Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, giugno 27, 2018

2° Cantiere Internazionale d'Arte di Montepulciano (1977)

Hans Werner Henze
La seconda edizione del Cantiere Internazionale d'arte diretto da Hans Werner Henze - "I Masnadieri" di Verdi diretto da Chailly - Dalla musica barocca a numerose "prime" contemporanee italiane e straniere - Il trittico teatrale, con opere di Dessau, Friedrich Schenker e Milhaud - "Il paese senza tramonto" di Salvatore Sciarrino
 
Apertosi il 30 luglio con lo spettacolo della Festa d’Orfeo del Poliziano, curato da Alberto Arbizzoni, Carlo Diappi e Gerardo Vignoli, il Cantiere Internazionale d’Arte ideato e diretto da Hans Werner Henze è giunto quest’anno alla sua seconda edizione: le manifestazioni erano state precedute da una conferenza di Franco Serpa su "Orfeo, mito e simbolo" e dalla prima esecuzione di Mercurio, un lavoro per violino e undici strumenti ad arco di Henning Brauel (autore anche delle musiche di scena per lo spettacolo nella Piazza Grande, dedicato appunto al Poliziano), quasi a delineare subito le molteplici direzioni del piccolo festival, perché a Montepulcaino, nella prima quindicina di agosto, si è ascoltato di tutto un po’, coinvolti in un fervore di iniziative di cui Henze è senza dubbio l’infaticabile motore, e con "curiosità" che andavano dalla trascrizione di sonate e canzoni di Giovanni Gabrieli, a cura del giovane compositore inglese Richard Blackford, al "recupero" di un’operetta poco nota di Paul Dessau, Orfeo e il sindaco, dall’orchestrazione che Henze ha rifatto dello Jefte di Giacomo Carissimi ai Masnadieri di Verdi, da un programma di serenate sette-ottocentesche alla novità assoluta di Salvatore Sciarrino, Il paese senza tramonto, ultima di una lunga ed eterogenea serie di prime esecuzioni contemporanee. Il tutto, come si sa, in un clima senz’altro singolare, che se da un lato ha mostrato i suoi punti di contatto col festival di Spoleto, soprattutto per la composita presenza di giovani esecutori stranieri, qui in prevalenza tedeschi, dall’altro ha ancora una volta messo in mostra (per la verità senza eccessiva ostentazione ideologica) la volonta politica di far di tutte queste manifestazioni altrettanti momenti d’incontro con un pubblico "popolare". Di qui anche una indubbia incidenza del "cantiere" di Henze nella vita stessa di Montepulciano, letteralmente invasa per parecchie settimane da schiere di giovani musicisti stranieri e da folti gruppi di turisti, attratti e incuriositi dalla ininterrotta e densa serie delle manifestazioni.
E' impossibile una descrizione dettagliata di tutto lo svolgimento del programma che, dato il periodo estivo e le difficoltà logistiche che s’incontrano a Montepulciano, non è stato seguito che saltuariamente da qualcuno dei nomi più illustri della critica musicale italiana, anche se il prestigio di Henze aveva fatto sì che avessero piantato le tende nella bella cittadina toscana, e per tutto il periodo del festival, organizzazioni radiofoniche inglesi e tedesche, oltre alla Rai-Tv, e anche nei commenti che si sono letti durante le due settimane di manifestazioni è sembrato cogliere, talvolta, quasi un senso di fastidio per la composita ed entusiastica messe di esecuzioni teatrali e musicali offerte dal Cantiere, il cui spirito goliardico, per così dire, è apparso a qualche commentatore (ad esempio all’inviato del giornale "La Repubblica") in un aspetto addirittura dilettantistico. In realtà, a mio giudizio (essendo uno dei pochi che ha potuto seguire quasi tutte le manifestazioni in programma), se di un difetto il Cantiere di quest’anno poteva essere accusato era, forse, quello di aver messo troppa carne al fuoco, senza tuttavia perder di vista alcuni punti focali, che stavano evidentemente a cuore a Hans Henze, e comunque servendosi di interpreti che, anche se talvolta giovanissimi, davano prova di grande dignità professionale. Per non dire poi della presenza a Montepulciano di solisti illustri come la violinista Jenny Abel e il violoncellista Klaus Heitz.
