Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

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sabato, agosto 23, 2008

Scarlatti, il gran discreto

Domenico Scarlatti (1685-1757)
Le "Sonate" sono il vero diario e lo specchio di un uomo che fece perdere le proprie tracce.

Le vite dei musicisti non furono vissute dai titolari per essere raccontate ai posteri. Forse per questo sono affascinanti. Chi ha curato a puntino la propria autobiografia, sovente non è riuscito a trovare il tempo per lasciarci buone note. Tali vite, messe assieme, formano un campionario di alta umanità stravagante, un po' irrequieto, abituato a strizzare l'occhio ai piaceri mentre si dedica a composizioni sacre. Un'umanità spesso in viaggio, sempre dominata dalle note che ha concepito, composta da vite che hanno trasformato tutto il suono: sapori, odori, dubbi, debolezze e quella dose che tocca a ciascuno del fugace mondo dei sentimenti. Il 26 ottobre cade il terzo centenario della nascita di Domenico Scarlatti. Senza voler plagiare d'Ormesson, si può dire che "a Dio piacendo" è l'ultima ricorrenza di questo gonfio Anno della Musica. E' toccato a Scarlatti archiviare celebrazioni, auspici, saluti, comunicazioni, prolusioni, sottolineature, inchini e tutte quelle cose popolate dal nulla che hanno sostituito le vere iniziative (qualche felice eccezione conferma la regola). Si è frugato ancora una volta nelle vite dei musicisti ancora una volta si è parlato di un certo aspetto o della tal cosa. Le stesse dell'anniversario precedente. In Italia Scarlatti, nonostante tutto, sembra il meglio trattato. Si è tradotto finalmente il fondamentale Domenico Scarlatti di Ralph Kirkpatrick (ed. Eri) in novembre uscirà un denso e piacevole lavoro di Roberto Pagano, Scarlatti. Alessandro e Domenico: due vite in una (collana "Musica e storia", ed. Mondadori), che propone una vasta documentazione e qualche novità . Tra le iniziative degne di nota, vi è quella dell'"Associazione Amici del S. Maurizio", che a Milano ha organizzato una serie di incontri di estremo interesse. Dopo interventi di Piero Rattalino e di Giorgio Pestelli, il 17ottobre è stata la volta di Francesco Degrada, che ha parlato delle musiche vocali del nostro. Seguiranno le presenze del clavicembalista Kenneth Gilbert il 29 ottobre: è il caso di usare il plurale, giacché la sua giornata sarà divisa in un "corso di interpretazione" e in un concerto. Ma, al di là di tutto ciò , che cosa può dirci oggi Domenico Scarlatti? Occorre premettere ad ogni discorso che la sua biografia è abbastanza misteriosa. Molti si ricorderanno di quanto scrisse in proposito Massimo Bontempelli in Passione incompiuta: e cioè che tutti i poeti dovrebbero invidiare a Scarlatti "la fortuna di aver quasi fatto scomparire le tracce della sua vita quotidiana, di aver lasciato ai biografi poco o nulla da scovare, rimpinzare, diffondere...". Una vita che il musicista godette sino al possibile, per quel poco che ci risulta, spegnendola nel gioco e nelle irregolarità. Uno strano accordo di musica e carne, un vortice di passioni, ma anche un desiderio di discrezione. Poi una produzione immensa. Pagano ha ragione di inseguire l'uomo sui documenti brillanti e piacevoli, o di fiutarlo attraverso l'albero genealogico. Ma ha ancor più ragione quando mette in luce certi atteggiamenti del musicista fidandosi del proprio fiuto siciliano (a proposito di papà Alessandro Scarlatti, Pagano