Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, dicembre 29, 2010

Mozart a Bressanone

»Mozart total - Amadeus superstar«.

Così la stampa d'Oltralpe annuncia l'anno mozartiano a 200 anni dalla morte (5.12.1791) del grande genio musicale salisburghese. Per onorare la memoria di questo "re Mida del pentagramma", un po' dovunque si sta dando l'avvio a manifestazioni celebrative; ogni città in cui Mozart ha dato prova delle sue straordinarie virtù musicali si sente onorata d'esser stata tappa di uno dei tanti viaggi, in cui Amadeus è stato "scarrozzato" sin da bambino. Il suo sarà stato un comportamento contraddittorio - "aggrazziato e di buone maniere" per gli uni; goffo, impacciato e magari inopportuno per gli altri - ma la sua musica è certamente bella, perfetta ed armoniosa, una "musica infinita" al punto che "in paradiso quando gli angeli tengono concerto per il Padreterno suonano Bach, ma quando fanno musica per proprio diporto eseguono Mozart."
Salisburgo, patria di Amadeus, sarà invasa da mezzo milione di visitatori, ai quali la città intende offrire conferenze, pubblicazioni e soprattutto concerti. Le industrie dolciarie "made in Austria" contano di smerciare oltre cento milioni di "Mozartkugeln".
Rovereto si sta organizzando alla grande, perchè proprio lì avvenne il battesimo d'arte in terra italiana del giovane Mozart.
Ma anche a Bressanone è un tantino di casa il grande Amadeus, e non solo perchè ogni coro, da quelli cittadini a quelli dei più piccoli paesi dispersi fra i nostri monti, esegue messe e mottetti di Mozart - notissimo ma sempre affascinante l'Ave Verum - ma anche perché in tutti e tre i viaggi culturali in ltalia Leopold Mozart, l'orgoglioso padre di tanto figlio, scelse la nostra città come prima tappa al di qua delle Alpi. Una scelta a ragion veduta: l'ospitalità nel palazzo vescovile era confortevole, gratuita e condita di tante "coccole" per il piccolo Amadeus. C'era infatti una grande amicizia fra i Mozart e il principe vescovo Leopold von Spaur (1747 1778). I tre viaggi in Italia ebbero luogo fra il 1769 e il 1773.
Il tredicenne Mozart arrivò per la prima volta a Bressanone il 20 dicembre 1769. Aveva già alle sue spalle una serie di trionfi a Vienna, Parigi e Londra. A Bressanone pernottò soltanto una notte. Era arrivato da Steinach, una tappa fuori programma, perché a Innsbruck il padre s'era levato tardi per aver alzato troppo il gomito in casa di amici la sera precedente. Mozart ripassò a Bressanone quindici mesi dopo, esattamente il 24 marzo 1771.
Era ormai ricco di trionfi italiani: a Bologna diventa allievo del celebre padre Martini e, superata la prova prescritta dall'Accademia Filarmonica, ne diventa socio effettivo. A Roma trascrive dalla memoria il "Miserere" per due cori a nove voci di Allegri, per cui il papa Clemente XIV gli conferisce l'insegna dello Speron d'oro.
Anche questa volta la sua presenza a Bressanone ha la durata di una notte.
Pure la successiva tappa in città - 15 agosto 1771 - nel corso del secondo viaggio in Italia, si riduce ad un unico pernottamento. Ritornò a Bressanone pochi mesi dopo, contento dell'ottima accoglienza a Milano del melodramma "Ascanio in Alba" su testo del Parini, ma spaventato dal crollo di un balcone che per poco non aveva centrato suo padre, e con ancora negli occhi la macabra esecuzione capitale di quattro malviventi.
Arrivò in città l'11 dicembre 1771 e quella sera fu musica sovrana: nel teatro del palazzo vescovile offri al principe vescovo Ignaz von Spaur, nipote e poi successore di Leopold, la dimostrazione della propria versatilità musicale. L'evento è raffigurato in una scultura lignea, realizzata molto tempo dopo e conservata gelosamente nella Sala Mozart dell'albergo Aquila Nera in via Portici minori: il quindicenne Amadeus siede al pianoforte mentre il padre suona il violino; lí accanto, tutto preso dalla bravura del ragazzo, il vescovo v. Spaur. Il giorno seguente i Mozart rimasero in città e ripartirono per Salisburgo la mattina del 13 dicembre. Anche il terzo viaggio in Italia è di breve durata: a Bressanone i Mozart pernottarono il 27 ottobre 1772 all'andata ed il 10 marzo 1773 al ritorno. Amadeus quasi diciassettenne, aveva avuto successo a Bolzano, ma in Italia i suoi sogni s'erano infranti. Il tentativo di stabilirsi definitivamente nel "bel paese" svanirono nonostante i numerosi precedenti trionfi. Deluso, non sarebbe più tornato a sud del Brennero; a Salisburgo l'attendeva la rottura con l'arcivescovo Colloredo.
Dunque, aldilà del concerto tenuto nel dicembre 1771 e di qualche occasionale "passatempo musicale" con l'amico canonico Ignaz von Spaur, a Bressanone il grande Mozart non lasciò alcuna traccia particolare del suo genio. Tutt'al più si può supporre che gli sia ronzato per la mente qualche motivetto de "La Betulia liberata", un'azione sacra su testo del Metastasio, composta fra Verona e Salisburgo mentre faceva ritorno in patria dal suo primo viaggio in Italia.

Brixen (1991)

venerdì, dicembre 24, 2010

Bruckner: Sinfonie nn.1 e 5

Oggi Anton Bruckner è riconosciuto da molti come il più significativo sinfonista tra Beethoven e Mahler, mentre quando era ancora in vita era uno dei compositori più misconosciuti e incompresi. I pregiudizi nei confronti della sua personalità come anche della sua musica erano innumerevoli. Uno dei pregiudizi più distruttivi era quello della presunta "schematicità" della sua concezione sinfonica. Sembra quasi un'ironia della sorte, ma fu proprio un caldo fautore di Bruckner, il direttore d'orchestra Hermann Levi, a formulare questa espressione erronea. In una lettera a Josef Schalk del 30 settembre 1887, Levi rilevò infatti che nell'Ottava Sinfonia (prima versione) era rimasto particolarmente sconcertato dalla "grande somiglianza con la Settima" dalla sua "forma pressoché schernatica".
Nessuno potrà negare che le nove Sinfonie di Bruckner - quelle da lui considerate "valide" costituiscono una specie di famiglia, tra i cui membri non mancano delle somiglianze. Vi sono alcune Sinfonie che hanno un disegno di base simile, se non addirittura identico. Così i primi temi dei movimenti iniziali sono di ampio respiro ed espansi, e si stagliano per lo più sullo sfondo sonoro creato dal tremolo degli archi. I secondi temi hanno spesso un carattere lirico-cantabile e si presentano anche accompagnati contrappuntisticamente da un'altra linea melodica. I terzi temi iniziano spesso all'unisono per sviluppare quindi sorprendenti energie ritmiche. Inoltre si può parlare di un tipo di Adagio e di un tipo di Scherzo che sono propri di Bruckner, e così via.
Però l'opinione che le Sinfonie di Bruckner siano simili l'una all'altra sì da poter essere confuse, non coglie affatto nel giusto. Anche se in diversi movimenti si può riconoscere il medesimo disegno di base, nei dettagli della disposizione formale le Sinfonie si differenziano in modo notevole. Ognuna di esse presenta una cifra individuale assai pronunciata, ognuna ha una fisionomia propria. Si può provare a confrontare ad esempio la Terza con la Quarta oppure l'Ottava con la Nona, e vi si potranno notare differenze fondamentali già nella struttura di base. Ma le riserve cui si è accennato non sono giustificate anche in considerazione del fatto che il sinfonismo bruckneriano ha conosciuto mutamenti stilistici, e ciò in una misura per cui non è possibile istituire senz'altro dei paralleli, ad esempio con la musica di Brahms.
Nel 1855, dopo aver trascorso molti anni a Sankt Florian, Bruckner fu nominato organista nel Duomo di Linz, un ufficio di grande prestigio. Di questa nuova attività era assai soddisfatto; ma non lo era ancora delle sue cognizioni di teoria musicale. Perciò compì studi scrupolosi in questo campo dapprima con Simon Sechter, un rinomato professore di teoria musicale a Vienna, e a partire dal 1861 con Otto Kitzler, un musicista capace, aperto alle esperienze della musica più moderna, che fu attivo a Linz dapprima come violoncellista e poi come direttore d'orchestra al Teatro comunale.
Gli studi con Kitzler ebbero un'importanza particolare nell'evoluzione creativa di Bruckner. Conobbe in tal modo la partitura del Tannhäuser di Wagner e durante la prima rappresentazione di quest'opera al Teatro di Linz (12 febbraio 1863) ricevette un'impressione così profonda, che non sarebbe esagerato affermare che questa esperienza wagneriana mise in moto in Bruckner il processo creativo: egli scoprì se stesso, cominciò a rinvenire il proprio stile personale.
La Prima Sinfonia in do minore, composta nel 1865/66 a Linz e là eseguita per la prima volta nel 1868, è così una composizione oltremodo originale. Per le sue audacie, Bruckner stesso definì in età avanzata questo suo lavoro "il monello (Beserl) impudente" - Beserl è un'espressione dialettale dell'Alta Austria. Molti tratti tipici dei grandi sinfonisti si possono ravvisare, e in misura notevole, in quest'opera di Bruckner: i movimenti estremi sono basati su tre temi ben profilati ed adatti ad essere elaborati; gli sviluppi formali sono assai spesso definiti da imponenti intensificazioni che si succedono ad ondate; inconfondibile è poi la tendenza ad una densa scrittura polifonica, e quindi nello Scherzo si dispiegano energie ritmiche elementari. Inoltre non si possono non rilevare anche differenze significative rispetto alle Sinfonie posteriori: i movimenti estremi presentano solo deboli legami fra loro, non vi sono temi con carattere di corale e vi mancano ancora quelle pause generali con chiara funzione di articolazione formale, che a partire dalla Seconda Sinfonia divideranno l'uno dall'altro i vari complessi tematici. .
Audacia e foga espressiva danno un'impronta caratteristica alla Prima Sinfonia. Audace è per esempio nel movimento iniziale, dalla forma concisa, la grandiosa idea dei tromboni (alla lettera C nella partitura della versione di Linz), preceduta da un tema principale sul tipo d'una marcia, da un secondo tema di tono lirico e da una sezione in progressiva intensificazione (alla lettera B nella partitura). Non meno audace è l'idea principale dell'Adagio, la cui tonalità di la bemolle maggiore, dapprima occultata, diviene chiara solo alla battuta 20. Ma una concezione audace contraddistingue anche la struttura del Finale, che presenta tratti quasi improvvisatori ed è anche ricco di elementi drammatici.
Nel 1868 Bruckner lasciò l'ufficio di organista nel Duomo di Linz per una cattedra di armonia, contrappunto e organo al Conservatorio di Vienna. Nei suoi primi anni viennesi si dedicò esclusivamente al genere sinfonico. La sua produzione sorprendentemente feconda nasceva solo da un impulso interiore; dall'esterno non riceveva infatti alcun incoraggiamento. Nel 1872 terminò la Seconda Sinfonia, nel 1873 la Terza e nel 1874 la Quarta, la cosiddetta "Romantica". Nel 1875/76 compose poi la Quinta Sinfonia, spesso denominata "Sinfonia religiosa". Questo titolo diviene comprensibile se si pensa che in essa sono assai numerosi gli elementi che rimandano allo stile del corale, e che il Finale si conclude appunto con un grandioso "Corale", così denominato dallo stesso Bruckner. Inoltre, a confronto con i toni luminosi della Quarta Sinfonia, la Quinta appare più rude. Inizia, unica tra le Sinfonie di Bruckner, con un'introduzione lenta che ricorda modelli di musica sacrale e presenta tre idee contrastanti. Queste ritornano nello sviluppo dell'Adagio successivo e vengono poi elaborate in molteplici modi.
Il secondo movimento - un Adagio in re minore è basato su due temi: il primo, inizialmente intonato dai legni e sorretto in maniera quasi spettrale dai pizzicati all'unisono degli archi, è una "melodia triste". Il secondo tema, pienamente armonizzato, trapassa invece a toni innodici ed estatici. Di grande effetto sono le grandiose intensificazioni cui i due temi sono sottoposti nel corso del movimento.
L'Adagio e lo Scherzo sono strettamente legati l'uno con l'altro non solo dalla tonalità comune (re minore), ma anche tematicamente: la maggior parte dei motivi del primo tema dell'Adagio ritorna nello Scherzo, che introduce a sua volta anche idee musicali nuove. Particolarmente notevole è il secondo tema dello Scherzo, nel quale Bruckner intreccia contrappuntisticamente una melodia sul tipo d'un Ländler con figurazioni melodiche che sembrano quasi intonate da un corno alpino.
Il Finale - come nella Nona di Beethoven - è preceduto da un'introduzione che cita (in una sorta di ricapitolazione) passaggi dei movimenti precedenti. In mezzo a queste citazioni il clarinetto solista presenta il primo tema del Finale, un movimento che costituisce una sintesi assai sapiente di forma-sonata e fuga; due temi sono infatti trattati come in una doppia fuga. Quando Bruckner definì questa Sinfonia il suo "capolavoro contrappuntistico", non esagerava. Un insigne musicologo è andato ancora più in là e ha affermato che la conclusione della Quinta di Bruckner è una delle cose più sublimi che la musica e lo spirito umano abbiano mai creato.

