Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, aprile 29, 2006

Non basta una corda di budello

Incominciata in sordina qualche decennio fa in un'aureola di snobismo iniziatico, quella che era la moda delle esecuzioni musicali con strumenti d'epoca, strumentisti d'epoca, direttori d'epoca, musicologi promozionali d'epoca, ha assunto la forza d'urto di un'alluvione e lo spessore di un fiorente mercato con le sue leggi, il suo target, il suo marketing, la sua pubblicità. Altro che Monteverdi, Corelli, Händel.
Di decennio in decennio, il delirium tremens antiquario ha coinvolto via via l'età galante, Haydn, Mozart, Beethoven ed ora sta dando fondo alla Romantik di Schubert, Schumann, Mendelssohn, lambendo Bruckner. Non sono quello che D'Amico chiamava un discobolo, e prendermi in castagna in fatto di aggiornamento discografico è un gioco da ragazzi: se già non sono disponibili, un Brahms, un Wagner, un Mahler e magari un Richard Strauss e uno Schönberg d'epoca, presto lo saranno.
L'operazione di ripristino di un suono si presume storico, mediante strumenti e prassi esecutive recuperate da un passato remoto o prossimo, convive senza traumi con la normale produzione discografica basata sulla grande orchestra sinfonica diretta dalla grande bacchetta e sul concertista di grido che seguita a suonare il suo Scarlatti, il suo Mozart e il suo Schubert sul suo Steinway gran coda. Lo impongono le leggi dei mercato e la schizofrenia dì un consumatore discografico il quale ormai detta legge nella programmazione delle istituzioni concertistiche, dove richiede di riascoltare dal vivo quegli stessi solisti e complessi che già figurano nella sua discoteca: con un processo esattamente inverso a quello che una quarantina d'anni fa portava l'appassionato a cercare nel negozio di musica il disco di Stern, della Haskil, di Fischer Dieskau applauditi la sera prima alla Società del Quartetto o all'Accademia di Santa Cecilia.
Da trouvaille sofisticata e iniziatica, l'esecuzione antiquaria è insomma divenuta un genere commerciale come qualsiasi altro: con il suo pianeta di produttori "specialisti" e di consumatori esclusivi e la sua estetica, che di solito si effonde dalle pagine delle riviste discografiche nella prosa apodittica d'ineffabili recensioni a firma dei cultori della materia. I quali non si capacitano del fatto che un Muti o un Abbado seguitino a far musica con quelle loro orchestracce, quando un Collegium Aureum auf Originalinstrumenten diretto dal grande Konzertmeister Franz Joseph Maier ha in catalogo - scusate se è poco - le tre ultime sinfonie di Mozart, la Missa Solemnis di Beethoven, la Grande Sinfonia in Do maggiore di Schubert in esecuzioni, manco a dirlo, "filologiche".
L'uso sistematico e, diremmo quasi, magico di tale termine, è indicativo del preoccupante vuoto di pensiero (soccorrendo Ungaretti, dalla mancanza di «sentimento del tempo») che sottende a questa poetica dell'antiquariato esecutivo. Lo sforzo con il quale lo strumentista "filologo" si studia di resuscitare dal silenzio dei secoli il "vero" suono della pagina scritta, non va infatti oltre un recupero candidamente artigianale di dati teorico-tecnici, la cui acquisizione e riproposta, da parte dell'esecutore odierno, si ritiene di per sé garante dell'autenticità estetica dell'operazione. Si crede, in altre parole, che basti una corda di budello sfregata senza "vibrato" e con la "messa di voce", o il suono metallico di un fortepiano toccato da una mano istrutta nelle tecniche tastieristiche settecentesche, a restituire credibilità a Corelli o a Clementi.
E si dimentica tutto il resto. Il mondo nel quale quel suono, irrimediabilmente estinto ai nostri orecchi di uomini sulle soglie dei terzo millennio, era fiorito. Un mondo con i suoi spazi, i suoi tempi, i suoi rumori, i suoi odori, le sue luci, i suoi silenzi, le sue sensazioni e i suoi sentimenti che non erano i nostri. Popolato da esseri umani viventi, pensanti, operanti, soprattutto ascoltanti in modi tanto diversi dai nostri. Non occorre essere molto addentro la novissima problematica della ricezione musicale, per comprendere come una restaurazione sic et simpliciter del suono antico e delle sue supposte modalità di comunicazione emotivo-espressiva non possa non configurarsi come un'infantile chimera, solo che si consideri la cosa «con filosofica mente» (filosofica, non filologica) come avrebbe detto Leopardi: il quale era peraltro filologo sommo. La controprova (escogitata da un grande critico musicale per diletto proprio e altrui) è spassosa, e sarà rgomento per la prossima «Opinione».

di Giovanni Carlo Ballola (Musica & Dossier, Anno VII n.54, mar/apr 1992)

giovedì, aprile 27, 2006

Mahler: sproporzioni da maestro

Le vicende critiche dei grandi compositori: Gustav Mahler, denigrato, incensato, celebre, ignorato, adulato, vilipeso.

"Le frasi che nella prima edizione accompagnavano la dedica a Gustav Mahler sono state tolte perché ritenute oggi superflue. Erano parole scritte subito dopo la sua morte in uno stato di profonda commozione e in esse vibravano il dolore di averlo perduto e lo sdegno per la sproporzione tra il suo valore e il riconoscimento che aveva trovato intorno a sé... L'affermazione che "egli fu un Grandissimo" acquistò quasi la forza e la sembianza di una profezia proprio perché non era stata dimostrata. Quella profezia voleva acquistare forza per poterne dare, ma acquistò più di quanto non desse: all'opera stessa, che vive tutta la sua grandezza, può contribuire moltissimo e pochissimo ad un tempo".

Ci vollero tuttavia dieci anni prima che Schönberg ritenesse superflua la dichiarazione di fede all'amico Mahler apposta in apertura del suo Manuale di Armonia. Dieci anni in cui solo la fervente ammirazione di qualche grande direttore d'orchestra - Bruno Walter in prima fila - riuscì ad imporre Mahler al pubblico riconoscendogli il suo posto nella storia della musica moderna.
Solo pochi anni prima della dedica di Schönberg si diceva che "la musica di Mahler parla il tedesco musicale, ma con l'accento, la cadenza e prima di tutto con il gesto troppo orientale dell'ebreo dell'est" e si osservava a proposito della Ottava Sinfonia "il carattere evidentemente ebraico d'un opera dove le soavi armonie celesti si fondono con un vero pandemonio di spiriti infernali". Non altro potevano aspettarsi da un "negromante in abiti mal tagliati, un piccolo uomo nero dal labbro sottile e rasato, dalla fisionomia di prete malvagio, con la calma fantastica dell'incantatore di serpenti davanti ai suoi cobra, un ciuffo di capelli in cima ad un cranio dolicocefalo, che fa allibire una orchestra folle, pallida d'attenzione, con quasi nient'altro che i suoi occhi d'inchiostro, acuti come lingue di vipera che tengono in soggezione, eccitando e calmando i draghi scatenati in cima alla piccola bacchetta di nocciolo di congiure infernali". E quando il regista del teatro di Dresda Überhorst, dopo aver ammirato la direzione del giovane Mahler, lo conobbe, l'uomo "semplicemente fenomenale che è stato capace di realizzare una esecuzione simile" divenne l'uomo "con quella figura, con quel modo dipresentarsi. A Dresda?... Assolutamente impossibile".
Critica musicale e riflessioni distaccate sulla musica si intrecciano in questi anni l'una con l'altra. Impossibile scinderle e le metafore sbocciano di continuo. L'immagine di un Mahler demoniaco - che dà il titolo ad un libro di Jean Matter (1959) - nel 1920 è ancora lanciata da Walther Krug: "la forma sinfonica c'è solo per lasciare mettere ordine nella pentola delle streghe" perché Mahler "musicista difforme, grand'uomo ma non abbastanza grande da accorgersi che la sua ambizione lo divorava, non guarda che a se stesso e si lascia andare al vizio delle sensazioni", "niente eguaglia la sua musica in traviamenti e trivialità".
Alla sua morte la sua musica è, anche fuori dalla Germania, "un disordine che si spaccia per profondità, una mancanza di riflessione che si registra in tutte le opere serie. Abbiamo ragione, noi francesi, a non vedere in questo laborioso sforzo altro che impotenza? Aspettiamo: forse la grazia scenderà in noi. Mahler ha le migliori intenzioni del mondo, intenzioni dipurezza, di bontà, di moralità, intenzioni d'arte semplice epopolare e di sincerità. Ciò che manca è l'artista, è il musicista. Ciò che manca è l'emozione alla quale non supplisce la volontà di essere commosso, o il culto dell'emozione. Ho l'impressione di un uomo che si logora in uno sforzo disperato per elevarsi a delle virtù che non sono le proprie: vorrebbe amare e non ama affatto... Si ha l'impressione di una vita interiore sempre turbolenta che cerca appassionatamente di giungere ad un equilibrio senza riuscirci". Nella Seconda Sinfonia "è caduto nell'errore dei musicisti maldestri e di second'ordine che vogliono mettere in un'opera tutto ciò che sanno e che sono capaci di dire". Per concludere con le dure parole di Rudolf Louis: "gli manca evidentemente la sicurezza nella funzione più elementare del giudizio artistico, nel discernimento dell'autentico e del falso, cosa che non si può attribuire che a un totale accecamento artistico o a un fiuto totalmente corrotto. Non concepisco come si possa riconoscere un alto valore pur che sia alla musica di Mahler anche se la si prende sul serio. Perché anche a quelli che non offende direttamente, è impossibile che dica qualcosa e non c'è bisogno di essere respinti dalla personalità di Mahler per constatare il totale vuoto e inutilità di un'arte dove la contrazione d'un titanismo superficiale ed impotente si risolve nella banale compiacenza d'un volgare sentimentalismo da sartine".
In fondo però i dolori di Mahler erano sorti fin da subito, almeno dalla sua prima importante esecuzione pubblica. Sul malheur suscitato dalla Prima Sinfonia di Mahler ironizzavano i giornali di Budapest chiamati a recensire la prima esecuzione del 1889 diretta dal compositore stesso. "Atroci" erano i primi movimenti della Seconda Sinfonia dati in anteprima a Berlino nel 1895. Per Liszt nel 1883 Das klagende Lied "ha un testo che non garantisce alcun successo alla composizione". Ancora prima, nelle parole dello stesso Mahler: "Se la giuria del conservatorio di cui facevano parte Brahms, Goldmark, Hanslick, Richter mi avesse concesso il premio Beethoven di 600 fiorini per "Das klagende Lied", tutta la mia vita sarebbe stata diversa... Non sarei stato costretto a recarmi a Lubiana e tutta l'infame carriera di direttore d'opere mi sarebbe stata risparmiata. Invece, il premio di composizione toccò al signor Herzfeld, mentre Rott ed io ce ne tornammo a mani vuote. Rott è diventato pazzo dal dolore, io sono e sarò sempre condannato all'inferno del teatro".
Era un muro spesso di diffidenze e incomprensioni che confinava Mahler nella sofferta carriera di direttore d'orchestra, l'unica per la verità che gli diede immediati ed entusiastici riconoscimenti.
Nel 1891, Mahler approdava ad Amburgo dopo gli anni di Budapest da cui un clima fortemente nazionalistico lo aveva costretto ad allontanarsi. Ciaikovsky: "L'opera[Eugenio Onieghin] è stata studiata con cura, e la scenografia non è malvagia, ma ho perso il filo nel seguire i recitativi, adattati al testo tedesco... D'altra parte il direttore di qui non è la solita mediocrità, ma un uomo semplicemente geniale. Ieri ho udito sotto la sua direzione un meraviglioso Tannhäuser".
Von Bülow: "L'opera di Amburgo ha ora un nuovo direttore di prim'ordine, Gustav Mahler, un ebreo venuto da Budapest, serio, energico, che secondo me non è inferiore ai più grandi come Mottl e Richter... recentemente ho ascoltato un Siegfried diretto da lui e sono rimasto ammirato per il modo in cui ha costretto questi furfanti a ballare ai suoi cenni".
Ma l'immensa stima per il direttore d'orchestra si ferma ancora di fronte al compositore. "Quando a Bülow ho fatto sentire Totenfeir gli è insorto un terribile stato di nervosismo, fino a dichiarare che paragonato a ciò che aveva sentito il Tristan sembrava una sinfonia di Haydn".
Se ancora Paul Dukas deve affermare che "uno dei grandi ricordi della mia vità in campo musicale è una esecuzione londinese di Fidelio. Mahler diresse L'ouverture Leonora n.3 rivelandomi il genio di Beethoven in modo così mirabile che ebbi l'impressione di assistere alla creazione originaria di quella sublime composizione", l'ambiguità del Mahler direttore e del Mahler compositore suscita critiche divertite e talvolta aspre. "Oggi Gustav MahIer ha diretto le sue stupidaggini di gioventù"; "Come compositore il signor Mahler gode di un'occasione concessa a pochi. Ha la possibilità di affidare proprie composizioni ai migliori artisti immaginabili: le sue sinfonie alla migliore orchestra del mondo, i suoi Lieder ai più rinomati cantanti; le sue intenzioni ad uno dei più raffinati direttori, Gustav Mahler. Sì, Mahler direttore e autore è stato fragorosamente applaudto. Una parte del pubblico che non apparteneva alla consorteria dei mahleriani è rimasta freddina. Purtroppo le era impossibile applaudire il direttore senza ricevere gli inchini di ringraziamento dell'autore". Così cadde nel 1901 Das klagende Lied, "fragore coribantico", "ben disposta quantità di effetti acustici rozzi e raffinati". D'altra parte, come si con-
viene al rigore di un maestro, Mahler non cedeva un palmo alla critica: in un concorso la suite "piacque alla giuria perché era superficiale e molto più povera di idee, mentre le mie opere migliori spiacquero sempre agli onorevoli membri delle giurie" ed ancora più chiaramente "Non nutro alcun dubbio che i nostri amici critici soffriranno ancora una volta di vertigini. E' ben noto che non riesco a far nulla senza trivialità. Questa volta ho comunque superato ogni limite accettabile. Viene spesso l'idea di trovarsi in una osteria o in un porcile".
L'ostracismo del periodo nazista offuscò ancora a lungo l'immagine di Mahler nei circuiti musicali ufficiali. Solo dopo la guerra iniziò il riscatto che gli avrebbe restituito il suo posto nella storia della musica moderna. In Italia dopo lo studio di Ugo Duse si dovette attendere il 1983 per la prima ampia monografia su Mahler per la penna di Quirino Principe. I riconoscimenti sono tecnici, per un verso, come quelli di Copland che afferma: "due aspetti della sua natura musicale sono in anticipo di anni sul suo tempo. Uno di questi è la struttura curiosamente contrappuntistica della partitura, l'altro, più ovvio, la strumentazione sorprendentemente originale. Visti nella giusta cornice questi due elementi sono strettamente connessi. Solo perché la sua musica è concepita contrappuntisticamente la strumentazione possiede quella rapida incisività e sonorità purificata che possiamo avvertire ancora nella musica dei compositoriposteriori... simili effetti si ritrovano nelle composizioni per orchestra di Schönberg, Honegger, Britten". Sono altrimenti riconoscimenti generali sulla profondità dell'arte come quelli di Cooke che vuole applicare a Mahler la definizione di Huxley "Nell'arte Totalmente Veritiera le angosce possono essere giuste e vere, l'amore e la mente indomita altrettanto importanti quanto nella tragedia... male angosce, l'amore e la morte vengono poste dal creatore e dalla Verità Totale in un altro ampio contesto" o la partecipazione ad un clima espressionistico in cui "l'interna commozione dell'artista si prosegue nell'opera, o meglio ancora, come opera del tutto ed immediatamente così quale viene vissuta". Era in fondo Mahler stesso ad autorizzare letture di questo genere quando sosteneva "Le mie sinfonie trattano a fondo il contenuto di tutta la mia vita; dentro vi ho messo esperienze e dolori, verità e fantasie in suoni... Non posso far musica fino a che la mia esperienza può essere raccolta in parole. La mia esigenza di esprimermi musicalmente sinfonicamente inizia solo quando dominano le oscure sensazioni e dominano sulla soglia che conduce all'altro mondo".
Ma l'ultima parola che fonde insieme la lezione tecnica ed artistica di Mahler l'aveva già detta Schönberg: "A Mahler fu concesso di rivelarci quanto ci ha detto, e solo quello, del nostro futuro; quando volle dirci di più, fu portato via; poiché non deve ancora esserci pace e silenzio, ma lotta e frastuono".

