini modula la nostra percezione degli snodi del dramma. Ve ne sono di ogni scala: si va dalla citazione della bandiera a stelle e strisce che cinge di eloquente patriottismo l'aria introduttiva di Pinkerton (Madama Butterfly, I), all'Allegro dissonante che incornicia l'episodio di Benoit (Bohème, I), fino ad arrivare a quelle due enunciazioni del tema della 'principessa sanguinaria' che delimitano come massicci pilastri il primo 'tempo' dell'atto inaugurale di Turandot, o addirittura al gesto desolato che chiude a cerchio l'intero atto IV di Manon Lescaut. Prospettive ancora più intriganti ha recentemente dischiuso James Hepokoski analizzando le 'rotazioni' musicali di Suor Angelica: dalla notizia della "ricca berlinw", la partitura è infatti saturata dalla ripetizione ciclica di quattro blocchi musicali, che tracciano il destino della protagonista fino all'ambiguo miracolo conclusivo. La stessa tecnica, incidentalmente, fa bella mostra di sé in Wagner, Mahler o Bruckner. Non è poco: finalmente cominciamo a trovare al genio formale di Puccini interlocutori adeguati.

di Riccardo Pecci ("il giornale della musica", Anno XXIV, n.254, dicembre 2008)

domenica, marzo 22, 2009

Lo Stabat Mater di Haydn secondo F.M.Sardelli


Intervista al direttore toscano, che racconta: "Mi ha sempre stupito l’intonazione haydniana dello Stabat (...) Restituisce al testo musicato la dignità di un dolore compassato, nobile".

Una riflessione d’apertura, per lei che viene dalla musica "antica", su Haydn...
«Lo ritengo un autore paradigmatico che riesce a costruire delle forme adamantine, perfette. Anche Vivaldi, che funse da modello, stabilì nei fatti l’assetto costruttivo delle composizioni, senza trattati, senza enunciare delle regole, semplicemente componendo».
Una logica rigidamente generazionale non regge, meno che mai in questo caso: Haydn nasce nel 1732, quando Bach ha 47 anni, e muore nel 1809, quando Beethoven ne ha 39. Questa lunga arcata vitale colpisce, abbraccia dal tardo "barocco" al primo romanticismo.
«Dice bene. Il "caso Haydn" attraversa indenne varie epoche, pur mostrando una chiara evoluzione interna e pur rimanendo piuttosto fedele a sé stesso, stabile nelle sue conquiste, a differenza ad esempio del primo Beethoven, che riesce invece a compiere delle evoluzioni imparagonabili».
Una breve riflessione sulla poetica di Mozart e Haydn, visti dal primo Settecento. Harnoncourt scrisse che Mozart non era un innovatore: Lei cosa ne pensa?
«Mozart, che non amava particolarmente operare sulla forma, fu avvantaggiato dal gap generazionale e da una grande inventiva personale, proprio per la cifra peculiare della sua invenzione, un poco più tumultuosa rispetto a quella haydniana. Non porta particolari innovazioni da un punto di vista formale e stilistico: la grande novità mozartiana sta semmai proprio nell’invenzione, nella sostanza delle sue idee musicali; tutto questo inserito nelle forme che ha ereditato, senza stravolgimenti. Haydn, invece, è un innovatore, anche da un punto di vista formale. Nel corso del Settecento ha luogo una formidabile riflessione sulle nuove forme e sul nuovo linguaggio. La musica è un vulcano in continua evoluzione: si fronteggiano la scuola di Mannheim, quella di Berlino, lo stile della sensibilità, e via di seguito. Haydn, tuttavia, va per la sua strada, una strada che si rivelerà in fondo vincente».
Il programma che ascolteremo propone un testo noto, lo Stabat Mater, che costituisce, almeno da Pergolesi in avanti, una pietra di paragone. Trovo che, ascoltando più musicazioni di un medesimo testo, si tocchi con mano l’approccio differente dei vari compositori. Come ritiene sia quello haydniano?
«Mi ha sempre stupito l’intonazione haydniana dello Stabat, un testo intriso di pianto, grondante di dolore, che ha fatto sì che i vari compositori ricorressero all’armamentario più lacrimevole a loro disposizione. Il filone compositivo prevalente era quello napoletano, che derivava in ultima analisi da Pergolesi; Haydn, da questo, sembra volersi discostare e restituisce al testo musicato la dignità propria di un dolore compassato e stilizzato. Il suo dolore è assai nobile e molto interiorizzato».
Quanto dice mi riporta con la mente alle caratteristiche del cattolicesimo austriaco e poi austroungarico.
«Assolutamente sì! Non ci si strazia di fronte alla morte, non si stracciano le vesti ma si sta in silenzio, e si piange dentro; questo è lo Stabat Mater di Haydn».