Constantin Floros (Traduzione: Gabriel Cervone, note al CD DGG 415 985-2)

giovedì, dicembre 16, 2010

Bach: Massimo Mila versus Piero Buscaroli

Che in occasione del tricentenario della nascita di Bach siano uscite in Italia due monumentali biografie, quella di Alberto Basso e ora quella di Piero Buscaroli (Mondadori, 1180 pagine, 65.000 lire), entrambe scrupolosamente aggiornate sui risultati sconvolgenti (per lo meno in fatto di cronologia) della neue Bach-Forschung, conferma lo straordinario progresso della cultura musicale del nostro Paese, progresso che ormai può venir messo in dubbio soltanto da quelli che Buscaroli definisce, con un termine che gli è caro, critici piagnoni.

Biografia, anzi "solo biografia", secondo un aforisma di Nietzsche. Far rivivere lo hic et nunc dell'autore. Non analisi delle opere, su cui Buscaroli si lascia andare talvolta ad incaute ironie. Dichiarata abdicazione (fortunatamente non sempre mantenuta) all'esercizio della critica. "Un libro come questo non può gareggiare coi manuali, che dedicano centinaia di pagine di analisi ai singoli generi". (E pour cause, verrebbe fatto di commentare, quando si legge che l'autore "due intervalli discendenti di terza minore" configurano la successione delle note: do - la bemolle - fa naturale).

Invece, biografia über alles. Giustissimo. Tutti sanno che per la comprensione di Bach è imprescindibile la conoscenza della biografia: con la successione dei posti di lavoro occupati, essa è organicamente integrata negli sviluppi della sua arte. Biografia così appassionata da riuscir quasi romanzata. Non che Buscaroli s'inventi fatti o metta discorsetti in bocca a Bach e a chi gli stava intorno. Ma, se non romanzata, biografia interiore. Sforzo di essere dentro la testa di Bach. Smania di mettere a nudo "la macchina della riflessione creativa". Sapere che cosa succedeva nel suo spirito. Cogliere "il preciso calcolo di...", o "l'indizio di un'intenzione".

Donde, sebbene Buscaroli sia severissimo contro "le fantasie dei biografi" e i "frutti dell'immaginazione" di altri critici, un festival delle supposizioni, delle ipotesi e delle congetture. I "forse", i "probabilmente", i "si può pensare che", si sprecano. Quasi mai un verbo si presenta nudo e crudo al passato remoto, come è proprio della narrazione storica, ma per lo più al futuro anteriore (avrà fatto, avrà detto, avrà pensato, ecc.), oppure coniugato con l'ausiliare ipotetico "dovere": dovette credere, dovette pensare, dovette preferire, ecc.. Ne viene, a chi legge, un certo disagio, come se si camminasse sulle uova, molto simile al mal di mare.

Sa benissimo, il Buscaroli, che "ogni ipotesi ci ricaccerebbe nel regno delle invenzioni da cui siamo usciti per sempre", e giustamente si fa beffe di quella ricerca che "arranca tra le ipotesi". Ma deve ammettere lealmente: "Ci restano le deduzioni, le congetture", e giù con i "si può credere", "è evidente che", ecc..

Manca infatti al Buscaroli un chiaro concetto dell'arte: quello che il Riezler, biografo di Beethoven da lui citato, chiamava "un'idea generale dell'arte". L'estetica di Buscaroli si fonda sul concetto, così fasullo, di "genio", di "uomo eccezionale". Nel suo culto di superuomo egli è affascinato dal "mistero della grandezza". Donde la frenesia biografica interiorizzata. "Riesce difficile resistere alla tentazione di valorizzare ogni increspatura, ogni saliente di questi anni". Eppure il Buscaroli c'insegna che "quanto a ipotesi sballate la critica bachiana ne ha conosciute, davvero, di tutti i generi".

Tre divieti reggono la struttura biografica, sviluppata senza economia di spazio e con sbalorditiva ricchezza di documentazione: che Bach sia un musicista eminentemente serio, che Bach sia stato un vinto, uno sconfitto dalla storia; che Bach sia da considerare un "artigiano" della musica.

La disputa sul sacro e il profano in Bach è sempre esistita. C'è chi "tiene" per i Concerti brandeburghesi e chi "tiene" per le Passioni. Chi vede il momento grande di Bach nel brillante servizio mondano alle corti di Weimar e di Cöthen, e chi il vero Bach lo trova nell'organista di chiesa e nel Cantor della Thomasschule.

Niente di male: è grande in entrambi i campi, e la dialettica sacro-profano non fa che rinfocolare lo zelo degli studiosi. Ma sostenere che è "esigua" (sì, dice proprio esigua) "la quantità della musica di chiesa da lui composta se si paragona con la produzione di un gran numero di maestri", questo è proprio un po' forte. In calce al volume c'è un eccellente catalogo delle opere di Bach. Ne risulta che l'esigua produzione da chiesa consta di: circa 200 cantate sacre, 5 Messe, 5 Sanctus, 1 Credo, 2 Magnificat, 5 tra Passioni e Oratori, 5 Mottetti, per non parlare dei Corali, trascritti e elaborati.

Nemico intransigente della Riforma luterana, in cui vede la causa di tutti imali e le colpe della Germania (ammesse a denti stretti, le colpe), il Buscaroli vuole soprattutto dissociare da Bach l'immagine del luterano tutto d'un pezzo, sostenuta dagli "ottusi ignoranti giullari del Bach tutto-chiesa", e a questo scopo s'impegna in una tendenziosa svalutazione, anzi demolizione del famoso progetto di una "reguloirte Kirchenmusik" con cui Bach si licenziò dal servizio nella chiesa pietista di Mühlhausen. Tira talmente la corda che finisce quasi per trasferire Bach nel campo opposto ("Si comporta in tutto e per tutto come un pietista") e lo fa apparire come uno spudorato mentitore, che avrebbe architettato la storia della ben regolata musica di chiesa semplicemente per passare a un impiego migliore nella corte di Weimar, dove sapeva benissimo che di Kirchenmusik, bene o mal regolata, non avrebbe avuto da occuparsi. "Equivoci non sono leciti. Più c'inoltriamo in questa linea vitale, e più ci convinciamo che la 'regulierte Kirchenmusik in nome di Dio' altro non fosse che un sospiro ornamentale, messo a coprire, col suo accorato rimpianto, la giovanile gioia di un posto migliore, con doppio guadagno".

Mai dimostrata l'"intransigenza luterana" di Bach? Sarà, ma in queste diatribe sul sacro e il profano si assiste a una ridda di farneticazioni biografiche alle quali si possono opporre altre farneticazioni di segno contrario, altrettanto plausibili ed altrettanto campate in aria. Non sarà mica una "fabbrica di fantasticherie" come quelle così aspramente rimproverate al vecchio Spitta?

Bach vittorioso. C'è nell'autore una mentalità militarista simpaticamente infantile, da lettore di Salgari e di Nembo Kid, che non ammette possa essere il suo eroe, uno sconfitto, un vinto. Via la "nuffita oleografia" disegnata dagli "specialisti del pignisteo bachiano", del "Cantor misconosciuto e vessato da grette autorità cittadine ed ecclesiastiche" della bigotta Lipsia! Perciò gran peso attribuito ai postumi della questione Scheibe e alle retoriche difese di Bach redatte dal professor Birnbaum, unica vittoria (ma lenta e tardiva, ai punti) riportata da Bach nell'ultima fase della sua vita. L'entusiasmo per il vittorioso si estende fino alla "sessualità indomita" dell'"ardente vedovo", che generò ancora un figlio a 57 anni. Be', che c'è di straordinario?

"Nè vinto, nè isolato", dunque, salvo che sul fronte della scuola. E' qui che Buscaroli estrae dai documenti una selva di prove per dimostrare la totale erosione dei suoi doveri scolastici e municipali che Bach effettuò nei ventisette anni d'insabbiamento a Lipsia, comportandosi come un perfetto lavativo.

Ma sarà poi proprio vero che "Bach non si sentiva nè umiliato, nè maltrattato"? Un centinaio di pagine più in là, in uno dei tentativi di crepida penetrazione nell'animo del Grande, Buscaroli suggerisce: "Non avrà mancato di sentirsi superato e abbandonato, di gemere sulla sua sorte". Il che s'accorderebbe con le "periodiche crisi di depressione e di sterilità" che lo scrittore gli attribuisce, con l'"ansia", l'"insoddisfazione e forse anche una fragilità" riconoscibile nell'esordiente Bach. Aggiungendo che la parodia, cioè il "continuo lavoro di riscrittura" che è il modus operandi di Bach, è, sì, sempre miglioramento, perfezionamento e inveramento, ma anche "discende da un vizio psicologico ed estetico".

E' quanto all'artigianato musicale, va bene, ammettiamo pure che Bach fosse un romantico. D'un artista così grande si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Ma a proposito dell'Arte della fuga leggiamo che "anche il vecchio Bach ha bisogno, per finire un'opera, del pungolo esterno, la commissione, la data fissata per l'utilizzazione". E se non è artigianato questo, che cos'è?

Nonostante il maltusianesimo critico professato dall'autore, analisi musicali non ne mancano, spesso ottime, ma saltuarie, quasi a titolo di campionature sul versante preferito. Non Cantate sacre, ma profane. Sulla Messa e sulla Passione secondo San Matteo solo aride diatribe di cronologia. Invece una splendida rilettura del Clavicembalo ben temperato, parte prima, e un felice inquadramento storico dell'Offerta musicale, che attraverso Federico II e il barone Van Swieten congiunge materialmente Bach a Mozart. Meno approfondito l'esame dell'Arte della fuga, che pure è il vertice di quella "musica assoluta" proposta come terreno d'incontro e risoluzione della contraddizione tra sacro e profano, la cui tensione conturba drammaticamente il poderoso volume.

La cui lettura è aggravata, oltre che dall'orgia di supposizioni, anche dalla rissosa volgarità delle contumelie versate sui colleghi presenti e passati della ricerca bachiana. C'è nel Buscaroli una sindrome di fascismo intellettuale per cui chiunque si permetta di avere un'opinione diversa dalla sua è un nemico. "Tipica sensibilità fascista", per dirla con parole di Isotta a proposito di Barilli, "nel senso delle categorie mentali, non degli schieramenti nella prassi politica quotidiana".

E' quell'arroganza ghibellina, quella "standardizzata altezzosità nei confronti della massa" che in realtà "è un comportamento tipicamente massificato" secondo la luminosa diagnosi di Claudio Magris, poichè "chi parla della pochezza intellettuale generale dovrebbe sapere di non esserne immune, deve assumerla su di sè come rischio e destino comune degli uomini".

Da questo genere di penitenza il Buscaroli è proprio alieno e così, con una preparazione straordinaria, invece d'un libro di storia, ci ha dato un violentissimo pamphlet. Ma i pamphlets, per essere buoni, devono essere brevi. Questo, invece, è di 1200 pagine.