di Paolo Russo (Musica Viva, Anno XVII n.2, febbraio 1993)

martedì, aprile 25, 2006

Elogio della "Follia"

Attraverso la variazione una melodia cinquecentesca portoghese ha percorso l'Europa stuzzicando la creatività di autori del '600 e '700.

Quanto influì, e influisce, nel definire il Settecento, in un film come Barry Lyndon, la musica impiegata da Stanley Kubrick? All'unanimità si è già detto «molto» e la risposta sembra data, ma non è inutile indagare «perché» o «come» il meccanismo di quelle associazioni suono-immagine sia mosso. L'intenzione non è però di dare spazio all'ennesima relazione sul rapporto musica-film, ma di prendere spunto da un tema musicale che, oltre a siglare come un motto la pellicola storica più fascinosamente esatta del più musicale fra i registi cinematografici, serpeggia nella musica strumentale del primo settecento secondo le tappe di un viaggio emblematico da ovest a est, da sud a nord. Una discografia, ora vecchia ora recente, da poco completa, offre l'appoggio per una serie di divagazioni episodiche, diciamo variazioni sul tema di quel Tema che molti forse ricordano a memoria, o comunque possono rintracciare con facilità per fare loro il viaggio.
Nel film, tratto dal romanzo di Thackeray e vero protomodello di un filone ispirato a un edonistico piacere della ricostruzione ambientale, il «main-title» è la cosiddetta Sarabanda di Händel. Il titolo è improprio, almeno quanto quello del cosiddetto Largo, ma se dietro a questi si cela un'aria d'opera («Ombra mai fu», primo numero del Xerxes), dietro la Sarabanda c'è effettivamente una Sarabanda: il quarto tempo della Suite n.7 in sol minore per clavicembalo.
Ambedue i pezzi sono noti - destino di Händel - più nelle loro forme spurie e derivate: e così la Sarabanda, nella colonna sonora del film, non è usata nella sua versione originale, ma in un arrangiamento gonfio e orchestrale affidato alla National Philharmonic. Eppure le è possibile, nella sua forma mascherata, evocare il Settecento: merito del suo incedere e della natura genetica del materiale melodico.
La mano dell'arrangiatore potrebbe essere quella, non ufficiale, di Raymond Leppard, che in un suo posteriore disco di consumo, propone una personale strumentazione della Sarabanda, più contenuta, comunque ampliata rispetto all'originale. (L'album è intitolato «Alla barocca», nel senso del Barocco secondo Bukofzer, dove, trattandosi di brani di Bach, Händel, Gluck, Marcello, Pachelbel e Vivaldi, non c'è nulla di veramente barocco. Da cui la voglia di abolire il termine anche quando potrebbe essere legittimo). Usate questa versione di Leppard per avvicinarvi all'originale. In realtà fu più filologico Kubrick, ma torniamo al tema.
La Sarabanda di Händel altro non è che la Folìa, o Follia, melodia sulla bocca, sulla spinetta, un po' sul violino di tutti quando la prendiamo sotto osservazione, nei primi anni dei Settecento.
La Follia viene dalla Spagna, o meglio dal Portogallo, e penetra in Italia via mare, probabilmente attraverso il porto di Napoli. E' anche una danza, in senso più generale, e affine alla Sarabanda, con la quale ha originariamente in comune, oltre al tempo ternario, una sorta di frenesia corporea. Ma insieme alla più celebre cugina, per passaggi geografico-musicali dalla strada ai saloni, si decanta, si denatura e si formalizza. Sebbene Don Giovanni, ancora nel 1787, la onori di una citazione in Fin ch'han dal vino, insieme al Minuetto e all'Allemanna, la Follia non è così frequentata nella musica colta quanto la Sarabanda. La quale sola, inglobandola, è diventata modello fisso nelle Suite, nelle Ouverture, nelle Partite, Bach compreso.
Dell'originale frenesia, la Follia conserva ormai poco, ma non riesce a perdere un che di demonico. E un po' demonico, in Thackeray e Kubrick, è Barry Lyndon. Demonico è Don Giovanni e demonico è il violino, da Corelli a Vivaldi, a Tartini, fino a Paganini e Stravinsky.
Comunque, se non è frequentata come danza, almeno quanto la Sarabanda, è celebre la Follia, come tema, quando Arcangelo Corelli, nel 1700, le innalza un monumento. Il volume delle sue 12 Sonate a violino e cembalo Op.5, è sigillato appunto da «La Folìa»: 23 variazioni virtuosistiche in re minore sul tema.
L'Op.5 di Corelli diventa una pietra miliare, quasi il motore immobile della Sonata da camera. Per il violino del settecento è un paradigma, e qualunque compositore-violinista voglia scrivere in quel genere, farà in modo di possederne copia o prenderne attenta visione; con la dodicesima Sonata, La Folìa, a rappresentarla e riassumerla tutta. «Follia», dunque, non è per Corelli sinonimo di «fuori le righe», di insania strumentale, essendo egli un codificatore e un classico, ma non si può escludere che sia lasciata aperta l'ambigua lettura.
Corelli fondò i suoi modelli di musica strumentale in pochi e cesellati numeri d'Opus, sei, pubblicati fra il 1681 (Roma) e il 1714 (Amsterdam). Sono due collezioni di 12 Sonate da chiesa, due di altrettante Sonate da camera, la mista Op.5 (dove, tra l'altro, si deduce la consanguineità formale e stilistica fra i due «generi», più che la loro separazione), infine la sanzione ufficiale, postuma, del Concerto Grosso nell'Op.6. Ma fu l'Op.5 ad avere la maggiore influenza sui contemporanei, vivente lui. Messa come un faro sul limite del secolo, la Sonata in forma di variazioni sul tema della Follia non chiude affatto l'Opus, ma quasi lo apre. L'Op.5 fu una sistematizzazione in chiave classicista del genere, ma quelle ventitre variazioni sulla Follia fanno quasi testo a sé, come germe autonomo e rigoglioso.
Infatti, cinque anni più tardi, l'argomento della Sonata da camera viene raccolto, riprendendo il tema della Follia. Vivaldi, nuova epitome vivente del Violino italiano, pubblica a Venezia, nel 1705, la sua Op.1: «12 Suonate da camera a tre» (due parti di violino e basso continuo), nella quale, rubricata oggi al n.62 del catalogo Ryom, compare come summa finale una Sonata in re minore dove il tema della Follia è trattato come ci si aspetta dal prete rossochiomato. Le diciannove variazioni di Vivaldi riconvertono in follia vera quella follia astratta in cui la danza si era ritualizzata e resa classica con Corelli. Il tappeto volante è identico, stesse pezzatura e tramatura, ma il volo è più folle, ancora seguendo il mezzo della variazione, braccio destro del virtuosismo, che è figlio dell'improvvisazione. Il maestro si onora e si trascende. Appunto perché il maestro è un classico.
Attraverso la Follia di Vivaldi, forse, o anche attraverso di lei si arriva a Händel. Questi conosceva già, forse, l'Op.1 pubblicata a Venezia, ma nel 1713, dopo il successo editoriale dell'Estro Armonico (Op.3), sulle cui pagine si era chinato pure Bach, Le Cène e Roger pubblicano l'Op.1 di Vivaldi anche ad Amsterdam. E attraverso questo rappel che Händel si innamora della Follia? Più probabilmente trova carino, utile o giusto citare in un suo pezzo il tema più celebre del più celebre Opus di Corellì, che sicuramente conosceva, insieme a molti altri lassù al nord, e lo fa nel 1720, quando pubblica a Londra la sua prima e unica serie di Suites per clavicembalo. Non occorrerebbe nemmeno ricordare la destinazione salottiera delle suites per clavicembalo, che spesso nascevano come trascrizione di improvvisazioni su temi dati, per confortare l'ipotesi che la Follia, oltre che nota ai musicisti e ai violinisti, professionisti o dilettanti, attraverso il maestro Corelli, fosse tuttora un tema circolante e orecchiato; comunque in vita al nord dell'Europa. Nella Sarabanda di Händel il tema è melodicamente variato e armonicamente dilatato con note «altre» rispetto alla linea originale anche corelliana, forse per imprimere personalità alla citazione, o forse per camuffarne il riconoscimento ai connoisseurs.
La tappa londinese è l'ultima per la Follia, ma prevede un soggiorno lungo. Francesco Geminiani, cui, dopo la morte di Torelli (1709), Corelli (1713) e poi di Vivaldi (1741), passerà la custodia del Violino italiano - detenuta insieme al diabolico Tartini, autore di 50 Variazioni sulla Gavotta dell'Op.5 di Corelli, e a Francesco Maria Veracini, autore delle Dissertazioni sopra l'Opera Cinque di Corelli, Follia compresa - approda nella disponibile e accogliente Londra nel 1714, proprio un anno dopo la morte di Corelli e della pubblicazione ad Amsterdarn dell'Op.1 di Vivaldi. Si presenta all'ambiente musicale con i Dodici assoli di violino - presentazione notevole se Charles Burney, più tardi caustico nei suoi confronti, doveva ammettere che «i pochi in grado di suonarli sarebbero d'accordo nel dire che sono ancora più magistrali di quelli di Corelli». In re minore compare l'ennesima metamorfosi della Follia in forma di Variazione.
Corelli era ormai definitivamente considerato a Londra come il maestro della Sonata e del Concerto italiano, in virtù, fra gli altri ma forse per primo, di Nicola Matteis, violinista che nel 1674 aveva già destato sensazione. («Certamente nessun mortale lo ha superato sul suo strumento». John Evelyn). Sulla scia del Matteis, altri italiani avevano contribuito a questa conoscenza diretta, di prima mano, impegnandosi in una nazionale opera di diffusione. Diceva infatti Mattheson nel 1713: «Chiunque, di questi tempi, desideri trarre profitto dall'esercizio della musica, muove ormai i suoi passi verso l'Inghilterra».
Eppure, spianata la strada dai Matteis, dalle pubblicazioni di Corelli, dagli omaggi corelliani di Händel, è all'epigono Geminiani che tocca la fortuna di raccogliere i frutti. Proprio a partire dai Concerti Grossi di Geminiani durante il lungo soggiorno in un'Inghilterra che dopo la morte di Purcell (1695) chiede modelli, trovandoli più in Italia che in Francia e in Inghilterra, nasce una scuola strumentale inglese. Dalla Follia di Geminiani più che di Corelli, usciranno i William Boyce i Thomas Arne, i John Stanley, i Charles Avison. E ora capiamo meglio come e perché la Sarabanda di Händel, usata come Leit-Motiv nella più bella pellicola sul settecento, riesca a definire non solo un settecento a il settecento inalese.
Quindici anni più tardi, seguendo le sue tele veneziane, già avviate sulla stessa strada della Follia dal mercante Joseph Smith, Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, ex scenografo teatrale convertito al vedutismo, avrebbe anch'egli goduto i frutti della venerazione londinese per l'Italia e per Venezia E sì sarebbe inserito tanto bene da ritrarre le anse del Tamigi scoprendo, nell'acqua e negli scorci dominati dalla cupola di St. Paul's, una certa aria di casa, come sulla punta della Salute. (Oltre agli scontati assi Venezia-Vienna, vogliamo valutarlo meglio quest'asse Venezia-Londra e Italia-Inghilterra, sotto la costellazione del primo settecento? Vogliamo farne mostre e concerti incrociati?) Il viaggio della Follia, per quel che ci interessa, finisce qui. Come melodia, da Oporto era sbarcata, ovviamente, nella spagnola Napoli. Di lì era risalita, durante il Seicento, a Roma, dove l'aveva captata e fatta sua Corelli. Nel 1705 la troviamo a Venezia, fra le braccia di Vivaldi. Ma otto anni dopo - doveva amare molto le città di mare - prende il volo per Amsterdam. Per Londra il passo è breve; glielo fa compiere Händel, nel 1720. Lì si era fermata, generando una piccola scuola di imitatori, ma soprattutto - ben più importante - contribuendo a gettare il seme di una grande tradizione strumentale, nella nazione ancor oggi più ricca di musicisti aperti alla musica di altri, di esecutori campioni in prima lettura. Quella stessa lettura a prima vista che Corelli, ospite del viceré spagnolo a Napoli, nel 1702, aveva sperimentato prodigiosa nelle orchestre dirette da Alessandro Scarlatti. («A Napoli si suona», aveva confidato a un amico, dopo aver racimolato un paio di brutte figure al violino).
Ma la Follia non si era fermata a Napoli: sapeva che non sarebbe durata. La musica strumentale stava andando a nord; prevenne la migrazione, anzi la guidò.
Era nata nel cinquecento in Portogallo, insomma nella penisola iberica, come Don Giovanni. Come Don Giovanni (Mozart, Kierkegaard) era stata accolta al nord, là producendo notevoli effetti. Anch'essa, come Don Giovanni, in realtà «ignora l'anno e anche il secolo in cui nacque» (Giovanni Macchia), diventando una presenza di sempre e di ogni dove. E, come Don Giovanni, non è affatto positiva, né allegra. Quel tema ascendente in minore, cadenzato sul lieve zoppicare di un tre quarti, contenuto perfettamente e precisamente in un'ottava, ha già nella sua formulazione più semplice un che di fatalistico, un senso triste di presagio. (Barry Lyndon è in effetti uno sconfitto, un avventuriero del settecento descritto dal realista anti-vittoriano Thackeray in un tempo in cui Don Giovanni non è più un eroe).
Tutti i compositori che l'hanno toccata non ne hanno mutato la natura. Non potevano mutarla, ma solo mascherarla e correggerla nelle variazioni più veloci e virtuosistiche, in quelle più fisiche e corporee (Vivaldi); ma nei Lento, negli Adagio, nei Largo espressivi, subito affiorava e affiora (Händel) quel dominante senso di malinconia, di ineluttabilità, da rintocco del destino. La sorte è, guarda caso, comune alla pur latina Sarabanda, fino al punto di chiedersi se quelle due danze, quando ancora erano popolari, siano mai state felici. Forse la loro vocazione, nordica, era nel divenire schemi, nel riflettere su se stesse. Come per Don Giovanni la vera celebrazione è nella auto-riflessione, lontano dalla culla latina in cui si presume di celebrarlo e lo si vive invece in caricatura, senza essere veramente toccati dal suo vero, inquietante e demonico fascino, dovuto alla lotta terrena, dunque tragica, con il vero aldilà delle statue di commendatori, per l'Utopia dell'eternità fisica dell'amore.
Dunque il fascino della lotta per l'impossibile, tentata con l'unico mezzo che il corpo, destinato a perdere, può permettersi: la ripetizione dell'atto, della conquista, dell'amore all'infinito, per simulare in terra l'Infinito.
C'est à dire, in musica, la Variazione come forma più universale e rivolta elettivamente. Così l'avevano intesa Corelli, Vivaldi, Geminiani, e Bach; così pure l'avrebbero concepita l'ultimo Beethoven e Webern, archiviata l'illusione dialettica della forma-sonata, troppo coi piedi per terra.
La Follia, nel suo passaggio da Corelli a Vivaldi a Geminiani (presi come esempi: non sono gli unici, né gli ultimi), ci illumina sul significato di concetti come Maestro, Genio ed Epigono. Mentre, mercé sua, la Variazione come tentazione musicale della Torre di Babele, ci suggerisce una Imago Templi protesa a spirale verso il cielo. E chi è più follemente sfrontato, nello sfidare il cielo, del Demonio?