Concluderei chiedendoLe che cosa si attende dall’Orchestra da Camera di Mantova, che non utilizza strumenti antichi e proviene sia dalla frequentazione del repertorio tardosettecentesco, sia da certo repertorio ottocentesco.
«Innanzi tutti tengo a dire che ho grandissima stima di questa orchestra, una stima che condividono in moltissimi in Italia e all’estero: i suoi esiti sono eccellenti. Anche la coraggiosa frequentazione del repertorio sacro di Mozart da parte dell’Orchestra da Camera di Mantova mi ha convinto che si tratta di un’orchestra estremamente duttile e perfettamente in grado di parlare i linguaggi storici, sebbene non usi strumenti antichi. Credo che nello Stabat haydniano potremo raggiungere un risultato di notevole pulizia e di grande forbitezza linguistica».

di Stefano Patuzzi ("Musicalmente", Anno 4, Numero 1, Febbraio 2008)

mercoledì, marzo 18, 2009

Gustav Leonhardt: il dono delle belle cose

Tranquillo, nel soggiorno aperto sul giardino sapientemente ordinato della sua casa d’Amsterdam, il maestro ricorda i suoi esordi e la morale interpretativa che l’ha sempre guidato.

Come scoperto il clavicembalo, da bambino, alla fine degli anni Trenta?
Grazie ai miei genitori. Facevamo musica da camera in famiglia quasi tutte le sere, spesso delle sonate barocche, e siccome occupavo la parte del continuo hanno acquistato un piccolo clavicembalo ‘moderno’. Avevo dieci anni. A dodici ero convinto che Bach fosse il non plus ultra.
E che bisognava suonarlo al clavicembalo…
Non ancora. Ma nel 1943 ho dovuto restare un anno intero in casa, quando la guerra ha paralizzato l’Olanda. Eravamo in campagna senza acqua né elettricità, le scuole erano chiuse e bisognava nascondersi dai soldati tedeschi, allora passavo le mie giornate a suonare, accordare e cercare di sistemare questo clavicembalo. Ero affascinato. E assai deciso a diventare musicista per dedicarmi a Bach. Era ingenuo, manicheo: Bach contro tutto il resto, il clavicembalo contro il pianoforte, Bach al clavicembalo. In realtà questo modello era spaventoso, ma mi colpiva. Vai a capire…
Conosceva le registrazioni della Landowska?
Era il mio idolo. Annotavo i suoi fraseggi, le sue registrazioni, le sue sfumature, i suoi staccati
stupefacenti… Bianco e nero, anche qui: la Landowska stava dal lato buono. In seguito ho fatto le mie ricerche, e ho dimenticato tutto ciò. Recentemente ho ascoltato uno dei suoi vecchi dischi… l’ho trovato tremendo. Così artificiale. Pensa soltanto a sé stessa. Come ho potuto amare ciò? Ma siamo giusti: è il suo formidabile lavoro di difesa e di valorizzazione del clavicembalo che ci ha aperto la via e permesso di passare ad altro.
Quindi nel 1947 parte per la Schola Cantorum di Basilea…
Era l’unico posto per studiare seriamente questo repertorio. Ho studiato tre anni con Eduard Müller che m’insegnava anche organo. Allora si suonavano clavicembali moderni.
Ed è ancora su un Neupert che comincia a registrare, all’inizio degli anni Cinquanta. Vanguard ha appena ristampato un recital Frescobaldi del 1952: il vostro primo disco?
Credo, ma non ne parli. Un peccato di gioventù, orribile.
Però è importante, un primo disco…
Come potrebbe essere importante una cosa che non è bella?
Certo… Ricorda il primo strumento storico che ha suonato?