parla di una fragilità "radicata in quella Sicilia che ho ragione di conoscere meglio degli altri"). Tutto ciò, comunque, è ancora ben lontano dalla figura che fu Domenico. Nasce a Napoli, dove si presenta in società con L'Ottavia ristituita al trono del 1703, ma ben presto è a Firenze, a Roma, quindi a Venezia per ritoccare i propri studi con Francesco Gasparini e per incontrare Vivaldi ed Handel. Poi è di nuovo a Roma, si riempie la vita di melodrammi, è maestro di cappella presso la regina Maria Casimira di Polonia, quindi coadiutore in San Pietro, ed ancora maestro di cappella nella più grande chiesa della cristianità. Per continuare dovremmo trasferirci in Inghilterra, dove si reca con un Narciso rifatto poi in Portogallo, presso Giovanni V, per il quale compone musica sacra abbandonando il melodramma. Di nuovo in Italia, quindi in Spagna: Siviglia, Madrid. Ma pur in questi spostamenti ve ne sono altri e nel 1738 pubblica a Londra la raccolta dei 30 Essercizii per gravicembalo. La sua vita musicale la chiude con un Salve Regina, una delle più belle pagine sacre del Settecento. La sua anima però fu consegnata al corpus delle sonate: un blocco di 555 numeri, dei quali solo qualcuno vide la luce vivente Scarlatti. Nessuna di esse è stata datata dall'autore, nessuna ci è giunta in autografo. La loro cronologia, nonostante i meriti e gli sforzi della critica bene informata - ricordiamo ancora Kirkpatrick e Pestelli - resta un enigma. Ed un enigma è pure la divisione in tipi di sonate. Gerstenberg ne individuò tre fondamentali: monotematica, a gruppi di moti più o meno contrastanti tra loro e concatenati l'uno all'altro, a gruppi di motivi di cui la maggior parte è subordinata a una o più idee. Ma gli studi successivi si accorsero quanto fosse malsicura tale divisione, eccezion fatta per la monotematica (o sonata bipartita in un sol tempo). In esse abita un clima timbrico spagnolo, o meglio iberico, ed è innegabile la predilezione per certi intervalli tipici di quel mondo. L'orecchio più attento vi può scorgere imitazioni di chitarra e castagnette. Quanto alle fonti, restano ancora troppe cose da cercare e scoprire. Certe invenzioni dominate da un unico disegno ricordano Frescobaldi, certe altre sembrano ardite anticipazioni. C'è qualche filosofo che si è dedicato a ricostruire i collegamenti con i tocchi fragili e profondi di papà Alessandro, altri che non sono riusciti ad uscire dal labirinto che il gioco sapiente dei rimandi ha creato, e ancora lavorano. In verità ci si perde. E la colpa è forse della bizzarria, vera sovrana di quegli spartiti. Specchio sonoro di una vita, rifugio costruito da un'anima dedita ai piaceri ma amante della discrezione, le sonate sono il vero diario di Scarlatti, lo stesso che se fosse stato vergato a parole avrebbe fatto impallidire generazioni di storici della musica. Alberto Basso le ha definite un "miracolo di intelligenza", un fatto insolito partorito dal ventre del Settecento, quel secolo che vide il crepuscolo del clavicembalo e di certe profonde confessioni sonore. Forse è così. Ma Scarlatti si è rifiutato di confermare anche queste briciole. Quel Domenico talmente riservato che si pensò di traslare in gran segreto dall'abitazione madrilena in Calle di Leganitos al Convento di San Norberto. Per le normali operazioni di sepoltura, in un caldo giorno del luglio 1757.
Armando Torno
(Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 1985)