Quest’anno i due temi centrali del cartellone erano il mito di Orfeo e il violino; e non entrava certamente nel loro ambito la scelta dei Masnadieri, il primo e più impegnativo spettacolo musicale del "cantiere"; ma Henze, evidentemente, sulla scia di Piscator, scorge in quest’opera un rapporto sotterraneo con Schiller e con il teatro politico contemporaneo, e ha voluto con questa scelta portare un allusivo contributo ideologico al cartellone. Ma non escludere che il maestro tedesco abbia posato la sua attenzione su questa partitura "minore" anche per il fascino che il primo Verdi esercita con le sue convenzioni e col turgore sanguigno delle sue arie e delle sue cabalette; e infatti ha voluto tuffarsi nell’impresa in prima persona, prendendosi la responsabilità della regia, delle scene e dei costumi. Col risultato, sul piano visivo, di una sorta di scabro espressionismo ante-litteram, e di un gusto di ricreazione musicale che esaltava un entusiastico gusto del melodramma; ma in questa atmosfera, senz’altro molto interessante, il pauperismo delle scene e l’articolazione registica hanno non di rado rischiato il grottesco, insinuando fra l’altro una moderna ironia di sottolineature che certamente non sarebbe piaciuta né a Schiller, né a Andrea Maffei, e tanto meno allo scorbutico Verdi. Sul piano musicale, invece, la concertazione di Riccardo Chailly e l'efficienza dell’orchestra (perfetta nell’impasto e nell’emergenza di alcuni solisti, fra i quali lo stupendo violoncellista Klaus Heitz) hanno ottenuto risultati migliori, complessivamente, della compagnia di canto, anche se è giusto ricordare la bella voce e il rilievo drammatico del baritono Luigi de Corato e del soprano Mara Zampieri, mentre il tenore Giuliano Ciannella ha potuto superare soltanto faticosamente gli scogli della partitura, non adatta peraltro alla sua voce, essendo stato colpito da una indisposizione che aveva compromesso i suoi mezzi vocali.
Altre fatiche teatrali del Cantiere sono state, come si è accennato, la ripresa dell’operetta di Dessau Orfeo e il sindaco, l’edizione italiana di Les malheurs Orfée di Milhaud (tradotto Le sciagure d’Orfeo) e la prima esecuzione assoluta di Orfeo, "dramma in musica" di Friedrich Schenker, tutte e tre in un’unica serata. La scelta del lavoro di Dessau, risalente agli anni Trenta, non ha rivelato una particolare originalità (ammesso che i1 Dessau "maturo" sia una grande personalità di musicista), ma poteva essere interessante come indicazione di un orientamento del gusto, oscillante fra la sudditanza alle invenzioni di Weill e quelle di Stravinsky. Importanti, invece, i risultati per così dire scolastici dello spettacolo: in sé molto piacevole per la bravura dei due principali interpreti (John Venning e Paul Danaher) ma soprattutto per l’entusiastica partecipazione di un gruppo di giovani cantanti-attori, ai quali si univano una decina di ragazzi di Montepulciano, vivacissimi nella realizzazione della spigliata regia di Vera Pagin. E senz’altro gustose le scene e i costumi, realizzati da Carlo Diappi, su disegni dei bambini della scuola elementare De Amicis. Al contrario, tutt’altro che interessante la novità di Schenker, un musicista tedesco dell’Est che, approdando all’avanguardia gestuale di moda molti anni fa, o forse cercandone un "recupero", ha offerto un lavoretto piuttosto privo di senso. Mentre le Sciagure d’Orfeo, ritrovando un delicato fascino fiabesco nelle scene dipinte dai ragazzi della scuola media G. Pascoli di Montepulciano, hanno avuto una sciolta ed accalorata esecuzione sotto la guida di Jan Latham-Koenig e con due sensibili interpreti come Kenji Kojima (Orfeo) e Annabella Rossi (Euridice). A questo trittico si deve poi aggiungere L’histoire du soldat di Stravinsky, realizzata da Roberto Pallecchi, Carlo Pasquini, Nadia Mariani e Giorgio Pratellesi, con Diego Pagin direttore e violino solista: questo spettacolino, in Versione italiana, è stato destinato alle "frazioni", in ottemperanza alle finalità anche divulgative del "cantiere".