In un primo tempo sono stati organi. Poi due clavicembali inglesi, in una collezione inglese: un Kirkmann e un Shudi. Una rivelazione, quelle sonorità, quella ‘curva’ nel suono. Nulla a che vedere con ciò che conoscevo. Ho cominciato a capire in quel momento quello che si può ottenere in modo abbastanza naturale da un clavicembalo. Diversi costruttori si lanciavano nella stessa epoca nella realizzazione di copie fedeli – più o meno. Skowroneck era uno dei primi, c’erano anche Hubbard e Dowd in America, e Schütze.
Nel 1954 registra quel celebre album Bach con Harnoncourt e Deller. Cosa ha imparato da Deller?
Il testo. Per lui, il canto era lì soltanto per aiutare il testo. Per intensificarlo. Era unico, ed è sempre rarissimo coi cantanti. «Music for a while…» Sento ancora Deller nella mia memoria, e non è la melodia che mi rimane, sono le parole che emergono. Formidabile! Anche Fischer-Dieskau aveva questo in Schubert.
È per vanità che gli altri danno più importanza al loro timbro, o alla linea vocale?
Boh, è stupido. E le critiche dicono «che voce meravigliosa». Sempre voce, voce, voce. La buona musica non è fatta per questo. È così raro poter capire tutto quello che si canta all’opera senza avere un libretto sott’occhio.
L’anno scorso ha registrato due delle sue cantate profane [BWV30a e 207]. Delle opere che alla fin fine si eseguono molto poco.
E non capisco proprio perché. La musica è tanto bella quanto quella delle cantate sacre.
La scrittura è la stessa?
Credo di sì. Per Bach la musica è la musica. Essa può servire il prossimo o Dio, procurare piacere o edificare; è sempre così impegnata. Ed è proprio questo che la rende così difficile da eseguire. Tutto è così presente, così determinato in lui.
È sconcertante, però, vederlo riprendere un’opera [BWV 30a] che glorifica il potere di un principe e la bellezza del suo castello per farne una cantata per San Giovanni Battista [BWV30]? C’è anche quell’aria per contralto che canta i piaceri… e nella seconda versione esorta i peccatori a rispondere alla chiamata del Salvatore!
Si resta spesso sorpresi con Bach. Non si può spiegare, si può soltanto constatare. Si deve accettare questo, e io l’accetto. È pericoloso voler spiegare tutto. Detto ciò, guardi come la sua scrittura è concentrata sul testo, sempre. Si tratta di dargli attraverso la musica un contorno ancora più nitido, eloquente. Per lui è più importante dell’atmosfera, ed è per questa ragione che ha potuto riprendere alcune opere plasmando delle nuove parole su quel ‘disegno’ molto preciso.
Precisione del testo, precisione del tratto dunque delle linee che si sovrappongono, trasparenza della polifonia, queste tre qualità vanno insieme?
Ma sì. E spero che tutti cerchino questa trasparenza. Le voci intermedie hanno una tale qualità in Bach! Lui stesso diceva che la sua musica è molto «intricat», intricata, compatta. Bisogna restituirle la sua leggibilità, non far sentire soltanto il soprano, il basso e un morbido ripieno in mezzo.
Il risultato è impressionante nel primo coro della Cantata BWV 207: l’organico è ben fornito ma nulla è opaco nella sua interpretazione, tutto è leggibile grazie ad un’articolazione che ‘parla’ parecchio, serrata, molto articolata. Nettamente di più che in quasi tutti i suoi colleghi…