martedì, gennaio 03, 2006

Beethoven: i tormentati Quartetti

La casa del conte Razumovsky era diventata un covo di melomani nella Vienna di fine Settecento. Alle serate di questo ambasciatore di Russia si potevano conoscere i violinisti del momento, i compositori più o meno noti, i teorici dell'armonia. E poi belle donne, naturalmente.
Tanto fecero gli amici musicofili che il nobile russo nel 1808 si decise a dar vita a un quartetto d'archi stabile. Partiture per il lavoro dei quattro non mancavano, anche perchè da un paio di anni erano nelle mani del conte tre quartetti scritti da Ludwig van Beethoven. Tre gioielli acustici per quel tempo. Ma anche qualcosa in più: si potevano onorevolmente considerare i genitori spirituali dei quartetti "quasi orchestrali" del tardo Ottocento.
E' certo che i quattro musicisti stipendiati da Razumovsky - erano Schuppanzigh, Sina, Weiss e Kraft - non avvertirono pienamente quel che eseguivano. Da bravi virtuosi capivano che quelle partiture stavano strette in un salotto, ma certo non avevano inseguito sino in fondo l'ultimo movimento del Quartetto in do maggiore che i musicologi catalogheranno nell'opera 59. Quell'Allegro molto era da solo una piccola sinfonia. Sfuggiva ai limiti della musica da camera: l'attacco dopo la cadenza sospesa, in forma di fuga, agitato da uno slancio, portava l'ascoltatore troppo lontano. Le pareti di un salotto vengono scavalcate dall'incalzante do maggiore. E le note si confondono con la confessione che Beethoven consegna a un abbozzo: "Come tu ti getti oggi nel turbine della società, così è possibile scrivere delle opere nonostante tutte le contrarietà sociali. La tua sordità non sia più un mistero, neanche per l'arte".
Ora chiediamo al lettore un salto nel tempo. Rimaniamo sempre a Vienna l'anno è il 1825. Un altro nobile russo versa quattrini a Beethoven per comporre quartetti: si tratta del principe Galitzin, che a sua volta aveva fondato a Pietroburgo - strana coincidenza - un quartetto (lui stesso ne faceva parte come violoncellista). Ma la risposta del musicista ormai prossimo alla morte, sofferente, straziato dal lavoro di creazione sulle partiture è ben diversa.
Egli consegnerà al principe tre quartetti - le opere 127, 130 e 132 - per quel tempo completamente incomprensibili. Eppure in essi c'è il riassunto della musica moderna.
Diremo pià semplicemente che senza gli ultimi cinque quartetti di Beethoven - ai ricordati vanno aggiunte le opere 131 e 135 - non avremmo avuto le analoghe composizioni di Bartok nè le intuizioni che dominano i lavori maggiori di Schoenberg e di Berg. Il sordo Ludwig si liberò dalle forme. Anzi: le spazzò via. Per accostarsi a queste estreme creazioni, conviene pazienza e umiltà. La musica non è più un passatempo, è un'indagine acustica dell'universo. Egli presenta una forma sonora e poi l'abbandona, quasi non avesse tempo di spiegarla. E nella fuga verso altre forme esalta tutto ciò che tormenta la tranquilla visione.
Nel Quartetto in si bemolle maggiore si è già avvertiti al primo tempo di quel che incombe. Ecco l'Allegro dalla struttura tortuosa: c'è una figurazione di movimento del primo violino su quella ritmica del secondo, ma il tema collaterale è ricavato da una trasformazione lucente del primo. I due violini non danno tregua alle orecchie. Vi accorgete che tutta la struttura dell'Allegro che state inseguendo si scontra con un suono che vi appare grave, che bussa continuamente nella partitura. E mentre cercate di capire quel che sta succedendo, senza curarsi di voi Beethoven si è già lasciato alle spalle le compenetrazioni tematiche e si avvia verso una zona di suono dove tutto viene pacificamente ricomposto.
Non inseguiremo il maestro nella parte finale, in quella Grande Fuga che originariamente suggellava con un mistero note ancor più misteriose. Diremo semplicemente che Arnold Schering nel suo Beethoven in neuer Deutung (edito a Lipsia nel 1934) paragonò tale partitura al Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.
Senonchè non riuscì a far collimare la Fuga scritta in origine da Beethoven con una delle scene proposte dal drammaturgo inglese e preferì accettare anch'egli l'Allegro con cui si sostituì lo sconvolgente brano della Grande Fuga. Altrimenti, per sua ammissione, occorreva cercar ragione di queste note nel Faust di Goethe, precisamente nel Sabba del Brocken. Quelle note erano talmente ardite che per spiegarle con la letteratura a disposizione occorreva mescolare un sogno e un sabba e poi ricavarne una serena conseguenza.
Ora l'integrale dei quartetti di Beethoven - se si escludono alcune composizioni del biennio 1794-95 quali il Minuetto in la bemolle maggiore, i due Preludi e Fughe in fa maggiore e do maggiore, il frammento del Preludio in re minore - viene riproposta a Varese nel primo Festival di musica da camera che si tiene dal 16 maggio al 6 giugno nel Salone Estense di quella che fu la splendida villa di Francesco III d'Este. Esegue il Quartetto Academica. Sono previste sei serate, la prima delle quali si è svolta ieri sera ed è stata aperta dal Quartetto in sol maggiore op.18 n.2.
Ci sembra superfluo aggiungere quanto sia intelligente questa iniziativa. Un'integrale dei quartetti di Beethoven permette di presentare l'anima di quel che fu uno dei più tormentati uomini della musica. Permette anche un itinerario singolare tra i brani commissionati da Razumovsky e quelli consegnati a Galitzin. E' una panoramica tra il piacevole e l'assurdo. Non a caso ancor oggi non abbiamo capito gli ultimi quartetti, così come non riusciremo mai a stilare un giudizio definitivo su Amleto. Occorre consegnare queste musiche all'eterno. E' lì il loro posto.
Esse furono possibili grazie al ricordato principe Galitzin. Ma il merito va dato al violinista Zeuner. Fu lui a consigliare il nobile russo. Lo convinse a elargire una sovvenzione a Beethoven, anzichè far copiare la partitura del Freischutz di Weber. Gli disse semplicemente: investiamo meglio questi quattrini. E così Beethoven in quegli ultimi e tristi momenti poté lavorare. Anche se, va ricordato, i banchieri del principe non avevano premura a onorare l'impegno. In una delle ultime lettere del musicista, datata 21 marzo 1827, questi soldi vengono implorati: "La prego di inviarmi la somma di 125 ducati che, stando all'assicurazione datami da Sua Eccellenza il principe Nikolas Galitzin, egli dovrebbe aver versato presso di lei a mio nome... Lei voglia trasmetterla sul mio conto a Vienna... e io potrò utilizzare la somma della quale ho estremo bisogno, specialmente a seguito della mia ormai lunga malattia".

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 17/5/1987)

mercoledì, dicembre 07, 2005

Bach e Borciani: L'arte della fuga (I)

