Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 26, 2011

Dino Buzzati e Luciano Chailly

Ieri sera a Palermo la prima di "procedura penale" , "il mantello" e "era proibito" atti unici su libretto dello scrittore e musica di Chailly. nel passato applausi (e anche fischi) ai due autori a teatro con Buzzati: che attore quel cane! Buzzati e il teatro: il successo di "un caso clinico" adattato da Camus per la scena parigina e il fiasco di "ferrovia sopraelevata" col cagnolino che parlava tra le nubi...

Al teatro Massimo di Palermo si e' tenuta ieri sera la prima rappresentazione di tre atti unici di Dino Buzzati, messi in musica da Luciano Chailly: si tratta di "Procedura penale", "Il mantello", "Era proibito" scritti tra il 1959 e il 1963. Direttore è Karl Martin, regista Filippo Crivelli; le scene e i costumi sono di Buzzati stesso e di Maria Pezzi. Buzzati aveva sempre covato una grande passione teatrale. Diceva: "Per me la massima prova letteraria è il teatro. Perchè in teatro molti, non dico espedienti, ma mezzi letterari, non sono concessi. La descrizione non è concessa. Certo uno la può usare ma solo per un breve momento; guai a insistere. Niente considerazioni, niente divagazioni. Tutto va esemplificato ed espresso in azione. Gli stessi dialoghi devono costituire un'azione. Altra difficoltà: in un romanzo lo scrittore può concedersi dei momenti di debolezza o dei momenti di noia. In molti romanzi c'è il capitolo dove la tensione narrativa cala. In teatro questo non è possibile. Perche' immediatamente la noia penetra nella sala e manda in aria tutto quanto...". Il teatro, dunque, era la sua passione segreta. E prima di prendere con esso familiarità e assaporarne il profumo (scrisse in tutto 25 opere teatrali), ne aveva lambito le sponde. Appena entrato in via Solferino, Buzzati fu messo in archivio. Quando lo chiamavano rispondeva "Comandi", come i militari. Dall'archivio passò alla cronaca. Cominciò come reporter, scrupoloso, limpido, cronista di fatti. Gli era stato affidato l'incarico di seguire gli spettacoli della "Scala". Montanelli ricorda: "Buzzati non aveva capito certe cose. Al "Corriere della Sera", a quei tempi c'era un direttore amministrativo che si chiamava Balzan, un grosso uomo, che come tutti i grossi uomini, aveva qualche debolezza. La debolezza di Balzan erano "i spinazzitt" le ballerinette della Scala. Non era una debolezza estetica, ma una debolezza d'altro tipo. E lo sapevano tutti al "Corriere" meno che Buzzati. Così un giorno gli dissero: "Guarda un po', in queste critiche metti qualche aggettivo per questi "spinazzitt", è meglio, credi a me, è meglio...". E Buzzati allora mise qualcosa sugli "spinazzitt" dicendo che erano delle somare, che non sapevano ballare, e soprattuttto una certa... Era proprio la preferita da Balzan". Gli fu proibito di occuparsi della "Scala". Ma il primo contatto di Buzzati con il teatro, in quanto autore, fu nel 1942, con l'atto unico "Piccola passeggiata", dato al Teatro Nuovo con la regia di Enrico Fulchignoni e tradotto poi in francese da Yves Panafieu. Poi nel 1946, "La rivolta contro i poveri", con la regia di Strehler e con un cast di interpreti di fama: Mario Feliciani, Isabella Riva, Tina Perna, Franco Parenti, Ernesto Calindri, Lilla Brignone e Tino Carraro. Lo spettacolo era nato da un'idea di Maner Lualdi, il fervido aviatore scrittore e regista che pensò di far "volare" sul palcoscenico dell'Excelsior un gruppetto di autori: con Buzzati, Longanesi, Montanelli, Mosca, Soldati, Marotta, Vergani, Campanile. Il pubblico era invitato a esprimere il proprio giudizio anche con un voto su una scheda da deporre in un'urna nel foyer del teatro. La geniale trovata piacque al pubblico al punto che Maner, molti anni dopo, ne replicò l'esperimento con il "Teatro delle 15 novità" e la sera del 25 ottobre del 1955 le prime tre commedie, battezzate con applausi e schede di voto furono: "L'ispezione" di Vergani, "Drammatica fine di un noto musicista" di Buzzati e "Resistè" di Montanelli. Allora direttore del "Corriere" era Mario Missiroli. In nove anni di permanenza a Milano credo che sia stata quella l'unica volta in cui mise piede in un teatro di prosa per assistere a una "prima". Ma si trattava di onorare tre grandi firme del suo "Corriere". Seduto in poltrona, ascoltando i tre atti, ogni tanto il vecchio direttore si accostava al mio orecchio e con voce ancora più flebile di quella solita, mormorava: "Ma sono bravi!". Si sa, si meravigliava di tutto: o faceva finta. Ma fra il debutto del 1946 e la vittoriosa votazione del 1955, ci fu il successo, ben piu' sostanzioso di "Un caso clinico", due tempi e tredici quadri rappresentata al "Piccolo Teatro" di Milano in prima assoluta, il 14 maggio del 1953, regista Giorgio Strehler, con musiche di Fiorenzo Carpi. Era la prima prova teatrale veramente importante di Buzzati. La critica fu unanime nel giudicarla un'opera teatralmente e poeticamente valida. La trama, ormai tutti la ricordano, era tratta dal racconto "Sette piani": quanto più l'ammalato è grave, tanto più scende nel corpo del tetro ospedale, fino al primo piano, le cui finestre sono sempre chiuse e a guardarle da lassù, dagli ultimi piani dove la speranza è ancora viva, danno un brivido. Gli attori erano tra i più famosi: Tino Carraro, Alberto Lupo, Romolo Valli, Ferruccio De Ceresa, Ottavio Fanfani, e le attrici tra le più celebri: Adriana Asti, Mila Vannucci, Elsa Albani. Uno spettacolo prestigioso, atteso nel mondo dei letterati. Ma l'attesa più sofferta fu certamente quella di Buzzati, tormentato dal timore di una fredda accoglienza da parte del pubblico. Tutto il primo tempo lo passammo girando per le vie nei pressi del teatro. Dino prese un caffè al bar dell'angolo di via Meravigli e fumò una Nazionale, tirando, più che fumando, boccate ch'erano sospiri di ansia. Lo lasciai per un momento per sentire com'era andato il primo tempo. Grande successo. Dino, rassicurato, prese fiato. Non lugubre, come si temeva, ma struggente, il "Caso clinico" arrivò alla fine fra la grande commozione del pubblico. Camilla Cederna, in una delle sue belle note di costume, scrisse: "A che piano sei?" dicono ora quelli che s'incontrano per la strada, invece di "Come stai?" alludendo al dramma di Buzzati". Il "Caso clinico" fu tradotto e rappresentato nei maggiori teatri del mondo. In Francia, andò in scena al "Thèatre La Brugère", nell' adattamento di Albert Camus, che scrisse, per l'occasione, una lunga lettera affettuosa ed elogiativa all'autore. "Non pensate che il mio nome sia decisivo per il successo, scriveva Camus, io amo la vostra commedia perchè è forte, senza concessioni, e dolorosa. Ma, a mio parere, ha poche speranze di un grande successo di pubblico, qui da noi. La sua verità apparirà insostenibile alla nostra frivola Parigi. Ma è per me un onore starvi a fianco in questa difficile battaglia e aiutarvi per quel che posso...". C'è una pagina di diario di Buzzati, scritta proprio la notte stessa dopo la prima, il 12 marzo 1955, che esprime in maniera straordinariamente toccante lo stato d'animo dell'autore. E' come si è detto una pagina di diario, ma che si chiude con quella che era la fantasia ossessiva per Buzzati, anche nel momento del successo: la fantasia della morte che cancella tutto: "12 marzo 1955. Alzato tardi a colazione da Brion, poi da Laffont a Neuilly, poi accompagnato in Citroen 2 cil. da letterata all'albergo Caire 4 boulevard Raspail, cambiato tutta velocità, cocktail all'Union interallie' e dove mucchio gente poi a teatro con Ludmilla Vlasto (proprietaria del teatro) Maria partita (Maria Pezzi) dove venuto ambasciatore, poi pranzo alla Cotolette con Sansa, Doris Cerea, Parise e coniugi Volta e Ludmilla, poi alla Brasserie Lipp. Adesso mugolio lento e profondo nella notte, un sogno forse, tutta una strana cosa, ricordati, ricordati perchè queste cose un giorno le cercherai, stupidamente magari, seduto su una pietra, vecchio, in fondo ad un sentiero che mena alle grandi pareti, ma tu sarai stanco e intorno ci sarà silenzio, un uccello qua e là forse, tac tac, le