Massimo Mila ("La Stampa", 19/10/1985)

venerdì, dicembre 10, 2010

Bruckner: Sinfonia n.8 in do minore

L'idea che arte e religione abbiano radici comuni, e che anzi possano fondersi in un'unica entità in cui trovino espressione al tempo stesso umano e divino, anelito struggente e rivelazione, fu un tema centrale dell'Ottocento. Esso ricorre in aspetti diversi, e nell'opera di Anton Bruckner ebbe un'impronta particolare: la musica vista come ricerca del senso ultimo delle cose e come una confessione di fede del tutto personale. In nessuna delle sue composizioni strumentali quest'idea traspare in modo più chiaro che nell'VIII Sinfonia. Qui non si tratta solo di "forme sonore in movimento" secondo la famosa definizione di Eduard Hanslick sull'essenza della musica, bensì - come disse un altro critico - della "consapevolezza dell'omogeneità sostanziale dell'animo umano con la natura cosmica, del desiderio struggente di sprofondare in essa e di perdersi nell'infinito". Malgrado tutti i pro e i contro estetici e ideologici che una tale concezione musicale può suscitare ancora oggi, l'ascoltatore deve farsi consapevole, per dirla con Ernst Bloch, del "magico" e "serafico" di questa musica, del "sostrato di una fede, qui ancora realmente genuina, in una sovranità celestiale, a cui si riferiscono i maestosi accordi bruckneriani". Senza questo aspetto si perderebbe una dimensione essenziale della sua musica.
Bruckner lavorò alla sua VIII Sinfonia a più riprese, fra il 1884 e il 1890. In questo periodo gli sbalzi fra una euforica creatività e una profonda sfiducia nelle proprie capacità indicano eloquentemente quale fosse il suo stato d'animo. All'inizio, grazie al successo riportato dalle esecuzioni della sua Settima Sinfonia, si sentì spronato nel suo nuovo lavoro; ma in seguito, quando anche alcuni suoi amici musicisti (Hermann Levi, Joseph Schalk e altri) gli mossero delle critiche, Bruckner fu preso da dubbi e decise - sempre pronto ad accettare consigli altrui - di apportarvi trasformazioni radicali. Colto da una vera febbre di rielaborazione, sottopose non solo questa Sinfonia, ma anche altre che l'avevano preceduta a una profonda revisione. (La registrazione presente segue la versione dell'"Edizione critica completa" curata da Robert Haas, dove, nonostante tutte le difficoltà filologiche, si cerca di tenere fede alle intenzioni di Bruckner: essa si basa infatti sull'autografo della versione definitiva, come sulla bozza per la prima edizione a stampa, e inoltre il testo è stato emendato da aggiunte estranee).
L'Ottava Sinfonia fu eseguita per la prima volta il 18 dicembre 1892 a Vienna, sotto la direzione di Hans Richter. Alcune indicazioni di Bruckner riguardo a questa partitura possono valere come riferimenti programmatici, ma la maggior parte di esse è da intendersi come un chiarimento delle implicazioni descrittive di singoli passi. Si consideri ad esempio il primo movimento (è l'unico movimento iniziale di una Sinfonia bruckneriana che non si conclude in un'atmosfera raggiante, bensì si spegne in pianissimo!): al punto culminante di esso dovevano trovarsi le parole "Annuncio di morte", mentre le sue ultime misure, scandite sottovoce in una lugubre pulsazione, rappresenterebbero 'L'orologio dei morti". Altre espressioni quali "Il Michel tedesco" (come era stato intitolato lo Scherzo) o "Incontro dei tre imperatori" (quale motto per il Finale) dicono ben poco e danno tutt'al più un'indicazione sommaria sul carattere globale di questi movimenti.
Il fatto che Bruckner modifichi la successione tradizionale dei movimenti e faccia risuonare lo Scherzo prima dell'Adagio è dovuto certamente al proposito di far seguire ad un movimento più 'ponderoso' uno più 'leggero'. Ma in ciò si può scorgere anche un richiamo alla Nona di Beethoven, che sotto molti aspetti ne fu il modello: così, per esempio, nell'ultima parte del Finale risuonano ancora una volta i temi principali di tutti i movimenti precedenti, riassunti in una grandiosa sintesi contrappuntistica.
Un elemento essenziale del linguaggio musicale di Bruckner è la successione di singoli blocchi a sé stanti, spesso con cambiamenti improvvisi di timbro (si passa ad esempio dai fiati del registro acuto agli archi di quello grave) o con effetti d'eco indistinta, e spesso anche con un nuovo avvio di un monumentale crescendo, che quasi trascina l'ascoltatore nel vortice di un movimento ondoso sempre più imponente. E vi sono sempre connessi improvvisi mutamenti di carattere, ad esempio da momenti di solennità trionfale si trapassa a squarci di delicato lirismo. Se si considera poi l'impianto formale complessivo dell'Adagio, se ne potrebbe facilmente immaginare un'integrazione scenica: una processione celestiale, dapprima sommessa, ma che col suo tono innodico sfocia in un crescendo d'intensità drammatica, al cui culmine si spalanca un cielo radioso. Ma questo processo non si compie in maniera continua, bensì prende l'avvio ogni volta da un'ottica diversa e analogamente alla tecnica cinematografica viene interrotto da "tagli" e "dissolvenze". Cambiamenti di atmosfera caratterizzano anche l'armonia, come quando dal maggiore si passa improvvisamente al minore (inizio dell'Adagio) o tutt'a un tratto risuonano regioni armoniche lontane - e ciò va detto sia in senso emozionale che in termini di analisi teorica. (In questo contesto è già significativo che la Sinfonia non comincia nella tonalità fondamentale di do minore, ma in un tessuto armonico ancora nebuloso).
Esattamente come per l'impianto formale complessivo, anche i vari motivi musicali risultano composti dalla somma di singole cellule ricorrenti; colpisce la tipica figurazione ritmica basata sulla successione di tempi binari e ternari (nella misura di 414 si hanno cioè due semiminime e una terzina di semiminime), che spesso si integrano reciprocamente dando luogo a figurazioni metriche complementari (attrito di valori binari e ternari sul tipo della hemiolia).
Nella strumentazione si rivela chiaramente la formazione organistica di Bruckner, quando contrappone ad esempio tra loro i singoli gruppi orchestrali come singoli registri d'organo, o combina determinati strumenti amalgamandoli.
Ma ciò che colpisce, oltre alla scrittura orchestrale compatta e Massiccia, sono anche quei momenti di levità pressoché eterea, in cui sembra che aleggi un assolo desolato dei legni o che si libri il suono di un'arpa. La plasticità di simili procedimenti musicali è innegabile; essa fa parte di quella grande, fantasiosa visione che la musica di Bruckner comunica all'ascoltatore.
 
Volker Schlerliess (traduzione: Alessandra Castriota, note al CD DGG 419 196-2)

venerdì, dicembre 03, 2010

Luis de Pablo

Di sé ha detto. «Ciò che importa soprattutto è essere golosi. Ammetto di essere più un edonista che un analista»: questo è Luis de Pablo, uno dei compositori più importanti della nostra epoca, da ieri a Bologna per presentare e assistere alla prima esecuzione assoluta dell’opera che l’Accademia Filarmonica, sostenuta da Fondazione Carisbo e Regione, gli ha commissionato un anno fa. En tono menor sarà eseguita alle 20 al Manzoni dall’Orchestra Mozart. Il programma si completa con un’altra sua prima assoluta, A la memoria de… e con due pagine di Stravinskij, il Concerto in Mi bemolle Dumbarton Oaks e le Danses concertantes. Sul podio il francese Pascal Rophé. Ieri il compositore catalano ha incontrato il pubblico e la stampa nella Sala Mozart di via Guerrazzi e la sua “golosità” si è intuita nelle parole pronunciate dal presidente dell’Accademia Filarmonica, Loris Azzaroni, e nelle osservazioni del musicologo Paolo Petazzi. Entrambi hanno ricordato la capacità di quest’uomo, che arriva a Bologna sulla soglia degli ottant’anni, di sperimentare. Lui per primo decise di conciliare ispanicità e contemporaneità. Non fu facile: da Albeniz a De Falla, tutti i compositori spagnoli sembrano non poter fare a meno di una vena folclorica, che spesso è Andalusa. Lui, invece, voleva conoscere la musica del suo tempo, che in quel momento gli era preclusa. Il luogo giusto era Darmstadt, dove conosce Boulez: «Un bell’incontro - dice, sempre generoso nel parlare della sua vita e della sua opera - in cui ho capito che non ero fatto per aderire a un sistema». Forse si è creato il suo, in cui ha grande attenzione alla suggestione dei testi, alla qualità del materiale sonoro, ai linguaggi musicali non europei, con particolare predilezione per Cambogia e Corea. Tutto questo ne fa una personalità unica e originale tra i compositori contemporanei e perciò l’Accademia ha deciso di aggregarlo con socio d’onore. In conferenza il discorso scivola anche sui brani in programma. Il primo presenta cinque pezzi diversi che danno vita a un forte gioco di contrasti. Dice il compositore: «è come passare in una galleria da un quadro all’altro. A la memoria de… è invece un brano intimo e malinconico. De Pablo svela la dedica: alla sua amatissima gatta siamese. Dove sarà andata, si chiede la musica, e ricordando quella compagna «gentile e bella» si pensa alle persone amate. Un punto interrogativo conclude il pezzo. Questa è, alla fine, la capacità di De Pablo: sapersi interrogare e cambiare rotta. Lui che ha cominciato a mettere le mani sul pianoforte piccolissimo, nelle scuole delle suore, vissuto al confine tra Spagna e Francia, avviato alla carriera d’avvocato, a un certo punto ha scelto di cambiare rotta, dedicandosi alla musica in modo totale ed entusiasta, ma sempre aperto.

Chiara Sirk ("L'Informazione", 14 novembre 2010)

giovedì, novembre 25, 2010

Bruckner: Sinfonia n.2 in do minore

La Seconda Sinfonia di Bruckner, la più ardente e per certi aspetti la più profetica delle sue prime Sinfonie, fu iniziata nell'autunno del 1871, un mese circa dopo il quarantasettesimo compleanno del compositore. Bruckner aveva passato l'agosto del 1871 a Londra, dove era stato molto festeggiato per le sue maestose improvvisazioni sull'organo della nuova Royal Albert Hall. Uno scandalo concernente una baruffa con alcune insegnanti del Collegio di S. Anna, a Vienna, aveva temporaneamente offuscato il suo ritorno nella città dove stava prendendo forma la sua carriera, ma sarebbe imprudente supporre che la nota angosciosa che contraddistingue l'ampia esposizione della Sinfonia abbia un'origine così immediata e parrocchiale.
La Sinfonia è, per la più gran parte, meravigliosamente serena e fiduciosa, con uno slancio suo particolare che le deriva, in modo tipicamente bruckneriano, dalla capacità che hanno i suoi temi di germogliare, fiorire e dar frutti. Lo struggente primo tema, enunciato in modo eloquente dai violoncelli nel registro acuto, è, da questo punto di vista, in tutto tipico del genio di Bruckner: il ritmo, l'armonia e la lunghezza variabile delle frasi contribuiscono insieme a un esteso sviluppo. I metri misti, un altro accorgimento caro a Bruckner, sono anch'essi in prima linea in questa esposizione, e si sentono per la prima volta nelle trombe, alla ventesima battuta. Il primo Gesangsperiode (passaggio cantabile) di rilievo è affidato di nuovo all'eloquenza dei violoncelli, questa volta in mi bemolle maggiore, ma la figura d'ostinato che segue è tutta anapesti geniali e rustici trilli, finché l'oboe e il corno non ricavano ulteriori ricchezze melodiche alla fine dell'esposizione. Qui, dopo un inizio meditabondo in minore, la musica si volge a zone più aperte. I temi vengono trattati in nuovi registri e in nuove tonalità, con uno humour secco e impassibile. Di fatto, Bruckner non mette quasi mai un piede in fallo, fino a quando non equivoca sull'arrivo della coda. Fra il 1873 (l'anno in cui la Sinfonia fu eseguita per la prima volta con successo) e il 1877, il lavoro fu sottoposto a revisioni da parte di Bruckner e del direttore musicale di corte di Vienna, Johann Herbeck. Forse nella revisione la ricaduta nella tonica è un tantino brusca; ma un'esecuzione intelligente del testo del 1877 può evitare il senso di un indebito iato a questo punto.
Il secondo movimento, che è in gran parte in la bemolle maggiore, è memorabile per la sua serenità (nella prima parte, ad esempio, manca un tutti conclusivo) e per i primi indizi che ci dà della speciale abilità di Bruckner nel raccogliere le forze intorno a momenti culminanti che sono tanto estatici quanto splendidi. Nel principale di essi, i violini creano un trasparente velo di suono attraverso il quale si sentono espandersi maestosamente legni e ottoni. Difficile da realizzare, questo passaggio fa nondimeno un effetto straordinario nelle mani di abili esecutori, al pari del seguito, profondamente immaginoso. In tutto il movimento, la parte delle viole è particolarmente ricca. E' forse un peccato che Bruckner abbia eliminato l'assolo di corno nella pagina finale, ma il taglio della ripresa ornata dei primo tema (edizione di Nowak: "vi-de" cfr. da C a E) è un raro esempio, in Bruckner, di un taglio che migliora il senso, invece di storpiarlo.
Lo Scherzo, haydniano nello spirito benchè orchestrato con formidabile ostentazione, è integrato da un Trio vistosamente indolente, nel quale le viole hanno di nuovo un ruolo dominante, e il Finale ha un carattere magnificamente impetuoso. Si osservi come la stridente entrata degli ottoni alla trentatreesima battuta venga trasformata in modo da assumere carattere motorio. Tutta questa attività viene controbilanciata ma metà del pezzo da un mirabile e precoce esempio di quel genere di enorme cadenza centrale (che qui ci trasporta verso mi bemolle) in cui sembra che Bruckner rivaluti il concetto stesso di tempo, trasformando il fare in essere, il chronos in kairos. Il materiale della cadenza, che è imparentato con il Kyrie della Messa in fa minore, ritorna nella coda - gratificante per gli archi, ed uno dei momenti migliori di tutta la Sinfonia - insieme ad una reminiscenza del tema di apertura della Sinfonia. Anche questo passaggio fu tagliato nella revisione del 1877, un taglio infelice, che viene restaurato nella presente esecuzione, e dà così alla Sinfonia quella fine estatica ed esuberante che ben merita.