Puntualità giornalistica vorrebbe che aprissimo questa pagina di musica parlando dell'Andrea Chénier di Umberto Giordano, opera che venerdì sera ha dato il via alla stagione dell'Arena di Verona. Vorrebbe che parlassimo della bacchetta di Gelmetti, delle voci di Carreras, di Bruson e della Caballè , dei costumi, della regia e scenografia di Attilio Colonnello, quindi dei fremiti guizzati nella folla all'ingresso di "Sua grandezza la Miseria". Poi di altro, che non è il caso di specificare.
Ma questa settimana ci siamo concessi una pausa. Per vari motivi che, sommati, ci sono parsi degni di nota. E del fatto ci scusiamo ricordando il nome del musicista a cui abbiamo dedicato attenzione: Johann Sebastian Bach. Quindi evidenziando la notizia: ha visto la luce da pochi giorni una nuova interpretazione dell'Arte della fuga, l'ultima opera del sommo Kantor, che i cataloghi riportano con la sigla BWV 1080. Infine ricordando la particolarità: si tratta di un'edizione a tiratura limitata, incisa dalla Fonit Cetra per l'Associazione Sergio Dragoni (ha sede in Milano in via S. Antonio 12, e istituisce borse di studio e premi per i giovani musicisti). Pochi gli album "tirati" e contenenti i due Lp: 500 per la ricordata associazione e 1200 per la Società del Quartetto di Milano.
La notizia - che non abbiamo ancora snocciolato totalmente - non sarebbe di primaria importanza se la trascrizione non fosse stata fatta per quartetto d'archi da Paolo Borciani. Si tratta di un lavoro che il violinista del Quartetto Italiano ha redatto come un testamento poi l'ha eseguito affiancato da Elisa Pegreffi e dei giovani Tommaso Poggi e Luca Simoncini. Ovvero da un altro violino, da una viola e da un violoncello. La registrazione è avvenuta il 3 maggio 1985 alla Sala Piatti in Bergamo. Poco dopo Borciani moriva.
L'Arte della fuga di Bach è una di quelle opere che basterebbero da sole a qualificare un millennio. Rimasta incompiuta per la morte del maestro, senza indicazioni per l'esecuzione, senza un titolo (Die Kunst der Fuge è posticcio), essa si spegne con la notazione musicale tedesca "B.A.C.H.", cioè con le note Si bemolle, La, Do, Si. E' il terzo tema dell'ultima fuga. Il nome del musicista appare nella battuta 194 alla battuta 234 lo sviluppo della fuga cede il posto al silenzio.
Sentendo l'esecuzione, siete tentati di inseguire il movimento mentalmente vi immaginate la fuga a 4 temi che si rivolta in ciascuno delle quattro parti, chiudendo un'opera difficile, ermetica. Un'opera che pare concepita per allenare lo spirito agli abissi dell'eterno, lontano da ogni sentimento didattico. Ma il tema, poi, non lo sentite spegnersi dolcemente. Una linea sonora cade di colpo. La Morte parla così.
Che cos'è dunque Die Kunst der Fuge? Hauptmann nel 1841 la definiva dotata di "freddezza grandiosa" Spitta nel suo monumentale lavoro su Bach parla dello svolgersi di queste note come della "calma solenne della notte invernale" Basso nella seconda parte di Frau Musika ritiene che essa sia "prima di tutto il manifesto dell'ars subtilior, della musica che assottigliandosi, riducendosi all'essenziale e all'indispensabile mirando al delicato e all'intimo, si fa silenzio, si organizza in una forma talmente pura che il suono pare inafferrabile, ineffabile..." (ed. Edt, p.719). Ma questa arte è forse qualcosa di più.
In essa la scrittura si spoglia da ogni elemento che possa significare la gioia fonica dei sensi, da tutto ciò che lega le note e la nostra carne a questa terra. L'esposizione dei motivi immerge l'ascoltatore in un labirinto sempre piu' ardito, lo getta da vette ed egli non riesce a toccare un fondo, lo disperde nei deliqui di un linguaggio totale. Le singole voci, cioè le parti strumentali, intervengono una dopo l'altra disegnando il tema nel momento stesso in cui la precedente ha finito di intonarlo. E così la voce iniziale viene ripresa, ma a sua volta procede oltre qualcuno le risponde mentre essa va altrove. Alle domande in Do incalzano risposte in Sol, ma il gioco non cessa. Entra una terza voce, che riprende il tema quindi una quarta, che prosegue poi vi sembra di sentirne una quinta, che continua ad aprire brecce e cunicoli nel labirinto dove ormai l'ascoltatore, se non ha particolari calli e astuzie, si è gia' smarrito.
Bach, come nota il Ghislanzoni nella sua Storia della fuga, "intese mostrare tutte le possibilità di trasformazione e di sviluppo in 15 fughe". Con Die Kunst der Fuge il Kantor lasciò il più aristocratico dei testamenti, confessandosi con un enigma che gli altri non potevano capire. Prova ne è che l'opera, quando venne messa in vendita a 5 talleri, dopo la sua morte, andò praticamente invenduta. Friedrich Wilhelm Marpurg, uno dei più noti e apprezzati teorici del tempo, tentò con una prefazione di diffondere la somma partitura. Il prezzo venne abbassato a 4 talleri, ma dopo quattro anni e mezzo - correva il settembre 1756 - se ne erano vendute soltanto trenta copie. Con i talleri ricavati non si riuscì neppure a pagare la spesa per le lastre di rame occorrenti per le incisioni (chi volesse approfondire il triste andamento, puo' consultare a p.683 i Dokumente zum Nachwirken J.S. Bach, 1750-1800, editi nel 1972 quali terza parte dei Bach-Documente).
Ma torniamo a Borciani. Questa trascrizione e la successiva esecuzione confermano il suo grande talento e il magistero di cui fu capace. Dai quattro strumenti ad arco nasce un'Arte della Fuga che ci invita alla più intima delle meditazioni. Forse questa interpretazione non farà fremere al pari di quella di Hermann Scherchen, nè possiamo considerarla ascetica come quella tentata al clavicembalo da Leonhardt, ma è certo che da esse non prenderemo più congedo. Rimarrà, risolta con un quartetto (impensabile al tempo di Bach), accanto alle letture migliori di questo frammento dell'assoluto, di questo labirinto simile ad un cosmo, dove le note aprono continuamente voragini, che l'anima percorre accecandosi con suoni e messaggi.
Julius Schlosser ricorda in un suo studio del 1929 dedicato a Leon Battista Alberti, Ein Kunsterproblem der Renaissance, che questo artista definiva le proporzioni dell'architettura con l'espressione "tutta quella musica". Potremmo rovesciare la concezione: questo testamento di Borciani svela "tutta quella architettura" che Bach ha scolpito nelle note. Peccato che manchi il tocco finale del Kantor.
Peccato che la Morte frequenti sempre i supremi colloqui che le anime rare tentano con il tutto.

