Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 23, 2020

Souvenir de Stravinsky

Igor Stravinsky nel 1968
Stravinsky com’era. Come ha suggerito (oppure no) modi e forme della scrittura musicale. Come si continua a fare i conti con lui, magari in polemica con lui. Come stava sul podio. Parlarne con alcuni compositori d’oggi, di diverse generazioni, vuol dire scoprire la vitalità e la feconda contradditorietà del lavoro di Stravinsky. Ancora oggi, s’intende. Non si parla di un’eredità, ma di un dialogo aperto. I compositori e, in qualche caso, musicologi (ma un po’ musicologi lo sono tutti i compositori del ’900) con cui abbiamo parlato di Stravinsky sono Roman Vlad, 76 anni, Giancarlo Menotti, 84 anni, Marcello Panni, 55 anni, Giorgio Battistelli, 42 anni.
Vlad, consulente artistico del Teatro alla Scala, presidente della Siae, ha pubblicato nel '58 presso Einaudi il primo libro esauriente su Stravinsky che abbia avuto successo e credito in Italia. "Igor ho cominciato a frequentarlo all’inizio degli anni ’50", racconta. "Ho mantenuto con lui una strettissima amicizia fino a quando è morto, nel ’71. Nel privato era molto diverso da come lo si sarebbe potuto immaginare: brillante, mondano, con un fascino irresistibile. Mi vengono in mente due episodi di segno del tutto opposto: uno conferma la sua leggendaria avarizia, l'altro la smentisce".
"All’inizio del ’58", continua Vlad, "stavo preparando il libro su di lui e, intanto, a Venezia si stava completando il cartellone del Festival di Musica contemporanea. Era prevista la prima mondiale di Threni, id est lamentatio Jeremiae Prophetae. Il direttore della Biennale Musica di allora, Alessandro Piovesan, mi chiese di scrivere il programma di sala per questa prima. Ma io dovetti rifiutare: non avevo ancora visto la partitura. Scrissi a Stravinsky: "Pensi lei a indicare qualcun altro". Ma lui mi rispose: "Ho le bozze della partitura, devo mandarle all’editore a Londra, prima le mando a lei, così la impara e magari mi corregge qualche errore". Aspettai le bozze per mesi: arrivarono all'ultimo momento. Quando lo incontrai a Venezia gli chiesi il motivo di tutto quel ritardo. Lui prima diede la colpa a Robert Craft, che aveva voluto spedire le bozze con la posta di terza classe invece che di prima. Poi fu sincero: "E' stata colpa mia, la spedizione di prima classe costava due dollari in più".
La seconda storia stravinskiana di Vlad è questa: "Qualche anno dopo la sua morte io, che ero direttore artistico dell’Orchestra Rai di Torino, misi in programma Perséphone, che prevede una parte recitata. Proposi il ruolo a Madeleine Milhaud, la vedova del compositore francese, che era attrice. Fu lei, in quella occasione, a raccontarmi che aveva studiato per la prima volta la parte a Parigi durante l’occupazione tedesca, in un periodo di gravi difficoltà economiche. Doveva partecipare di lì a poco a un’esecuzione dell'opera a New York. Cosa che avvenne. Dopo l’esecuzione Stravinsky andò a trovarla e le chiese: "Quanto l’hanno pagata?". Madeleine glielo disse e lui subito sbottò: "Troppo poco!". Staccò all’istante un assegno per lei così grosso che Madeleine poté rifarsi tutto il guardaroba".
Stravinsky, secondo Vlad, non possedeva la tecnica del direttore di carriera, non era un buon concertatore, per esempio. Ma se l’orchestra era preparata e subiva il fascino del compositore sul podio, potevano uscir fuori esecuzioni anche superiori a quelle dei direttori più rinomati. "Nel 1955 andai con Petrassi ad ascoltare Stravinsky che dirigeva Apollon musagéte all’Auditorium Rai di Roma. Fu una cosa così emozionante che Petrassi si mise quasi a piangere. Stravinsky era un grande ispiratore dell’orchestra. E si permetteva molte libertà con le proprie musiche. Diceva che non bisognava farlo, ma lo faceva".
Assai meno idillico il rapporto con Stravinsky di Giancarlo Menotti. "Una sera del l950", racconta, "venne a vedere Il console a Broadway. Chiese di conoscermi: era molto curioso di sapere come avevo scritto un'opera così e quanto prendevo di diritti d’autore, visto che il Barrymore Theatre era esaurito tutte le sere. Si sa che lui era molto interessato ai soldi. Andammo a cena. A un certo punto mi disse: "Ho sentito la sua opera, buona, ma secondo me non è un’opera. Un’opera vera deve essere come quelle di Bellini, di Mozart". Io obiettai che un’opera vera poteva essere anche come Pelléas et Mélisande. "Pelléas, che merda!", fu la sua risposta. Proposi un altro esempio: Boris Godunov. "Anche quella non è un’opera", replicò. Allora persi la pazienza: "Un maestro come lei dovrebbe essere più serio".
"Qualche giorno dopo lo rividi", continua Menotti. "Può darsi che lei abbia ragione", mi disse. E poi: "Ieri sera ho sentito un’opera veramente interessante, come si chiama..., non ricordo, ah, La Bohème". Nel 1963 andò a vedere la mia opera L'ultimo selvaggio e ne scrisse male. Scrisse che non gli era piaciuto il libretto. Però l'aveva letto in traduzione inglese. Gli mandai a dire: "Pensi se io leggessi il libretto di Carriera del libertino in traduzione italiana!". Da allora non volli più incontrarlo. Ma un paio d’anni dopo 1’incidente dell’Ultimo selvaggio l’Opera di Strasburgo mi chiese di curare la regia del Libertino. Mi spiegarono che Stravinsky voleva proprio me. Realizzai un grande Libertino. Per ringraziarmi Stravinsky mi mandò in regalo una sua caricatura fatta da Picasso. Come persona era un grande poseur, ma simpatico".