Richard Osborne (Traduzione: Silvia Gaddini, note al CD DGG 415 988-2)

giovedì, novembre 18, 2010

Gavazzeni: un saluto al Trio di Trieste

In anni vicini - nel decennio anteguerra '30-40 - tre eventi musicali fecero balzare con spinta fulminea il concertismo italiano e la direzione d'orchestra a un livello europeo ed extra-continentale: il Trio di Trieste, Arturo Benedetti Michelangeli e Franco Ferrara.
Dopo quasi sessant'anni gli strumentisti sono ancora sulla breccia, il grande pianista anche, il direttore d'orchestra non più, con la carriera iniziata gloriosamente, ma interrotta, per crudelissime ragioni fisiche, ancor prima della morte. Era come fosse sorta una cometa, nei cieli felici della musica, a indicare una palingenesi di gran luce.
Ricordo bene la sorpresa, l'accoglimento stupito, per la rivelazione dei tre ragazzi del Trio di Trieste; dal '33, sino alla piena affermazione pochi anni dopo: De Rosa, Zanettovich, Lana. Insieme al fatto nuovo dell'eseguire "a memoria " in trio. Talvolta la memoria, sia pur sempre ammirevole, resta un fatto esornativo, esterno; talvolta anche un'esibizione. Ma in altri casi significa la sicurezza spinta a limiti estremi; significa approfondimento, appropriazione di un testo musicale nei suoi segreti più fondi. Il caso appunto dei giovanissimi triestini.
I primi incontri con loro, nelle mie perdute stagioni triestine. Il "timbro" di Trieste che ti circuiva con suggestioni quasi fisiche. La femminilità di Trieste e il suo tessuto letterario, senza soluzioni a dividerle. Come se Edda Marty del racconto di Giani Stuparich (il suo capolavoro) e la Bianca dell'Anonimo triestino le incontrassimo in "Corso" o al Caffè Tommaseo, o agli Specchi, con il suono e gli incanti della pronuncia parlata dialettale.
I primi anni del Trio, gli stessi dei miei incontri, quando appunto il "timbro" triestino mi si svelava in un'acustica non somigliante ad altre... Insieme alla bora che avventandosi dall'altipiano faceva più pronto l'udito e più attizzate le energie dello spirito. Mentre crescevano le fortune del Trio mi si arricchivano gli incontri nella città: una caccia a saziare l'inguaribile inseguimento di conoscenza.
Gli incontri, adesso, guardati attraverso il vetro opaco della morte. Erano Giani Stuparich, Saba (le poche volte, arcigno, ironico, nella Libreria di San Nicolò), Virgilio Giotti con Pierantonio Quatantotti Gambini, verso sera nel piccolo caffè, nella strada stretta accanto al Vecchio Ospedale, quando il poeta usciva dall'Economato; Stelio Crise, Anita Pittoni... lunghe conversazioni sui temi del libro tipico L'anima di Trieste, i ricordi di "zio Valentin", le delusioni triestine, i suoi innocui veleni («Quelo xe furbo .. »), persino una mia lettera a Irneri, per tentare invano la sospensione dello sfratto da Via Cassa di Risparmio. Troppi morti alle spalle, sempre, nei ritorni ai luoghi della vita. I triestini sradicati, al Conservatorio di Milano: Romeo Bartoli, identificabile nel maestro di canto de La coscienza di Zeno; Giusto Zampieri, storico geniale e sciamannato, amico di Busoni, carico di racconti. Ecco: a un mio ritorno triestino, dopo anni (autunno '91), resto solo; ripasso soltanto le strade e le memorie. Alcuni morti anche nei miei lontani intelligentissimi cugini. Alcuni sopravvivono: attenti alle letture, ai fatti, alle etnìe frammischiate: i Grego, i Filippi, i Poillucci, i Roli. Spazi vuoti dovunque, nei solchi della morte. Resto solo, a Trieste. Senza cercare i viventi: Magris, Mattioni, Tomizza, Giorgio Voghera... Con il gran patriarca carismatico Vito Levi (mi ha dedicato il suo icastico ritratto di Richard Strauss), appelli di saluto, affettuosità per interposta persona... Forse, nel ritorno dell'autunno '91, si chiudeva la mia temperie triestina. Insieme ad altre. Persiste invece, per fortuna di tutti, il tempo glorioso del Trio di Trieste. Credo che nessun altro complesso cameristico abbia mantenuto durata tanto lunga, anche dopo l'entrata di Amedeo Baldovino al posto di Lana. I tre ragazzi entravano dunque in un tempo anagrafico che a mia memoria non ha altri precedenti, entravano in una storia musicale triestina alzandosi presto in volo fuori della Città, verso il Mondo. Partivano da una tradizione locale di ben alta qualità, in area cameristica, sinfonica, teatrale. Pensiamo al contesto cameristico e sinfonico - mitteleuropeo e germanico -, alla duplice tradizione operistica - tedesca e italiana -, al Quartetto Triestino nella sua prima formazione, alla qualità dell'orchestra, ben accetta nella seconda metà del secolo scorso e nei primi decenni del nostro da direttori primari. La lingua musicale austrogermanica era d'uso, tale da includere Trieste in una geografia europea; senza strettoie regionali o provinciali.
Da ricordare che triestino era uno dei più grandi direttori d'orchestra, Victor De Sabata, mentre in campo creativo l'operismo di Antonio Smareglia realizzava il singolare incrocio e incontro di culture diverse, cioè un crocicchio nevralgico tra naturalismo italiano, slavismo (si pensi a Smetana, Dvorák, il primo Janacek), residui germanizzanti. In una linea di eclettismo agiranno altri, nei tempi successivi: Illersberg, Giulio Viozzi, Bugamelli - oggi dimenticati - e dimenticato, in campo sinfonico, Mario Zafred, che si era però tolto di dosso la "triestinità". Neppure fuori tema è notare che per un musicista come Luigi Dallapiccola l'essere nato in Istria, a Pisino, e l'averci vissuto anni adolescenti, ha pur contato qualche cosa. Si veda infatti nel volume di suoi scritti Parole e musica (Milano, Il Saggiatore 1980, pag. 399 sgg.) un frammento autobiografico inerente al periodo infantile e della prima adolescenza.
Non vorrei aver divagato, nel rendere omaggio affettuosamente amichevole al Trio. Perché nonostante il glorioso cammino dovunque venga praticato l'ascolto cameristico, nei tre "ragazzi" l'etnìa culturale ebbe determinazione primaria. E l'aggancio è continuato, nella fermezza e nella durata. Non mi occorre dire molto sui caratteri interpretativi, sui risultati. I documenti contenuti in questo volume parlano meglio e più di qualunque frase elogiativa. La ricerca aggettivale o lo spreco di avverbi sarebbero oziosi, inutili, di fronte al concreto testimoniale. Basti dire che l'analisi sui testi della letteratura specifica e la maturità furono tanto alte e compiute, sin dai primi anni, da rendere l'atto esecutivo un atto di vita. Interpretazione come vita; come vita dello spirito e realtà sonora coordinata, organizzata. Appunto, l'elaborato tecnico e la vita segreta annidata nei testi; il piacere dell'offerta all'ascolto e il velo calato sui misteri creativi, il volto nascosto della bellezza estetica scoperto e rivelato nell'acutezza esecutiva.
Infine devo ricordare le due occasioni di incontro in concerto con il Trio. Nel '47 concludevo la stagione operistica al Teatro Verdi. Mi venne offerto il primo concerto sinfonico (in programma un brano di un altro nobile compositore triestino, Zuccoli), con i tre giovani per il Triplo di Beethoven. C'era una settimana vuota, prima delle prove orchestrali. Rimasi a Treste. In casa dell'ingegner Negri, suocero di Zanettovich, si poteva disporre di due pianoforti. Per una settimana lavorammo insieme, io sul secondo pianoforte per la parte orchestrale. Giornate che non ho dimenticato. Ho così potuto conoscere, capire, vivere il loro modo studioso ed elaborativo. Cioè entrare nei segreti d'officina. Un'esperienza unica, nella mia vita musicale. Non l'ho più dimenticata. Assisteva talvolta un ragazzo che sarebbe diventato, molti anni dopo, "operatore musicale", e al quale rivolsi poche parole e nessuna attenzione: Giorgio Vidusso.
Passa altro tempo; l'altra occasione insieme: il Concerto dell'albatro di Ghedini (a me dedicato) a Roma, all'Accademia di S. Cecilia. Nel Trio c'è Amedeo Baldovino (che avevo ascoltato in calzoni corti al Conservatorio di Milano); insieme avevamo eseguito Scelomo di Ernst Bloch al Comunale di Bologna; insieme, lungo gli anni, sere di conversazioni a Roma; con lui e con l'intelligente sua consorte, pittrice.
Le siderali suggestioni dell'Albatro ghediniano, con la loro estrema serietà del far musica, senza bellurie. Due sole occasioni, ecco. Troppo, e troppo a lungo invischiato nelle sciaguratezze operistiche, senza dialogo - con uomini e donne -, due momenti di salvezza, questi, non cancellati.

Gianandrea Gavazzeni (Bergamo, ottobre 1992)

giovedì, novembre 11, 2010

Bruckner: Sinfonia n.3 in re minore

Nella storia della musica non si è quasi mai verificato che le radici di composizioni altamente significative fossero così anacronistiche come è avvenuto per Bruckner. Il suo sinfonismo infatti non nasconde affatto la sua origine: l'ambito congenito a Bruckner era quello della musica sacra, il suo strumento era l'organo. Ma la grande tradizione organistica era in via di estinzione già intorno al 1750, la musica sacra diveniva alcuni decenni dopo una zona musicalmente provinciale (fatta eccezione per alcune grandi composizioni). Il fatto che Bruckner idolatrasse Wagner e che dedicasse la Terza Sinfonia "All'illustrissimo Signor Richard Wagner, all'ineguagliabile, famosissimo e sublime Maestro dell'arte poetica e musicale in profondissima riverenza", fece sorgere l'equivoco che la musica di Bruckner seguisse le orme tracciate da Wagner. Per quanto ciò fosse errato, Bruckner ne soffri notevolmente; egli si trovò ad essere sospinto senz'altro nel campo wagneriano e lisztiano. L'autorevole critico viennese Eduard Hanslick, dopo la prima esecuzione della Terza Sinfonia nel 1877, ebbe la visione di "come la 'Nona' di Beethoven stringa amicizia con la 'Walchiria' di Wagner e finalmente vada a finire sotto gli zoccoli dei suoi cavalli". Come la musica di Wagner, così anche il sinfonismo di Bruckner fu accusato di mancanza di forma, e per molto tempo non si comprese che Bruckner non voleva esser valutato secondo misure wagneriane, e neanche secondo il metro classicistico.
La Terza Sinfonia (che non certo per caso è in re minore, la tonalità della 'Nona' di Beethoven) è ritenuta con un certo diritto come l'opera in cui Bruckner ha definitivamente trovato la sua via quale compositore sinfonico. Essa pone tuttavia dei problemi particolari. Una prima versione fu vompiuta nel 1873. Ad essa dopo i primi ritocchi (1874), seguirono ancora due rifacimenti (1877 e 1888/89). Di questa Sinfonia esistono così almeno tre versioni; Bruckner lavorò a questa composizione per un periodo superiore a 17 anni. Si è considerato a lungo la terza versione come quella definitivamente valida. Oggi si tende sempre più a riconoscere che anche alla seconda versione (1877), da cui Bruckner tra l'altro eliminò le citazioni wagneriane, spettano i medesimi diritti che non alla terza versione. Il procedimento sinfonico bruckneriano ammette evidentemente, entro certi limiti, diverse possibilità di una valida configurazione. Ciò significa senz'altro che quel principio compositivo orientato alla musica del classicismo viennese necessita d'una revisione. Il modello della 'Nona' beethoveniana è però evidente all'inizio (quel sorgere da uno 'stato sonoro originario') e alla fine del primo movimento (figura di ostinato). Il primo complesso tematico è costituito da un tema ampio ed elementare affidato alla tromba, unitamente al secondo nucleo tematico che sgorga come in un'eruzione sonora. Nel carattere di frammento che hanno le figure tematiche sono racchiuse le loro capacità di svilupparsi sinfonicamente. Un complesso cantabile e meditativo, quindi un imponente dispiegamento timbrico che si addensa in un tema con carattere di corale (Bruckner vi annota: Choral marcato): questo sono ulteriori fasi dell'esposizione. Ma lo schema tradito di esposizione, sviluppo, ripresa, coda viene per così dire colmato da una nuova "tecnica di mutazione" tematica (Werner Korte), che risulta da elementari eventi ritmici e timbrici. Che le visioni sonore di Bruckner sono tratte da una rielaborazione della tradizione di musica sacra, è un fatto chiaramente avvertibile nel movimento lento, mentre nello Scherzo quell'accento di ländler (danze caratteristiche dell'Austria e della Germania meridionale), che da lungo tempo era assurto a nobiltà d'arte, emerge con una veemenza ingenua e al pari demonica. Il Finale, che si solleva di nuovo da una configurazione sonora quasi roteante su se stessa (il nucleo è costituito dall'intervallo primigenio di una quinta), è concepito nei suoi estatici addensamenti timbrici come il coronamento, il riepilogo della Sinfonia. Essa sfocia coerentemente nell'apoteosi del tema affidato alla tromba, che ne aveva costituito l'inizio.