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 06/07/1986)

giovedì, dicembre 01, 2005

Il Requiem K 626 secondo il filologo Harnoncourt

Anche un musicologo attento come Nikolaus Hamoncourt si affida al buon senso come ultima risorsa per risolvere i grandi quesiti di storia della musica.

Il preludio strumentale del Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart è condotto da corni di bassetto e fagotti, sui quali, quasi con grazia, giungono degli archi a presentare delle figure. Seguendo lo spartito, si ha l'impressione che il loro compito sia quello di mimare un singhiozzo: ora sono acuti, ora gravi, ora li diresti dondolanti di pianto. Alla battuta 7 il musicista ordina a tromboni, trombe e timpani di irrompere in scena. Con il loro suono essi devastano la dolce tristezza che si era creata. Urlano sul rigo, anche nel silenzio dello spartito, così come i dannati dipinti da Michelangelo nella sistina emettono eterne smorfie trattenute soltanto dall'affresco. Urlano e par che dicano: ecco, la Morte è sì dolce compagna, ma è anche la soglia di un giudizio.
Se volete cercar pace in questa sconvolgente partitura, dovrete recarvi alle battute 17-20, dopo le parole "luceat eis". Qui la Morte riprende sembianze tranquille. Vi sono preghiere comuni che tutti fanno abbracciare nella consolazione quindi giunge il Kyrie, momento ove si invoca la misericordia divina. La musica è trasformata da Mozart in una serie di domande personali attraverso l'omofonia. Alle note è dato un compito di supplica: perdonami, o Signore. Il tutto e l'uomo si affrontano. Il Dies Irae giunge senza pietà con i suoi colori: è il momento del giudizio e i morti vengono destati dal sonno della carne per esser testimoni della tragedia. Il tempo cessa il suo procedere. Ora tutto diventa eterno. Il fa maggiore, che qui si ha condotto, ve lo ricordate dolce nei canti sacerdotali del Flauto magico. Ma allora era altra la situazione. Non occorreva compiere questa danza senza pace intorno al re minore per comprendere cosa ci attende dopo. Una danza senza pietà, che Mozart conosce da tempo. Eccola in una lettera del 4 aprile 1787, indirizzata al padre, dove egli confessa: "... da qualche anno sono entrato in tanta famigliarità con quest'amica sincera e carissima dell'uomo, che la sua immagine non solo non ha per me nulla di terrificante, ma mi appare addirittura molto tranquillizzante e consolante". Nella Morte è "la chiave della nostra vera felicità".
Ora, se volessimo sottoporre al vaglio della filologia questa nostra ricostruzione, troveremmo difficoltà non comuni. La più evidente resta la solita: discernere nella partitura le parti autentiche di Mozart dalle integrazioni e dai completamenti e Sussmayr. Come si sa, il Requiem non venne suggellato dalla morente Wolfgang Amadeus e l'amico Franz Xaver Sussmayr portò a termine il Lacrimosa, compose il Sanctus, il Benedictus e l'Agnus Dei. E' pur vero che noi ci siamo soffermati su parti iniziali, sicuramente di mano del sommo musicista, ma simili considerazioni le potevamo tentare anche sulle parti integrate. E allora?
La risposta che dovesse tener conto di tutti i carismi della filologia, sarebbe così complicata che il lettore non ci perdonerebbe la licenza. Occorre il criterio del buon senso per procedere . E tale metodo ci viene suggerito da un esperto non
sospetto quale Nikolaus Harnoncourt: "Secondo me, anche quei movimenti sono di Mozart, vuoi che Sussmayr fosse astuto a tal punto, vuoi che Mozart, nel corso della loro collaborazione, abbia suonato queste composizioni che sarebbero rimaste scolpite nella memoria di Sussmayr".
L'affermazione, che abbiamo tolta dal volume Il discorso musicale, scritti su Monteverdi, Bach, Mozart (ed. Jaca Book, pagg. 266 L.29.000), da poco pubblicato in traduzione italiana, ci permette di accostarci col ricordato criterio del buon senso a questioni tanto spinose. Come è noto, Harnoncourt è musicologo amante dei criteri filologici e direttore che ha accolto a piene mani il progetto di eseguire con strumenti originali (tutte le sue incisioni sono pubblicate dalla Telefunken). Uscita dalla sua penna, tale concezione ci sembra quasi rivoluzionaria.
Eppure, a ben guardare, non è possibile seguire altra strada.
Sussmayr era compositore modesto, mediocre nelle soluzioni, incapace di concepire un Requiem come quello ricordato (almeno, confrontandolo con quello che di lui è rimasto). La filologia deve, in questo caso, cedere il passo. Conviene credere alla tradizione.
Ma, se dal Requiem passiamo ad altri quesiti, quali l'esecuzione con strumenti originali? Harnoncourt affronta il tema in un saggio contenuto nel libro citato, precisamente parla del problema nel suo ambito più delicato. Esaminando l'"immagine sonora della musica medievale", egli passa in rassegna le caratteristiche dei vari strumenti. Il liuto nel medioevo veniva suonato con un plettro di penna e aveva corde metalliche il cornetto muto - usato con molta frequenza al tempo di Leonardo - era più vicino al clarinetto di quanto pensassimo i tromboni emettevano un suono vellutato, oggi difficile da immaginare. E così di seguito.
Harnoncourt giunge a una conclusione: la musica di ogni corrente stilistica, di ogni epoca suona meglio, e in modo più convincente, nel sistema di accordi per cui è stata scritta. Se gli strumenti antichi non danno la resa dei contemporanei, dobbiamo tener presente anche la natura delle antiche composizioni. "Non posso immaginare - scrive Harnoncourt - che dei compositori di genio, che del resto erano sempre essi stessi esecutori e le cui opere erano incontestabilmente destinate all'uso del loro tempo, abbiamo potuto scrivere delle opere sublimi che poi sarebbero state sfigurate da esecuzioni carenti". Ci sembra tutto. La filologia viene sempre dopo il buon senso. Non la si deve pensare come un metodo stravagante, adatto a musicisti di bassa capacità , che ricostruisce spartiti con strumenti obsoleti, evocando note sgangherate. E' qualcosa che potrà darci piacevoli sorprese. Soprattutto potrà farci risentire musiche antiche in maniera ottimale: cioè rendendole quanto più è possibile nella loro forma originale.
Se tale ipotesi vi va bene, allora considerate Sussmayr il primo dei filologi musicali. Con l'aiuto del buon senso, capirete il suo disegno. L'unica cosa che vi stupirà resta il suo sangue freddo. In fondo ha ricostruito filologicamente la Morte.