Ma, come si è già accennato, la parte più interessante del piccolo "festival di Henze", com'è stato chiamato, sono risultati i concerti: alcuni di questi, per la verità, hanno sofferto di qualche improvvisazione, specialmente quando erano in programma musiche di repertorio, come il Triplo Concerto (BW 1044) di Bach diretto dallo stesso Henze; ma in genere, soprattutto nella eterogenea scelta delle novità contemporanee, si è trattato sempre di manifestazioni di buono e talvolta di eccezionale livello: ricordiamo, in prima assoluta, il prezzo per due flauti bassi, Persefone, di Gian Paolo Chiti, eseguito dall’eccellente flautista giapponese Tone Takahashi; La morte di Orfeo, per violoncello, due percussioni e pianoforte, del tedesco Horst Lohse; la Sonata per violoncello di George Crumb; Euridice, per violino e altri strumenti, di Stephen Douglas Burton; Alveare vernat di Klaus Huber, per flauto e archi (eseguito dalla bravissima flautista Anna-Catherina Graf; ...archeggiando di Hans Ulrich Lehmann, accolto come un vero e proprio divertimento, inutile per i più, fra gli stilemi più arditi delle ultime avanguardie, e in grado di dar qualche punto di riferimento fra le curiosità che la musica contemporanea suscita fra i non "addetti ai lavori"; ma anche Plutone, per sassofono, trombone e tuba, di Lorenzo Ferrero e il Tango-Habanera, per violino e 12 strumenti, di Thomas Jahn. Nell’ambito di questi concerti si deve però segnalare soprattutto la presenza della violinista Jenny Abel (una artista a cui il festival di Montepulciano deve molto, fin dallo scorso anno) che ha presentato, insieme a grandi opere del repertorio romantico e classico, La furia, per violino e percussione, del giovane compositore tedesco Volker Blumenthaler, e il trittico, intitolato Tirsi, Mopso, Aristeo, per violino solo, di Hans Werner Henze. Questa recentissima composizione, concepita come una specie di suite di sentimenti e di caratteri (quali emergono dalle figure dei tre pastori dell’Orfeo del Poliziano) e costruita con tale continuità di fantasia e con un vigore così intelligente di coerenti scelte linguistiche da poter esser considerata fra le opere più, significative che siano state scritte per violino solo negli ultimi anni; e si potrebbe dire che in queste pagine, sul piano strumentale di una difficoltà a volte degna dei Capricci di Paganini, Henze abbia voluto costruire un monumento alla enorme versatilità dell’intramontabile violino. Accanto a questa novità, un’altra di particolare rilievo, a conferma degli estri e del talento originalissimo di Salvatore Sciarrino, è apparso Il paese senza tramonto, diretto dall’autore e con la partecipazione di Donella Del Monaco, cantante molto musicale e intelligente.
Da segnalare, infine, nell'atmosfera giovanile del Cantiere Internazionale d’Arte, il debutto come direttore d’orchestra del ventenne Alessio Vlad, che ha preso parte, con il Divertimento in si bemolle maggiore di Hadyn e l'Armonia per un tempio della Notte di Salieri, ad un pomeriggio dedicato, nel chiostro di Sant’Agnese, a musiche rare del Sette-Ottocento, fra le quali anche l'Ottetto in fa maggiore di Pacini e la piacevole Partita n. 21 in sol maggiore, per due oboi, due corni e un fagotto, di Georg Druschetzky, magistralmente eseguita.