Stefan Kunze (Traduzione: Gabriele Cervone, note al CD DGG 413 362-2)

venerdì, novembre 05, 2010

Stefan Zweig: "Ho visto Mahler per l'ultima volta"

Nascita e morte del grande musicista austriaco:un ritratto inedito del suo mondo di ieri secondo Stefan Zweig

Gustav Mahler non fu mai così vivo e vivificatore per questa città come ora che è lontano, e quella che ingrata abbandonò il creatore ora gli è patria per sempre. Quanti lo amavano hanno atteso questo momento, ma ora che è arrivato non ci rende lieti. Perché i nostri desideri sono mutati: finché fu attivo, il nostro desiderio era vedere ben viva la sua opera, le sue creazioni. Ora che queste hanno raggiunto la fama, abbiamo di nuovo nostalgia di lui, che non tornerà più. Perché per noi, per un’intera generazione, fu più che un musicista, un maestro, un direttore d’orchestra, più che semplicemente un artista: fu ciò che la nostra giovinezza non può dimenticare. [...]
A quell’epoca noi giovani abbiamo imparato da lui ad amare la perfezione, abbiamo compreso grazie a lui che alla volontà intensa, demoniaca, è sempre possibile, nel mezzo del nostro mondo frammentario, costruire per un’ora o due l’eterno e senza macchia dal fragile materiale terreno, e ci ha così insegnato ad attenderlo sempre. È stato per noi un educatore e un sostenitore. Nessuno, nessun altro all’epoca ha avuto altrettanto potere su di noi.
E questo demone della sua natura interiore era così forte che penetrava come un dardo in fiamme attraverso lo strato sottile del suo essere esteriore: egli era tutto ardore, difficile da trattenere nella fragile scorza carnale. Lo si poteva conoscere bene vedendolo una sola volta. Tutto in lui era tensione, era eccesso, passione debordante; intorno a lui vi erano lampi come le scintille intorno alla bottiglia di Leida. Il furore era il suo elemento, l’unico adeguato alla sua forza; a riposo appariva sovreccitato e se restava fermo emanava come scariche elettriche. Non si poteva immaginarlo ozioso, a passeggiare tranquillo; il surriscaldarsi di una caldaia interna richiedeva sempre forza per fare, per portare avanti qualcosa, per essere attivo. Era sempre in movimento, verso un obiettivo, come trascinato da una grande tempesta, e ogni cosa era per lui troppo lenta; forse odiava la vita reale perché era fragile, stentata, indolente, una massa dotata di forza di gravità e resistenza, mentre egli mirava a quell’altra vita reale dietro alle cose, sulle nevi eterne dell’arte, dove questo mondo tocca il cielo. [...]
È impossibile descrivere che cosa rappresentasse per noi giovani, che sentivamo fermentare dentro di noi la volontà di fare arte, lo spettacolo fiammeggiante, che qui si offriva a tutti, di un uomo del genere. Sottometterci a lui era il nostro desiderio; ci impediva di avvicinarci a lui un timore, incomprensibile e misterioso, come non si osa accostarsi al bordo di un cratere e guardare la lava in ebollizione. Non cercammo mai di creare un contatto stretto con lui: il suo semplice essere, il suo esistere, la consapevolezza della sua esistenza accanto a noi, in mezzo al nostro comune mondo esteriore era sufficiente a renderci felici. Averlo visto per strada, al caffè, in teatro, sempre da lontano, era già un evento, tanto lo amavamo e lo ammiravamo. Ancor oggi la sua immagine è viva in me come quella di poche persone; ricordo ogni singola volta in cui lo vidi da lontano. Era sempre diverso e sempre lo stesso, perché sempre animato dalla veemenza dell’espressione del suo spirito. Lo vedo durante una prova: iroso, tremante, urlante, stizzito, sofferente per tutte le imperfezioni come per un dolore fisico; lo vedo un’altra volta chiacchierare allegro da qualche parte per strada, ma anche là in modo istintivo, di una allegria così naturalmente infantile, come Grillparzer descrive quella di Beethoven (e di cui è punteggiata qualche pagina delle sue sinfonie). Era sempre in un certo qual modo trascinato da una forza interiore che lo animava totalmente.
Ma per me resterà indimenticabile una volta, l’ultima in cui lo vidi, perché non avevo ancora mai percepito in modo così profondo, con tutti i sensi, l’eroismo di un uomo. Tornavo dall’America e lui era sulla stessa nave, affetto da una malattia incurabile, in fin di vita. Una primavera precoce era nell’aria, la traversata procedeva tranquilla in un mare blu, increspato da deboli onde; avevamo costituito un piccolo gruppo, Busoni faceva omaggio a noi amici della sua musica. Tutto ci spingeva a essere lieti, ma sotto, da qualche parte nel ventre della nave lui sonnecchiava, vegliato dalla moglie, e per noi era come un’ombra sulla leggerezza delle nostre giornate. A volte, mentre ridevamo, qualcuno diceva: «Mahler! Il povero Mahler!» e diventavamo muti. Lui giaceva là sotto, un uomo perduto, arso dalla febbre, e solo una piccola fiamma luminosa della sua vita guizzava sopra sul ponte, all’aperto: sua figlia, che giocava spensierata, felice e inconsapevole. Noi, però, noi lo sapevamo: sentivamo la sua presenza là sotto, sotto i nostri piedi, come se fosse stato nella tomba. E poi all’arrivo a Cherbourg, nel rimorchio che ci trasportò, alla fine lo vidi: giaceva immobile, di un pallore mortale, con le palpebre chiuse. Il vento gli aveva spostato di lato i capelli ormai grigi, la fronte arrotondata sporgeva alta e ardita; sotto, il mento severo, dove risiedeva la forza della sua volontà. Le mani emaciate giacevano incrociate sulla coperta, piegate dalla stanchezza; per la prima volta quell’uomo ardente mi apparve debole. Il suo profilo – indimenticabile, indimenticabile! – si stagliava su un’infinità grigia di cielo e mare; in quella scena vi era una tristezza sconfinata, ma anche un qualcosa che, trasfigurato dalla grandezza, risuonava per spegnersi nel sublime come musica. Sapevo che lo vedevo per l’ultima volta. La commozione mi spingeva ad avvicinarmi, la timidezza mi tratteneva; non potei fare altro che continuare a guardarlo da lontano, come se in quello sguardo avessi potuto ancora ricevere qualcosa da lui ed essergli grato. In me risuonava cupamente una musica, dovetti pensare a Tristan, mortalmente ferito, che ritorna a Kareol, la rocca paterna, ma era diverso, più profondo ancora, più bello, più radioso. Finché poi trovai la melodia e le parole nella sua composizione scritta molto tempo prima, ma che solo in quell’istante giungeva a compimento, la melodia quasi divina, segnata dalla beatitudine della morte, di Das Lied von der Erde sulle parole: «Ich werde niemals in die Ferne schweifen. / Still ist mein Herz und harret seiner Stunde» ([Vado verso la mia terra ..]e non me ne allontanerò mai più. / Silenzioso il mio cuore / Ansiosamente aspetta la sua ora). [...]
Questo fu l’effetto del suo demone su di noi, su un’intera generazione. La nuova generazione che lo incontra ora, senza conoscere la sua biografia, e che può amare solo quanto del suo fuoco misterioso si è sublimato in musica, non conosce tutto il suo essere. Per loro l’opera di Mahler risuona già dall’irreale, dagli alti cieli dell’arte tedesca; per noi è sempre presente il modo esemplare con cui strappò alle cose terrene la loro infinitezza. Quelli conoscono soltanto l’essenza, il profumo del suo essere, mentre noi abbiamo conosciuto ancora il colore ardente che circondava questo calice.

Stefan Zweig

sabato, ottobre 30, 2010

Glenn Gould: opus 1 e opus 2

"Durante l'adolescenza ero piuttosto restio all'idea di una carriera concertistica", spiegò Gould nel gennaio 1962 in un'intervista con Bernard Asbell "Mi consideravo una sorta di uomo musicale del Rinascimento, abile in tante cose. Di certo volevo diventare compositore. E lo desidero ancora oggi. L'esibizione nell'arena non esercitava su di me alcun fascino. [...] Un'esecuzione musicale non è una contesa, ma una storia d'amore."