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 26/4/1987)

sabato, novembre 19, 2005

Le Goldberg di Glenn Gould

Era una giornata calda e umida quando Glenn Gould fece ingresso per la prima volta nei Columbia-Studios, esattamente nell'edificio n.207, una vecchia chiesa presbiteriana abbandonata nella 30th Street di New York. Oltre al pullover e la giacca di tweed, portava un cappotto invernale, una sciarpa di lana Shetland e un berretto, due paia di guanti (uno sopra l'altro) e una sedia pieghevole, quindi una valigetta piena di pillole e infine lo spartito delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach. Guadagnato lo sgabello, Gould tastò il pianoforte, si tolse le scarpe, fece disporre un cuscino orientale ("mi sento infelice se i piedi toccano il pavimento nudo", bofonchiò agli addetti), poi chiese del latte magro. A ogni pausa vi tuffava biscotti di maranta arundinacea, dolcetti che rumoreggiavano non poco sotto la pressione delle mandibole. Dopo aver immerso le braccia in una tinozza di acqua bollente, cominciò.
Ci si accorse qualche giorno dopo quel che era accaduto in quello studio. Le Variazioni Goldberg batterono tutti i record di vendita, lasciando al secondo posto anche un'incisione di Louis Armstrong.
Quel "giovane selvaggio" di ventidue anni, senza regole e incapace di formalità, aveva stravolto i codici di lettura delle Variazioni. Al mondo importò ben poco se Gould si poteva identificare con la figura di Jimmy Porter (che la penna di John Osborne porterà sulle scene l'anno successivo col brano teatrale Look Back in Anger). Quel che sconvolgeva i sette o otto etti di cervello dei professori era quella lettura di Bach. Un testo enigmatico, nato da un gioco di centri concentrici armonici, scritto per portare a passeggio l'anima, nel quale il sommo tedesco nascose i bisbigli indispensabili per evocare la serenità e la pace. Due arie e ventinove variazioni contenevano mille trappole. Gould ebbe bisogno di 38 minuti e 27 secondi per eseguire le Goldberg. La mitica Wanda Landowska ne usò 49 abbondanti. E lei le inseguì tutta la vita - forse ne parlò da giovinetta in un incontro con Tolstoj - e la registrazione che abbiamo, quella effettuata nel 1945 sempre a New York, costò lacrime e sangue ai tecnici. La leggenda s'impadronì di questa donna, brutta e fascinosa come poche altre, nevrotica e divina, che correva da una tastiera all'altra per cercare il suono che non riusciva a ghermire.
Eppure, nemmeno lei, la divina del cembalo, aveva posto la parola "fine" accanto alla partitura delle Goldberg.
Certo, nemmeno Gould in quella sua prima incisione. Correva il 1955.
Le Goldberg continuò a studiarle, a esse pose domande e in esse cercò risposte. E Glenn divenne, grazie alla sua pazza arte, un clown che evocava il divino. Poi, un giorno, varcò di nuovo la soglia di quella chiesa presbiteriana abbandonata, l'edificio n.207 dei Columbia-Studios. Correva il 1981. Aveva le pillole e i guanti, l'acqua bollente pronta e il cuscino, i biscotti e il latte magro.
Riportò sul leggio, per la registrazione, lo spartito delle Variazioni Goldberg. Voleva risentire quella del 1955 ma non riusciva. Cominciava e smetteva (ce la farà tre giorni prima della nuova). Perchè? Difficile rispondere. Forse queste parole che confidò a Joseph Roddy, al termine della seconda fatica, ci possono aiutare: "Non riuscivo assolutamente a identificarmi con lo spirito della persona che aveva compiuto quell'incisione. Mi sembrava quasi un estraneo il quale si era trovato dentro la mia pelle". Glenn soffrì. Probabilmente pianse. Senz'altro urlò. Chiese a questa partitura tempo; ordinò alle sue dita di dilatare i cerchi concentrici armonici per poter penetrare. Capì che tra una variazione e l'altra occorreva silenzio, spazio, sublime rabbia.
Quando i tecnici chiusero le operazioni con i nastri, si accorsero che Gould aveva impiegato 51 minuti e 15 secondi: 13 minuti in più.
Un'eternità.
Considerazioni finali. La registrazione del 1951 delle Variazioni Goldberg è stata pubblicata dalla Sony e si trova nel primo cofanetto della "Glenn Gould Edition" (cd n.SMK 52594); quella ora ricordata del 1981 fa parte del secondo, uscito in questi giorni (è il cd n.SMK 52619). Tale compact vede la luce insieme ad altri cinque, tra i quali non mancano le Tre sonate per pianoforte di Hindemith, ballate, rapsodie e intermezzi di Brahms, la trascrizione della Pastorale di Beethoven realizzata da Liszt, le Invenzioni a 2 voci e le Sinfonie a 3 voci dello stesso Bach. Inoltre - ironie e stranezze della sorte - con la seconda incisione la vecchia chiesa presbiteriana cessava di essere il luogo di registrazione della Columbia. E Gould l'anno dopo toglieva il disturbo.
Aveva cominciato la sua avventura con le Goldberg; con esse la chiuse. Non considerava quest'opera un capolavoro, anzi la riteneva "sopravvalutata". Tuttavia, l'enigma che essa racchiudeva l'aveva catturato. Per inseguirlo, per delinearne la forma, per decifrarne il messaggio, Gould usò tutta la propria vita. Che sia ringraziato per questo. Ha mostrato, meglio di ogni disquisizione, cosa sia e cosa significhi la musica. E soprattutto come ci si può avvicinare all'"eterno autunno" che Bach, un giorno, nascose sotto queste note.