prime goccie di una pioggia (e intanto il mondo rotolerà digrigrando i denti con un rumore che si sente appena, un'eco lontanissima, il rombo delle vite nuove che dialogano e tu? e tu? Così solo che cosa puoi piu' fare?)". Questa pagina di diario è raccolta con altri preziosi documenti al "Centro Studi internazionale Dino Buzzati", dell'Università di Feltre, diretto con amorosa intelligenza da Nella Giannetto. Naturalmente Buzzati conobbe anche qualche insuccesso, magari momentaneo, come avvenne per "Ferrovia sopraelevata", un racconto con musica di Luciano Chailly, in sei episodi, favola poetica scritta in versi che per metà appartiene al teatro e per metà alla narrativa: anzi a tutte e due le cose insieme. Assistendo alla prima a Bergamo, per un momento ebbi paura che si ripetesse il putiferio che concludeva un tempo le serate futuriste. Non successe proprio così, ma qualcosa di molto simile. Il mio ricordo trova riscontro in qualche giudizio feroce della critica di allora. Tra i benevoli Teodoro Celli, che sintetizza così la serata: "E' apparsa una stupidaggine da riderci su. E il pubblico ha riso... Alla fine un tizio con due ali di cartone viene dal Paradiso, cioè dalla quinta di destra, per condurre seco il cagnolino e una donna, Laura, già virtuosa, poi peccatrice e ora redenta. Cose che, a non incantarcisi, fanno rizzare i capelli sulla testa dal ridere. Mentre dai settori sopraelevati del teatro scendevano applausi, alla maggioranza dei presenti si rizzavano effettivamente i capelli dal ridere". Ma a differenza delle serate futuriste in cui il pubblico esplodeva in pittoresche e bene azzeccate contumelie, a Bergamo ci furono solo coloritissime espressioni di dissenso, alcune frasettine pungenti, versi di sorprendente umorismo, di parole varie in libertà, e di alcuni fischi. Ma eravamo in una città tradizionalmente signorile dove contava il rispetto dei nomi: Buzzati e Chailly, e la presenza in sala del maestro Gavazzeni, avallo di arte e di genialità. Nonostante le disapprovazioni, un'altra parte del pubblico, in piedi a braccia levate, gridava "Bravo, bravo!". Io ero vicino a Buzzati che aveva lasciato il palco di Chailly per trovarsi in palcoscenico prima della fine, tutti e due nascosti, quasi invisibili, tra le grosse e pesanti pieghe del sipario. Dino era stato avvisato di tenersi pronto a uscire quando sarebbe stato preso per mano dagli attori. Appariva stralunato: non riusciva a capire cosa stava accadendo. E' andata bene, è andata male? Ma a questo punto è meglio dare la parola al maestro Chailly, che oltre ad essere un musicista è anche una bella penna: "Alla fine del quinto episodio l'apparizione del cane in scena, un cane vero (che tra l'altro fece benissimo la sua parte), provocò una repentina sfacciata ilarità e qualche contrasto. Si sentì uno che chiaramente disse "L' autore!" ... Ma fu a metà del sesto episodio, quando "l'anima" del cane cominciò a parlare tra le nubi, che esplose dalla galleria una forte reazione, guidata dal capo della "claque". Fu un momento di grande tensione. Dalla platea, per reazione, si cominciò a urlare insulti al loggione e di conseguenza ne nacque una vera gazzarra. La mia preoccupazione principale era che lo spettacolo non arrivasse in fondo. Ciò avrebbe significato inequivocabilmente il fallimento dell'impresa...". Comunque Buzzati fu preso per mano da Alberto Lupo ma, riluttante, non voleva uscire. "Su vai, gli dissi, non fare il fesso". Uscì. Composto, anzi più che composto, rigido e con le braccia stese tenuto per mano da Lupo e Mila Vannucci. Dino appariva come sempre indecifrabile. A lui non importava granchè: gli bastava solo liberarsi delle sue fantasie. Fu un evento teatrale importante: in platea critici di tutta Italia, da Franco Abbiati del "Corriere" a Massimo Mila della "Stampa", a Gara, a Montale; attori, attrici e esponenti delle maggiori case editrici. E come sempre tutti i salmi finiscono in gloria, la serata finì al vecchio "Cappello d'Oro", a pochi metri dal teatro: tutti prendemmo "polenta e osei".