L'idea fissa di abbandonare definitivamente non solo la carriera pianistica ma il pianoforte tout court, e dedicarsi esclusivamente alla composizione, si protende come un filo conduttore attraverso le sue interviste ed affermazioni degli anni Cinquanta e Sessanta. D'altro canto egli sapeva bene di non avere - fino a quel momento - un gran che da esibire come prova concreta della sua vocazione compositiva: un brano corale intitolato Our Gifts, composto nel 1943 all'età di undici anni per una festa della Croce Rossa, quattro pezzi per pianoforte (come musica di scena per una rappresentazione studentesca della Twelfth Night [Notte dell'Epifania] di Shakespeare, 1948/49) e una cadenza per il Primo concerto per pianoforte di Beethoven. I lavori successivi, come il frammento di una sonata per pianoforte, una Sonata in tre movimenti per fagotto e pianoforte e i Five Short Piano Pieces, erano certo più autorevoli e di indole più seria, ma appartenevano alla fase dodecafonica trascorsa tra i 18 e i 22 anni, le cui opere Gould aveva - citazione originale - "messo in naftalina". "Durante i miei ventinove anni di vita, ho scritto una sola opera di grandi dimensioni e che mi piaccia: il mio Quartetto per archi. [...] Non è un auspicio particolarmente promettente in campo compositivo, Credo di dover coltivare certi aspetti della tecnica di composizione, soprattutto l'orchestrazione. Forse farei bene a sforzarmi di essere un po' più produttivo. Comunque, ancora non sono arrivato al punto di sentirmi infelice per aver scritto una sola opera completa."
Gould aveva lavorato al suo Quartetto per due anni e mezzo, dall'aprile 1953 all'ottobre 1955, "in un periodo in cui in tutti i miei programmi concertistici e nelle conversazioni mi ero presentato come prode paladino della musica seriale e dei suoi principali esponenti. Emerge così una domanda inattesa, ma dei tutto comprensibile: come conciliare il mio dichiarato entusiasmo per i movimenti d'avanguardia dell'epoca con un'opera che sarebbe stata perfettamente adatta per un'accademia degli inizi del secolo, e che non presentava sfide alle leggi di gravità tonali più audaci di quelle che avevano posto le opere di Wagner, Bruckner, o Richard Strauss? [ ... ] Ebbene, in verità la risposta è semplicissima. Al contrario di tanti studenti, i miei entusiasmi raramente si basavano su idiosincrasie. La mia grande ammirazione per la musica di Schönberg, ad esempio, non implicava affatto il rifiuto dei romantici viennesi della generazione precedente." Dobbiamo dargli atto che il suo Quartetto si presenta come monumentale movimento in forma-sonata in fa minore della durata di una buona mezz'ora, il cui idioma musicale (partendo dal motivo di quattro note do - re bemolle -sol - la bemolle) si riallaccia a quello dei tardi quartetti beethoveniani e ricorda in maniera strepitosa Strauss e Mahler, il giovanile Sestetto per archi Verklärte Nacht, op. 4 di Schönberg e il Quintetto per archi in fa maggiore di Anton Bruckner, opera di cui era venuto a conoscenza poco prima di comporre il Quartetto. (A detta sua, Gould avrebbe scelto la tonalità di fa minore. perché credeva di scorgervi profonde affinità col proprio carattere: il fa minore rappresentava per lui, cosi la sua spiegazione piuttosto enigmatica, "un qualcosa di obliquo - a metà tra complessità e stabilità, tra fermezza di carattere e lascivia, tra il grigio e le tinte intense".)
Ultimata l'opera verso il concludersi del 1955, Gould l'aveva subito inviata al violista Otto Joachim, che doveva eseguirne la première con il suo Quartetto di Montreal. "Il quartetto si trova in mano Sua da quasi due mesi. Finora non mi è giunta notizia che abbiate cominciato a lavorarvi", si lamenta tra il serio e l'ironico - in una lettera all'inizio dei 1956. "Ho atteso con esemplare pazienza, cosa che normalmente non appartiene ai tratti essenziali del mio temperamento. E negli ultimi mesi vi ho fatto un sacco di pubblicità gratuita. Della vostra esecuzione (?) ho parlato in numerose interviste durante i miei viaggi - naturalmente motivato dal massimo altruismo. Ma anche l'aspetto benigno e caritatevole della mia natura è sceso al livello piu abissale. E l'ira gouldiana, per lungo tempo trattenuta con amichevole pazienza, ora comincia a dare sintomi di grave infiammazione (contro la quale gli antibiotici sono dei tutto inefficaci). [...] Il quartetto fra l'altro dovrebbe essere eseguito con certezza (direi almeno del 96%) nella prossima stagione, in un concerto di musica contemporanea nella Town Hall di New York. Rida pure dell'aggettivo 'contemporanea'! Per tornare in chiave seria, sono certo che si renderà conto del problema. [...] Mi resta soltanto da pregarLa di rispondermi al più presto possibile. Suo, pronto a ulteriori accessi di febbre e a culmini estatici, Richard Strauss."
L'esecuzione newyorkese non si materializzò, ma alla fine spettò comunque al Montreal String Quartet (con Hyman Bress, Mildred Goodman, Otto e Walter Joachim) il compito di tenere a battesimo l'opus 1 di Gould: la prima ebbe luogo a Montreal il 25 maggio 1956. Sei settimane dopo - il 9 luglio - fu presentato in un concerto nell'ambito dei festival canadese di Stratford, accanto alla Sonata per pianoforte di Alban Berg (altro "opus 1") alla Terza sonata di Ernst Krenek e all'Ode to Napoleon Buonaparte, op. 41 di Schönberg. Nell'una e nell'altra occasione la critica si mostrò complessivamente positiva e ben disposta; Gould, poté rallegrarsi con pieno diritto dei suo primo successo in veste di compositore, e inviò la partitura (pubblicata dalla piccola casa editrice newyorkese Barger & Barclay) a tutti gli amici e conoscenti immaginabili. Anche il Quartetto Symphonia (formato da quattro membri della Cleveland Orchestra) lo mise in repertorio, ne eseguì la prima statunitense e nel marzo 1960 lo incise per la CBS. "Malgrado l'atmosfera di eleganza sbiadita e l'idioma dolceamaro fin-de-siècle, nell'insieme il mio quartetto ha ottenuto recensioni meravigliose", riferil Gould in una lettera a Silvia Kind. "Vi sono state alcune critiche 'alla moda', che hanno sottolineato l'inopportunità di far rivivere lo spirito di Richard Strauss nell'epoca di Stockhausen (è poi veramente la sua epoca?), ma fortunatamente le voci 'progressiste' sono state in minoranza ed hanno contribuito a suscitare una controversia sana e ragionevole." D'altronde Gould sapeva benissimo che il successo di questo opus 1 in fondo non aveva alcun significato: "E' l'Opus 2 che conta! "
Certo un "opus 2" non ci sarebbe mai stato - o comunque non una partitura che Gould ritenesse degna di un numero d'opera. Di fatto, almeno dal punto di vista cronologico, So You want to Write a Fugue? avrebbe avuto ogni diritto di fare ingresso come "op. 2 " nel catalogo delle sue opere. L'occasione per questo tour-de-force di humour gouldiano venne fornita da un programma televisivo da lui realizzato il 25 gennaio 1963 per la radiotelevisione canadese CBC: "The Anatomy of Fugue". Gould era ben consapevole che il suo concetto, di illustrare la forma in certo senso tramite la forma stessa e di articolare l'intera trasmissione come una specie di fuga, sarebbe rimasto inafferrabile per la maggioranza dei pubblico: "Qualche volta ho la sensazione che non abbiano capito niente di quello che ho detto, ma che si sentano elevati". Ciononostante, rimase fedele al concetto originale. Dopo due madrigali contrappuntistici di Orlando di Lasso e Luca Marenzio, la Fuga in do minore, K. 546 di Mozart, due fughe dal Clavicembalo ben temperato di Bach e le fughe dalle sonate di Beethoven e Hindemith, come culmine finale del programma fu eseguita So You want to Write a Fugue?: una fuga su come scrivere una fuga, con testo originale di Gould, adattata per quattro voci di canto e quartetto d'archi.
Il successo di questo brano d'occasione, scurrile e nel contempo geniale, fu tale che nel dicembre 1963 la CBS decise di inciderla - inizialmente senza nemmeno sapere quando e in quale contesto l'avrebbe pubblicata. Ufficialmente apparve soltanto nel 1980 (nel Silver Jubilee Album di Gould), ma era già stata distribuita nell'aprile 1964 come omaggio insieme a un numero della rivista "HiFi/Stereo Review". "In realtà si tratta di uno spot pubblicitario cantato, di cinque minuti e quattordici secondi ", commentò Gould, "uno spot non sponsorizzato, vogliamo sottolinearlo subito, e per molti versi anche fuori dei comune, poiché raccomanda alla leggera un prodotto che normalmente non viene offerto. il prodotto pubblicizzato è uno dei mezzi creativi più durevoli della storia dei pensiero formale, e una delle pratiche più venerabili dell'uomo musicale. Il mezzo in questione si chiama fuga, e il procedimento è la scrittura fughistica. [...] La composizione assume la forma di una fuga che spiega come si scrivono le fughe - [...] un dialogo musicale tra quattro cantanti, assistiti, e in certi momenti contraddetti, dai commenti di un quartetto d'archi, [...] con citazioni irriverenti di Bach e Wagner." Se il compositore Gould avesse perseverato lungo questo cammino, si sarebbe certamente iscritto negli annali della storia musicale come uno dei sommi maestri di questo secolo, accanto al da lui tanto ammirato e venerato P. D. Q. Bach...

Vuoi dunque scrivere una fuga?

Vuoi dunque scrivere una fuga?
Se hai voglia di scrivere una fuga,
se hai il coraggio di scrivere una fuga,
fai pure e scrivi una fuga che possiamo cantare!

Non prestar fede a quello che t'abbiamo detto,
non badare a quello che t'abbiamo detto,
dimentica tutto quello che t'abbiamo detto,
e tutta la teoria che hai letto,
Perchè l'unico modo per scrivere una fuga,
è di tuffarsi dentro e scriverla.
Dimentica quindi le regole e scrivi una fuga,
prova, sì, prova a scrivere una fuga.

Ignora quindi le regole e provaci,
e vedrai che divertimento,
vedrai quanta gioia ti recherà,
un piacere che certo ti soddisferà.
E allora perchè non tentare?
Ti accorgerai che Giovanni Sebastiano
dev'esser stato un tipo assai piacente.

Ma non fare il furbo solo per il gusto di fare il furbo,
poichè un canone inverso è una pericolosa diversione,
e un po' di aumentazione è una grave tentazione,
mentre uno stretto con diminuzione è un'ovvia soluzione.
Ma non fare mai il furbo solo per il gusto di fare il furbo,
soltanto per darti delle arie!

C'è d'aver paura, non è vero?
E quando avrai finito di scriverla,
penso che vi troverai tanta gioia (almeno lo spero)...
Bene, nulla di perso e nulla di guadagnato, come dicono...
Ma lo stesso, è piuttosto difficile incominciare.
Proviamoci.

Subito?
Scriveremo subito una fuga!

Michael Stegemann (1997)