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 7/3/1993)

mercoledì, novembre 09, 2005

Un' Offerta musicale per la nostra anima

Sublime è la musica fatta di amore e logica come quella che Bach dedicò al Re di Prussia o quella (a lungo incompresa) di Buxtehude.

Capita alle volte di incontrare in un libro dimenticato qualcosa che sa spiegare il presente, o quel che stiamo vivendo. Sono coincidenze organizzate dalla nostra fantasia, oppure no: scelga il lettore.
Certo è però che quando si legge una pagina di Pietro Lombardo, filosofo e teologo nato agli inizi del XII secolo in provincia di Novara, le cui Sentenze furono uno dei testi teologici più diffusi nel medioevo, e consultandolo si avverte un bisogno simile a uno dei nostri, si prova quasi una segreta emozione. Ora tentiamo di ricostruire il perché.
Pietro Lombardo, si sa, non è più un pensatore noto. Nei salotti, tra le "erre" arrotate e le signore in crisi, è bene non ricordarlo se si vuol sembrare brillanti. Forse è bene evitarlo anche nei discorsi cosiddetti seri, giacché il suo astro cominciò a declinare già nel Cinquecento e le Sentenze cedettero il posto alla Summa di Tommaso d'Aquino. Eppure aprendo - per quei giochi di rimandi tra un testo e l'altro che non stiamo a raccontarvi - le sue Glossae super Psalmos si rimane colpiti dal metodo. In quest'opera, che forse fu la sua prima, Pietro illustra i passi biblici versetto per versetto riprendendo ogni sua affermazione dai Padri della Chiesa. Non è un lavoro breve (occupa le colonne 55-1296 del 191 volume della Patrologia latina del Migne), ma è condotto con logica ferrea. Ogni affermazione, ogni concessione è ricavata da un autore antico e messa a profitto per la fede presente. Si avverte tra le righe il rispetto di un itinerario considerato indispensabile alla salvezza. I Salmi sono soltanto un pretesto, quello che conta è il viaggio logico che il lettore deve compiere per procedere.
Un metodo che si ritrova in molti altri luoghi. Nelle disposizioni delle biblioteche sino al Seicento (i libri erano posti sugli scaffali con un ordine che poteva aiutare il visitatore a meditare sugli studi da intraprendere), nell'architettura delle cattedrali (ogni spazio rappresentava un angolo dell' universo), nei trattati di erotismo del Rinascimento (si godeva nel metodo più che nell'atto), in musica. Già , nel mondo delle note. Basterà ricordare che vi sono opere che furono scritte per essere ascoltate dalla nostra logica più che dai sensi. Una di esse è senz'altro la Musikalisches Opfer, l'Offerta musicale, di Johann Sebastian Bach.
L'abbiamo riascoltata il 3 aprile in San Maurizio a Milano, eseguita dall'"Ensemble Vanitas", nell'ambito del quarantesimo ciclo di questa rassegna di musica d'epoca, che è tra le poche cose gradevoli del capoluogo lombardo. Si è scritto che l'Offerta è la premessa dell'Arte della fuga, ultima sublime opera del grande Kantor. E' vero, ma è altresì certo che questa composizione fu un gioco tra i più alti che la musica abbia avuto. Basta ricordarsi come nacque.
Nel maggio 1747 Bach si recò a Potsdam su invito di Federico II di Prussia. Il re desiderava conoscere quell'abilità di cui tutti parlavano. L'incontro e quel che successe, il miracolo che avvenne, tutto ciò e altro si legge l'11 maggio di quell'anno sulla gazzetta berlinese Berliner Nachrichten (ora nei Bach-Dokumente). Riprendiamo qualche passo: "In serata, verso l'ora in cui negli appartamenti reali suole essere eseguita della musica da camera, venne riferito a Sua Maestà che il Kappelmeister Bach era giunto a Potsdam e si trovava in quel momento nell'anticamera, in attesa della graziosa concessione di poter ascoltare la musica. Sua Maestà comandò che fosse immediatamente ammesso, ed entrato che fu andò al cosiddetto forte e piano e, senza preliminare alcuno, si degnò di suonare un tema per il Kappelmeister Bach, perchè questi lo sviluppasse in una fuga. Ciò il Kappelmeister fece tanto felicemente che non solamente Sua Maestà si compiacque di esternare la sua graziosa approvazione, ma tutti i presenti provarono grande ammirazione. Il signor Bach trovò tanto infinitamente bello il tema a lui proposto che volle metterlo per iscritto in una fuga regolare per poi darla alle stampe.