Se si chiede a Menotti quanto sia stato influenzato da Stravinsky, risponde così: "Lui è come l'elettricità: si può dire che non la si ama, però la si adopera. Resta il fatto che io ho attinto a una fonte più italiana, più mediterranea. Amo molto Stravinski, sia chiaro. Non mi commuove fino alle lacrime, ecco. Mi sento più vicino a Scarlatti, a Schubert, anche a Wagner. Ma, in definitiva, penso che Stravinsky sia molto più importante di uno Schönberg, quello sì che mi è completarnente estraneo".
Oltre a Petrassi e Vlad c’era un altro spettatore d’eccezione al concerto diretto da Stravinsky nel '55 all’Auditorium Rai di Roma. Era il quindicenne Marcello Panni, che oggi ricorda con grande vivezza quellesecuzione di Apollon musagéte. "Fu il mio primo incontro con lui", racconta Panni. "Il giorno dopo lo accompagnai, insieme a mia madre, a visitare il teatro di Ostia antica. E per prima cosa gli feci firmare la partitura della Sagra della primavera, che  stavo studiando. Ero stato un suo grande ammiratore già durante l'infanzia, per me era come incontrare Beethoven in persona. Sempre nel '55 lo rividi a Venezia in occasione della prima di Canticum sacrum ad onorem Sancti Marci hominis. Da allora lo vidi ogni volta che veniva in Italia, fino al '63. Dopo lo incontrai qualche volta a Parigi".
"Era un uomo di grande amabilità, un conversatore assai piacevo1e", dice ancora Panni. "Festeggiò a casa nostra i suoi ottant'anni, nel giugno del ’62. Mangiò e bevve parecchio fino a tarda notte. Che fosse un forte bevitore, non c’è dubbio. Beveva abitualmente whisky prima, durante e dopo i pasti. Diceva che gli faceva bene allo stomaco. Lui, sua moglie Vera e Robert Craft formavano un terzetto delizioso. Ricordo che Stravinsky a Venezia abitava all'hote1 Bauer e componeva nel night-club dell’a1bergo, 1’unico posto dove ci fosse un pianoforte. Scriveva musica solo la mattina, tutti i giorni, sempre nello stesso orario. Era molto metodico, anzi, più che metodico, era un musicista che adottava un criterio da artigiano. "Non ho mai buttato via niente", mi diceva, "ho sempre utilizzato da qualche parte tutto quello che ho scritto". Di quali musicisti parlava Stravinsky in quel periodo? "Di quelli che animavano gli incontri di Darmstadt", risponde Panni.
"Era molto sensibile alle critiche e al denaro", continua Panni. Quindi la sua avarizia non è una leggenda... "No, era molto attento alle spese, come tutti quelli che hanno avuto problemi di soldi in gioventù". Stravinsky direttore scadente? Panni non è d'accordo: "I brani del periodo russo li faceva male, inutile negarlo. Ma dirigeva in modo straordinario le opere neoclassiche e quelle del periodo seriale. Utilizzava sempre pochissimi gesti, sembrava un piccolo gufo. Dirigeva in modo lineare, dando alle musiche quel carattere senza tempo, senza drammaticità, togliendo il pathos".
Panni, che a metà marzo è stato nominato direttore generale dell’Opera di Bonn ed è direttore artistico dei Pomeriggi Musicali di Milano, pensa di scrivere musica ancora oggi sotto l’influenza di Stravinsky. "Il mio atteggiamento verso il linguaggio è stravinskiano, quello verso la composizione e i materiali è cageano. Di Stravinsky mi ha sempre affascinato quel suo modo di cambiare continuamente le carte del gioco compositivo. E poi la sua armonia chiara, la lucidità della sua scrittura. Il suo uso di un metalinguaggio lo rende più nostro contemporaneo di tanti che sembravano più avanti di lui nella ricerca musicale. Il nostro modo, oggi, di intendere la cultura è sovratemporale, spazia nei tempi. Schönberg si sentiva frutto di una tradizione che procedeva in senso ascensionale, Stravinsky aveva un punto di vista orizzontale. E questo riflette una realtà dei nostri tempi". Dello stesso parere - Stravinsky particolarmente attuale - è Giorgio Battistelli, autore del celebre Experimentum mundi (’81), di Teorema (da Pasolini, ’92) e di un’opera ispirata alla felliniana Prova d'orchestra che sarà presentata il 22 novembre a Strasburgo. "Stravinsky ha un modo mirabile di rimandare al gioco, allo svincolamento delle forme tradizionali che, però, sono sempre riconoscibili. Questo è molto moderno. Essere eclettici senza essere epigoni: ecco la grande lezione di Stravinsky. Che ha sempre avuto il fiuto di cambiare quando gli altri rimanevano a rimasticare gli elementi, anche nuovi, dei risultati raggiunti. Gli "ostinati" e gli spostamenti di accenti della Sagra sono invenzioni straordinarie, eppure lui cambia strada... E' sicuramente un autore impuro, per questo è drammaturgicamente interessantissimo".
"Io mi formo su una base espressionista, strutturalista, dodecafonica", prosegue Battistelli. "Poi me ne libero, mi accorgo di aver bisogno proprio di impurità per il mio lavoro con la drammaturgia. E lì incontro Stravinsky Quando ero al conservatorio, alla fine degli anni '60, era quasi proibito accostarsi alla sua poetica: la scuola italiana di composizione che frequentavo aveva attenzione solo per Vienna e Darmstadt. L'avanguardia mi aveva insegnato a osservare il materiale sonoro nelle sue innumerevoli possibilità di permutazioni. Ma solo il materiale.