Leonardo Pinzauti ("Nuova Rivista Musicale Italiana", ottobre/dicembre 1977, n.4)

domenica, giugno 03, 2018

L'"Arte della Fuga" di Bach e i suoi ascoltatori

Die Kunst der Fuge
Contrapunctus 1
Probabilmente nessuna opera della letteratura musicale è stata accolta in modo cosi vario e ha avuto una fortuna altrettanto avventurosa come l’Arte della fuga, lavoro incompiuto della tarda maturità di Bach. Da principio nessuno ha messo in dubbio che si trattasse di un Klavierwerk, nel senso che si dava a questo terrnine nel Settecento, come di un’opera cioè destinata a strumenti a tastiera. Lo testimoniano in maniera inequivocabile una copia su due pentagrammi, proveniente dalla biblioteca di Anna Amalia di Prussia (che mostra traccie di un uso intenso), le offerte di copie di Johann Christian Westphal (Berlino 1774), di J.C.F. Rellstab del 1790/93, quelle del negoziante Viennese di musica Traeg del 1799, l’edizione parigina del 1802 di Naigueli/Naderman, la contemporanea edizione zurighese stampata a Parigi di Nägeli con la annessa riduzione per pianoforte e la copia di Schumann di una versione su due pentagrammi (del 1837) fino alla edizione per pianoforte di Czerny del 1838. Nessuna notizia abbiamo invece di "esecuzioni": l’esecutore era contemporaneamente anche l’unico ascoltatore.
Quando in seguito la musicologia cominciò ad occuparsi dell’opera, poco per volta il mutamento fu radicale. Nel 1841 Moritz Hauptmann scrisse il seguente brano, che sarebbe stato gravido di conseguenze: " ...l’opera ha però in primo luogo una tendenza diversa da quella puramente estetica: infatti vuole essere soprattutto un’opera didattica". Le sue Erläuterungen zu Joh. Sebastian Bach's Kunst der Fuge (Commenti all'Arte della fuga di J. S. Bach) ebbero larga diffusione - alla prima edizione del 1841 fecero poi seguito quelle del 1861, del 1881 e del 1925 -, ma purtroppo furono riportate ancora più acriticamente. La fonte originaria dell’affermazione di Hauptmann giunge attraverso il Bach dello Spitta (2° volume 1880), il libro di Schweitzer (edizione tedesca del 1908), il Bach di Parry, che definì i canoni "extremely abstruse jokes", fino al Bach dello Schering per il quale l'opera era un "diagramma grafico", ciò che poi il Blume avrebbe chiamato "opera grafica e rappresentativa". Infine, per trovare la nostra opera nello schedario della Bihliothèque Nationale di Parigi (e naturalmente anche presso coloro che vi hanno attinto, come Dufourq e molti altri), bisogna cercare sotto le "Oeuvres Théoriques".
E' certo che in via subliminare L'Arte della fuga non veniva "guardata" soltanto dal punto di vista analitico e critico, ma che si continuava anche a suonarla assiduamente, se non altro da parte dei numerosi acquirenti della edizione Czerny (fino al 1926: 38 ristampe in 20.295 esemplari!) e fra gli altri da André Gide, che negli anni dal 1921 al 1924 ebbe una consuetudine particolarmente intensa con l’Arte della fuga al pianoforte. Ma tutto questo accadeva per così dire "underground" e difficilmente avrebbe avuto l’approvazione dei "filosofi della musica", se fosse divenuto di pubblico dominio.