Carlo M. Cella (Musica Viva, Anno VIII n.6, giugno 1984)

domenica, aprile 23, 2006

Gian Carlo Menotti: la mia perduta America

Le amare riflessioni di Gian Carlo Menotti sullo stato attuale della sua seconda patria.

Nel 1977 Gian Carlo Menotti sbarcò in America - la terra dove aveva completato la sua formazione all'inizio degli anni Trenta, divenuta ormai per lui una vera e propria seconda patria con l'intenzione di fondare un nuovo festival: scelse, come novello Cristoforo Colombo, la più storica e storicizzata cittadina del Nuovo Mondo, la deliziosa Charleston, che accolse con molto stupore una Dama di Picche diretta da Guido Aimone Marsan e interpretata da una strepitosa Magda Olivero.
Nacque subito un grande amore tra il Maestro e il luogo prescelto: da allora, con la legge dell'alternanza, quelle terre si appropriano ogni anno delle proposte musicali spoletine, per un Festival dei Due Mondi che è diventato mito nel panorama delle creazioni festivaliere post-belliche (una nuova veste geografica è stata tentata con l'avventura dell'inserimento di un Terzo Mondo, l'Australia e Melbourne, ma il tutto naufragò dopo appena un triennio ad experimentum, dal 1986 al 1988).
Al di là di quelli che possono essere i giudizi sulla musica contemporanea americana e sulla tipologia del sistema produttivo, ho trovato molto più interessante perché sollecitato dallo stesso Menotti - spostare l'indagine su dati più personalistici e più sociologici, con uno sguardo che contempla l'America a sedici anni di distanza da quella novità.
E affiora così nelle parole del Maestro una nota di sconfortata tristezza.
«L'America che io ho conosciuto è ben diversa da quella di oggi: allora era un paese pieno di nuove idee, di personaggi straordinari, molto vivo e vario, fresco e sempre entusiasta. Oggi è invece un paese stanco, incredibilmente più vecchio della nostra Europa».

Cosa è accaduto?
«Si è diffuso uno scoraggiamento generale nel popolo americano. La stampa, la radio, la televisione hanno distrutto tutti gli idoli di quel popolo: quelli cinematografici, gli attori, che facevano innamorare centinaia di ragazzine, e poi si scopre che sono omosessuali; quelli sportivi, modelli di salute, efficienza e prestanza fisica, e poi ecco che sono pieni zeppi di droga; i predicatori in chiesa che poi ritrovi in carcere accusati di reati di corruzione e speculazione. Insomma, la gente, soprattutto il borghese americano, il più interessato anche ai fatti culturali, si è trovato senza più alcun punto di riferimento. Con questo crollo, anche l'interesse attivo e conoscitivo, l'entusiasmo per il mondo dello spettacolo, è venuto meno, insieme alla curiosità per la nuova musica».
Una sorta di tradimento a largo raggio...
«Certo! Anche nella musica gli americani si sentono traditi: quella contemporanea è difficile da accettare per una persona che non sia uno studioso, uno specialista, un appassionato. Vanno ad esempio a una conferenza e si sentono dire che la tal opera è un capolavoro, poi si recano in teatro per ascoltarla e vederla, e si sentono smarriti, non capiscono nulla».
In questo panorama "fosco", il "suo" Festival di Charleston potrebbe essere visto come un centro di speranza aperto al rinnovamento e al ricostituirsi dei rapporti tra spettatore e produzione musicale?
«Potrebbe, ma non ne sono sicuro. Io ho cercato di lanciare il mio programma in modo tale da sottoporre il pubblico a due forze contrarie: da una parte sconvolgerlo, dall'altra ammansirlo. Così, anche nel cartellone di quest'anno ho proposto prima l'Elektra spoletina della passata stagione, e per loro è stato uno spettacolo addirittura scioccante; poi con il Duca d'Alba di Donizetti una conferenza e si sentono dire li ho fatti ritornare a loro agio, e si sono messi tranquilli. Così accade per la musica strumentale: è una terapia che prevede a mezzogiorno dei concerti con musica più che "accettabile", e nel pomeriggio Schönberg e Boulez».
Maestro, ho trovato le sue parole stagliate su di un orizzonte molto pessimistico...
«Sono molto, molto pessimista: l'America è un paese che vive in completa e perfetta confusione. Purtroppo è una confusione di valori che sta esportando anche in Europa».
La musica potrà essere una valida medicina?
«In questo momento non credo. Solo se nascerà un genio che spazzerà via un sacco di brutta musica: ci vuole un nuovo Bach, un nuovo Wagner, qualcuno che arrivi e faccia davvero piazza pulita».

intervista di Luca Pellegrini (Musica & Dossier, Anno VII n.57, set/ott 1992)

venerdì, aprile 21, 2006

Joseph Martin Kraus: l'opera per pianoforte

"E' il più grande genio che abbia mai conosciuto"
Joseph Haydn, 1801


Joseph Martin Kraus è una delle figure più originali del panorama musicale europeo di fine '700. Nato nello stesso anno di Mozart nella cittadina tedesca di Miltenberg am Main, Kraus studiò musica e letteratura durante gli anni dei liceo, e si avvicinò presto (1776) ai circoli letterari dello Sturm und Drang, più precisamente al Göttinger Hainbund. Della sua attività letteraria rimangono un libro di poesie, una tragedia (Tolon) e, soprattutto, uno dei pochissimi trattati di estetica musicale riferibile direttamente ai circoli letterari dello Sturm und Drang. Questo breve ma importante trattato ("Etwas von und über Musik fürs Jahr 1777" fissa i capisaldi programmatici della musica stürmisch, tentando di trasferire le istanze letterarie dello Sturm und Drang nell'ambito musicale e rappresenta il fondamento del credo estetico di Kraus, nonché il filo conduttore di tutto la sua produzione musicale.
Fu soltanto nel 1778 che Kraus decise di dedicarsi completamente alla musica, che da quel momento sarebbe divenuta la sua unica compagna di viaggio sulla strada della vita e dell'arte. Recatosi in Svezia alla corte di Gustavo III, fu nominato Vice Maestro di Cappella nel 1781, in seguito al successo ottenuto dalla suo opera Proserpin. Sull'onda di questo successo, l'anno seguente Kraus intraprese il suo personale Grand Tour, che in quattro anni lo avrebbe portato a visitare i maggiori centri musicali europei e ad incontrare le maggiori personalità dell'epoca, tra cui Haydn, Solieri e Gluck. A questo periodo risalgono le maggiori fortune di Kraus sinfonista, evidentemente stimolato dal confronto con i grandi autori viennesi con cui entrò in contatto. Tornato a Stoccolma nel 1787, l'anno seguente fu promosso Maestro di Cappella della corte svedese, titolo che tenne fino alla morte, avvenuta nel dicembre 1792 in seguito a tubercolosi.