Afeltra Gaetano (Corriere della Sera, 19 marzo 1994)

sabato, febbraio 19, 2011

Bruckner: Sinfonia n.7 in mi maggiore

Nelle grandi controversie estetico-musicali dell'Ottocento, in cui in ultima analisi si trattava di definire che cosa costituisse lo "spirito" della musica, se la forma o il contenuto, se delle qualità puramente compositive o dei "messaggi" rinvianti ad una sfera extramusicale, Anton Bruckner non può essere ricondotto a nessuna posizione estrema. Egli stava per così dire tra i due fronti. Mentre a causa della sua ardente venerazione per Richard Wagner viene facilmente collocato vicino alla "scuola neotedesca", egli ha d'altra parte ben poco in comune con l'idea della musica a programma di un Berlioz o di un Liszt, e non è affatto in così aperta contrapposizione con la concezione brahmsiana della musica sinfonica, come farebbe invece supporre il rapporto personale tra i due maestri, così diversi tra loro. Detto in termini positivi: il sinfonismo di Bruckner costituisce un mondo proprio, con leggi sue proprie. La sua singolare posizione nella storia della musica è dovuta all'interazione, di diversi presupposti. Essi sono sia personali (l'origine di Bruckner dalla musica sacra rimane percepibile anche nelle sue opere per orchestra non solo nella dinamica di tipo organistico e nella "registrazione" strumentale, ma anche in quell'aspetto di sacra solennità che traspare finanche negli "Scherzi") sia storici: c'è la monumentalità sinfonica di Beethoven, che esercitò un profondo e ampio influsso sul pensiero di Bruckner, ma c'è nel contempo anche il procedimento, che rimanda piuttosto a Schubert, di vivificare le grandi forme non tanto secondo il principio dello sviluppo, quanto secondo quello delle superfici sonore, mediante la giustapposizione di singoli complessi strutturali. Infine c'è il modello di Wagner, presente in modo variamente accentuato: nell'armonia fondata su accordi alterati che risale al 'Tristano" nelle ampie linee melodiche e nei grandi crescendi ma soprattutto, nel modo più appariscente, nell'apparato orchestrale.
Bruckner compose la Settima Sinfonia tra il 1881 e il 1883. Il movimento lento è un omaggio particolare al maestro di Bayreuth, morto il 13 febbraio del 1883, e ciò non solo per l'uso delle quattro tube wagneriane, ma anche per il suo carattere di musica funebre di vaste proporzioni. Questo Adagio - uno degli esempi più imponenti e commoventi dell'arte di Bruckner - mostra al tempo stesso un particolare problema che si pone per questo compositore: quello delle differenti versioni. Nel punto di maggiore intensità infatti (battuta 177), quando il lungo crescendo di tutta l'orchestra giunge al suo culmine, Bruckner ha aggiunto sulla partitura già compiuta ancora un accento nella percussione (con piatti e triangolo), che poi ha però di nuovo cancellato con l'annotazione "non valido". Ciò ha dato luogo (da 100 anni ormai) alle più veementi controversie tra gli interpreti, che sono poi state e vengono ancora condotte con fervore ideologico. Questo è però solo il caso più appariscente di una difficoltà di fondo che accompagna nel suo complesso la produzione di Bruckner. Infatti, spesso egli non aveva fin dall'inizio un quadro chiaro della forma definitiva delle sue opere e accettava di buon grado le proposte di musicisti amici, di solito direttori d'orchestra, che volevano aiutare il compositore, per lo più violentemente contestato dal pubblico, a rendere la sua musica il più efficace possibile. Pertanto esistono anche per gli altri movimenti della Settima delle differenze tra la prima edizione a stampa e l'autografo, ed è ben difficile decidere ciò che corrisponde all'ultima, definitiva intenzione di Bruckner.
Comunque sia - la Settima Sinfonia fu la prima ad essere accolta con entusiasmo fin dalla sua prima esecuzione, diretta da Arthur Nikisch (30 dicembre 1884). Il modo in cui il primo tema del primo movimento si leva dal tremolo dei violini e cresce fino a dar vita a una complessa stratificazione di linee ascendenti e discendenti, il modo in cui negli altri due complessi tematici (Bruckner allarga il dualismo classico a un tritematismo) vengono di volta in volta raffigurati nuovi caratteri, che vengono poi combinati assieme nello sviluppo secondo tutte le raffinatezze del contrappunto rigoroso, il modo in cui infine la coda esultante si eleva in un poderoso crescendo di sonorità - tutto ciò mostra la maestria di Bruckner nella sua forma più grandiosa. Il Finale è costruito nello stesso modo, l'invenzione motivica però fa un'impressione più gaia, in un primo momento addirittura ardita. Ma anche qui è presente la tensione architettonica verso l'alto, che si potrebbe forse paragonare con la costruzione di una cattedrale gotica. La monumentalità, la tensione verso le sfere spirituali è evidente persino nello "Scherzo" che con il suo fondamentale impulso vitale e il suo primo tema di fanfara, che ricorda in parte correnti motivi di caccia, fa più di tutti un'impressione "mondana" (l'immagine di una cavalcata selvaggia sorge irresistibile, il che fa pensare involontariamente di nuovo a Wagner). E vengono in mente le parole di Wilhelm Furtwängler: "Per rendere giustizia a Bruckner non si deve vedere in lui solo il musicista, ma bisogna comprenderlo come discendente dei mistici tedeschi".