Doveva toccare al geniale errore di un sedicenne il compito di scuotere il mondo musicale: quando il 26 giugno 1927, dopo intrighi durati anni da parte dei curatori ufficiali delle opere di Bach, il lavoro, che non recava alcuna indicazione di strumenti, fu eseguito a Lipsia nella strumentazione per grande orchestra e nella disposizione di Wolfgang Graeser, risultò provata in maniera assolutamente inequivocabile "l’idoneità concertistica". L’impressione sugli ascoltatori dovette essere grandiosa. Felix Stössinger scrisse sulla Weltbuhne (1927): "Chi faceva parte del gruppo di circa 30 berlinesi che si recò il 26 giugno 1927 a Lipsia per i festeggiamenti in onore di Bach nella Thomaskirche, potrà in futuro dire: ’c'ero anch’io’. Ciò che è accaduto in questo giorno, appartiene da questo momento alla storia, alla leggenda sacra della musica". (pag. 59). "Un avvenimento più grande di questo non si è verificato da decenni nella vita artistica tedesca. Noi, che da questa sede abbiamo combattuto così spesso contro un falso nazionalismo e che ci siamo dovuti comportare quasi fossimo nemici dei tedeschi, siamo felici di poter ora riferire, in occasione di un avvenimento prettamente tedesco, che in esso è risorta la vera grandezza del cecchio, meraviglioso spirito nazionale. L’esecuzione è stata una funzione religiosa; ogni devota replica lo sarà nuovamente". (pag. 62).
E a proposito di una esecuzione dell’anno seguente a Kassel, Richard Laug mi scriveva in una lettera: "Mio padre fece suonare immediatamente dopo l’interruzione della quadrupla fuga il corale Vor deinen Thron..., che Bach ha composto successivamente. Al risuonare delle prime note del corale, senza fare alcun rumore e quasi fosse un sol uomo, tutto il pubblico si alzò in piedi, senza che questo comportamento fosse stato in qualche modo programmato oppure raccomandato, e ascoltò il corale in quella posizione. L'impressione che ne ricevetti fu impressionante e indimenticabile".
Karl Hermann Pillney, Erich Kraach e altri ancora hanno raccontato come a quel tempo si fosse diffuso tra i giovani musicisti un senso di colpa verso Bach e il suo grande capolavoro, e come ci si sentisse in obbligo di farlo conoscere al maggior numero possibile di ascoltatori. Ovviamente il grande organico impiegato da Graeser non era adatto allo scopo, per cui nacquero e proliferarono fino ai nostri giorni una quantità enorme di trascrizioni; per organo, per due pianoforti, per pianoforte a quattro mani, per archi, sia per il moderno quartetto d’archi sia per quello formato da violino, viola, viola pomposa e violoncello; per archi e quattro legni, per complesso misto da camera, fino ad arrivare a una versione per due sintetizzatori Moog. Se il fedelissimo di Bach venisse a sapere di una simile trascrizione per un quartetto di sassofoni, probabilmente sarebbe preso da un leggero raccapriccio, ma in ogni caso essa si rivelerebbe migliore dell’abituale genere in cui lo strumento è di casa. Nello stesso modo alcune di quelle trascrizioni sono condizionate dall’ambiente, come per esempio quella per Bajan, una specie di fisarmonica russa, di cui un virtuoso dello strumento, Eduard Mittschenko, dette notizia allo scrivente, informandomi che egli è solito suonarla soprattutto in ritrovi studenteschi e in circoli per lavoratori dove non c’è a disposizione un pianoforte. Potremmo indicare tutte queste trascrizioni, oltre centoquaranta sono quelle di cui potrei dimostrare l’esistenza, propriamente come adattamenti alle condizioni nelle quali gli ascoltatori potevano recepire l’opera. Si cercò di prestargli colore, ad esempio per mezzo dei registri dell’organo; si soppressero i canoni, che secondo un preconcetto di natura razionalistica erano creduti di difficile comprensione, oppure li si distribuì qua e la nell’opera come intermezzi. Agli ascoltatori furono d’aiuto anche le numerose esecuzioni parziali, che dovevano servire a introdurre a poco a poco nell’opera e che difatti sempre più lasciarono il passo alle esecuzioni integrali.