domenica, ottobre 24, 2010

Intervista a Sergej Krylov

Maestro Krylov che strumenti suona attualmente?
Attualmente ho lo strumento di mio padre costruito nel 1994 ed è quello che ho suonato ultimamente nei concerti a Portogruaro per la 28.Estate Musicale, Festival Internazionale di Musica di Portogruaro, diretto da Enrico Bronzi, e ho anche uno Stradivari “Scotland University” del 1734 proveniente dalla collezione Eva Lam di New York che mi è stato dato in prestito dalla Fondazione Stradivari di Cremona, grazie al progetto “Friends of Stradivari”.
Questo Stradivari è uno strumento di dimensioni regolari?
Direi di sì, non ho controllato millimetro per millimetro, ma direi che è di dimensioni regolari.
Quindi non deve fare particolari adattamenti per suonarlo?
No, no, direi proprio di no.
Quanto è importante suonare uno strumento antico?
Non è una domanda facile a cui rispondere in due parole, diciamo che ci sono strumenti antichi e moderni straordinari, così come vediamo strumenti antichi e moderni di poco valore dal punto di vista sonoro. Se si prende uno Stradivari ben conservato con caratteristiche sonore eccellenti credo non possa essere paragonato ad uno moderno in quanto lo Stradivari ha una storia alle spalle di 300 anni, sarebbe un po' come paragonare un whisky di 3 anni con uno di 50, di conseguenza non si può paragonare uno strumento moderno con uno antico, senza tenere conto che un whisky o un vino invecchiato sono stati fatti con materiali pregiati unici, forse difficili da reperire in epoca moderna. In più c'è l'incognita che per un vino ed un violino prodotto oggi non sappiamo come diventerà nel futuro, quindi è molto complicato esprimere giudizi. Ma c'è un aspetto da considerare, spesso da parte dei violinisti c'è un pregiudizio nei confronti degli strumenti moderni dovuto ad una ignoranza di base riguardante gli strumenti ad arco, ignoranza anche involontaria in quanto la musica per un musicista è un fatto molto personale dipendente da gusti ed esperienze diverse. Può benissimo succedere che un violinista abbia avuto modo di ascoltare solo violini moderni che non suonavano un granché e da qui a pensare che tutti i violini moderni suonino male il passo è breve. Ma ci sono strumenti moderni straordinari che possono essere messi a paragone con quelli antichi, anche se bisogna tenere conto di un fattore molto importante: quello economico. Se si hanno a disposizione 15 milioni di euro, è ovvio che si avrà a disposizione la scelta sui migliori strumenti antichi, e su questo è difficile competere. Ma se si hanno 15.000 euro da spendere si deve per forza scegliere un buon strumento moderno, uno strumento antico per una cifra così modesta equivale all'acquisto di legna da ardere, a meno che non si sia avuta la fortuna di trovare l'impossibile ossia il famoso “violino nella soffitta”, acquistato per pochi soldi, che rivela di essere poi uno Stradivari o un Guarneri di cui non si sospettava nemmeno l'esistenza.
Che corde usa?
Utilizzo due tipi di corde, le Evah Pirazzi e le Larsen Tzigane. Uso le mute complete, non amo mescolare corde di diverse marche.
E' vero che i maestri russi erano soliti suonare con la prima e la seconda corda in metallo?
Non saprei dire esattamente, ma so che David Oistrakh suonava corde sovietiche di buona qualità che conoscevo anch'io quando ero bambino, il RE e il SOL erano in budello, invece il LA e il MI erano in metallo.
Che archi usa per i suoi concerti?
SK: Ne ho uno di François e Dominique Peccatte che ho acquistato circa 3 anni fa, poi ho un Lamy che mi piace sempre tantissimo, acquistato circa 11 anni fa.
Constato con piacere che lei possiede due archi della migliore tradizione francese, io credo che gli archi francesi abbiano la capacità di sviluppare il massimo degli armonici a patto di avere il “giusto” punto di contatto. E' corretto?
A prescindere dalle differenze tra le varie scuole, l'unica cosa che mi ha veramente interessato finora è la caratteristica del suono e come l'arco è capace di entrare in contatto con le corde, invece per tutto quello che riguarda la “manualità”, ossia i colpi d'arco come il picchettato o lo staccato, è un fattore che riguarda il violinista al 99 per cento.
Ritorniamo al suo Stradivari: secondo il M° Renato Zanettovich (Trio di Trieste), in una conversazione amichevole avuta con lui molti anni fa, gli Stradivari sono cavalli di razza non molto facili da padroneggiare. Invece, secondo la sua esperienza, maestro Krylov?
SK: Guardi, tutto dipende dalla percezione violinistica strumentale dei musicisti, è ovvio quindi che musicisti diversi possano avere diversi pareri sullo stesso strumento. E' molto difficile generalizzare, ma è vero che tutti gli strumenti che producono un suono importante hanno una gamma timbrica e dinamica tale che bisogna saper cogliere, quindi io torno a porre l'attenzione sul musicista e sulla sua personalità unica e originale, non tanto sullo strumento in quanto tale.
Il suo Stradivari quanta attenzione richiede per ciò che riguarda la manutenzione? deve far ricorso molto spesso al suo liutaio di fiducia?
SK: Dipende dai periodi, all'inizio andavo dal liutaio abbastanza spesso per controllare se tutto era a posto, che poi risultava sempre tutto a posto, era più una questione mia anche di abitudine. Poi man mano che il tempo passava le visite sono diventate meno frequenti, bisogna stare molto attenti a non confondere i due aspetti del suono: quello del violinista e quello dello strumento. I sensi del musicista devono essere sempre molto aperti per cogliere le sfumature e per lavorare in modo appropriato su se stessi a prescindere dal suono dello strumento, che comunque può suonare bene o male. Le impressioni che il musicista ricava dal suo strumento non sono tutta la verità, ma c'è molto altro. D'altra parte non vedo come il proprio suono possa cambiare radicalmente solo attraverso, per fare un esempio, un piccolo spostamento dell'anima. Io non faccio parte di quella categoria di persone che è ossessionata dalla messa a punto degli strumenti, non divento pazzo a far spostare l'anima in un senso o nell'altro pretentendo dallo strumento chissà cosa, anche se per il musicista è importante conoscere i fenomeni che determinano il suono, perché ciò aumenta molto la consapevolezza sulla propria musica.
Torniamo un attimo alle origini: chi le ha trasmesso la passione per la musica e il violino?
Sono stati i miei genitori, mia madre pianista e mio padre si è diplomato in violino al Conservatorio di Mosca nei primi anni '70 con il massimo dei voti, egli è stata una persona molto speciale dal mio punto di vista, era un brillante violinista e al tempo stesso anche liutaio, due professioni fuse in una sola.
Dove ha imparato suo padre a fare il liutaio? (stiamo parlando di Alessandro Crillovi, padre di Sergej. N.d.r.)
Lui è stato uno dei primi liutai sovietici venuto a Cremona per frequentare la scuola di liuteria, nel 1971.
E' venuto da solo o con la famiglia?
Da solo, io e mia madre eravamo a Mosca.
Che tipo di liutaio era suo padre?
Ha costruito circa 300 strumenti, inizialmente ha seguito modelli stradivariani e guarneriani, all'inizio degli anni '90 ha elaborato una sua forma personale. Avrebbe potuto dare di più alla liuteria non fosse che è scomparso prematuramente a 50 anni 11 anni fa.
Lei ha mai costruito un violino?
E' una cosa che mi piacerebbe molto fare, ma solo per mio puro gusto personale, non ho nessuna pretesa di diventare liutaio!
Lo sa che più di qualche suo collega si è cimentato almeno una volta nella costruzione di uno strumento ad arco?
Vivendo a Cremona ho molti amici liutai e chissà che un giorno anch'io non riesca a costruirne uno. Non mi importerebbe se lo strumento costruito da me fosse bello o brutto, ma costruirselo da solo significherebbe scendere nei particolari, avere l'opportunità di capire almeno superficialmente, com'è e com'è farlo sarebbe molto bello ed importante. Ma ci vogliono un sacco di conoscenze e bisogna avere un insegnante molto capace che ti ospiti nel suo laboratorio, almeno inizialmente. Sono sicuro che verrebbe fuori una schifezza!
Chi può dirlo? io credo che per un musicista il costruire un proprio strumento sarebbe come andare alla sorgente del suono.
Credo di sì, sarebbe molto divertente, ma sarebbe anche un divertimento con un aspetto educativo. Un'altra idea interessante, avendo fatto più volte parte di giurie di concorsi di liuteria, è quella di avere l'opportunità di vedere e suonare molti strumenti. Dopo aver suonato più di 100 strumenti in un concorso non solo si impara a valutarne il suono, ma si impara anche a guardarli in modo diverso.
A proposito di concorsi, sono sempre stato molto perplesso di fronte al fatto che una giuria di musicisti sia costretta a giudicare in poco tempo un grande numero di strumenti. Anche ad essere un grande musicista come lo è lei, credo che non ci sia proprio lo spazio fisico per una giudizio sereno.
E' molto difficile, infatti, per questo la giurie di cui ho fatto parte erano composte da più musicisti che lavorano con grande attenzione. Certamente bisogna anche esserne capaci, perché, torno a dire, è molto difficile e le giurie possono anche sbagliare perché composte da esseri umani. Per quello che riguarda gli eventi a cui io ho partecipato, è successo di aver premiato il suono di due violini piuttosto diversi nello stile costruttivo, e poi abbiamo scoperto essere dello stesso autore, da questo posso dire che il suono ha una sua impronta piuttosto ben definita che non può sfuggire al musicista ben preparato. E poi c'è considerare anche che le giurie hanno un dibattito interno che le vede spesso divise nel giudizio sugli strumenti, così come nella durata del concorso, si possano mutare le proprie opinioni, come si può intuire, il funzionamento di una giuria di 10 persone non segue regole matematiche.
Abbiamo parlato degli strumenti, ma ora andiamo più nello specifico della musica, nel suo modo di suonare io avverto un duplice aspetto che si traduce in una grande dinamica di suono. Il suo non sembra un virtuosismo fine se stesso, lei pare essere capace anche di una grande cavata e cantabilità. In poche parole lei non sacrifica la musica sull'altare del virtuosismo, cercando di ammaliare il pubblico con grandi acrobazie ed effetti speciali. Le faccio un esempio riferendomi ad un grande del passato: Jasha Heifetz. La sua “Zingaresca” di De Sarasate è strabiliante, precisa e veloce come un treno, ma ascoltando lo stesso pezzo eseguito da lei, Maestro Krylov, si scopre anche una dimensione per me abbastanza inedita di cantabilità.
Io la ringrazio, solo che lei mi sta paragonando ad uno dei violinisti più grande della storia: Jasha Heifetz. Come se, per modo di dire, io paragonassi lei che è un liutaio, ad Antonio Stradivari! Eppure per la “Zingaresca” il modello di Heifetz, è quello che io ho seguito di più perché ritengo che egli abbia espresso il massimo possibile su questo brano. Se poi lei aggiunge che in più ha trovato nella mia esecuzione un aspetto di cantabilità, non posso che esserne compiaciuto, ma forse è un complimento fin troppo esagerato nei miei confronti.
Guardi, dopo anni di assedio da parte di giovani musicisti asiatici che suonano perfettamente tutto, ma che al tempo stesso fanno apparire banali i brani di repertorio più difficili, non trovo esagerata l'ammirazione per un esecutore che è capace di restituire alla musica un aspetto della sua umanità. Ma anche le esecuzioni da parte dei musicisti occidentali dell'ultima generazione, sembrano eseguire tutto con una brillantezza cristallina, talmente perfetta da sembrare finta, meccanica.
Oggigiorno, la qualità puramente strumentale ed esecutiva della musica non è cosa da poco, ma bisogna che il quadro sia completo. Sicuramente mi fa molto piacere che lei e il pubblico riconoscano un aspetto di completezza nella musica che suono, è uno dei compiti più difficili rendere musicali anche la parti virtuosistiche. E' uno dei complimenti più belli che si possano fare ad un musicista, in realtà noi suoniamo per la musica e non per la tecnica strumentale, di conseguenza intorno a tutto questo c'è un film, un'immagine, c'è un qualcosa che senza ombra di dubbio ha a che fare con l'immaginazione dell'ascoltatore, non solo dell'interprete e del compositore che ha voluto “sollevare l'immaginario attraverso i suoni”, di conseguenza, per me esecutore, la musica è sollevare l'immaginario, una riscoperta di immagini durante l'ascolto. Questa è una delle cose più difficili e complicate, se sono riuscito in questo anche in minima parte, per me è già un grande motivo di felicità.
Cosa c'è di russo e di italiano nel suo modo di suonare?
C'è moltissimo di tutte e due le scuole, diciamo che io mi considero un musicista russo, con una formazione sovietica e anche europea, grazie all'abbattimento delle frontiere di questi ultimi anni. Musicalmente devo moltissimo al M° Accardo, con cui ho studiato 7 anni, ma prima ho frequentato il Conservatorio di Mosca, una delle scuole violinistiche migliori del mondo e tra le più severe, dopo tanti anni di studio finisci con lo scoprire che il migliore maestro è quello che giorno dopo giorno ti consente di scoprire te stesso e la tua arte. La vera arte inizia nel momento in cui la tecnica scompare, l'arte non è che un pensiero che ha a che vedere con la sezione aurea dei pitagorici, una sorta di perfezione geometrica a cui bisogna arrivare per poi abbandonare, mantenendo le forme che sono state concepite non da noi umani, ma qualcuno più grande di noi. Noi siamo cacciatori della perfezione, la perfezione della bellezza, cacciatori della bellezza. Questo, in due minuti di discorsetto è più o meno il nostro scopo di vita.
Quali sono i suoi compositori preferiti?
E' una domanda che mi viene rivolta spesso, io non ho compositori preferiti, amo tutta la bella musica e mi è difficile confrontare Beethoven o Bach con la musica di Shostakovich, questo mi è difficile perché ogni compositore appartiene alla propria epoca ed è portatore di emozioni e valori tipici dell'epoca in cui vive. In ogni caso devo eseguire il brano nel migliore dei modi cercando di capire il messaggio che il compositore ha voluto lasciare in tutti i generi di musica, perché paragonare, ad esempio, l'impressionismo francese con la musica di Paganini? entrambe sono forme di pensiero straordinarie e danno sensazioni uniche, perciò è difficile esprimere preferenze.
Allora cambio domanda: cosa pensa del concerto per violino di Beethoven?
Guardi, quello di Beethoven è il concerto per violino forse più bello e più difficile, per me è il concerto per violino per eccellenza, il fondamento di tutto, che racchiude in sè tutta la vita di un uomo.
Quale cadenza preferisce per il concerto per violino di Beethoven?
Guardi, questa è un'altra bella domanda. La cadenza che eseguo l'ho scritta io.
Si è forse ispirato a Kreisler?
No, la mia cadenza in realtà non si è ispirata a nessuno, anzi, l'ho scritta così, anche abbastanza breve perché non voglio disturbare Beethoven.
A cosa pensa quando suona?
Non faccio altro che tentare di portare a termine una mia missione, quella che mi ha portato ad essere presente sul palcoscenico del teatro in cui sto suonando. Questo è già sufficiente a consumare tutti i miei pensieri.
Lei ha mai avuto paura del pubblico?
Ho paura di dirlo, fino a ieri mai.
Sa perché le ho fatto questa domanda? perché in vita mia ho conosciuto moltissimi bravi musicisti. Una buona metà di loro però si sono visti la carriera rovinata a causa della paura del palcoscenico. Il problema è che mi è sembrato spesso che non ne fossero molto consapevoli, al punto da non ammetterlo nemmeno a se stessi.
A mio parere dipende molto da quando si è iniziato a suonare. La prima volta che sono salito su un palcoscenico avevo sei anni, da quel momento non so quanti concerti sono riuscito a suonare fino a ieri. Non parliamo del domani perché non si sa mai cosa può succedere, ma comunque fino a ieri è andato sempre tutto bene. Penso che il pubblico debba essere considerato come tale, una parte del “sistema”, senza il pubblico tutto questo non avrebbe senso. Il pubblico è il punto finale del nostro lavoro, esso rappresenta un grosso stimolo a far sì di suonare il meglio che si può. Se si ha davanti un pubblico esigente ed attento a tutto ciò che si suona, questo non può che essere positivo e che non fa altro che caricare le mie batterie interiori.
Lei ha mai sbagliato durante un concerto?
Ovviamente sì, chi non ha mai sbagliato in vita sua?
Io però vorrei proprio sapere cosa succede quando capita di prendere una nota piuttosto che un'altra.
Non siamo mica delle macchine, è normale, può succedere. Ovviamente meno si sbaglia, meglio è. E poi ci sono errori di varia natura che possono essere piccoli o grandi, in questi ultimi anni mi pare di non averne commessi di così grossi.
Ho rivisto recentemente un video in cui lei suonava con Bruno Canino: grande pianista, grande accompagnatore, non trova?
Definire Canino un “accompagnatore” è assolutamente riduttivo, è sopratutto un grandissimo musicista che ha suonato insieme ai più grandi musicisti della musica contemporanea. Egli stesso è considerato unanimemente un grande musicista.
Anni fa lo vidi esibirsi insieme a Rocco Filippini e Mariana Sirbu nell'ensemble “Trio di Milano”, l'impressione che mi dette allora fu di grande fiducia e naturalezza.
Sicuramente un grande protagonista.
Maestro Krylov, quante ore al giorno riserva allo studio?
Non so esattamente quante ore, dipende molto dai programmi, in genere vado dalle 3-4 ore che in alcuni casi possono diventare anche 6-8 ore giornaliere.
Lei è uno di quei violinisti che studia fino all'ultimo minuto prima di salire sul palcoscenico?
Direi di no, sono molto tranquillo e a meno di non avere programmi pazzeschi da eseguire, cerco di essere il più fresco possibile il giorno del concerto, cerco di riposare bene e al limite di suonare un pochino.
Cosa pensa dei Conservatori italiani?
I Conservatori italiani possono migliorare molto, comunque stanno facendo un buon lavoro.
Cosa consiglia ai giovani musicisti?
Molto semplice: appena alzati, dopo aver fatto colazione ed essersi lavati i denti, sanno che li aspetta il loro strumento musicale. Finito il tempo da dedicare alla musica, poi possono dedicarsi ad altre cose.
Cosa mi dice di Bashmet?
Un musicista straordinario con cui ho avuto occasione di suonare più volte, è sempre una grandissima esperienza musicale suonare con lui. Abbiamo alcuni progetti da realizzare insieme nel prossimo futuro.
Si può sapere qualcosa di più a questo proposito?
Sono concerti in varie città dove suoneremo insieme e dove lui avrà anche la funzione di direttore.
Suonerete anche la Sinfonia Concertante di Mozart?
L'abbiamo già suonata insieme e la suoneremo ancora nel futuro.
Nel 2009 lei è stato nominato direttore dell'Orchestra da camera Lituana. Nel suo futuro c'è il progetto di abbandonare il violino a favore della direzione?
Questo assolutamente no, quella della direzione e il violino, sono due attività che vanno di pari passo e devo dire che sono stato molto fortunato ad essere stato chiamato a dirigere questa orchestra, ma tenga presente che oltre a dirigere io suono quasi sempre con loro.
Nel suo modo di suonare traspare sempre grande passione, virtuosismo non disgiunto da un buon grado modestia, si riconosce in queste impressioni?
Fortunatamente ho avuto vicino grandi personalità come Rostropovich, ma anche Bashmet stesso, che a me sono apparse come persone estremamente semplici, socievoli e pratiche. Esattamente il contrario di persone piene di sè. Se uno non sapesse chi era Rostropovich, conoscendolo anche nel privato, basterebbe dire che era una persona assolutamente “normale”, una normalità fatta di simpatia, apertura mentale e grande trasparenza. Questa è stata la mia impressione, la semplicità dei grandi, no? Ho sempre avuto ben presente che queste persone che ho conosciuto nel lavoro fossero severe e che pretendevano moltissimo per tutto ciò che riguardava la ricerca artistica, ma nel privato e in generale erano persone semplici come tutti i grandi personaggi dovrebbero essere.
Caro M° Krylov questa era l'ultima domanda, abbiamo finito. La ringrazio di cuore per il tempo che ha dedicato a questa intervista e spero di tornare presto a sentire lei e il suo violino. Finita questa chiacchierata cosa farà?
Continuerò a studiare il Concerto per Violino n° 2 che suonerò il prossimo 25 Settembre a Budapest.
Buon lavoro, Maestro!