Volker Scherliess (Traduzione: Adriano Cremonese, note al CD DGG 419 195-2)

sabato, febbraio 12, 2011

Paolo Terni: perchè cantano?

Ascolto per la prima volta il primo quartetto di Alexander Zemlinsky e, pur non conoscendolo, lo «riconosco». Era già lì, da qualche parte, in me. Lo spettro testuale che viene così elaborandosi è affettuosamente accolto - non senza un minimo controllo d'Identità! - nell'alveo della mia personale raccolta musicale, anch'essa - ovviamente - da qualche parte in me...

Questa mia biblioteca interna è comunque vivente, preda di una continua metamorfosi, di un moto perpetuo, ineliminabile come il mio stesso respiro: l'altro ieri, per esempio, studiando con i miei allievi i tempi iniziali del secondo concerto per pianoforte e poi del concerto per violino di Johannes Brahms, ho chiaramente «visto» la stratificazione di tutti i miei ascolti precedenti che scorrevano paralleli, pur guardandosi l'un l'altro, come strani fiumi sonori, in un groviglio d'immagini, odori, esperienze variamente intricate. E poi, sempre più presenti, le prime volte, i primi dischi, le persone con le quali condividevo l'entusiasmo della scoperta...

Loro, i miei allievi, sono giunti al termine del percorso iniziatico. Molti hanno completamente mutato il loro rapporto con la musica, scoprendola e scoprendosi attraverso di essa: e io li guardo, tutti, e apprezzo le loro emozioni e mi commuovono le varie maniere che inventano per tentare di definirle, imprimerle in memoria, situarle, possederle.

Il mattino seguente, dopo l'analisi di alcune musiche probabilmente composte per l'Orfeo di Poliziano (Bartolomeo Tromboncino, tra gli altri), ho così suggerito ai ragazzi appena entrati in Accademia non solo di ascoltare ma anche di «guardare» le musiche a loro non familiari, così come si osserva un documento per la prima volta: le emozioni, i piaceri, verranno, si consolideranno, non appena sarà stata plasmata la loro percezione, anche grazie alla mobilitazione di questo sguardo che vorrei avido, curioso, irrequieto, penetrante e indagatore...

Il termine «documento» non è affatto casuale: la domenica precedente avevo commentato alla radio i Cantigas de Santa Maria composti da Alfonso il Decimo (detto «il Saggio») e pensavo al palazzo dell'Escorial ove si conserva il codice che ne racchiude il simulacro testuale. Richiamata dalla superba immagine dell'Escorial mi si è così ridisegnata in mente, ancora una volta!, la mia privatissima mappa degl'infiniti possibili percorsi e camminamenti irradianti da e verso le mille abbazie e biblioteche ove palpitano e vivono i codici e i manoscritti per i quali non provo alcuna forma di devozione rituale ed erudita ma un'irresistibile attrazione vitale: li desidero e li penso come organismi viventi, capaci di una continua elaborazione dei loro grumi d'inchiostro in forma di canti segreti e celati, come quelli di seducentissime sirene...