Se si scorre l’elenco delle molte migliaia di esecuzioni avvenute a partire dal 1927, ci si accorge immediatamente che fin dall’inizio importanti direttori come Straube, Weisbach, Scherchen, Hausegger, Abendroth, Münch, Kleiber, Stein, Weingartner, Szendrai, Stokowsky, Heger e Hoesslin, introdussero l’Arte della fuga nel repertorio complessivo. Vennero poi specialisti come Hermann Lahl, Hermann Diener, Hans Bender, che con i loro complessi portarono l’opera fin nelle più piccole citta, mentre dopo la guerra si ebbero centinaia di esecuzioni da parte di numerose orchestre da camera e di molti solisti, i cui viaggi abbracciavano continenti interi, come Karl Münchinger, Rudolf Baumgartner, Helmut Winschermann, Rudolf Barchai, Tatjana Nikolajewa. Stupisce l’apprendere che in una città come Novosibirsk l’opera fu eseguita per la prima volta soltanto il 4 aprile 1969 per merito dell’organista Johannes Ernst Köhler, ma che già il 21 maggio dello stesso anno fu ripetuta dall’Orchestra da camera di Mosca diretta da Barchai e il 12 maggio 1974 dalla pianista Nikolajewa. Nel 1935 in un articolo di fondo (!), il "Times" di Londra faceva espressa richiesta affinché l’opera venisse eseguita tutti gli anni; per quanto riguarda Tokyo, dove la prima esecuzione si ebbe nel 1941 ad opera di Klaus Pringsheim in una versione per orchestra da camera, ho potuto riscontrare a partire dal 1950 non meno di 29 esecuzioni (il numero effettivo potrebbe forse raggiungere una quota di un terzo più alta), che corrisponde a una media di almeno una esecuzione all’anno.
La storia dell’interpretazione dell’Arte della fuga non è assolutamente legata a una determinata generazione. Allorché l’organista di Francoforte Helmut Walcha dopo 37 esecuzioni si ritrasse dall’opera perché, come egli stesso mi confidò in una lettera, "un concerto di questo tipo pone delle esigenze tanto straordinariamente impegnative che le condizioni della mia età non sono più in grado di assolverle", egli fu per cosi dire "rilevato" dal giovane violinista di Francoforte Hubert Buchbinder, che nel 1977 ne dette ripetute esecuzioni con la sua orchestra da camera con risultati assolutamente convincenti.
Allo stesso tempo 1’Arte della fuga pone delle pretese assai grandi anche all’ascoltatore. Il fatto che si tratti di circa 90 minuti di musica in Re minore e su un solo tema, sembra richiedere un prezzo eccessivo anche dall’ascoltatore più armato di pazienza. Ma la magistrale tecnica della variazione di Bach da al tema sempre diversi aspetti, mentre il suo stile armonico, che precorre i tempi di almeno un secolo, per lunghi tratti annulla sempre in modo nuovo la tonalità: nelle fughe a più soggetti in fin dei conti all’ascoltatore viene dato modo, per così dire, di riposarsi del tema. Nonostante tutto, però, nell’Arte della fuga ci sono molti punti che non possono essere seguiti solo ascoltando, come per esempio il Canone per Augmentationem in Contrario Motu. Chi dal punto di vista strutturale pretende di averlo udito nel modo giusto per se stesso, in realtà implicitamente ammette soltanto di averne letto in precedenza il titolo; pare, si tratta di una musica grandiosa soprattutto per chi non sa niente delle "regole". Lo stesso vale anche per le fughe per moto contrario: nel Contrapunctus VII è impossibile seguire al semplice ascolto lo spessore della composizione. Il tema originale e quello per moto contrario si succedono in tre differenti unità di valore: mentre al basso si ha alle misure 5-13 l’aumentazione, su di esso risuona per quattro volte il tema o frammenti di esso in valori diminuiti. Ciò però che l’ascoltatore apprende molto bene, pur senza esserne cosciente mentre ascolta, è la incredibile concentrazione di questa musica, come ha ben detto Albrecht Goes: "Che cosa siano diminuzione, aumentazione, voce principale e voce secondaria, non l’ho imparato subito; ciò che invece ho imparato è che cosa significhi concentrazione". Il fatto di richiedere alla persona competente un’analisi che non sa trovare fine, mentre invece anche il semplice amatore è messo sulla strada della comprensione nel modo più naturale grazie alla concentrazione del linguaggio, sembra essere un mistero inerente all’Arte della fuga". Un appassionato di dischi di Karlsruhe ha formulato durante una conversazione questo concetto in modo conciso quanto convincente: "Arte della fuga? Non c’è proprio un bel niente da capire. Mi basta mettere un disco e sono di colpo trasportato in un altro mondo".