Con Stravinsky entro in contatto con l’esperienza e col recupero della memoria. Operazione compiuta dagli Henze, Berio, Maderna: musicisti che possono ospitare nel loro ventre tante e diverse forme. E reinventano, anzi inventano tout court attraverso la molteplicità dei richiami musicali e culturali".
Mario Gamba
("Symphonia", N° 50, Anno VI, Maggio 1995)

lunedì, maggio 11, 2020

Nikolaus Harnoncourt: L'antico continuamente vicino e lontano

Nikolaus Harnoncourt (1929-2016)
Trentadue anni di attività col gruppo da lui fondato, i Concentus Musicus, piu di vent’anni di fedele ed esclusiva collaborazione con una sola etichetta discografica (la Telefunken, ora Teldec), ancora molti più anni di vita musicale, prima come violoncellista e solista, poi come direttore: Nikolaus Harnoncourt, in effetti, l’abbiamo nel nostro schedario da più di una generazione. Il suo lavoro su Bach e Händel, soprattutto, con ancora in piedi l`integrale delle Cantate, ha condizionato, volenti o no, l`intero modo di concepire l'interpretazione attuale del Settecento. Con lui e col suo Concentus Musicus hanno dovuto misurarsi tutti quelli che a Bach a Händel a Telemann si sono avvicinati nel secondo dopoguerra. In fondo, tutte le discussioni più accese, quando non inviperite, sull’esecuzione di quel periodo, hanno origine nel suo modello e nella catena di reazione, singole e composte, che la presenza delle sue Passioni, del suoi Brandeburghesi, delle sue Ouvertures, dei suoi Concerti, dei suoi BelshazzarAlexander Feast hanno causato.
Per il semplice fatto di esistere, anche solo come punto di partenza. Nikolaus Harnoncourt ha inserito un’antitesi vitale in un mondo musicale, quello "antico", in cui non esisteva dialettica.
Berlinese di nascita (classe 1929), Hamoncourt ha lavorato soprattutto in Austria, lì è vissuto per la maggior parte della sua vita, e ama definirsi uomo del sud. Ciò che, veramente, l’Austriaco è. E forse è anche il difficile, contraddittorio, quasi impossibile equilibrio fra il suo germanesimo genetico e la sua “meridionalità” culturale a rendere il suo modo di concepire la musica, specie come direttore, continuamente vicino e lontano da noi, in un lavoro di zoom che instancabilmente cerca la messa a fuoco “universale" di musiche su cui il lavoro anche teorico è fra i più lunghi e complessi. In una parola: ricerca.
Maestro Harnoncourt, dopo tanti anni di lavoro con esecutori specializzati nel barocco, sono usciti i sui dischi delle Sinfonie di Mozart con una grande orchestra tradizionale come il Concertgebouw. Quando e come è nato questo rapporto?
Il Concertgebouw è un’orchestra che osserva rigidamente una tradizione da circa cent’anni, quella del concerto domenicale di mezzogiorno. E' un’orchestra molto conservatrice. In cento anni non sono stati più di quattro i direttori stabili. Lo ritengo molto positivo ai fini di un’identità, di una continuità di suono e di carattere nell’orchestra. Così è stato da Willem Mengelberg fino a Jochum, che non era un vero direttore stabile, e comunque rimase per circa vent’anni. Poi i membri dell’orchestra crearono un comitato per discutere con il direttore i programmi. E venne il giorno in cui dissero di voler cambiare e decisero di essere più “attuali”. Mi chiesero di impostare un nuovo tipo di repertorio, almeno per loro. Proposi la Passione secondo Giovanni. Accettarono. Fu nel 1973 o 74, credo.
In particolare che tipo di lavoro, lei esperto di repertori del Seicento e primo Settecento, poteva condurre con una grande orchestra romantica?
Dal mio punto di vista, romantico non è una brutta parola. Credo che ogni musica sia romantica. Wilhelm Meister di Goethe è una creazione fuori del romanticismo. Lo spirito romantico lo trovo nelle Sinfonie di Mozart, nell’Idomeneo, a partire da Mozart; Schubert, e Schumann sono la fine del romanticismo non l’inizio. Ciò che Brahms, Strauss e Wagner hanno fatto dopo, non è romanticismo ma storicismo; come la copia di Palazzo Strozzi. Mi riconosco nell'affermazione di Schumann “se la musica è vera musica, allora è romantica”, significa che c'è del mistero, qualcosa di intraducibile in parole. E questo è presente in Monteverdi, in Bach, in Mozart. Non farei distinzione fra romantico e non romantico. L’orchestra è costruita per tutta la musica, dunque è in grado di suonare anche Brahms. Ma io non uso quest’ultimo tipo di orchestra, faccio sempre diversi assemblaggi in relazione al programma. Uno dei miei principi è di non impostare concerti in cui tra gli autori o le musiche eseguite esistano grandi differenze cronologiche. Mi sforzo di creare, ad esempio, programmi con solo musiche di Mozart o di Schubert, in cui al massimo esistano quarant’anni di differenza fra il primo e l’ultimo lavoro; così che il pubblico assaggi solo uno stile. Le dimensioni dell’orchestra sono in accordo con quelle musiche e quello stile. Penso che sia lo stesso approccio di Mozart alla Sinfonia. Per le sue prime Sinfonie, a Salisburgo, aveva un’orchestra molto, molto piccola, e scriveva di conseguenza. Poi, quand’era a Vienna, scriveva per un’orchestra che era più grande dei Wiener Philharmoniker quando oggi suonano Mahler. Ecco, mi sforzo di ricreare, a contrario, questo tragitto. Non si può parlare di “orchestra di Mozart” in assoluto. Ad esempio, qui a Milano, quando Mozart diresse il suo Mitridate, o Lucio Silla, aveva circa sedici prime file e sedici seconde file. Non era una grande orchestra romantica? Poi, in questa grande orchestra, la mia esperienza di lavoro con strumenti e repertori più antichi mi diventa di grandissimo aiuto, perché conosco più a fondo il “blend”, l’impasto del suono, e posso provare a ricostruirlo nell’orchestra moderna.