Sono felice che lo apprezzi. Certo nessuno sa con precisione come suonasse Bach, ma indica spesso delle articolazioni dettagliate, per esempio tre semicrome legate e la quarta staccata, pa-ri-la-pa. pa-ri-la-pa ecc., e spesso, confesso, sento dei gruppi che trascurano un po’ questo, come se avessero paura di quelle piccole precisazioni che vanno contro un senso melodico e adulatorio. Bisogna leggere bene le partiture di Bach. Lei parlava dell’aria di contralto della BWV 30a: egli annota un’articolazione differente quando i violini suonano il tema principale e quando la voce lo riprende. Se non l’avesse fatto, avrei semplicemente ricalcato la frase dei violini su quella del canto. Si crede di capire Bach, ci si sbaglia. È sempre diverso.
Philippe Herreweghe, che conosce bene, ha un approccio sensibilmente diverso a Bach, cerca di fondere maggiormente la tessitura, ammorbidisce le frasi e dà più importanza alle atmosfere, cerca di ‘proiettare’ meno il testo perché ritiene che circoli in seno alla comunità dei credenti…
È vero. La Riforma della chiesa che è cominciata cinque secoli fa non è ancora finita. Constato molto spesso che i cattolici oggi sono molto diversi dai protestanti. Con noi, le cose devono essere piuttosto dirette: è hic et nunc, è per te, ascolta.
Ha anche dovuto ascoltare quei complessi che si sono fatti un nome suonando tutto molto veloce sotto una salsa di crescendo-diminuendo…
Sì, sì… È così. Ci sono contrasti in ogni epoca, gente che suona in modo magnifico e rapido, magnifico e lento, mediocre e rapido, mediocre e lento… Ed è vero, Carl Philipp ci ha detto che suo padre prendeva dei tempi piuttosto vivaci. Ma tutto è relativo in questo tipo di testimonianza: si può soltanto dedurne che non era né noioso né pesante. Non si sa. Non si sa nemmeno per gli italiani. Ascolto oggi delle letture molto sofisticate di Locatelli o Vivaldi: mi chiedo se questi grandi solisti non fossero al contrario dei bruti, che suonavano con tutte le forze per suscitare gli applausi. C'era un cultura alta o una cultura bassa destinata alle folle – già a quell’epoca.
Lei ha regolarmente condannato la schizofrenia dell’opera barocca, con i suoi registi insensibili al lavoro filologico sulla musica. Immagino che Il borghese gentiluomo di Benjamin Lazar l’abbia convinto…
Era meraviglioso. Spero che questo spettacolo abbia tutto il seguito che si merita. C’era una tale evidenza, un’unità per l’occhio e per l’orecchio. In fondo, è semplicemente ‘normale’. Se si sceglie di rappresentare un’opera concepita da un’artista, si deve rispettarla. È il minimo. Si possono anche commissionare delle opere nuove, persino volgari, perché no.
Ha spesso parlato della sua scarsa affezione per il secolo di Beethoven e di Berlioz, ma perché suonare così poco Mozart e Haydn?
Non ho quasi registrato la loro musica ma ho avuto regolarmente l’occasione di dirigere delle sinfonie con l’Orchestre of the Age of Enlightenment, per me è stata una grande fortuna! Che musica! Haydn mi sembra più debole, lasciamo stare. Ma come sa non ho orchestra, dipende
dunque dagli inviti. Il repertorio per tastiera è un altro problema: non amo il fortepiano.
Anche i fortepiani contemporanei di Bach? Penso alle bellissime copie da Cristofori e Silbermann che si cominciano a realizzare…
È il principio del fortepiano che mi disturba, la sua meccanica indiretta. Ho l’impressione di lanciare una palla contro un muro misurando l’effetto perché rimbalzi alla giusta distanza. Ciò permette delle cose assai belle ma sacrificando il contatto con la corda che si prova al clavicembalo. La si tocca quasi, è una meraviglia. Sa, sono molto fortunato, adoro la musica, ancora, e il mio strumento. E quando vedo che certe persone vogliono ascoltarci, sono molto felice.