Il giorno di lunedì si sarebbe potuto poi ascoltare il celebre musicista all'organo della chiesa del santo Spirito in Potsdam". Non è finita, ancora un po' di pazienza: "In serata, Sua Maesta' tornò a chiedergli di improvvisare una fuga a sei parti, che venne da lui realizzata con abilità pari a quella mostrata nella precedente occasione".
Tornato a Lipsia, Bach scrisse un gruppo di canoni e di fughe basati sul tema ascoltato a Potsdam, al quale aggiunse una sonata a tre. A tutto ciò diede il nome di "Offerta Musicale alla Sua Reale Maestà di Prussia in somma sottomissione". Quello che essa rappresenta non è facile da descrivere. Un viaggio logico, celeste, realizzato da una tecnica che conosceva alla perfezione il contrappunto. Forse un itinerario alla ricerca di qualcosa che non c'è , ma di cui abbiamo bisogno; forse un viaggio d'amore per l'anima o, più semplicemente, l'unico amore che ci è consentito e che si riduce a un'ipotesi logica. Il resto, compreso quello che si attua attraverso il contatto dei sudori, non c'entra. Verrebbe voglia di affermare che il vero amore si svela soltanto in un sottile e impalpabile viaggio immateriale per le anime piu' alte.
Anche il Cristo salìil Calvario attraverso un percorso che la logica non può capire e l'amore spiega. Anch'egli sembra che abbia realizzato un'offerta partendo da un semplice motivo, forse eseguito prima dei tempi nella mente di Dio, dove ogni musica trova le ragioni dell'amore che la evoca (così si può affermare parafrasando San Bonaventura, pensatore e teologo del XIII secolo, espositore di "una via" capace di condurre l'anima a Dio). Ma che altro possono tentare le parole dinanzi all'Offerta Musicale? A un certo momento della bella esecuzione di San Maurizio, ci è ritornata alla mente un altro concerto, sempre tenuto a Milano il 29 marzo da Gabrieli Consort & Players sotto la bacchetta di Paul McCreesh. Si trattava delle sette cantate di Dietrich Buxtehude Membra Jesu Nostri. Nell'ascoltare il "Ricercare a 6" di Bach, chissà perchè ci siamo ricordati del tormento che Buxtehude provoca alla parola "vulnerasti" all'inizio della sua sesta cantata. Il soprano rende acuto come una lama il suono delle sillabe, le conficca nella carne come le spine sul capo del Cristo.
Anche in questo caso si è alla presenza di un altro itinerario, più semplice di quello bachiano, più didascalico nei suoi intenti.
Buxtehude non riuscì forse nemmeno a farlo ascoltare alla sua Lubecca, per la quale compose senza sosta e senza mai ottenere grandi soddisfazioni. Anzi, la città non gli restaurò nemmeno l'organo della chiesa di Santa Maria e ben poco fece per contenere la plebaglia che strepitava durante le sue esecuzioni. Di quel che scrisse allora si accorse soltanto qualcuno vicino all'organo, poi ne prese atto la storia e ora qualche raro frammento giunge anche a noi.
Di Buxtehude non ci resta nemmeno il ritratto. L'unica cosa su cui possiamo discutere è quella serie di grandi percorsi fatti di note che ci ha lasciato.
Anche lui, dunque. Come Bach, come i filosofi medievali, come altre anime isolate. Se la Pasqua è alla fine di un vostro itinerario, allora queste osservazioni accettatele. Se non la ritenete tale, consideratele un gioco. Del resto, che si giochi con le idee o con i sentimenti o con altro, fa parte della vita. Perchè la vita è un gioco. Come L'Offerta Musicale di Bach al suo Re.

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 7/4/1996)