Chiarezza e distinzione delle voci... questo tipo di lavoro?
Esatto, un lavoro sull’intonazione, sull’uso del vibrato in diversi passaggi di una partitura, sugli archi e sui fiati.
E come rispondono i musicisti del Concertgebouw a questo lavoro di finezza? Come viene recepita dagli orchestrali questa sua esperienza di “barocchista". Si adeguano di buon grado?
Sono strumentista io stesso, ho suonato e suono tuttora il violoncello, e non faccio differenza fra strumenti antichi o moderni. Per me è lo stesso, per un musicista è lo stesso. Uso la mia personale esperienza sugli strumenti anche antichi per trasmettere un certo tipo di articolazione del suono, della frase. E scopro che, ogni volta, quanto migliore è l’orchestra tanto più interessata è a questo tipo di lavoro. Diventa anche per loro più interessante questa ricerca di una definizione più precisa, di una stilistica certezza. Se l’orchestra è mediocre non capisce e vuole suonare a modo suo. Ma con le orchestre di prim’ordine non ho mai avuto problemi in questo senso.
Con quali Orchestre lavora stabilmente in questo modo?
Non più di tre o quattro, il Concertgebouw, i Wiener Philharmoniker, l’Opera di Zurigo. Non intendo lavorare con altre Orchestre. La continuità è fondamentale. Ad esempio con il Concertgebouw ho due-tre periodi all’anno fissi. Ciò significa che loro conoscono il mio approccio.
Risultato?
Ora ho bisogno di metà delle prove rispetto all’inizio, quattro o cinque anni fa. Ora sanno già che cosa voglio e la risposta è immediata.
Quando ha sentito questo “bisogno” di Mozart? Lei sa che la sua immagine pubblica è più “antica".
E' buffo, tutti ritengono che io sia partito dalla musica medioevale, e poi sia arrivato a Bach e a Mozart. Invece ho cominciato con Beethoven e Schubert; musica da camera. Poi sono entrato in orchestra dove ho suonato, per sedici anni, tutto il repertorio. Contemporaneamente lavoravo con il Concentus Musicus ed effettivamente cominciammo ad eseguire musica medioevale, del Duecento e del Trecento. Ma contemporaneamente suonavamo Haydn e Mozart, sebbene raramente in concerto, dove invece privilegiavamo Vivaldi, Bach, Telemann e molta musica del sedicesimo secolo. Ma personalmente non ho mai abbandonato Mozart, Haydn, Schubert e Johann Strauss. Il mio scopo fin dall’inizio era poter arrivare alla direzione d’orchestra quando ogni cosa nel mio cervello fosse bene a posto. E venne il momento in cui decisi che non avrei più sopportato di suonare alcuna Sinfonia in fa maggiore sotto la direzione di altri, e lasciai l’orchestra, nel 1969. Allora mi chiedevano di dirigere Monteverdi, poi mi chiesero di continuare con le opere di Mozart, e diverse Orchestre mi offrirono di proseguire con le sinfonie. Si è discusso a lungo, si è messo a fuoco, e ora cominciamo con Schubert, ma abbiamo già eseguito molto Johann Strauss.
Perché scelse Idomeneo come prima opera di Mozart?
E’ stata una questione di stile. A mio avviso Idomeneo è la mia prima opera in cui Mozart abbia sviluppato interamente il suo vocabolario, dove sia già maestro di tutte le possibilità espressive e drammatiche. Molto del “plot” francese non è ben reso nel libretto Italiano di Varesco, ma credo fermamente che Mozart abbia poi sviluppato, nelle opere successive, singole possibilità la cui origine è in Idomeneo. Nelle Nozze, nel Flauto, nel Ratto, ci sono come diversi “spotlight” su un aspetto specifico già presente in Idomeneo, su possibilità musicali già applicate e sviluppate in Idomeneo. Idomeneo è tutto. Amo molto quest’opera, anche di più dopo ogni nuova esecuzione.
E quale sarà la prossima?
Circa due mesi fa ho eseguito il Ratto, a Zurigo e l’anno prossimo sarà la volta di Così fan tutte.
Nel frattempo è ancora in corso la gigantesca integrale delle Cantate di Bach per la Telefunken, quando ne vedrete la fine?
Ultimamente abbiamo registrato dalla 161 in poi. Penso che fra tre-quattro anni saranno concluse anche quelle.
Quanto tempo hanno richiesto?
Ah, una vita. Quando cominciammo eravamo giovani, ma sapevamo che saremmo invecchiati con loro. Siamo molto attenti e scrupolosi nella preparazione. Su ciascuna ci soffermiamo a lungo per studiarne i problemi di strumentazione e di vocalità, l’esatto spirito.
Ritornerebbe su qualcuna?
Difficile rispondere, perché ascolto raramente le mie registrazioni. Guar- (.?.) anno, non mi volto indietro. Se riascoltassi le Cantate, specie le prime incise, sono certo che le troverei diverse... Difficile rispondere, siamo cambiati noi.
E il suo Monteverdi?
Cambierebbe qualcosa nel suo Monteverdi?