Intervista tratta da Diapason (maggio 2008)

giovedì, marzo 12, 2009

Mussolini, la musica e il mito del capo

"Il Fascismo [è] una grande orchestra, dove ognuno suona uno strumento diverso." Benito Mussolini

Nella ricchissima galleria dei ritratti che compongono la biografia mussoliniana, quello dell’appassionato cultore di musica classica e violinista per diletto occupa uno spazio marginale ed è sconosciuto ai più. La scarsa divulgazione di questo inconsueto duce musico non è solo il prodotto del limitato interesse rivolto dalla saggistica all’argomento, ma è anche il non meno importante riflesso di un accostamento che nei contenuti e nei richiami appare quantomeno inusitato. Chi mai, evocando Mussolini, se lo figurerebbe alle prese con un violino o assorto ad ascoltare quartetti di Beethoven? Cosa si può pensare di più lontano dal fascismo, dalla violenza che ne era anima e nutrimento, dall’armamentario di teschi, manganelli e pugnali, dalla mistica del «credere obbedire combattere» o dai bellicosi proclami del suo demiurgo? La musica, senza dubbio, il linguaggio universale per eccellenza, l’arte che con maggior efficacia sa raggiungere il cuore di tutti gli uomini e, proprio per questo, il vettore meno adatto per messaggi politici, a maggior ragione se imbevuti di aggressiva intolleranza. Ma, paradossalmente, tanto profondo è l’abisso che parrebbe dividere - e non solo in un accademico esercizio di associazioni mentali - il duce del fascismo dall’armonioso metalinguaggio, tanto forte, travolgente e fecondo fu il legame tra Mussolini e la musica. Siamo di fronte a un Mussolini minore? A prima vista il dubbio potrebbe apparire legittimo e sicuramente i momenti di intimità con il violino così come la sensibilità o i gusti musicali non possono neanche lontanamente essere avvicinati per importanza a scelte e azioni che hanno segnato i destini della nazione marcandone la vita ben oltre il Ventennio. Tuttavia anche dall’analisi di questo Mussolini poco conosciuto si possono trarre indicazioni che contribuiscono a restituire un’immagine ancor più completa e a tutto tondo del dittatore, svelando i meccanismi che contribuirono alla costruzione del suo mito e le contraddizioni che incrinavano la lucente facciata del regime fascista. In altri termini, la marginalità che il violino del duce parrebbe ben meritare se ridotto a mero addobbo o a ennesimo episodio di un’infinita aneddotica, cessa di esser tale nel momento in cui si fa di questo violino un ulteriore e imprevedibilmente efficace strumento di lettura, un aspetto in grado di evidenziare e confermare elementi interessanti, anche se poco visibili, presenti in quella complessa e composita miscela che fu l’Italia del Ventennio. L’amore di Mussolini per la musica infatti, fu inserito a pieno titolo nel processo mitopoietico messo in opera per costruire e consolidare quel culto della personalità che avrebbe fatto del duce l’imprescindibile chiave di volta e l’insostituibile incarnazione del fascismo. Una chiave di volta che rimossa il 25 luglio 1943 avrebbe comportato senza via d’uscita il crollo del regime; un’incarnazione fondamentale per comprendere come gli ultimi fuochi di Salò non avrebbero mai potuto ardere senza il magico carisma, la capacità di catalizzare emozioni ed entusiasmi che ancora emanava da quel capo