L'opera per pianoforte di Joseph Martin Kraus comprende un numero assai esiguo di composizioni ed occupa un ruolo molto marginale rispetto al resto della sua produzione, centrata soprattutto sulla musica orchestrale e l'opera. Nonostante ciò, si tratta di musica di altissima qualità, dal grande valore musicale, storico ed artistico, rivelatrice di un autore dotato di una profonda conoscenza tecnica dello strumento e pienamente a suo agio nel trattamento delle forme e del linguaggio in uso nel pianismo tardo-settecentesco, La produzione pianistica di Kraus ruota intorno alle due grandi sonate - una terza è perduta - a cui fanno da contorno una serie di brevi brani di incerta destinazione scritti nell'arco di una decina d'anni.

Il momento centrale dell'opera pianistica di Kraus è senza dubbio costituito dalla monumentale Sonata in mi maggiore, pubblicata a Stoccolma nel 1788 presso Ahlström. Scritta a cavallo tra il 1787 ed il 1788, questa sonata è una delle composizioni pianistiche più originali e complesse di fine '700, nonché un'opera degna di figurare nel repertorio di base di ogni buon pianista moderno. La sonata ben rappresenta il Kraus innovatore, che sceglie deliberatamente di spingersi oltre i consolidati e rassicuranti confini dei modelli compositivi dei tardo '700 per ricercare nuovi paradigmi formali ed espressivi. La stessa esigenza lo guiderà negli anni successivi verso il completamento della gigantesca opera Aeneas i Cartago, suo capolavoro assoluto.
In questa splendida sonata ritroviamo tutte le caratteristiche principali della musica di Kraus: la predominanza dei colori scuri e delle tonalità minori, usate sia in funzione drammatica, come nello sviluppo dei primo movimento, che con finalità empfindsam, come nella penultima variazione dei terzo movimento; l'espansione a dismisura delle frasi e del discorso musicale, che porta la sonata a raggiungere dimensioni inusitate per la letteratura pianistica dell'epoca; la supremazia della narrazione musicale sulla forma, vista e vissuta come materia flessibile e continuamente rinnovabile: la sonata, nonostante la divisone in tre tempi, è infatti concepita come un unico, lunghissimo movimento.
E' tuttavia l'aspetto strumentale che rende questa sonata un unicum nella produzione krausiana e, più in generale, del pianismo di fine '700. Le riflessioni sulla forma e sul linguaggio, tipiche della produzione sinfonica ed operistica di Kraus, trovano qui un loro essenziale complemento nell'esaltazione della dimensione più genuinamente pianistica di questa sonata, che in alcuni momenti assume i connotati di un vero e proprio tour de force virtuosistico. Doppie ottave, scale, arpeggi, frequenti ed improvvisi passaggi da fortissimo a pianissimo (e viceversa), uso espressivo delle pause, privilegio dei registri grave e sovracuto, incessante sperimentazione timbrica rappresentano una vera e propria sfida tecnica e meccanica lanciata da Kraus all'esecutore ed al suo strumento. La dimensione pianistica diventa qui l'autentico fondamento programmatico dell'opera.
E' straordinario notare come questa sonata, in cui si fondono con successo sperimentazione formale e dimensione strumentale, contenga già in sé i semi di quella stessa modernità che caratterizzerà, dieci anni dopo, la produzione pianistica del giovane Beethoven, fino almeno all'op.31. Al punto da azzardare che questa singola opera di Kraus possa essere considerata, assai più della produzione di Mozart e Haydn, come la vera, benché involontaria antesignana della grande stagione pianistica beethoveniana.
Non si sa se Kraus abbia scritto questa sonata per qualche virtuoso di passaggio a Stoccolma, per il suo editore Olof Ahlström, eccellente pianista, oppure per se stesso. Kraus infatti era un discreto pianista, nonostante l'esiguo numero di composizioni scritte per il pianoforte e benché Il suo strumento principale fosse il violino. Alcune cronache dell'epoca riportano giudizi entusiastici sulle sue esecuzioni: "suona il pianoforte come un angelo' avrebbe commentato l'inviato spagnolo a Stoccolma Miranda dopo averlo sentito suonare. In ogni caso è sicuro che Kraus tenne in grande considerazione quest'opera, visto che ne seguì la stesura della prima edizione con cura meticolosa, riscontrabile nella grande abbondanza di indicazioni dinamiche e nella sostanziale coincidenza della versione manoscritta con l'edizione a stampa.

Un'importanza minore riveste la Sonata in mi bemolle maggiore, anch'essa pubblicata a Stoccolma nel 1788 presso Ahlström, nello stesso fascicolo della monumentale Sonata in mi maggiore. La genesi di quest'opera è piuttosto complessa. Si tratterebbe infatti della revisione di una sonata per violino e pianoforte composta a Parigi nel 1785 e successivamente pubblicata a Vienna. Questa ipotesi tuttavia non convince parte degli studiosi, che ipotizzano invece il percorso inverso, ovvero che la versione per pianoforte sia stata in realtà scritta prima di quella per violino e pianoforte, e che quest'ultima non sia altro che un adattamento composto per soddisfare un più vasto pubblico di amateurs, cosa che spesso accadeva nel mondo musicale parigino della fine del '700. Non si può invece stabilire se la versione a noi tramandata sia o no conforme a quella degli anni parigini, ma è lecito supporre che Kraus abbia messo mano alla sonata in vista della suo pubblicazione svedese del 1788, benché non ci sia dato sapere di quale natura e consistenza sia stato l'intervento operato in quest'occasione.
Comunque sia, è evidente l'appartenenza di quest'opera ad un mondo sonoro completamente diverso da quello della Sonata in mi maggiore. Qui Kraus sposa gli ideali di equilibrio formale e sonoro del classicismo musicale: il linguaggio è tradizionale, e si rifà in modo piuttosto chiaro ai modelli pianistici viennesi, che l'autore doveva avere già ben presenti all'epoca della composizione di questa sonata. Ciò nonostante, anche in questa circostanza Kraus trova modo di affermare il suo istinto di infaticabile sperimentatore: annida un Minuetto col da capo all'interno dell'Andante con variazioni, per esempio, ed inserisce un riuscitissimo passaggio di tipo orchestrale, citazione quasi letterale di una sua pagina sinfonica, nello sviluppo del terzo movimento: un momento di grande intimità, introdotto in esplicito contrasto con l'esposizione, caratterizzata al contrario da una scrittura pianistica brillante e virtuosa.

Quattro delle rimanenti composizioni pianistiche di Kraus ci sono giunte attraverso una copia manoscritta di Frederik Silverstolpe, amico personale di Kraus e suo primo biografo. Questa copia, che porta il titolo di Tre Variations-Stycken för Fortepiano (Tre Pezzi Variati per il Fortepiano), contiene in realtà quattro composizioni, aventi tutte come filo conduttore la variazione nel suo significato più ampio. Si tratta di brani tra loro molto eterogenei, scritti anche a parecchi anni di distanza, che ci permettono di entrare in contatto con un Kraus disimpegnato ed accattivante, ludico negli intenti e nei risultati, lontano dal compositore pensoso e drammatico della sua produzione sinfonica ed operistica.
Il Rondò in fa maggiore, composto a Stoccolma tra il 1778 ed il 1780, è probabilmente la prima composizione pianistica di Kraus oggi rimasta. Il brano, dal delicato sapore rococò, non si discosta dall'impianto formale del rondò pre-classico, e ne esalta gli aspetti improvvisativi e rapsodici, sulla scia della produzione di Carl Philipp Emanuel Bach.
Lo Scherzo con Variazione in do maggiore, probabilmente scritto a Londra nel 1785 in occasione dei festeggiamenti per il primo centenario della nascita di Handel, consiste in un tema con 12 variazioni e una coda. Il carattere dell'intera composizione è festoso, quasi burlesco, ed alterna episodi di festosa ilarità (la decima e l'undicesima variazione) a momenti di dotto godimento intellettuale (le ardite modulazioni della quinta variazione, in minore). Il carattere semplice ed immediato di questa composizione ne fece un best-seller nella Londra di fine secolo, ma la paternità di Kraus venne occultata in favore di autori che potessero offrire maggiori garanzie di vendita presso il pubblico degli amateurs londinesi. Al 1791 risale infatti la pubblicazione sotto il nome di lgnaz Pleyel, con il titolo di Minuetto con XII variazioni e l'aggiunta di una parte di violino di accompagnamento. Qualche anno dopo, nel 1805, il brano venne invece attribuito a Joseph Haydn, autore popolarissimo nella Londra di inizio '800, e pubblicato con il titolo di Sonatina with 12 variations, senza la parte del violino.
La Svensk Dans (Danza Svedese) si basa sul motivo di una danza circolare svedese, e costituisce un tratto piuttosto inconsueto nella produzione di Kraus, che non mostrò mai molto interesse per questo genere di composizioni, direttamente tratte od ispirate dalla tradizione popolare.
Il brevissimo Larghetto che chiude la raccolta è un pezzo enigmatico. Non si sa infatti per quale occasione sia stato scritto né il motivo per cui compaia in una collezione di pezzi variati, L'ipotesi più accreditata è che questa gavotta di 16 battute dovesse servire come tema per una serie di variazioni mai scritte (o terminate) da Kraus, e che per questo motivo sia stato inserito in questa raccolta. Questo pezzo tuttavia si distingue rispetto agli altri brani che Kraus ha utilizzato con questa funzione nella sua produzione pianistica: l'andamento armonico è molto più vario e complesso e la struttura formale del brano non rispecchia lo schema a doppio ritornello che ritroviamo, ad esempio, nel cicli di variazioni contenuti nelle due sonate. E' lecito dunque supporre che si tratti di un brano a sé, inserito in questo fascicolo come "intruso" - è il quarto pezzo di una serie di tre! - ed a cui Silverstolpe, infaticabile copista della musica di Kraus, non era probabilmente in grado di dare una destinazione alternativa convincente. La scrittura dei brano, rigorosamente a tre parti, potrebbe inoltre far pensare che si tratti della trascrizione pianistica di un brano orchestrale o cameristico, forse composto per un'occasione mondana. Lo stesso destino toccato in sorte a numerose contraddanze mozartiane, musiche di intrattenimento per piccola orchestra successivamente trascritte per pianoforte ad opera di Mozart stesso o di altri musicisti.

Gli Zwei neue kuriose Menuetten (Due Nuovi ed Inconsueti Minuetti), scritti nel 1780 e dedicati a Johann Nikolaus Forkel, primo biografo di Johann Sebastian Bach, sono un riuscitissimo esempio di Musikalischer Sposs, Questi due brevissimi minuetti, metafora del mare magnum di composizioni amatoriali di cui abbondava il reportorio per tastiera di metà '700, sono infatti la parodia di un modo passatista e convenzionale di intendere la musica. Il movente della loro composizione è polemico: essi devono essere visti come un breve e sarcastico attacco ai difensori della vacuità dello stile galante, tra i quali Kraus annoverava lo stesso Forkel, con cui aveva discusso a lungo sui meriti della musica antica durante gli anni della giovinezza a Göttingen. Il primo dei due minuetti, in particolare, è una gustosa parodia cromatica di una delle più popolari composizioni del Notenbüchlein für Anna Mogdalena Bach.