Lo farei tutto assolutamente diverso. Non perché penso che non sia buono quello di allora, ma perché l'esecuzione di ogni opera di Monteverdi vale un giorno. La mia versione era adatta a Zurigo, a Milano, a quel cast; se la rifacessi, e forse la rifarò, la cambierei dall’inizio alla fine. Non perché la rinneghi, ma perché è un “Continuo” costretto a suonare le stesse note ogni sera: bisogna improvvisare ogni volta, in modo da renderlo diverso sotto le voci. Nelle opere di Monteverdi c'è sempre da creare il rapporto fra le parti vocali e la linea di base; tutto deve essere fresco. Monteverdi è sempre un problema di interpretazione aperto. Niente è fisso e definito una volta per tutte.
E' sempre d'accordo con l'uso dei controtenori nelle parti per castrato?
Non sempre. Talvolta il controtenore non lo uso; nelle nostre produzioni di Mitridate e Lucio Silla il castrato è cantato da donne. Ma ci sono controtenori che hanno una voce più mascolina, che si adatta meglio al personaggio, allora preferisco gli uomini. E' una questione anche di puro gusto. Gli inglesi hanno sempre avuto il controtenore nella loro tradizione e l'accettano. In Austria invece ci sono molte resistenze, perché la tradizione di canto è quella Italiana, ci sono cantanti italiani; il controtenore non è amato. Ma, ad esempio, in Tirolo, quelli che cantano lo yodl sono controtenori e sono mascolini. Non ho un’opinione definitiva a proposito, sono un pragmatico.
Lei ha conosciuto e lavorato con Cathy Berberian.
Oh sì, ne ho un ricordo indelebile. Abbiamo fatto molti concerti insieme, a Vienna fino in Svezia; è stata Ottavia nella nostra produzione dell’Incoronazione di Poppea e la Messaggera nell’Orfeo. Ricordo una collaborazione meravigliosa. Era un portentoso mélange di intelligenza e di ispirazione, poteva fare letteralmente tutto con la voce.
Un’altra domanda d'obbligo: lei è un po’ considerato il padre della filologia, ma oggi come si sente rispetto alle nuove generazioni di "filologi"?
Ah, non capisco proprio perché lo fanno. Ci sono molti strumentisti che suonano benissimo, anche miei allievi, ma non capisco proprio la ragione per cui suonare uno strumento antico nelle Sinfonie di Mozart. Ripetere Mozart e Haydn con lo stesso numero di strumentisti che l’eseguivano allora è ridicolo, perché non capiscono che l’acustica è diversa. Io uso strumenti antichi quando posso rendere una musica più viva, più parlante, farle dire più cose. So che non faccio musica come se suonassimo nel XVIII secolo, perché sono un musicista che lavora nel 1985. Chi usa strumenti del 1720 produce sempre un suono moderno, perché non abbiamo maestri del XVIII secolo a insegnarci. I musicologi che credono si possa ripetere le esecuzioni di allora esattamente com’erano, sono pazzi. Non è né possibile né interessante. Ciò che interessa è fare musica oggi, e se si può fare realmente “meglio” con gli strumenti antichi allora lo si fa, altrimenti è inutile.
Basta non pretendere che sia la verità, ma solo un tentativo per penetrare più a fondo nella storia.
Questo viaggio io l’ho già fatto, e non mi interessa più. Ma ci tengo a dire che è anche un viaggio impossibile. E comunque è interessante farlo in privato, a casa propria. E' una ricerca, non un modo di eseguire. Non si può dire al pubblico: ascoltate, questa è un’esecuzione come quella che Mozart fece nel 1781. Non è un concerto, ma una conferenza. Intendiamoci, come musicista sono e devo essere interessato a sapere tutto quanto è possibile sulla musica al momento in cui nacque. Ma questo sapere non ha valore per se stesso. Né sono interessato a produrre in pubblico questa mia forma di conoscenza, da museo. Voglio dimenticare tutto quel che so al momento in cui eseguo. Non eseguirei
mai musica in un modo in cui non fosse valido per ogni tempo, così come non eseguirei mai lavori “storici” che ritengo non avere qualità eterna.
Ad esempio?
Gluck, non eseguirei mai un’opera di Gluck perché è “storica”, non ha un valore musicale assoluto per me. In ogni mio programma l’ascoltatore deve capire immediatamente da come eseguo che ogni pezzo lo amo e in ogni pezzo io credo.
Dunque non ascolteremo mai un Orfeo ed Euridice diretto da Nikolaus Harnoncourt?
Mai, me lo chiedono spesso, ma non lo farò a nessuna condizione. Rameau sì, sempre, perché è musica ispirata, ben scritta. Di Gluck non amo l’approccio drammatico ma soprattutto è un compositore che non ebbe la fortuna di essere baciato dalla Musa.
E quali altri compositori lei non ama assolutamente?
Gluck è il nonno: tutti i suoi discendenti.
Cioé?
Berlioz ad esempio, musica inascoltabile, e Strauss, e Wagner, che peraltro stimo come un grande genio teatrale, ma non amo la sua musica.
E invece lei ama?
Sono un uomo del sud e amo l’estro. Offenbach, ad esempio, non sono abbastanza francese per dirigerlo, però lui sì aveva estro. Ma Johann Strauss sì, lo amo e lo eseguo; ho diretto Fledermaus. C’è molta più invenzione in lui che in Berlioz.
Carlo M. Cella
("Musica Viva", n. 5, maggio 1985)

sabato, maggio 02, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (8/14)

Die Sonne tönt, nach alter Weise,
in Brudersphären Wettgesang...
 
Il sole suona, all'antica maniera,
nel canto a gara di sfere sorelle...
Johann Wolfgang GOETHE, Faust
 
BELLEZZA E SPAZIALITA' DELLA MUSICA
Ottava parte.