Penso così all'abbazia di Monserrat in Catalonia e vi immagino il Libre vermell, rilegato in velluto vermiglio, ove, dopo la canzone O Virgo splendens, l'antica danza denominata Stella splendens attende solo di essere eseguita ad tripudium rotundum (ossia in forma di bal redon o ballo tondo): canti e balli anch'essi segretissimi e celati, muti pur presentissimi...

Ma un canto più recente mi coglie mentre scrivo e mi blocca in una sorta di commosso stupore: è il versetto In tenebrosis collocavit me, quasi mortuos sempiternos tratto dalla Troisième Leçon du Jeudy di Michel-Richard de Lalande. Mi fermo mentre la voce bianca riaccende in me struggenti visioni di liturgia francese - particolarmente ghiotte per il cristiano ambiguo ed ebraico che sono - ove, sullo sfondo, si coniugano il Port-Royal di Racine, certe messe celebrate negli anni '6o nella chiesa abbaziale di Saint-Séverin a Parigi, gl'infiniti ascolti del Requiem di Gabriel Faurè, abitato da una pietas insieme sublime e discretissima, e tutta la vicenda - letteraria, teatrale e musicale dei Dialogues des Carmélites di Georges Bernanos e Francis Poulenc...

E Saint-Séverin mi porta irresistibilmente a Notre-Dame, e in particolare allo splendido organum gotico Viderunt omnes di Léonin e poi Pérotín... e Notre-Dame a Clairvaux, poi Beuren con i suoi Carmina Burana e... non poteva non ridisegnarsi in mente a questo punto la sognata abbazia wagneriana di Montsalvat ove il Graal, di per sé, non riesce a lenire la mortale ferita di Amfortas se non mediante l'intercessione - pura, casta e folle - di Perceval o Parsifal, appunto. Struggimento infinito quello che ho sempre provato all'ascolto, in particolare, della magnifica scena detta «di mutazione»...

Nel giardino segreto di Ravello, a picco sul mare di Amalfi, da ragazzo mi dissero che in certe ore misteriosissime risuonavano ancora i valzer della lascivia cantati dalle fanciullefiore ...

E, sospeso nello spazio sonoro, come trasognato sognatore, lascio definirsi in me, per un'altra volta ancora, le pastosissime Folies d'Espagne cantate dalla viola da gamba di Marin Marais...

Paolo Terni (da "Perchè cantano?", Sellerio, 2006)