I Cinque Preludi Corali sono composizioni per organo, scritte da Kraus nell'ultimo anno di vita (1792). Recentemente scoperti da Bertil van Boer e Carl-Gabriel Stellan Mörner, questi brevissimi preludi fanno parte di uno più vasta raccolta contenente undici composizioni di vari autori, tutte destinate ad essere eseguite durante il servizio liturgico. Sono composizioni eterogenee, prive di coerenza interna, ma sono gli unici brani a noi pervenuti scritti da Kraus per l'organo. L'esecuzione al pianoforte è indubbiamente arbitraria e ne trasfigura l'intento liturgico, privilegiando una dimensione più domestica. La scelta del pianoforte ha tuttavia una sua ragion d'essere: si tratta infatti di opere brevi, epigrammatiche, prive di un esplicito intento strumentale al di là degli obblighi dettati dalla circostanza ecclesiale. Rispetto all'organo, l'esecuzione al pianoforte esalta gli aspetti più drammatici ed intimisti di questa musica, ed apre curiose e divertenti prospettive di esecuzione e di ascolto: è il caso del brevissimo Secondo Preludio, sorprendente miniatura del clima cupo e drammatico che ritroveremo 50 anni dopo nelle Variations Sérieuses di Felix Mendeissol-in-Bartholdy.

Mario Martinoli (note al CD "Joseph Martin Kraus: Complete Piano Music" - Stradivarius STR 33697 - 2003)
Ringraziamenti:
L'interprete desidera ringraziare tutti coloro che hanno incoraggiato, sostenuto e reso possibile la realizzazione di questo CD, ed in particolare: l'Accademia di Musica Antica di Rovereto, Bertil van Boer, Sergio Ciomei, Elena Garbelli, Bice Ivardini, Luca Francesco Palmieri.

mercoledì, aprile 19, 2006

Luigi Nono e sulla sua inquieta lezione

Sto riascoltando il Quartetto LaSalle in Fragmente Stille, an Diotima, uno dei pochi lavori dell'ultima stagione compositiva di Luigi Nono (Venezia, 29 gennaio 1924 - 9 maggio 1990) che abbiano avuto un pronto riscontro discografico. E mi chiedo quanto tempo dovrà ancora passare prima che il pubblico non assiduo ai festival di musica contemporanea - quando ancora esistevano: a proposito, che fine ha fatto la Biennale Musica di Venezia, che nonostante i tentativi di rianimazione (l'edizione Bussotti 1989) proprio con Prometeo, tragedia dell'ascolto di Nono sembra aver esalato nell'oramai remoto 1984 (Chiesa di San Lorenzo, 25 settembre) l'ultimo respiro? - possa conoscere la produzione più recente del compositore veneziano.
Una fetta musicale imponente, di significativa suggestione e non trascurabile sofisticheria linguistica. Che se venisse offerta liberamente, al pubblico autentico che sceglie (e paga) il proprio disco, contribuirebbe a alleggerire il ricordo di Luigi Nono, troppo a lungo rubricato e zavorrato - tra il facile dileggio dei detrattori e l'altrettanta redditizia solidarietà degli "impegnati", spesso involontari complici di un paradossale culto della personalità e dell'ideologia cui Nono fornì carburante per un trentennio - dalle etichette politiche, dalle miopie da schieramento linguistico.
Nulla di ciò nasce per caso. Quando, nonostante il patrocinio eccellente di Hermann Scherchen, le Variazioni canoniche sulla serie dell'op. 41 di Arnold Schönberg furono tempestosamente accolte a Darmstadt, nel sacrario dell'avanguardia musicale europea, il ventiseienne compositore veneziano era un semplice allievo. Ma non lo rimase per molto. Malgrado la formazione "dilettantistica" (aveva studiato sì con Gianfrancesco Malipiero ma non si diplomò. Alla sua formazione aperta concorsero il precocissimo Bruno Maderna, l'influenza di Scherchen e di Edgar Varèse, quindi la condivisa militanza accademica con Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen e Luciano Berio) si impose subito come personalità di primo piano sia sotto il profilo della padronanza tecnica che sotto quello, meno comodo, della consapevolezza ideologica.
Le Variazioni canoniche, che già nel titolo denunciavano i confini sintattici (il controllo e ripensamento radicale dello spazio musicale ambito attraverso il contrappunto "canonico" ereditato dai fiamminghi e rinsaldato alla lezione radicale schoenberghiana) entro cui si sarebbero convogliati quarant'anni di ricerca compositiva, furono un debutto già intransigente. Seguirono un decennio di progressiva immersione nella lingua dell'avanguardia - i titoli strumentali più importanti, tenuti a battesimo da Scherchen o Maderna, furono Polifonia-Monodia-Ritmica per sei strumenti a percussione (1951), Due espressioni per orchestra (1952), Canti per 13 e Incontri per 24 strumenti (1955), Composizione per orchestra n.2 Diario Polacco '58 (1958-59) - in un singolare processo di sovraesposizione ideologica che s'impone con ineluttabilità soprattutto al momento di affrontare la composizione con voce, e quindi di scegliere testi eloquenti. I titoli di questi anni sono significativi di per sé - i versi di Garcia Lorca infiammano il trittico Espana en el corazon, Y su sangre ya viene cantando e Memento, Romance de la guardia civil espanola (1951-5 3), quelli di Cesare Pavese La terra e la compagna (1957) e Sarà dolce tacere (1960), quelli di Giuseppe Ungaretti Cori di Didone(1958) e le Lettere di condannati a morte della Resistenza europea l'affresco vocale strumentale Il canto sospeso (1955-56) - ma ancor più valgono le prime prese di posizione politiche, l'avvio di amicizie internazionali che coprono le zone rivoluzionariamente più calde degli Anni Cinquanta-Sessanta, da Cuba al Vietnam, dalla Ddr all'America Latina.
L'identificazione del far musica con l'impegno dell'artista, la necessità di essere compositore del/nel proprio tempo risuona come imperativo etico nel testo della conferenza "Presenza storica nella musica d'oggi", con cui Nono conclude il suo decennio di apprendistato e si accomiata nel 1959 dall'avanguardia oramai sclerotizzata di Darmstadt. L'azione scenica Intolleranza per soli, coro, nastro magnetico e orchestra, su testi collazionati da Ripellino, e l'Omaggio a Emilio Vedova per nastro magnetico, entrambi del 1960, segnano l'avvio dell'attività di sperimentatore elettroacustico intrapresa prima al neonato (e non ancora resuscitato) Studio di Fonologia Musicale della Rai di Milano, quindi all'Experimental-Studio Heinrich Strobel Stiftung della Südwestfunk di Friburgo (di cui divenne negli Anni Ottanta consulente musicale). Il progetto di Nono si caratterizza però subito come motivato da un intento "polifonico" inedito: voci dal vivo, voci registrate, materiali sonori eterogenei, strumenti suonati tradizionalmente, testi diversissimi ora resi irriconoscibili ora portati violentemente in primo piano come slogan acustico-contestatori, partiture costruite attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione creativa (quindi, inevitabilmente, ideologica) degli esecutori, l'interesse per una lingua aperta, problematica, tutto sommato meno demagogica di come è stata voluttuosamente dipinta dagli avversari.
Il "politico" di Nono coincide con il suo impegno di artista pubblico che sfrutta, un po' unidirezionalmente certo, il sostegno accordato dalle istituzioni amiche. Ha inizio un'imponente campagna promozionale a favore del binomio musica-politica che avrà risvolti contestatori nei concerti nelle fabbriche e didattici nelle celebri rassegne emiliane "Musica/Realtà" e quindi contribuirà (con la decisiva collaborazione di esecutori-amici come Claudio Abbado, Maurizio Pollini, Bruno Canino) tra l'altro alla nascita dei cicli concertistici scaligeri "per lavoratori e studenti" e alla fondazione di "Musica nel nostro tempo". La lingua musicale si caratterizza attraverso agglomerazioni sonore fiammeggianti, contrasti dinamici radicali, compromissioni continue tra strumenti tradizionali e immersione nel magma elettronico. Ricordiamo alcune partiture: La fabbrica illuminata (1964), Ricorda cosa ti hanno fatto a Auschwitz e A florestam è jovem e chja de vida (1966), Per Bastiana Tai-Yang Cheng (1967), Non consumiamo Marx (1969), Como una ola de fuerza y luz (1971).
Il cosiddetto secondo periodo di Nono si conclude con la monumentale ricapitolazione tecnica e ideologica dell'azione scenica Al gran sole carico d'amore (1972-74: prima esecuzione 1975, seconda versione 1978: testi di Brecht, Castro, Che Guevara, Gorki, Gramsci, Lenin, Marx, Pavese, Rimbaud, Sanchez eccetera), fonte d'infinite polemiche strumentali, sopite solo in parte dalla resa splendida dello spettacolo Borovsky-Ljubimov e della parte musicale guidata da Abbado.
Con una conversione sintattica imprevedibile, il lavoro di Nono si orienta in seguito diversamente. Non più grandi gesti, proclami rivoluzionari e giganteschi spiegamenti di mezzi musicali, ma una ricerca meno appariscente, sottile, disposta a ridare credito al "privato", ai sentimenti, alla micro drammatizzazione espressiva dei testi non più assunti come tadze-bao ma in funzione di confessione frammentaria e intima. Sofferta e scandita dai silenzi, costruita attraverso le pause e un processo di stilizzazione di tute le coordinate acustico-musicali, reso possibile in forme morbosamente radicali dall'assoluta maneggevolezza acquisita nell'uso del live-electronics (cioè dalla possibilità di riconsiderare attraverso la trasformazione via computer, ma simultaneamente all'esecutore, sia la qualità che la distribuzione spaziale dei singoli suoni). La via nuova, comunque non meno rigorosamente percorsa, semmai accesa da un'intransigenza poetica che viene imposta ancor più (offrendo in cambio un'enfasi sentimentale un tempo soffocata dall'apparato ideologico) al pubblico, si può considerare avviata da... sofferte onde serene... per pianoforte e nastro magnetico (1974-76) e proseguita dal nostro Fragmente-Stille, an Diotima per quartetto d'archi (1979-80) e Das Atmende Klarsein per flauto basso e piccolo coro (1981). Ecco il progetto compositivo maturo di Nono, disposto a una riconsiderazione della timbrica radicale, della concezione spaziale del suono, dell'uso microintervallare e delle pause in funzione d'un linguaggio di reinventata disponibilità lirica. L'uso sempre più metodico del live-electronics e delle possibilità di spazializzazione e trasfigurazione acustica impiegata a scopi fortemente emotivi informa quella straordinaria ultima produzione che vorremmo ritrovare presto in registrazione digitale e in Cd. Il gigantesco approdo fu la sintesi acustico-teatrale espressa in Prometeo, tragedia dell'ascolto (1984: testi vari, da Eschilo e Benjamin, coniugati da Massimo Cacciari), ma la cornice compositiva alla quale ha contribuito una nuova generazione di interpreti (da Roberto Fabbriciani a Ciro Scarponi e Alvise Vidolin) è stata ancor più impressionante ed esteticamente convincente: Quando stanno morendo, Diario polacco n.2 (1982), Guai ai gelidi mostri e Omaggio a Gyórgy Kurtag (1983). A Pierre, dell'azzurro silenzio, inquietum (1985), Risonanze erranti, Liederzyklus a Massimo Cacciari (1986).
"E' il Viandante di Nietzsche, della continua ricerca, del Prometeo di Cacciari. E il mare sul quale si va inventando, scoprendo la rotta", disse Luigi Nono a proposito della scritta "Caminantes non hay que caminos, hay que caminar" (Oh voi che camminate, che andate, non ci sono cammini, strade indicate, ma bisogna camminare) raccolta sul muro di un antico chiostro di Toledo nel 1987. Le sue ultime partiture con esclusione dei Post-Prae-Ludium (1987-88): Donau per tuba e live electronics e Baab-arr per ottavino - sono tessere di una sorta di progetto aperto di cui i titoli compiuti sono le "stazioni": Caminantes... Ayacucho per contralto, flauto, cori e orchestra (1986-87), No hay caminos, hay que caminar... Andrej Tarkovsky per sette cori (1987), La lontananza Nostalgica-Futura, Madrigale a più "caminantes" con Gidon Kremer, per violino, nastro magnetico e live electronics (1988) e "Hay que caminar" sognando per due violini (1989), suo testamento sonoro e spirituale.

Angelo Foletto (Musica Viva, Anno XIV n.7, luglio 1990)

lunedì, aprile 17, 2006

Racconto fantateatrale di Rodolfo Celletti

Dal 2150 folle sterminate presero d'assalto i teatri della Penisola tanto che fu necessario ripristinare il Ministero del Turismo e dello Spettacolo.