al tramonto. Nella "fabbrica del consenso" il peso assunto da elementi irrazionali rivelatisi nella percezione del duce come mito fu tutt’altro che secondario e rappresentò un complemento essenziale alle motivazioni più oggettivamente tangibili che a quel consenso potevano concorrere: dalla "pacificazione" nazionale al ritorno dell’impero sui «colli fatali di Roma», dalle bonifiche pontine ai treni proverbialmente in orario. Indipendentemente dalla questione se questo culto fosse stato imposto attraverso un’efficace macchina propagandistica o fosse già presente sotto forma di desiderio latente e irrealizzato, di attesa messianica in una società bramosa di nuovi «capi selvaggi», esso rappresenta un sigillo essenziale dell’esperienza fascista. Fra gli strumenti che Mussolini aveva a disposizione per diffondere e far prosperare il suo mito («Il capolavoro di Mussolini non è l’Italia fascista ma Mussolini stesso», aveva intuito con perspicacia Curzio Malaparte già nel 1926) uno dei più originali fu certamente quella sorta di lanterna magica che modificava e moltiplicava la sua immagine, creando un seducente richiamo adattato di volta in volta in funzione delle molteplici categorie e dei multiformi vissuti che animavano la società italiana. L’immagine di principesco protettore della musica insieme a quella di appassionato esecutore ed ascoltatore finì così per campeggiare tra le tante altre (contadino, ex combattente, intellettuale, emigrante, giornalista, padre di famiglia, grande amatore, sportivo, condottiero, e molte altre ancora) proiettate da questa lanterna magica, manovrata ad arte da un Mussolini illusionista e seduttore di folle, incredibilmente somigliante alla grottesca metafora del moderno dittatore che nel 1930 - in tempi di osannanti e non solo italiche acclamazioni - Thomas Mann aveva celato nella surrealtà favolistica del racconto breve Mario e il Mago.
Un altro aspetto del politico che l’amante della musica può svelarci, evidenziando e confermando prassi peculiari nella gestione del potere, è rappresentato dal ruolo di arbitro e moderatore assunto da Mussolini nell’ambito delle dispute che opponevano i compositori d’avanguardia a quelli più tradizionalisti; unico vero punto d’incontro tra gli "armoniosi" contendenti era infatti una entusiastica fedeltà al duce che veniva ricambiata da favori e interessamenti dispensati a tutti indifferentemente, confermando quanto fosse contraddittoria, e non solo in campo musicale, la politica culturale del regime e quanto riflettesse l’ambigua e mai risolta convivenza tra l’anima conservatrice e quella rivoluzionaria del fascismo (contraddittorietà e ambiguità che peraltro si tradussero per gli artisti italiani in una libertà - solo ed esclusivamente "operativa" beninteso - tanto più straordinaria se raffrontata al soffocante clima censorio patito dai loro colleghi nella Germania di Hitler o nell’Unione Sovietica di Stalin).
Ma se si procede nell’osservare il duce attraverso questa lente pentagrammata analizzando i suoi rapporti con la musica, emerge anche la maniacale e per certi versi patologica vocazione all’accentramento che costituì una cifra inconfondibile del mussolinismo. Forse sull’onda della smisurata ammirazione per quell’archetipo di accentratore - e a ben vedere anche di moderno capo dai connotati mitici - che fu Napoleone, Mussolini, fin dai primi anni di governo, si interessò in prima persona ad ogni minimo dettaglio attinente la vita della nazione in un delirio onnicomprensivo che, dal pittoresco eclettismo degli inizi, si tramutò inesorabilmente in maldestro pressappochismo proprio in occasione delle svolte che avrebbero segnato tragicamente la storia d’Italia .