 
Faggeta
Essenziale alla filosofia non è soltanto la sostanza concettuale delle cose e del loro confluire nel mondo; è anche la cadenza con cui quelle sostanze sono pre-pensate. Abbiamo visto come nel pensiero di Kant ciò che distingue soprattutto la cosmologia di quel filosofo da quella tradizionale sia il concetto spazio-temporale: spazio e tempo come realtà trascendentali e a priori, concepibili persino come vuoti contenitori universali da riempire di cose e di eventi. La più drastica alternativa a tale immagine mentale è la filosofia cristiana del medioevo maturo, a partire dalla fase tarda del rinascimento carolingio. Le tendenze della Scolastica in campo cosmologico hanno in comune, nella loro diversità anche aspra, il presupposto che lo spazio esista soltanto a posteriori, non "dopo" gli enti estesi ma "poiché" tali enti esistono, che il tempo esista solo "poiché" esistono eventi con moti e successioni misurabili.
La teoresi filosofica, i cui enunciati possiedono una possibilità ab aeterno e non dipendono da occasioni storiche, obbliga al rigore della logica e non ammette casualità. Ma le apparizioni de facto di tale teoresi lungo l'orizzonte storico ci abitua (si direbbe, per contrappeso) ai casi e ai paradossi. Non ci si stupisca se le teorie cosmologiche oggi più ardite e innovatrici si adattano piuttosto ai presupposti della Scolastica che non a quelli kantiani. Le ipotesi sulla nascita e sull'espansione dell'universo, nate da premesse einsteiniane, teorizzate ambiziosamente da Ralph Alpher, Hans Albrecht Bethe e George Gamow (la cosiddetta "teoria alfa-beta-gamma") e oggi criticamente sviluppate da Stephen Hawking, presentano il big bang come una "singolarità" assoluta sull'orizzonte degli eventi: al di fuori di quell'orizzonte non esistono né spazio né tempo, e essi "cominciano ad esistere" (più correttamente, "esistono" tout court) soltanto "entro" quell'orizzonte, ossia in coincidenza con la variazione decisiva da un universo di temperatura e densità infinite e di dimensioni zero (inconcepibile, non visualizzabile, e d'altra parte neppure identificabile con il "nulla", poiché il nulla non ha né densità né temperatura) a un universo in espansione incipiente, di densità e temperatura in progressiva diminuzione (Hawking suppone che un secondo dopo il big bang la temperatura dell'universo sia già scesa a "soli" 10 miliardi di gradi centigradi) e di dimensioni crescenti in proporzione inversa. I black holes (buchi neri) presenterebbero, come mostruose anomalie, le identiche condizioni di ciò che "era" (si può usare davvero il tempo passato nell'uso linguistico) l'universo "prirna" del big bang (ma non si può dire "prima", non esistendo il tempo al di fuori dell'universo dalle dimensioni diverse da zero). Questo urtare disperato della ragione contro i concetti incrociati di spazio, tempo, essere, e nulla è, nella collocazione del problema, praticamente identico al modo in cui lo stesso problema è posto da Tommaso d'Aquino nella Summa contra gentiles, libro III, capitoli 1-38: il mondo non può essere stato creato "nel" tempo, in un "quando", "prima" di qualcosa, poiché il tempo incomincia ad esistere "con" il mondo, e da quell'esistenza ha avvio il prima e il poi. La creazione (il big bang?), ossia il rapporto ontologico di dipendenza tra Dio e il mondo, va intesa come aggancio metafisico, non come novità cronologicamente individuabile, poiché in Dio non possono esistere novità né variazioni né capricci. La creazione è ab aeterno, in quanto, essendo Dio necessario, anche il suo rapporto con il mondo è necessario. Al di fuori delle cose create, né spazio né tempo sussistono. Nel momento stesso in cui vogliamo salvare la purezza scientifica del problema cosmologico, fondiamo il diritto d'intervento della filosofia. Le conclusioni cui giungono oggi i cosmologi si appellano esclusivamente a ipotesi matematicamente fondate e a osservazioni sperimentali (lo spostamento verso il rosso dello spettro stellare, la velocità di allontanamento reciproco delle galassie, l'esistenza dei buchi neri), e dinanzi alla "singolarità" del big bang o a quella inversa e ipotizzata del futuro big crunch (la grande contrazione che riporterebbe l'universo a dimensioni zero e a densità e temperatura infinite, ossia la fine del tempo e dello spazio) nessuno scienziato degno di questo nome deve domandarsi: "Perché?". La questione diverebbe immediatamente ontologica, e anzi l'ipotesi del big bang e dell'inverso big crunch è l'esatto confine tra l'ordine scientifico e l'ordine ontologico dei problemi. La filosofia ha il diritto di meditare su qualsiasi oggetto, ma ha il dovere di attenersi a un solo metodo, il proprio ed esclusivo. Al di là di questo limite, si dicono colossali sciocchezze. La terrificante parabola che parte da un mistero che è quasi nulla ma non è nulla, ed è comunque al limite del nulla, procede verso l'espansione di uno spazio inconcepibile, si arresta, retrocede verso una non meno inconcepibile contrazione, ritorna al misterioso quasi nulla, ossia, in due parole, dal big bang al big crunch, potrebbe essere vista, senza offendere l'intelligenza di nessuno, come la mano di Dio che, nell'arco di 20 o 30 miliardi di anni, si apre lentamente e lentamente si chiude a pugno. Ma è chiaro che ciò è soltanto una metafora, o un sogno, di cui lo stesso Dio potrebbe sorridere.