Nel maggio del 2132 era Presidente Esecutivo degli Stati Comuffitari Europei la signora Fehöstrom, finlandese, eletta nel 2130. Quarantanovenne, Maikki Fehöstrom era una delle più belle donne di allora. L'arte di preservare la giovinezza s'era evoluta e l'aspetto della Fehöstrom era quello d'una raggiante trentacinquenne della fine del XX secolo. Era anche, la Fehöstrom, ricca di energia e di sapere. Reputata economista, vantava per di più valide esperienze militari. Nell'esercito europeo, ormai composto per metà di donne e di extracomunitari inquadrati in legioni straniere, era giunta al grado di colonnello, meritato in alcuni dei conflitti etnici scoppiati qua e là. Ma la mattina del 29 maggio 2132 era stata fastidiosa per la signora Fehöstrom. L'aveva trascorsa con due autorità da lei convocate a Helsinki, capitale di turno della Comunità Europea. Si trattava del Presidente e del Primo Ministro della Repubblica italiana, gli onorevoli Federico Montolmi e Maddaleno Gagliardi, che si chiamava così perché in Italia i movimenti femministi avevano ottenuto, dopo logoranti battaglie, che i ministri uomini adottassero nomi muliebri sia pure con desinenze maschili. Non era stata una seduta tranquilla. Da centoquaranta anni l'Italia era afflitta da una crisi economica aggravatasi di decennio in decennio; e invano, per risanare il debito pubblico, il fisco aveva fatto ricorso ai provvedimenti più ingegnosi.
Nel lontano 1994 era stato deciso che il redditometro non superasse le sei pagine, ma anno dopo anno i solerti funzionari del fisco avevano adottato caratteri a stampa sempre più piccoli per far posto a quesiti ai contribuenti sempre più numerosi. Intorno al 2050 per decifrare i quesiti e scrivere le risposte era stato fatto obbligo ai contribuenti e ai consulenti fiscali di munirsi del MICSTA ("Microscopio di stato") messo in vendita dal competente ministero a un ragguardevole prezzo.
Nel 2124 una gravosa imposta governativa sui contraccettivi, denominata "Cicogna" (in Italia si proliferava sempre meno) aveva provocato una rivolta finale. Molti contribuenti avevano scritto le risposte ai quesiti del redditometro con un'inchiostro che entro due mesi evaporava, gettando gli uffici fiscali nel caos. La risposta dello stato era stata drastica. A partire dal 2125 il fisco prelevò alla fonte l'86% (leggasi ottantasei per cento) di tutti i salari, stipendi, onorari, pensioni e incassi dei negozianti. In compenso lo stato distribuiva gratuitamente generi d'abbigliamento, masserizie e suppellettili di cui i cittadini dimostrassero d'aver bisogno previa dettagliata domanda in carta da bollo da lire ottocentomila. La Guardia di Finanza ispezionava le case dei richiedenti, accertava la legittimità delle richieste e la pratica in qualche anno andava a buon fine. Ma questo sistema aveva comportato un fortissimo incremento del corpo di polizia tributaria, che nel 2132 ammontava a oltre cinquecentomila unità, pesando enormemente sul bilancio statale.
Cose da pazzi, aveva gridato la signora Fehöstrom all'inizio della seduta con gli ospiti italiani. Di solito la temibile dama inveiva con una voce roboante, ma quella mattina, dopo l'esplosione iniziale, prese a sussurrare, ciò che la rendeva ancora più temibile. Da tempo immemorabile, aveva continuato, l'Italia faceva carne di porco delle regole fiscali comunitarie ed era in arretrato con i versamenti dovuti per il mantenimento e l'armamento delle forze armate europee. "Ma io", aveva mormorato la signora Fehöstrom scandendo le sillabe in un italiano impeccabile, "io ho già predisposto un decreto di sequestro e messa in vendita all'asta di tutti i musei e le biblioteche della vostra penisola".
Subito dopo aveva dipinto a tinte tenebrose il futuro. Gli immigrati extracomunitari avevano ormai raggiunto un numero esorbitante e di essi quattrocentomila militavano nelle legioni straniere, comportandosi benissimo. Ma che avrebbero fatto qualora la popolazione terzomondista, oltre a tutto molto prolifica, fosse insorta per strappare il potere agli europei? "A voi italiani non ricorda nulla la caduta dell'Impero romano? Ma proprio l'Italia, quando io propongo il ripristino almeno parziale del servizio militare obbligatorio, s'oppone. Le vostre soldatesse, anche se mediocremente equipaggiate, sono tutte volontarie e tra le migliori d'Europa. Ma quando si tratta di inviarne qualche battaglione a sedare torbidi o conflitti etnici, apriti cielo! Alla fine dello scorso secolo, se dovevano partire i soldati, erano le madri italiane a scendere in piazza. Oggi che avete le soldatesse, manifestano i padri. E fossero soltanto i padri! Manifestano i bisnonni, i nonni, i prozii, gli zii, i fratelli, i cugini, i nipoti, i compari di battesimo e di cresima".
A questo punto, però, la Molto Onorevole Signora aveva interrotto la riunione. "Ci vediamo questa sera, Molto Onorevoli Signori. Il concerto da voi auspicato è alle ore venti, con invito esteso ai vostri consulenti ed esperti. Cravatta nera".
Ritiratasi nei suoi appartamenti, la Fehöstrom s'era dedicata a quelli che definiva come esercizi spirituali. Prima, però, svestitasi, s'era contemplata in specchi contrapposti, modulando con un pettine la splendida capigliatura color rame. I suoi nemici l'avevano soprannominata Nerone, vantando i capelli di quell'imperatore la stessa tinta. Ma non era questa l'unica ragione del nomignolo. Sempre completamente nuda, infatti, l'illustre dama iniziò il primo esercizio. Ispirava a fondo, comprimeva l'addome, espirava lentissimamente. Lo faceva distesa sul letto e con una pesante lastra di piombo posata sul torace. Era la respirazione sancita da remoti trattati di canto, ma la lastra di piombo rientrava negli esercizi praticati da Nerone e descritti da Svetonio.
Dopo un'ora la signora Fehöstrom si fece servire in stanza una leggera colazione. Indossò quindi un abito da lavoro, passeggiò un poco nel parco del palazzo presidenziale, rientrò, si chiuse nello studio, per tre ore compulsò o firmò documenti. Si trasferì quindi in un vasto auditorio e sedette al clavicembalo, da lei anteposto al pianoforte perché assicurava un'intonazione più rigorosa. Cominciò quindi a vocalizzare. Eseguita la messa di voce su singole note tenute, passò a scalette semitonali ascendenti e discendenti e infine a salti di terza maggiore e minore e ad altri di quarte e di quinte eccedenti e diminuite. Convocò poi il suo clavicembalista personale, provò - accennando - alcune arie, ne eseguì qualche frase a piena voce e andò ad abbigliarsi per il concerto in onore della delegazione italiana che, per l'occasione, includeva un direttore d'orchestra, il sovrintendente della Scala e un aitante giovane bruno, bellissimo anche nei lineamenti.
Fu costui, prima che la signora Fehöstrom comparisse, a illustrare agli invitati le particolarità del concerto. Dapprima, disse, la cantatrice avrebbe eseguito arie d'opera del secolo XVII composte per contraltisti. Ascoltato con deferente attenzione, ancorché parlasse con una strana voce, quasi da ragazzo, il giovane si soffermò sulle difficoltà dei singoli brani, tutti di tessitura profondissima. Oggi, nell'anno di grazia 2180, quelle arie sono tornate di moda e tutti le conoscono; ma allora chi mai aveva sentito parlare di "Delizie contente" del Giasone di Cavalli e del "Più finezza d'amore costante" della "Stellidaura vendicata" di Provenzale? E chi del "Luci bellissime" del Trespolo tutore di Stradella o dell`"Ai pie' dell'Erebo" del Totila di Legrenzi?
Sussurri al limite dell'incontinenza accolsero l'ingresso della Fehöstrom, di cui un vestito aderentissimo valorizzava la provocante figura e una sofisticata acconciatura la chioma color rame. La dama mimò un accenno di genuflessione destinato al Presidente della Repubblica italiana e pronunciò la frase rituale delle antiche virtuose. "Farò quel che potrò per essere compatita". Emozionata, all'inizio della prima aria emise note oscillanti e calanti di tono, poi si riprese. Si sa: bella di timbro la sua voce non fu mai, ma ampia e risonante sì, con note gravi bronzee. Stranamente, però, il fraseggio contraddiceva l'indole ferrigna della donna, valendo il patetico più dell'agitato. Il gusto di allora giudicava insopportabili le arie del Seicento, ma applausi scroscianti premiarono la prima parte del concerto. Nell'intervallo il giovane dalla voce quasi impubere, trattato con rispetto dai presenti, ma chiamato confidenzialmente Raviolino perché figlio d'un famoso cuoco, annunciò che la seconda parte prevedeva arie del Settecento per contralto donna. Erano più acute delle precedenti, chiarì, più virtuosistiche; e richiedevano elaborate variazioni.
Questo oggi lo sappiamo tutti, sebbene le arie per contralto donna siano meno amate di quelle scritte per contraltisti. Comunque la signora Fehöstrom eseguì "Priva son d'ogni conforto" del Giulio Cesare di Händel, "Se tumida l'onda" della Salustia di Pergolesi, "Cercar fra i perigli" dell'Armida abbandonata di Jommelli, "Nacqui è ver fra grandi eroi" da "Gli Orazii e i Curiazii" di Cimarosa. La voce, alleggerita per via delle tessiture più elevate, colpì meno e rivelò qualche asprezza oltre il sol acuto, ma la cantatrice sfoggiò una buona agilità nell'aria di tempesta di Giulia Mammea (Salustia) e sprazzi di toccante estro elegiaco nel resto. Riscosse fragorosi applausi, sebbene quasi tutti i delegati si fossero mortalmente annoiati, ma durante la cena si mostrò taciturna e quasi assente. Al termine diede convegno a una parte degli ospiti per l'indomani pomeriggio e si ritirò.
Quando il prestante signor Raviolino la raggiunse nella sua stanza, Maikki Fehöstrom era già a letto. "Sono mortificata", disse. "Ho cantato male. Se m'offriranno una scrittura sarà soltanto per la mia carica". "Di progressi ne hai fatti molti", replicò Raviolino. "Pensa ai concorsi d'un tempo, in cui al massimo arrivavi alle semifinali".
La signora Fehöstrom lo fissò, pensosa. "Questo è vero. L'anno scorso, a Tokio, arrivai seconda. Forse potrei riprovare...". Le giunse un fulmineo ceffone in pieno viso. "Così mantieni le promesse? " proruppe il signor Raviolino. "Bada che ti mando al diavolo una volta per tutte!". Lasciò che Maikki Fehöstrom singhiozzasse disperatamente per qualche minuto, poi si spogliò e la raggiunse sotto le lenzuola. "Amore mio, devi smetterla con i concorsi. Tu credi che non ti riconoscano, con la parrucca bruna e gli occhiali. Invece alcuni sanno benissimo chi sei. Perciò ti chiamano Nerone, mica solo per i capelli. Anche Nerone amava le gare, tesoro".
La signora Fehöstrom pianse ancora a lungo tra le braccia di Raviolino, ma, questi essendo un gagliardo e fantasioso amatore, alle lacrime seguì il gaudio di focosi sollazzi. L'indomani pomeriggio la signora Fehöstrom ricevette, con il Presidente e il Primo Ministro italiani, anche il direttore d'orchestra e il sovrintendente della Scala. "Signori" disse "sia chiaro che se mi proponeste una scrittura, come da tempo è vostra intenzione, rinuncerei alla mia alta carica anche domani. Quindi astenetevene. Non sono Nerone, che s'esibiva in pubblico senza aver prima abdicato. D'altronde ho io proposte da sottoporvi nell'interesse del vostro paese".
Credevano forse i signori delegati - cominciò - che Remo Filippi, in arte Raviolino, fosse stato sottoposto da bambino all'operazione di orchiectomia per ineluttabili motivi clinici? "Queste sono le balle che si raccontavano al vostro paese nel Seicento e nel Settecento. La verità è che Raviolino, fanciullo-prodigio, a undici anni già sapeva tutto sul canto antico, sui castrati e sulle scuole di Porpora e di Bernacchi. Tanto insisté per essere operato che il padre l'accontentò, previo versamento di tre miliardi al chirurgo. Oggi, a ventiquattro anni, è il primo sopranista del mondo e anche il maestro al quale mi sono affidata. Voi l'ammettete, malgrado i successi che comincia ad avere altrove, soltanto nelle sale da concerto, dove, come ben sapete, è acclamato. Dovreste anche sapere che nei Paesi di lingua inglese e anche in Asia un certo numero di ragazzi ha seguito il suo esempio, ma nascostamente e con risultati minori. Ci vogliono gli italiani, per certe cose. Quando il vostro paese era in miseria, nel Seicento e Settecento, quanto danaro fruttarono all'Italia i castrati? Ora il mio parere è questo. Visto che di figli ne fate pochissimi, tanto vale legalizzare l'orchiectomia, in Italia e, anzi, propagandarla. Con il laser è una operazioncella da ridere e non preclude l'amplesso".
Seguì un lungo silenzio, rotto dal Primo Ministro Maddaleno Gagliardi. "Ma..." cominciò. "Niente ma!" scattò la signora Fehöstroffi. "Prendere o lasciare. 0 legalizzate l'orchiectomia o io sequestro i vostri musei e le vostre biblioteche".
Il resto è noto. A partire dagli anni "2150" i castrati italiani riscossero un successo enorme e si moltiplicarono. Per ascoltarli, folle sterminate di stranieri prendevano d'assalto i teatri della penisola, tanto che fu necessario ripristinare il Ministero del Turismo e dello Spettacolo, soppresso nel 1993. Rifiorì l'industria alberghiera e con essa l'edilizia, perché si dovettero predisporre molti nuovi alloggi per forestieri e nuove sale per spettacoli d'opera. Si moltiplicarono le sartorie teatrali, le case di moda lanciarono la voga degli abbigliamenti settecenteschi per dame e gentiluomini, accolta con entusiasmo anche all'estero. I fabbricanti di merletti, trine, ventagli, occhialini fecero affari d'oro; l'industria automobilistica varò trionfalmente macchine ispirate alle portantine e ai cocchi; le fabbriche d'armi divulgarono sofisticati spadini da passeggio e da parata; gli orafi imposero in tutto il mondo stupende tabacchiere l'Italia divenne il più ricco paese del mondo.
Quanto a Maikki Fehöstrom, debuttò nel 2137 alla Scala, sotto il nome di Lucia Claudia Neroni, come Goffredo di Buglione del Rinaldo di Händel. Ebbe successo, ma dove trionfò fu al San Carlo di Napoli. Questa città, nel clima settecentesco, rifiorì e tornò ad essere il più importante centro culturale italiano. Maikki Fehöstrom vi trascorse i suoi ultimi anni, completamente napoletanizzata. Morì ottantottenne nel 2171, mentre cantava, con un filo di voce, accompagnandosi al clavicembalo, alcuni versi di Salvatore di Giacomo da lei musicati. "E llacreme d'ammore / so' ddoce pe chi 'e cchiagne. / Ammore è nu dolore / ca, quanto cchiù se lagne / chi o' prova, cchiù è felice".