Claudio Rampini intervista Sergej Krylov ( 2 settembre 2010)

domenica, ottobre 17, 2010

Gustav Mahler: Das Lied von der Erde

Se la Terza di Brahms è una Sinfonia fuori dalla norma, a maggior ragione Das Lied von der Erde (Il canto della Terra) costituisce un caso a sé. Il sottotitolo recita "Sinfonia per contralto, tenore e orchestra da "Die chinesische Flöte (Il flauto cinese) di Hans Bethge", ma la discussione se si tratti di una Sinfonia o piuttosto di un ciclo di lieder è tuttora aperta.
Mahler sembra sia stato molto superstizioso, sicché temeva che, dato il suo stato di salute decisamente compromesso, non sarebbe riuscito a superare il numero fatale per un sinfonista, ovvero nove (la numerazione delle Sinfonie di Schubert arriva talvolta a dieci, ma solo contando due opere frammentarie, oltre alla cosiddetta Incompiuta, sicché anch'egli, come Beethoven, in realtà non scrisse più di nove Sinfonie, come del resto anche Dvorák). Già il suo maestro Anton Bruckner non era riuscito a terminare la sua nona (in compenso esistono due Sinfonie giovanili), e Mahler non poteva non tenere presente questa circostanza; egli perciò aveva escogitato un piano per ingannare il destino: non contava Das Lied von der Erde come Sinfonia (sarebbe stata, appunto, la nona) bensì come opera a parte, per cui aveva agio (per modo di dire, visti i suoi numerosi guai sia sul piano del lavoro come direttore a New York, sia sul piano affettivo) di comporre una nona Sinfonia che in realtà sarebbe stata già la sua Decima. Quando poi si accinse a scrivere una Sinfonia effettivamente contata come Decima, essa tuttavia fatalmente rimase incompiuta a causa della sua morte prematura (egli riusci a completarne il solo Adagio iniziale).
Sinfonia sui generis, dunque, Il canto della terra, composto fra l'autunno del 1907 e il 1908, nacque in quello che probabilmente fu il peggior momento di tutta la vita di Mahler: le polemiche della stampa viennese (specie quella apertamente antisemita) avevano portato nella primavera del 1907 alle sue dimissioni dal posto del direttore generale della Hofoper, che lasciò con un'ultima recita di Fidelio (15 ottobre 1907); nell'estate era morta di difterite la figlia maggiore Maria Anna, il che gli aveva provocato un crollo psico-fisico; quando si cercò di rimetterlo in sesto i medici gli diagnosticarono un male incurabile al cuore (che in effetti lo avrebbe portato alla tomba meno di quattro anni dopo); infine il matrimonio con Alma Schindler, bella e intelligente, anch'essa musicista raffinata, una delle donne più desiderate dell'impero austroungarico, era entrato definitivamente in crisi. In questo momento di profonda angoscia Mahler volse il suo pensiero ancora alla letteratura, trovando in un'antologia di poesie cinesi pubblicate da Hans Bethge con il titolo di Die chinesische Flöte (Il flauto cinese) qualcosa che potesse fare sia da contraltare alla sua crisi esistenziale, sia anche, volendo, da 'cassa di risonanza'.
I gusti letterari di Mahler erano piuttosto eterogenei: egli, infatti, accanto ai classici, da Tirso de Molina a Goethe, da Klopstock a Rückert a Nietzsche, amava molto la poesia popolare (o anche popolareggiante), sicché compose parecchi lieder su testi dell'antologia romantica Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), curata da Achim von Arnim e Clemens Brentano, ma anche su testi propri, scritti in uno stile pseudopopolare.
L'interesse per l'estremo oriente sembra però sia da considerarsi una novità nella vita di Mahler; viceversa non lo era nella storia della cultura occidentale, perché negli ultimi decenni dell'ottocento il Giappone era diventato un paese alla moda.
Da quando nel 1853 un manipolo di navi americane forzò il blocco all'occidente (a parte i cinesi, dal 1641 al 1854 i soli olandesi ebbero il permesso di svolgere attività commerciale in Giappone, limitata peraltro a Nagasaki), ebbe termine l'isolamento dell'arcipelago autoimpostosi nel 1637/38. Nei decenni successivi, i più svariati oggetti giapponesi (e molte copie occidentali) invasero i mercati europei, in primis quelli francesi, da cui lo japonisme si diramò nel resto del mondo. Madame Chrysanthème di Pierre Loti (lo pseudonimo con cui Julien Vaud, scrittore entrato nell'Académie Française nel 1891, pubblicò i suoi numerosi libri d'ambientazione esotica) uscì a puntate sul Figaro nel 1887 e in volume l'anno seguente: questo romanzo - tradotto anche in tedesco (1896) e in italiano (1908) - per molto tempo costituì una sorta di breviario europeo a uso popolare degli usi e costumi giapponesi: la storia di una geisha sposata a tempo a un ufficiale di marina francese, musicata da André Messager (Paris 1893) e più tardi riccheggiata dalla più celebre Madama Butterfly di Puccini (Milano 1904) sembra abbia ispirato a Luigi Illica più di un dettaglio del suo libretto di Iris, intonata da Pietro Mascagni nel 1898.
Alla esposizione Universale di Parigi del 1889 (quella rimasta celebre per la costruzione della Torre Eiffel) si esibirono dei musicisti indonesiani, suscitando l'entusiasmo non passeggero di Debussy, che avrebbe impiegato scale esatonali (a toni interi) in molte delle sue opere a venire. Da La princesse jaune di Camille Saint-Saéns (Paris 1872) e The Mikado di Sir William Schwenck Gilbert e Sir Arthur Seymour Sullivan (London 1885) a The Geisha di Sidney Jones (London 1896) e Das Land des Lächelns (Il paese dei sorrisi) di Franz Lehár (Berlin 1929) è tutta una fioritura di titoli teatrali ambientati in Giappone; ricordare la Turandot gozziano-pucciniana (completata da Franco Alfano e rappresentata a distanza di un anno e mezzo dalla morte dell'autore alla Scala di Milano nel 1926) è quasi superfluo, ma non va dimenticato nemmeno un amico di Mahler, Alexander Zemlinsky (1871-1942), che poco dopo si sarebbe fatto tentare da Der Kreidekreis (Il cerchio di gesso, 1925) di Klabund (pseudonimo di Alfred Henschke, 1890-1928), a sua volta basato su un dramma cinese del XVIII secolo; l'opera di Zemlinsky sarebbe stata rappresentata nel 1933 a Zurigo.
Il Premio nobel per la letteratura nel 1913 venne conferito a uno scrittore indiano, Rabindranath Tagore (1861~194 1): insomma, tra otto e novecento le culture orientali godevano di grande popolarità nei salotti francesi e mitteleuropei.
Mahler, ricorrendo a poesie classiche cinesi, tradotte e adattate da Hans Bethge, non indugiò tuttavia su un orientalismo di maniera; gli elementi musicali che eventualmente potrebbero essere identificati come asiatici sono assai pochi: salta all'occhio l'inizio del terzo lied, Von der jugend, laddove ai legni (flauti, oboe, clarinetti) spetta qualche figurazione similpentatonica (fa-sol-si bemolle-do-re), ma si tratta di momenti episodici. Quel che interessa davvero a Mahler è il lato direi mistico delle poesie: apparentemente semplici, cantano la gioventù, l'amicizia, la natura, le stagioni (primavera e autunno), ma in realtà in esse si manifesta un micro (o piuttosto macro) cosmo che giustifica appieno il titolo di Canto della terra.
Tra gli autori, infatti, si conta il maggior poeta classico cinese, Il T'ai Po (altre grafie in uso sono li Bo, li Taibo, li Tai-peh), nato intorno al 700 e scomparso nel 762 o 765; inoltre Wang Wei e Meng Hao-jan, tutti più o meno contemporanei, nonché il più tardo Chang Chi.
La veste strumentale come sempre assai curata e la qualità dell'invenzione melodica dei primi cinque lieder ne fanno alcune delle più sentite creazioni di Mahler, che aveva previsto, accanto al tenore, cui spettano il primo, il terzo e il quinto lied, in alternativa al contralto anche il baritono, cui toccano i restanti tre, quelli pari. Bruno Walter alla prima assoluta, postuma, avvenuta il 20 novembre 1911 a Monaco di Baviera, aveva scritturato un contralto, Sara Jane Cahier; alla prima viennese, sempre diretta da Walter (1912), cantò invece un baritono, ma questa scelta timbrica è stata condivisa da pochissimi interpreti.
Senza dubbio l'epicentro spirituale e musicale del Lied von der Erde è tuttavia l'ultimo brano, Der Abschied (L'addio), che da solo occupa ben cinquanta delle centoquaranta quattro pagine della partitura dell'Universal-edition e la cui esecuzione dura all'incirca ventotto minuti.
Fin dalle prime battute il clima si fa ancor più desolato: il motivo dolente dell'oboe, basato su un gruppetto, fa da controccanto alla voce scura del contralto che narra dell'abbandono da parte del sole, da cui nasce uno dei momenti più struggenti della storia della musica. L'icasticità dell'abbinamento testo-musica è ancor più mirabile se si tiene presente che Mahler combinò due poesie in origine separate, di due poeti diversi: ne nacque però un tutt'uno omogeneo nella sua assoluta essenzialità. A tratti si fa musica da camera (Es wehet kühl), con la riduzione dell'organico a pochi solisti (nella fattispecie, oltre al contralto vi si ascolta il solo flauto su un pedale del contrabbasso), laddove poche battute dopo trova spazio anche il mandolino, in un momento assai aereo, ma riemerge sempre il motivo iniziale dell'oboe a fare da collante, cui si aggiunge il corpo degli archi, mai trattati, se possibile, con simile umana partecipazione e quasi fisica simpatia, nel senso di sofferenza comune. Mai il pathos fu meno patetico.
Un grande direttore alcuni anni fa propose l'esecuzione separata (peraltro mirabile) di Der Abschied, abbinato alla nona Sinfonia dello stesso Mahler. A mio modesto avviso fu una scelta infelice: dopo L'addio non si può suonare altro, oltre la metafisica non può che seguire il nulla.

Johannes Streicher (Festspiele Südtirol 2010)