Questo è il punto preciso in cui s'innesta il nostro tema specifico. In una concezione secondo cui al di fuori di spazio e tempo non esiste nulla, neppure (per rendere omaggio alla rivoluzione copernicana di Kant) entro le possibilità della nostra ragione, dov'è la musica? Esiste, si pensa, una realtà potenziale della musica indipendente dall'esistenza del genere umano, indipendente dalla storia e della civiltà, poiché i rapporti logici su cui la musica si fonda sarebbero pur sempre in atto, né siamo noi uomini "storici" a determinarli. Ma al di fuori del mondo come realtà ontologica? Al di fuori dell'orizzonte degli eventi? Una risposta audacissima è offerta dalla tradizione ellenica, e precisamene da Platone; ne parleremo ampiamente. Platone ci abbaglia con la realtà di una musica universale ed eterna indipendente dall'esistenza dello spazio-tempo; ciò è possibile esclusivamente perché il filosofo ateniese esclude il problema della creazione, e comunque di un inizio del mondo, di qualcosa che, sia pure in termini molto diversi, potrebbe coincidere con il big bang. Certo, Platone affronta il problema con temerità vittoriosa. La filosofia cristiana medievale, in particolare la Scolastica, elude la questione, ed eludendola dà implicitamente una risposta negativa: no, la musica esiste soltanto se esiste lo spazio, e anch'essa è creata. Questa è la differenza radicale tra la fase precristiana e la fase cristiana più matura di una tradizione sostanzialmente unitaria e ininterrotta, posta in crisi soltanto dal pensiero moderno a partire dall'età rinascimentale. Prima di scendere ad alcuni esempi, diremo che la meditazione sulla natura ontologica della musica sviluppata dalle filosofie della Scolastica si riassume in una formula: nello spazio creato, la musica compendia e rappresenta nella forma più nobile e splendente la bellezza, che di quello spazio è uno dei connotati salienti, insieme con la verità, con la bontà e con l'unità connaturata.
E' stato soprattutto Edouard De Bruyne (Etudès d'esthétique médiévale, De Tempel, Bruges 1946, vol. II, pp. 273 ss.) colui che ha dato un ordine alla selva di tendenze e di enunciati dispersi sull'argomento dai filosofi medievali. Naturalmente, l'ordine sistematico dato da De Bruyne è, proprio in quanto sistematico, soggettivo, e lo dobbiamo verificare richiamandoci alla lettura diretta degli autori in cui egli con immensa dottrina s'immerge. I maestri di Chartres vedono il mondo come kosmos, ossia come ordine e bellezza, ordo exornatus, in contrapposizione a un caos primigenio, quale il mondo sarebbe se si riducesse a pura materia, non avendo la materia "prima", ossia non connotata da qualità alcuna, forma, per cui, a maggior ragione, sarebbe priva di qualsiasi bellezza. La bellezza deriva dal principio ideale, dalla presenza di idee nella materia, e d'altra parte le idee non sarebbero "bellezza" se non s'incarnassero nella materia che cade sotto i nostri sensi. Ciò deriva dal presupposto cristiano secondo cui soltanto il mondo materiale è soggetto a giudizio estetico, oltre che a giudizio etico e logico. Il mondo spirituale tollera soltanto queste ultime due specie di giudizio, come vuole la concezione cristiana della Scolastica. Si giunge così all'inaccettabile ma interessante e persino feconda conseguenza: le arti, compresa la musica, hanno un senso unicamente attraverso la materia, in ossequio alla bella formula di Suger de Saint-Denis: "Mens hebes ad verum per materialia surgit ". Notiamo, per inciso, smentendo parzialmente (ma non sostanzialmente) una nostra precedente osservazione, che su questo punto la concezione cosmologica della Scolastica è opposta a quella dei cosmologi oggi all'avanguardia: per alcuni di essi (Stephen Hawking, i suoi discepoli Julian Luttrel e Jonathan Halliwell), la nascita e l'espansione dell'universo dopo il big bang è il passaggio progressivo dall'ordine al disordine, ossia alla dispersione di energia prima concentrata, per cui, paradossalmente, la stessa musica sarebbe disordine, mentre l'ordine coinciderebbe con il silenzio. Nelle filosofie cristiane medievali, il transito dal nulla all'essere del mondo è, in quanto essere, ordine e quindi bellezza, kosmos.
I maestri di Chartres spiegano la fine dell'exornatio come l'imprimersi di idee divine sulla materia. Questa "impronta divina", tema ricorrente nell'estetica medievale in Occidente, spicca già mille anni prima nell'opera di Filone d'Alessandria. Essa è l'ornamento del mondo, e come tale non rimane un accidens, quell'ornamento che nella concezione artistica di Adolf Loos sarà definito "crimine". E' necessaria. La necessità della bellezza è un punto di forza dell'estetica medievale cristiana, e riscatta molti punti deboli. Uno studioso inglese di semantica, Angus Fletcher, ha sottolineato un altro tema ricorrente nell'estetica medievale. L'indagine è sviluppata nel bellissimo saggio Allegory: The Theory of a Symbolic Mode, Cornell University Press, Ithaca 1964. Del libro esiste una traduzione, oggi quasi introvabile, di Roberta Rambelli (Allegoria; teoria di un modo simbolico, Lerici, Roma 1968; in particolare, le pp. 116-120). Fletcher pone in rilievo il fatto che l'exornatio derivi da un ordine gerarchico, il cui segno più rappresentativo è l'armonia musicale. Un'armonia fondata su precise gerarchie di suoni è, com'è noto, il carattere primario della concezione armonica medievale, destinato a indebolirsi progressivamente e infine radicalmente nelle concezioni moderne del linguaggio musicale, fino alla Wiener Schule. Alla visione gerarchica è legato il sistema dei modi medievali e il concetto di consonanza che gli si affianca.