sabato, febbraio 05, 2011

Bruckner: Sinfonia n.9 in re minore

Le sinfonie di Anton Bruckner appartengono alle opere della storia della musica su cui le opinioni divergono fino ad oggi: o c'è un consenso senza riserve, come una professione di fede, oppure un rigido rifiuto - una via di mezzo sembra mancare. Se il carattere monumentale, la violenza delle emozioni che si esprimono in questa musica per non scegliere che qualche aspetto - rappresentano per gli ammiratori la vetta più alta di ciò che si può dire con i suoni, i detrattori credono invece di riconoscervi solo superficialità o persino banalità. Se agli uni l'organizzazione formale e le innovazioni armoniche sembrano ardite e sublimi, gli altri parlano invece di dilettantismo o di spirito di epigono. "Il più importante compositore di sinfonie dopo Beethoven", così appariva Bruckner agli occhi di Richard Wagner, ma nientemeno che Johannes Brahms vide nelle sue opere "un imbroglio che fra uno o due anni sarà finito e dimenticato".
Un tale contraddittorio effetto - per quanto possa a volte essere formulato con esagerazione - non è naturalmente casuale e non ha nulla a che vedere con delle incidentali differenze di opinione. In esso si manifesta piuttosto un carattere essenziale particolare della musica di Bruckner che vuole essere più di una semplice "forma mossa dai suoni" vuole dare espressione a delle esperienze dell'anima e a delle speranze, e apre una dimensione trascendentale in cui non si tratta più solo dell'estetica, cioè di una concezione artistica ma, nel più verso senso del termine, di una visione del mondo. Bruckner, il contrario di un musicista intellettuale, l'uomo semplice e pio, come lo hanno descritto i suoi contemporanei, veniva dalla musica sacra e in certo modo è sempre restato, anche come compositore di sinfonie, un annunciatore della fede. Nella dedica della Nona Sinfonia - "Al buon Dio" - questo atteggiamento trova la sua commovente espressione.
In modo corrispondente si può capire anche la vecchia consuetudine di far seguire ai tre movimenti, nelle esecuzioni dell'opera, il "Te Deum" di Bruckner quasi come Finale. A dire il vero un tale "completamento" non sembra assolutamente necessario perché la Nona appartiene certo, a causa del quarto movimento mancante, alle opere "incompiute" della storia della musica, a quelle però che - come la Sinfonia in si minore di Schubert sono compiute in un senso più alto. Proprio il fatto che alla fine della produzione sinfonica di Bruckner ci sia un Adagio, un movimento caratterizzato da un profondissimo sentimento e che in certo qual modo rappresenta una "presa di commiato" conferisce all'opera una particolare intensità e il carattere di un testamento personale.
I tre movimenti della Nona furono composti, con continue interruzioni per la revisione di opere precedenti, tra il 1887 e il 1894. Poi Bruckner si accinse all'abbozzo del Finale, a cui ancora lavorava il mattino del giorno in cui morì (11 ottobre 1896). I movimenti interamente conclusi furono eseguiti per la prima volta sotto la direzione di Ferdinand Löwe, amico di Bruckner, nel 1903 in una forma orchestrale però fortemente modificata; l'orchestrazione originaria risuonò per la prima volta solo nel 1932.
Per molteplici aspetti questa sinfonia costituisce una 'summa' dell'opera sinfonica di Bruckner. Già l'inizio è tipico, non comincia con il primo tema vero e proprio, ma con la raffigurazione descrittiva di uno 'stato originario' da cui si fanno lentamente avanti singole figure musicali che si ammassano in una poderosa struttura architettonica. Il posto occupato da Bruckner nella storia della musica si mostra qui in doppio modo: da una parte si può pensare all'inizio della Prima Sinfonia di Gustav MahIer, "Come un suono della natura", composta nello stesso periodo, ma ancora più forte si impone l'affinità con la Nona di Beethoven, il grande modello di tutto il sinfonismo romantico, a cui Bruckner si sentiva intimamente obbligato. Non solo l'inizio, "Misterioso" (e del resto già la tonalità di re minore), ma anche altri accorgimenti compositivi si possono comprendere come una cosciente eredità beethoveniana, soprattutto i collegamenti motivici tra i singoli movimenti. Si potrebbe compilare un intero catalogo di tali corrispondenze, di cui alcune si rivelano solo ad un'analisi dettagliata, mentre altre (p. es. il motivo ritmico principale dello Scherzo - l'"anapesto", costituito da due battiti brevi e uno lungo - e in ambito melodico i caratteristici pizzicati degli archi che ritornano nell'Adagio) risultano evidenti già ad un ascolto attento.
In quale misura Bruckner si sia rifatto ad antichi modelli appare anche dalla grande importanza che hanno le tecniche contrappuntistiche (canone, imitazione e rigoroso moto contrario delle voci) e dall'organizzazione formale, che combina il principio dello sviluppo classico con la giustapposizione barocca di singole sezioni. Ma accanto a questo aspetto storicizzante colpiscono altre caratteristiche, decisamente moderne, con cui il compositore è andato al di là dei limiti di un sinfonismo tradizionale. Proprio nella sonorità, che include sia momenti solistici dei singoli strumenti che il massiccio addensarsi di interi gruppi orchestrale (particolarmente degli ottoni), Bruckner prosegue degli aspetti del linguaggio musicale drammatico di Richard Wagner. In verità tali rimandi a determinate affinità con altri compositori permettono di accennare solo ad alcuni tratti essenziali del sinfonismo di Bruckner. Decisivo resta il modo personalissimo in cui egli collega i differenti elementi: il carattere piano dei suoi complessi formali, la stratificazione architettonica ottenuta con gli stessi materiali e le loro modificazioni, le grandi linee e le curve di tensione e, come risultato di tutte queste caratteristiche, le ondate di crescendo, con cui la sua musica prende l'ascoltatore e lo trascina in sfere più alte che indicano un qualcosa che è al di là della sola musica.

Volker Scherliess (Traduzione: Adriano Cremonese. note al CD DGG 419 083-2)