La musica fu naturalmente uno dei campi privilegiati per l’azione diretta di Mussolini. Il violinista di Palazzo Venezia, unico uomo di Stato italiano (gliene va dato atto) ad occuparsi di quest’arte con passione, competenza e assiduità, agì a trecentosessanta gradi curando in prima persona i rapporti con compositori ed esecutori, promuovendo e patrocinando la nascita di festival (il Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia e il Maggio Musicale fiorentino) ed enti lirici, subordinandone al proprio placet gestione e programmazione artistica, elargendo protezione e consigli ma anche favori di più immediato riscontro: dal lancio di giovani talenti alla creazione di cattedre ad personam, dall’autorevole e autoritario interessamento per la messa in scena di nuove opere alla scelta dei compositori che avrebbero varcato l’ambitissima soglia dell’Accademia d’Italia.
«Il Fascismo [è] un grande orchestra, dove ognuno suona uno strumento diverso». Nella sua «resistibile» ascesa, Mussolini si era impadronito di podio e bacchetta dirigendo quell’orchestra dalla rivoluzionaria ouverture squadrista al truce finale della guerra civile passando per le «oceaniche» e fastose sonorità di un regime all’apice del consenso. Ma anche nel clangore e nei fortissimo delle strombazzature littorie, si cominciò a udire qualche suono stonato o fuori tempo, qualche nota non scritta sulla nera partitura del capo, in un crescendo che ricorda il coro degli oppressi fatti irrompere dal sovversivo lacchè («Quel Gérard!... L’ha rovinato il leggere!») a troncare le incipriate gavotte nel primo atto di Andrea Chénier.
Le stecche, le entrate fuori tempo, venivano da quei pochi italiani che ben prima del 1943 avevano testimoniato con la vita, il carcere, il confino, l’esilio o anche "solamente" con l’autodistruzione professionale, il loro coraggioso No al fascismo. Questa piccola e nobile orchestra era idealmente guidata da uno tra i più grandi direttori di tutti i tempi: Arturo Toscanini. Il duello tra i due mitici maestri, infiammato ulteriormente dalle loro molteplici affinità (sociali, culturali, regionali e non ultimo caratteriali) si caricò di significati e valenze che andavano ben oltre la vicenda privata dei contendenti. Toscanini e Mussolini finirono così per rappresentare i due voti inconciliabili di un’italica erma bifronte, campioni di quelle visioni antitetiche che si erano contese l’eredità risorgimentale e l’egemonia sul compimento del processo di unificazione nazionale fra crescita democratica e autoritarismo, maturazione politica e uso strumentale delle masse, Stato di diritto e Stato di polizia.
L’11 maggio del 1946, dopo lunghi anni di volontario esilio, Toscanini tornava a dirigere nella sua Italia liberata, nella sua Scala ricostruita. Mussolini e la sua orchestra non erano più in cartellone e tre settimane più tardi l’eco di quello storico concerto avrebbe tenuto a battesimo la neonata Repubblica.