Su questa base concettuale si delineano due idee importanti, la cui esposizione documentata si trova, ancora una volta, in De Bruyne. La prima idea: l'armonia musicale distingue il caos connesso con la pura materia in forme definite. Ciò è all'origine dell'estetica musicale di Bernardo Silvestre e di Alano di Lilla. Bernard de Tours o Bernardus Sylvestris, vissuto nel secolo XII, era amico di Thierry di Chartres, fratello minore del più celebre Bernardo di Chartres, l'uomo dal luminoso aforisma: "Noi siamo nani sulle spalle di giganti". Proprio a Bernardo di Chartres fu per lungo tempo falsamente attribuito il trattato De mundi universitate, che è invece di Bernardo di Tours o Silvestre. L'opera, in prosa e in versi intercalati, nel I libro presenta la natura che lacrimante si rivolge a Noys (= Nous, l'illustre termine della filosofia presocratica e platonica interpretato cristianamente come "divina provvidenza") lamentandosi del caos confuso e indecifrabile in cui si contorce la materia prima (l'aristotelica prote hyle, ma hyle significa anche sylva, la "selva" dantesca, da cui l'appellativo di "Sylvestris" dato a Bernardo di Tours). La natura supplica Noys di introdurre nel mondo l'ordine, la bellezza e i significati, e le suggerisce, come strumento primario, l'armonia musicale. Dal De mundi universitate deriva quasi certamente l'estetica musicale di Alano di Lilla (Alain de Lille, Alanus ab Insulis), nato a Lille tra il 1114 e il 1128, morto a Citeaux il 12 luglio 1202. Alano, forse allievo di Bernardo di Clairvaux, ultima guida di Dante nel Paradiso, e di Thierry di Chartres, fu magister e infine rettore dell'Università di Parigi, ed espose le proprie idee, quasi esattamente conformi a quelle di Bernardo Silvestre, nell'Anticlaudianus sive de officiis viri in omnibus virtutibus perfecti carmen hexametrum libri IX (Basilea 1536, prima edizione a stampa). La musica è argomento dei libri III, cap. 5, e VII, cap. 2 e 6. La seconda idea fondamentale sottolineata da De Bruyne è formulata, fra gli altri, da Guillaume de Conches: ogni forma impressa da Dio nella materia pone l'essere creato in condizione di essere uguale a se stesso. Questa convinzione esercita una forte influenza sull'idea di un significato assoluto di ciascun suono musicale, irripetibile e non trasponibile, sui significati attribuiti ai suoni entro i diversi modi autentici o plagali e sul sistema modale nel suo insieme. Com'è noto il temperatum aequabile e la nascita del sistema tonale indeboliscono molto questa concezione di assolutezza.
Tuttavia, l'estetica medievale presenta proprio in tema di exornatio una drammatica ambivalenza. Fortissima è dopo il X secolo la polemica della Chiesa contro l'ornamento rappresentato dall'arte, inutile lusso del mondo. "Noi che abbiamo detto addio alle cose mondane", scrive Bernardo di Clairvaux nell'Apologia ad Guillelmum, "guardiamo alle dolcezze della musica come a sterco". Agghiacciante enunciato, che tra l'altro, nel momento stesso in cui lascia indifferente ogni spirito irreligioso e non cristiano, manda in frantumi l'essenza della preghiera e del rito ecclesiastico. Chiunque abbia letto Dante ricorda con simpatia la squisita figura di Bernardo, ma simili dichiarazioni rappresentano, per noi che scriviamo, un sintomo di ciò che più odiamo sulla terra: il rigorismo, lo spirito di rinuncia, il moralismo, il pauperismo dello spirito, il populismo intellettuale, l'integralismo religioso, insomma, il cristianesimo cattivo e odioso, quello di Paolo di Tarso, fustigatore e sessuofobo, in contrapposizione al critianesimo sublime, quello di Francesco d'Assisi, mai sessuofobo, mai censuratore della bellezza, pieno d'appassionato amore per la materia.
A conforto dello studioso, e a nostro sconforto, osserviamo che questo atteggiamento savonaroliano e khomeinista è, nella cultura medioevale, asistematico (allora si diceva: "eretico"). Anzi, nel cristianesimo di quei secoli era tendenziale il valutare come eresia il pauperismo, talora anche a sproposito; affermiamo recisamente che lo spirito francescano non è pauperista, poiché non reca tracce di populismo o di spirito autofustigatorio. Quindi, è un atteggiamento deviante e minoritario. Nel cristianesimo integralista di oggi, esso è maggioritario, per non dire della spaventosa ignoranza vuoi filosofica vuoi artistica vuoi universale che domina la cultura cattolica odierna (in Italia in misura più accentuata), in contrasto con lo splendore culturale del pensiero cristiano e della Chiesa cattolica nel medioevo. Segno tangibile di tale diversità è la musica ripugnante, viscida, da festival di San Remo in versione particolarmente triviale, che si ascolta oggi nelle chiese cattoliche (ne è radice l'odio sfrenato per la bellezza, per la nobiltà e per i pregi intellettuali), raffrontata con l'altissima tradizione musicale di cui, grazie al lascito cristiano medievale, siamo eredi.
Perciò, non è strano che contro il disprezzo per l'exornatio abbia condotto una vittoriosa battaglia il maggiore fra i filosofi del medioevo cristiano, il più sistematico ed enciclopedico: Tommaso d'Aquino. La speculazione tomistica in campo estetico si fonda sull'idea di proportio, legata all'assioma secondo cui il bello è trascendentale: ogni cosa è proporzionata per il fatto che è. La proportio ideale, matematica, s'incarna nella proportio sensibile, che Tommaso modella con decisione sulla sua forma più tipica ed eloquente, la proportio musicale. Una lunga controversia, destinata a rinascere, è intorno al 1270 decisa con provvisorio trionfo dal celebre passo: "Homo delectatur secundum alios sensus... propter convenientiam sensibilium... sicut cul delectatur homo in sono bene harmonizato". (Summa theologica, Secunda secundae, 141, 4 ad 3)
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 8/9, Agosto/Settembre 1990, Anno XIV)