di Rodolfo Celletti (Musica Viva, Anno XVII n.9, settembre 1993)

sabato, aprile 15, 2006

Il cocomero egizio

La scrittura estiva alle Terme di Caracalla non è solo un impegno artistico: la bellezza delle vestigia ed il richiamo del mare per la vicinanza di Fregene la rendono molto attraente. Unisce insomma l'utile al dilettevole, condito per di più dall'atmosfera di romana cordialità di colleghi e amici che si prodigano a rendere la scrittura un po' "vacanziera", proprio per questo molto ambita da noi cantanti sollecitati come siamo sempre dagli stress della carriera.
Ricordo in particolare il "Club dei cocomerari", una collaudata iniziativa dei tecnici di palcoscenico: contro una modesta quota che si versava al capo macchinista, si acquisiva il diritto durante lo spettacolo, dietro le quinte naturalmente, di concedersi una bella abbuffata di gigantesche fette di anguria rossa e ben ghiacciata, assai sospirate durante le afose serate dell'agosto romano.
Come grande consumatore di cocomeri mi iscrissi immediatamente alla benemerita associazione versando anzi l'equivalente di un doppio abbonamento, viste le inusitate quantità che riuscivo a divorare durante le recite.
Una sera, però, durante il terzo atto dell'Aida quando il soprano canta la sua famosa aria sulle rive del Nilo, vi fu una scena fuori programma: mentre i tre cammelli stavano attraversando il palcoscenico uno di loro urtò con tutto il suo peso una quinta che cadde fragorosamente scoprendo il severo e compìto Ramphis che seduto beatamente su un gradino stava addentando un'immensa fetta di cocomero. Quel Ramphis ero io. Mi alzai di scatto scappando a gambe levate ma non potei evitare uno scrosciante applauso del pubblico che compiacente e divertito dimostrava di avere gradito l'insolita "messa in scena".

dai "Ricordi Teatrali" di Raffaele Ariè

giovedì, aprile 13, 2006

Ricordo di Nathan Milstein

(...) Milstein aveva avuto invece, fra i tanti doni ricevuti, anche quello di un durevole ed eccezionale magistero strumentale, senza che mai trasparissero, nel suo modo di avvicinarsi alla musica, i segni pericolosi dell'ex «enfant prodige» né quelli di un virtuosismo fine a se stesso, pur essendo una «natura» di violinista di tale eccezionalità da non consentire forse alcun paragone nell'arco degli ultimi sessant'anni. (...) E anche se il suo modo di affrontare Bach era pur sempre quello ereditato dal romanticismo, senza preoccupazioni di carattere filologico, nessuno si sarebbe potuto scandalizzare di certo titanismo e a volte della delicata carica sentimentale. (...) E quando si farà la storia della sua presenza nelle vicende dell'interpretazione musicale del Novecento potremo imbatterci in un Concerto di Brahms inciso nel 1950, sotto la direzione di Victor De Sabata, e poi in un Concerto di Ciaikovsky, vent'anni dopo, realizzato col giovane Abbado, e ci accorgererno di come Milstein fosse incapace di ripetere, adeguandosi al mutare del clima culturale anche con le opere più esposte ai pericoli della «routine», ma sempre mantenendo una personale coerenza.
Leonardo Pinzauti

Artista mitico. Di lui si leggeva spesso che univa il virtuosismo più scatenato al pathos più intimo, al piacere e alla densità del suono. Collaborava con i grandi direttori, e la sua libertà d'interprete trovava appuntamenti precisi con la loro grande linea. Ma impressionava forse ancora più da solo. Il suo rapporto con Bach era una cosa tutta loro (sua e di Bach). Una fuga per lui, come si può con il violino, (...) era lo sprigionarsi d'un colloquio tra le parti, libero e visionario, in cui venivamo vorticosamente spinti e smarriti, e poi ripresi in una vertigine assoluta che ci lasciava premiati e commossi. (...) Credevo di sapere tutto su di lui. Poi udii il suono. Come non aver mai visto da vicino un fuoco e credere di capirlo dalle fotografie. Inconfrontabile. Piccolo, sul palcoscenico di una sala da duemila persone, sembrava aver di colpo sfondato le pareti. Non era una questione di volume, di ostentato vigore, anzi sentivo anche un affetto rispettoso e senza furia. Era altro. (...)
Lorenzo Arruga

(...) eccelleva in tutta la musica romantica (Mendelssohn, Bruch, Ciaikovsky ...) che interpretava con un impeto e una freschezza che gli derivavano in buona parte da un accorto dosaggio delle proprie energie. (...) S'inquadrava in questa sua «tattica» anche l'essersi formato un repertorio forse non vastissimo ma centrato sugli autori e sulle epoche a lui più congeniali. E tra questi non figuravano, con poche eccezioni come Alban Berg, i compositori delle varie avanguardie del Novecento, che sentiva estranei alla sua sensibilità. (...) In compenso si applicava alla musica del Settecento, soprattutto Vivaldi e Bach. Il suo Bach ad un certo momento era forse passato di moda perché un po' romanticizzato, almeno rispetto a quelle tendenze che lo vogliono controllato, ma resta affascinante nell'ambito dei criteri d'interpretazione della prima metà del secolo. (...)
Alfredo Gasponi

(...) Milstein aveva dalla sua una qualità molto rara: il rigore estremo della pianificazione interpretativa. Mai una sbavatura, una sortita men che controllata, un gesto fuori posto. Dissero che era freddo, che non sembrava neppure russo, e certamente rispetto a esecutori più portati all'eccesso temperamentoso poteva ben dirsi freddo. Ma alla maniera di Horowitz, se si vuole alla maniera di Benedetti Michelangeli. (...) Suonava il Concerto di Brahms in modo tutt'altro che freddo, avvolgendoci anzi in un colloquio amoroso, intenso. Che il suo particolare suono, leggermente nasale, rendeva unico e che la perfezione della tecnica rendeva leggendario. (...) Non si ricorda di lui un'esecuzione completa dei Capricci di Paganini: ne eseguiva pochi, con particolare predilezione per l'ultimo. E non si ricordano le solite redditizie pagine da bis, quei pezzi ardimentosi e molto poveri di musica che altri violinisti frequentano per un applauso in più. Era un violinista colto e moderno, il più grande di tutti, forse. (...)
Michelangelo Zurletti

(...) Milstein aveva l'asciutta modestia, la semplicità, il gesto schivo e astringente di chi sa quale sia il ruolo dell'interprete e quali i suoi confini. Aveva orrore delle chiacchiere stolte. Non sarebbe mai salito, lui, sul palcoscenico della Scala per tenervi comizi sulla guerra del Vietnam come fece il Pollini, l'amico di Ho Chi Minh e di Pol Pot. (...) Non coltivavano, questi veri grandi, leggende personali di demiurghi abusivi, di profeti vanesii. (...)
Piero Buscaroli

(...) Suonò a Firenze nello stesso periodo in cui suonava ancora Horowitz alle prese con Beethoven (l'op.81) e Brahms (le Variazioni su tema di Paganini). In un'epoca in cui i più grandi concertistì condividevano le attese del pubblico, lui le privilegiava con brani di alto virtuosismo (La campanella di Paganini, La fonte di Aretusa di Szymanowski), ma lasciava nella memoria il segno vivo anche della musica di Schumann e Beethoven. Ebbe un massimo di acclamazioni in un programma diretto dal giovanissimo Lorin Maazel che accompagnò l'ormai «anziano» Milstein nel Concerto in re maggiore di Ciaikovsky. (...)
Erasmo Valente

(Musica Viva, Anno XVII n.2, febbraio 1993)

martedì, aprile 11, 2006

Mozart: Ah! Vous dirai-je maman

"Ero così curioso di vedere i suoi Piano Forte che corsi subito ad uno dei 3 Clavieren che stavano nella stanza". Cosi, il 14 ottobre 1777, Wolfgang Amadeus racconta al padre il suo primo incontro con i pianoforti di Andreas Stein. La circostanza, apparentemente poco significativa, si rivelerà decisiva per la nostra comprensione delle opinioni di Mozart sugli strumenti a tastiera di quegli anni: in una seconda lettera indirizzata al padre tre giorni dopo, Mozart, accanto ad un forte entusiasmo per i modelli di Stein appena provati, esprime infatti numerose perplessità sulle qualità tecniche ed espressive dei fortepiani da lui fino ad allora conosciuti, ivi compreso lo strumento che fino a quel momento costituiva il suo modello di riferimento, il fortepiano dello stimato costruttore Franz Jokob Späth che si trovava nella casa paterna a Salisburgo.
Se l'entusiasmo espresso da Wolfgang Amadeus per i nuovi strumenti di Stein è quindi il presagio della svolta tecnica ed artistica che grazie a questo folgorante incontro sarebbe maturata negli anni successivi, l'epistolario e le cronache dei viaggi ci consegnano tuttavia un Mozart ancora molto legato al clavicembalo, strumento attraverso cui si fece conoscere al pubblico dei tour europei degli anni '60 e sul quale formò, è bene ricordarlo, la propria tecnica esecutiva. Un legame affettivo forte, che sfocia nella piena legittimazione del clavicembalo come mezzo espressivo autonomo, non subalterno bensì concorrente al fortepiano, i cui sviluppi tecnici e sonori tardavano a maturare. Analogamente ad altri autori contemporanei, come Johann Christian Bach, esiste una parte dell'opera mozartiana per tastiera degli anni '60 e '70 scritta per il clavicembalo, un repertorio perlopiù già noto al pubblico ma purtroppo ancora poco esaminato criticamente.

Il genere della variazione è sicuramente il punto d'incontro maggiormente compiuto tra il Mozart concertista ed il Mozart compositore. Le quindici serie di variazioni da lui composte, tralasciando quelle contenute nelle Sonate, sono infatti in molti casi le trascrizioni ragionate di alcune tra le migliori improvvisazioni da lui eseguite in concerto durante i viaggi europei. I cicli di variazioni mozartiani esprimono inoltre una sintesi ben bilanciata di diversi fattori: accanto ad una forte componente di virtuosismo, esplicito nella frequente presenza di passaggi a mani incrociate, non bisogna trascurare considerazioni di opportunità editoriale, dettate dal buon mercato di cui godevano le variazioni su temi popolari nella secondo metà del '700, e ovviamente motivazioni di natura economica, visto che diversi cicli furono scritti su commissione. C'è pure talvolta un intento didattico, se è vero che, ad esempio, le variazioni sul minuetto di Fischer KV179 furono utilizzate da Mozart come strumento d'insegnomento fino alla fine degli anni '80, ma vi è soprattutto, quale elemento maggiormente unificante, l'esigenza creativa di elaborare impressioni, idee, ascolti ed esperienze dei lunghi viaggi europei.