di Stefano Biguzzi ("Musicalmente", Anno 4, Numero 1, Febbraio 2008)

giovedì, marzo 05, 2009

Il "Cristoforo Colombo" di Alberto Franchetti

Montpellier (Francia).
Nonostante il 500tenario sontuosamente celebrato, Cristoforo Colombo di Alberto Franchetti è un grande assente italiano. L'opera, frutto di una commissione del Teatro Carlo Felice (i genovesi s' erano rivolti in prima battuta a Verdi, che li aveva indirizzati al trentenne compositore torinese) venne rappresentata il 5 ottobre 1892. Seconda d'autore, Cristoforo Colombo era al centro di una stagione straordinaria: concerti, balli, Otello di Verdi e Wally di Catalani. L'ingegnosa e romanzesca narrazione librettistica della vicenda colombiana, suddivisa in tre atti e un epilogo (Salamanca 1487, Oceano 1492, Xaragua 1503, Medina del Campo 1506) e due parti (La scoperta, La conquista), era di un altro giovanotto di belle speranze, Luigi Illica, che aveva vinto un concorso bandito per l'occasione. Restaurato e modernizzato (con illuminazione elettrica e riscaldamento) il Carlo Felice festeggiò insieme l'eroe locale, i 400 anni della scoperta dell'America, se stesso, e il presente d'una scuola musicale nazionale che esisteva oltre Verdi, e che in ambito interpretativo contava già su Toscanini (subentrò a Mancinelli nella direzione del Colombo), di Franchetti sincero sostenitore. Nonostante le svariate e ghiottissime coincidenze, il Carlo Felice d'oggi ha ignorato il dovere d'una riesumazione. Cristoforo Colombo è stato eseguito in vari teatri del mondo (a Francoforte, l'anno scorso, è stata realizzata anche una pregevole edizione discografica) mentre l'Italia, affetta da provincialismo culturale, ha dato spazio soltanto a una riduzione per marionette, seppure insigni, il cui merito spetta unicamente ai Colla che hanno voluto così allargare il loro repertorio e la diffusione popolare della sontuosa opera. E' toccato al festival meno futile d'Europa di farci riflettere a esecuzione calda su Colombo. La grandiosa partitura, proposta nell'edizione ridimensionata da Toscanini, è stata presentata al Festival di Radio France & Montpellier, che nella sezione opera quest'anno ha proposto l'Aida nella versione 1871 del Cairo, l'Edipo a Colono di Sacchini, Jephte di Haendel, Edgar di Puccini, La prova di un'opera seria di Gnecco e la prima di Le chateau des Carpathes di Philippe Hersant. Con un protagonista di straordinaria intensità e classe (Paolo Coni), una compagnia di canto equilibrata e efficiente (Mariana Cioromila, Michèle Lagrange e Claudia Clarich, quindi Claudio Di Segni, Daniel Galvez-Vallejo, Laurent Naouri, Gabriele Monici e l'opaco Enrich Knodt) e la lettura appassionata di Gianfranco Masini (neodirettore della talentosa Filarmonica locale) che ha aizzato l'immaginazione sonora potente del Coro di Radio France, Colombo non poteva lasciare indifferenti. L'opera è affascinante nella storia. La musica di Franchetti, un compositore di famiglia abbiente che aveva scelto di studiare a Monaco e Dresda, rappresenta un documento notevole delle tendenze operistiche più avanzate della generazione attiva tra Verdi e il verismo. In Cristoforo Colombo, complice una sceneggiatura librettistica non convenzionale e attratta dalle 'deviazioni' narrative scapigliate, troviamo sintetizzata con più sostanza compositiva e consapevolezza teatrale la lingua di Gioconda e di Mefistofele, per citare gli unici due superstiti del repertorio epigonico verdiano. La spregiudicatezza musicale di Franchetti è evidente nella concezione delle scene di massa (non il solito concertato, ma pagine sinfonico-corali di amplissimo respiro, tumultuose e avvincenti nell'intrico abile delle parti: il secondo atto è esemplare), nella strumentazione che impiega a fini espressivi gli impasti piuttosto che i temi, nell'utilizzazione d'una vocalità flessibile, non congelata nel declamato né ancora spostata verso l'urlo verista. Il taglio dell'opera ci ricorda un grand-opèra postumo: monumentali quadri d'assieme, un atto (il terzo) disutile alla vicenda del baritono santo navigatore ma che dà corpo a una fugace vicenda amorosa (con regolamentare duetto tenore-soprano) e una rievocazione esotica di poco interesse drammatico ma sagace invenzione turistico-pompieristica, mentre negli altri atti - prologo e epilogo alla scoperta del Nuovo Mondo - il gesto cinematografico del libretto passa rapidamente dalla descrizione realistica e particolareggiata all' epica in campo lungo. Nelle pagine collettive e in quelle solo orchestrali, Franchetti si rivela originale, liberato dai fardelli della tradizione operistica d'imitazione verdiana. Un segno di sincera emozione viene poi dal tratteggio del malinconico e solitario Colombo, che culmina nel vaneggiamento che occupa il quarto atto, come nel Torquato Tasso donizettiano. Epico ma mesto, a tratti lugubre, Colombo è un protagonista a tutto tondo: inquieto, fatalista ma metafisico. Calato in una sorta di esaltazione panica dell' impresa rivelata in sogno e in adorazione (ricambiata) di Isabella: la notizia della sua morte gli toglie il senno. E l'ultima scena, tenuta in equilibrio tra rievocazioni eroiche e ondate nostalgico-emotive sospinte regolarmente come il tema musicale marino che le tende, è un saggio di grande teatro. Quasi verdiano.
Angelo Foletto (Repubblica, 11 agosto 1992)