Di fronte a una simile vitalità dell’ascolto nell’opera bachiana, la critica ha sempre di più continuato a fallire. Johann Christian Lobe nei primi decenni della Bach-Renaissance ha dato lo spunto per questo tipico atteggiamento: "Per quanto i bachiani possano adoperarsi per strappare a questi corpi inanimati una contrazione galvanica, mai e poi mai essi rinasceranno a nuova vita per il nostro tempo".
In seguito alle prime esecuzioni si levarono poi voci come quella di Martin Friedland: "Nessun dubbio può sussistere sul fatto che questa Arte della fuga non è stata pensata né per una esecuzione né tanto meno per una esecuzione completa e tutta di seguito... Una simile proposta di tutti questi 20 pezzi, in complesso 2 ore e mezzo di musica, a causa della tonalità stessa e della omogeneità della struttura compositiva contrappuntistica che fa si che la facoltà di appercezione rimanga continuamente in tensione, non è  niente affatto un godimento; essa è - abbiamo una buona volta il coraggio di dire la parola che tanto dispiace - uno snobismo della più bella specie".
Max Chop, un tempo il più feroce critico berlinese, si servì della opportunità di una esecuzione in concerto per attaccare violentemente Erich Kleiber: "Erich Kleiber, il nostro Generalmusikdirector, ha creduto che la sua ambizione e l’interesse dei suoi ascoltatori meritassero l'offerta di una occasione particolarmente ghiotta. Così i suoi occhi sono caduti su un’opera di quasi 200 anni fa e che solo oggi
festeggia una sorta di resurrezione, l’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach... A questo punto prima di tutto al sottoscritto sorge spontanea la domanda se la monumentale opera di Bach sia adatta a un concerto sinfonico oppure no. Se veramente sia lecito presentare al pubblico che frequenta queste manifestazioni una interminabile serie di esperimenti e di prove teoriche che durano più di due ore e che strapazzano al massimo la tensione degli ascoltatori addentro alle cose musicali, mentre rendono completamente esausti i profani appassionati di musica. Se non si finisca per essere simili al predicatore, che coi suoi lunghi sermoni fa il vuoto nella sua chiesa".
E sullo stesso concerto un anonimo scrisse: "Una temerarietà della disonestà artistica, che non si ferma nemmeno di fronte a cose meramente tecniche, della più alta teoria musicale! Le diciannove fughe e canoni di questo compendio pur grandissimo e ricco d’ingegno della più severa disciplina contrappuntistica, sono materia che appartiene allo studio. Soprattutto non vogliono essere ascoltate dal pubblico che abitualmente frequenta i concerti".
Qui si faceva ricorso a un trucco particolarmente usato dalla critica, vale a dire tirare in ballo a un certo punto il "pubblico che abitualmente frequenta i concerti" per avallare la propria incapacità nell’ascoltare una musica. Ma questo pubblico non si è affatto comportato in seguito nel modo che il critico da lui pretendeva.