Le otto variazioni KV24 sulla conzone olondese "Laat ons juichen, Batavieren!" di Christian Ernst Graaf furono scritte da Mozart nel 1766, verso la fine del Grand Tour degli anni '60 che lo condusse attraverso Francia, Inghilterra ed Olanda. E' fatto ormai accertato che queste variazioni giovanili, casi come tutta la musica composta da Mozart fanciullo durante il Grand Tour, furono scritte per il clavicembalo, strumento per il quale furono pubblicate in Olonda subito dopo la loro composizione. Nonostante la loro brevità e la loro semplicità di esecuzione, le variazioni KV24, probabilmente ritoccate dal padre in vista della pubblicazione, possiedono un'organizzazione strutturale sorprendentemente ben definita che Mozart utilizzerà molte altre volte anche a distanza di anni e che è tacitamente riconoscibile in tutte e quattro le serie di variazioni contenute in questo CD. Qui, in piccolo, troviamo infatti le premesse per i grandi cicli del periodo viennese, con il climax dell'intera composizione collocato nella penultima variazione, di solito un Adagio, accuratamente preparata da una serie di variazioni di crescente complessità e seguito da un finale liberatorio conciso e brillante. Le variazioni sulla canzone di Graaf possono essere quindi viste come la manifestazione precoce di un cliché compositivo che Mozart non abbandonerà mai nel corso della suo vita e, come tali, rivestono un interesse che va al di là del puro fatto musicale.

Nello stesso anno (1766) si deve verosimilmente l'incontro con il concerto per oboe in do maggiore di Johann Christian Fischer sul cui rondeau Mozart compose le dodici variazioni KV179. Quest'opera fu scritta a Salisburgo otto anni dopo, durante un periodo di grande fertilità creativa di Mozart: allo stesso periodo risalgono infatti, tra le altre cose, il primo concerto per fortepiano e orchestra interamente originale KV175 e la "piccola" sinfonia in sol minore KV183. Non se ne conoscono le circostanze della composizione, ma è probabile che il ciclo sia stato composto su commissione e per fini didattici. Queste variazioni furono suonate da Mozart in concerto in numerose occasioni ed ebbero una grandissima fortuna presso il pubblico - soprattutto amateurs - fino ad alcuni decenni dopo la morte di Mozart, giocché ancora ai primi dell'Ottocento se ne potevano trovare numerose edizioni a stampa. Come per i primi cicli giovanili, siamo ancora di fronte ad un modello di scrittura che sfrutta al massimo le migliori qualità sonore del clavicembalo, in un'opera dove agilità, brillantezza e creatività dell'esecutore - l'autografo non riporta alcuna indicazione dinamica - sono gli elementi maggiormente caratterizzanti. Vista l'eccessiva ridondonza della struttura armonica del tema, si è scelto di eliminare tutti i ritornelli in sede di registrazione e, conseguentemente, anche le corrispondenti fioriture dell'undicesima variazione, scritte per esteso da Mozart e generalmente eseguite.

Le dodici variazioni sulla celeberrima melodia "Ah, vous dirai-je, maman", pubblicata in Francia alla metà degli anni '60 da Nicolas Dezéde, furono composte a Parigi nel 1778. Anche queste variazioni, così come il ciclo composto sul minuetto di Fischer, furono verosimilmente concepite per il clavicembalo. Il gusto dei francesi in fatto di musica strumentale era infatti in quegli anni ancora molto indietro rispetto a quello dei tedeschi. Benché possa sembrare incredibile, il pubblico parigino degli anni '70 non poteva di fatto fruire dell'ascolto di musica strumentale, in quanto l'Opèra, le Comédies ed il Concert Spiritual, le maggiori istituzioni concertistiche della capitale francese, imponevano al pubblico musica quasi esclusivamente vocale, fossero esse opere, mottetti, cantate o voudevilles. La musica strumentale d'avanguardia, soprattutto quella orchestrale, veniva inoltre quasi esclusivamente eseguita in pochi salotti nobiliari. Questi ambienti, in quanto luoghi d'elite, non potevano svolgere un ruolo decisivo nello sviluppo e nel cambiamento dei gusti del grande pubblico. Nel 1778 a Parigi il clavicembalo era quindi ancora di gran lunga il principe degli strumenti a tastiera, e lo sarebbe rimosto almeno fino all'inizio degli anni '90. A tale proposito sono illuminanti le parole di Leopold Mozart, scritte il 12 aprile 1778 in una lettera a Wolfgang Amadeus: "Se a Parigi potessi procurarti un buon clavicordo, come il nostro, esso sarebbe per te molto meglio e più conveniente di un fortepiano, dato che i francesi non hanno ancora combiato del tutto il loro gusto". Il fatto che Mozart abbia scritto le variazioni su "Ah, vous dirai-je, maman" in tale contesto, ci permette quindi di supporre che l'opera fosse in origine destinata al clavicembalo, quale ne fosse la sua circostanza compositiva - opera su commissione, materiale per uso didattico, trascrizione da improvvisazioni eseguite in pubblico, ecc.. La scrittura dell'intera opera è infatti in tutto e per tutto ancora di natura genuinamente cembalistica, quasi totalmente priva di indicazioni dinamiche, affine a numerose e brillanti opere di intrattenimento di autori contemporanei, ad esempio Galuppi, ed è distante anni luce dalla complessità espressiva di altri autori, come Carl Philipp Emanuel Bach, e da certa stessa produzione mozartiano precedente. In questo stesso contesto, su scala differente, si può probabilmente inserire anche la Sonata in do maggiore KV330, scritta anch'essa durante il soggiorno parigino del 1778, con la sua scrittura brillante e la disposizione delle dinamiche "a terrazze" - ovvero senza la presenza di crescendo e diminuendo - che la rendono senz'altro la più idonea ad essere eseguita sul clavicembalo tra tutte le sonate mozartiane.

Diverso è il caso delle otto variazioni su "Dieu d'Amour" KV352. Il tema è tratto dall'omonimo coro dall'opera "Les Marriages Samnites" di André Modeste Grétry, probabilmente ascoltata da Mozart durante il soggiorno parigino del 1778. Nel 1781, anno di composizione di queste variazioni, Mozart è già a Vienna, dove dispone di strumenti maggiormente evoluti di quello di Späth che utilizzava a Salisburgo, e di lì a poco potrà permettersi l'acquisto del fortepiano di Anton Walter che tuttora compeggia nella sua casa natale. La struttura delle singole variazioni, figlie di un processo compositivo più complesso di una semplice trascrizione da concerto, e l'accuratissimo dettaglio nell'indicazione delle dinamiche suggeriscono che l'opera fu pensata per il fortepiano. Perché allora l'esecuzione al clavicembalo? Con "Dieu d'Amour" siamo agli albori della scrittura pianistica, agli inizi di un lungo percorso di emancipazione compositiva dalle rassicuranti simmetrie della musica per clavicembalo, ai prodromi di un processo che avrebbe richiesto altre innumerevoli sperimentazioni, e di cui "Dieu d'Amour" non costituisce che uno dei primi episodi. L'estrema concisione delle frasi musicali, elemento ancora tipico della musica per clavicembalo, e l'assenza di momenti di natura improvvisativa, che invece abbonderanno in quasi tutti i cicli di variazioni successivi, permettono infatti ancora una convincente esecuzione sul clavicembalo, anche se in questo frangente lo strumento è davvero spinto verso i confini delle sue naturali qualità espressive.

Il Minuetto in re maggiore KV355, composto a Vienna nel 1789, è una delle ultime cose scritte da Mozart per la tastiera, e fu forse concepito per il clavicordo, strumento prediletto da Mozart secondo la testimonionza della moglie Costanze, ed utilizzato con assiduità anche durante gli anni viennesi. Opera di grande intimità, intensamente cromatica, questo minuetto costituisce un sorprendente esempio di sintesi musicale, capace di condensare in sole 44 battute tutte le complessità e gli elementi della forma sonata classica. Un brano che può essere senz'altro considerato, nonostante la sua brevità, tra le pagine più affascinanti scritte da Mozart per la tastiera.

Il programma del CD è completato da una serie di brevi composizioni, ritratti variegati e fedeli di un Mozart minore, lontano dai grandi impegni delle Sonate e dei Concerti. Il Modulierendes Praeludium, di recente attribuzione e d'incerta datazione - fu forse composto nel 1776 - costituisce un conciso ma raro esempio di musica interamente non misurata nel corpus mozartiano. Le quattro Contraddanze KV269b, composte a Salisburgo nel 1776 e di cui viene proposta la prima in sol maggiore, sono trascrizioni dello stesso Mozart da musica precedentemente composta per due violini e basso. Il Presto in si bemolle maggiore e l'Andante in mi bemolle maggiore sono gli unici due movimenti completati tra la serie di 43 appunti musicali che costituiscono il "Londoner Schizzenbuch" KV15, compilato a Londra nella primavera del 1765 verso la fine del Grand Tour, durante il quale Mozart compose anche l'Allegro in fa maggiore KV33B, reso celebre dal fortunato film "Amadeus" di Milos Forman.

Nota sull'interpretazione
Ho sempre creduto che l'esecuzione di Mozart al clavicembalo avesse una sua legittimità storica ed estetica. L'analisi dell'epistolario, delle cronache musicali dell'epoca e dell'apparato organologico dimostra in modo inoquivocabile che Mozart mantenne per tutta la vita un legame molto stretto con il clavicembalo, nonostante la sua preferenza accertata per strumenti con una maggiore flessibilità dinamica, come il fortepiano ed il clavicordo. Il clavicembalo fu infatti il suo strumento principe fino all'inizio degli anni '70, vi destinò parte delle composizioni salisburghesi e continuò ad utilizzarlo con una certa assiduità anche nel periodo viennese, se è vero che ancora negli anni '80 teneva regolarmente concerti pubblici al clavicembalo, come riferiscono le cronache della Wiener Zeitung. Dal punto di vista compositivo, inoltre, non è difficile constatare la contiguità tra i modelli di scrittura di certo repertorio mozartiano e le produzioni cembalistiche di numerosi altri compositori, soprattutto Johann Christian Bach, autore dal cui linguaggio Mozart attinse a piene mani.
Tuttavia, affrontare il repertorio mozartiano al clavicembalo impone serie riflessioni interpretative e suggerisce l'adozione di cautele maggiori rispetto a quando si eseguono musiche di autori della stesso epoca, poiché si stabilisce un confronto, automatico ed impietoso, con una miriade di eccellenti esecuzioni pianistiche. Il mio gusto nel repertorio mozartiano si è formato ad una scuola pianistica, non cembalistica, ed il conseguente obbligo di rivisitare radicalmente il mio modo di eseguire un repertorio che frequentavo fin da ragazzo si è dovuto confrontare, talvolta aspramente, con la pressoché totale assenza di una tradizione interpretativa della musica di Mozart al clavicembalo. Una strada impervia, ancora priva di riferimenti sicuri, che mette di fatto in discussione - nel suo piccolo - una serie di certezze della tradizione musicale romantica e moderna, abituato a considerare dogma assoluto l'esecuzione di Mozart al pianoforte.
Ho posto quindi una particolare cura nella scelta delle musiche contenute in quest'antologia, in equilibrio tra opere giovanili, certamente destinate al clavicembalo ma talvolta di scarso interesse musicale, e composizioni di più tarda datazione, sicuramente riconducibili per ragioni storiche o stilistiche al clavicembalo. Mi rendo conto che l'ascolto dell'Andante Cantabile della Sonata in do maggiore KV330 al clavicembalo posso far sobbalzare più di un ascoltatore, ma, dall'altro lato, il clavicembalo rende finalmente giustizia ad altre splendide pagine, come le variazioni su "Ah, vous dirai-je, maman" o quelle sul minuetto di Fischer, che il pianoforte moderno e lo stesso fortepiano non possono volorizzare nei loro aspetti più caratterizzanti. Esecuzioni alternative, certo, tuttavia non sostitutive di quelle pianistiche, che ormai costituiscono parte integrante ed ineludibile della nostra cultura di ascoltatori moderni ma che non possono rimanere l'unica strada percorribile per restituirci oggi, nella sua integrità, l'ascolto della musica di Mozart.

Mario Martinoli (note al CD "Mozart: Ah! Vous dirai-je, maman" - Stradivarius STR 33637 - rec. 2001)