In tempi più recenti più volte Adorno ha preso di mira gli ascoltatori di Bach come i suoi interpreti. Per 1’Arte della fuga egli ha parlato di "inadeguatezza della sonorità dell’organo in quanto tale alla struttura infinitamente articolata di queste opere", che "in esse già allora venne in luce". Bach avrebbe "rinunciato a dar loro una precisa veste sonora, lasciando che le sue più mature composizioni strumentali attendessero dopo la sua morte una realizzazione sonora adeguata". Ma il modo in cui Ludwig Pinscher in una trasmissione della Hessischer Rundfunk intitolata "Bach-Weekend" ha citato Adorno, dimostra la profonda influenza delle sue argomentazioni: "... o se - come supponeva Adorno - soprattutto il Bach tradizionale è diventato ininterpretabile, ciò significa che l’opera è consegnata soltanto alla interpretazione di tipo compositivo, una interpretazione cioè che... va alla ricerca delle possibilità che si aprono e che nascono quando tutte le tradizioni e tutte le convenzioni del passato sono venute meno". Ma cosa vuol dire che "il Bach tradizionale è diventato ininterpretabile? Adorno "preso alla lettera" ha soltanto sostenuto che per lungo tempo gli esecutori hanno potuto comunque interpretare il testo musicale bachiano basandosi sui portati della tradizione - ora bene, ora meno bene -, mentre invece gli interpreti attuali non sarebbero più in grado di farlo. Che cosa hanno da dire a questo proposito gli odierni interpreti di Bach oggi? E gli ascoltatori? un simile tirarsi in disparte della musicologia rispetto alla pratica musicale è in ogni caso sorprendente. Proprio nell’epoca in cui le affermazioni intenzionalmente alquanto oscure di Adorno furono molto ammirate, si è verificato, per ciò che concerne l’Arte della fuga, un aumento che non era sembrato quasi possibile della interpretazione e del suo apprezzamento da parte degli ascoltatori.
Infine, alcuni studiosi del comportamento musicale, che agiscono falsamente sotto la bandiera della musicologia, si sono occupati criticamente del problema degli ascoltatori dell’Arte della fuga, anziché rallegrarsi della loro esistenza in numero così cospicuo. Carl Dahlhaus, portando avanti le tradizioni nate con Adorno, ha trattato la questione della "popolarità della tarda opera di Bach" e concluso che tale popolarità è un "paradosso". Egli dice testualmente: "Quando però centinaia di individui si raccolgono per ascoltare un ciclo di canoni e di fughe, è lecito parlare di popolarità, anche se ognuno preso singolarmente si sente un esoterico". L'effetto dell’opera, sempre secondo Dahlhaus, è dovuto a quattro motivi: il fascino dell’arcaico; la tendenza all’astratto, al difficile e all’inconsueto; l'assoggettamento a una disciplina musicale che si percepisce come una forza costrittiva anche se la si comprende soltanto per metà; la diffidenza verso l’apparenza estetica nella musica.
Da allora in poi ho riflettuto, dopo diverse esecuzioni dell’opera, sugli ascoltatori che conoscevo o su quelli che potevo osservare da vicino. Stranamente non ho trovato nessuno che potesse essere adattato a una delle quattro categorie di Dahlhaus, perché tutti appartenevano a una quinta categoria, che evidentemente si trova al di fuori dell’orizzonte di Dahlhaus, e cioè al grosso numero di coloro che non volevano far altro che ascoltare musica della migliore qualità. Il complicato ragionamento di Dahlhaus ha molto semplicemente attribuito ad essi le sue proprie ragioni. Egli crede veramente che a Novosibirsk uno si rechi e ritorni più volte al concerto soltanto per sottoporsi a qualcosa di completamente arcaico, astratto, per assoggettarsi a una disciplina che per di più egli comprenderebbe soltanto per metà? Oppure che forse gli esoterici di un circolo di lavoratori russi si riuniscono per ascoltare l’Arte della fuga in nome della diffidenza verso l'apparenza estetica della musica? Nelle sue argomentazioni sbaglia per difetto, e allora davvero si preclude la possibilità di capire l’ascoltatore, che è ingenuo nel senso migliore del termine, ma che proprio in questo suo atteggiamento anno dopo anno si apre alla vita della musica, senza sapere grazie a Dio niente di tutti i motivi cosi capziosi di Dahlhaus. Per questo tipo di ascoltatore gli interpreti continueranno sempre a far musica, in barba al verdetto pregiudiziale di Adorno.
 
Walter Kolneder (tr. Sergio Sablich)
("Nuova Rivista Musicale Italiana", Aprile/Giugno 1977, n.2)