Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, settembre 29, 2008

La resurrezione di Georg Friedrich Händel

Il pomeriggio del 13 aprile 1737 il domestico di Georg Friedrich Händel sedeva alla finestra della stanza al piano terra della casa in Brook Street dedito a un'occupazione quanto mai singolare. Si era accorto con disappunto che la sua scorta di tabacco era terminata, e per procurarsi del trinciato fresco sarebbero bastati due passi più in là, nella bottega della sua amica Dolly, ma non osava allontanarsi da casa per paura del suo irascibile signore e padrone. Georg Friedrich Händel era rincasato dalla prova d'orchestra schiumante di rabbia, paonazzo in viso, le vene alle tempie gonfie e pulsanti. Aveva sbattuto la porta di casa con violenza e ora, il domestico lo sentiva benissimo, camminava su e giù nella sua stanza al primo piano, a passi tanto pesanti da far tremare il soffitto. Era altamente sconsigliabile incorrere in qualche manchevolezza in simili giorni di burrasca.
Così, per sconfiggere la noia, il servitore provava a far salire dalla sua pipetta di terracotta, anziché i soliti anelli di fumo azzurrognolo, delle bolle di sapone. Teneva accanto a sé una piccola ciotola di liscivia da bucato e si divertiva a sospingere fin sulla strada le bolle iridescenti. I passanti si fermavano, facevano scoppiare con la punta del bastone l'una o l'altra sfera colorata e ridevano indicandole con cenni della mano, senza però meravigliarsi. Perché da questa casa in Brook Street c'era da aspettarsi di tutto: talvolta di notte ne erompeva all'improvviso un suono di cembalo, e accadeva spesso che si udissero i pianti e i singhiozzi delle cantanti incorse nell'ira furiosa del collerico tedesco, perché avevano preso una nota di un ottavo di tono troppo alta o troppo bassa. Gli abitanti di Grosvenor Square consideravano già da tempo Brook Street una gabbia di matti.
Il domestico seguitava, calmo e tranquillo, a produrre bolle. Dopo un po' di tempo la sua abilità si era visibilmente affinata, le sfere iridescenti erano sempre più grandi e leggere e volavano sempre più in alto, una aveva perfino superato la cima del tetto della casa di fronte. Ma ad un tratto l'uomo sobbalzò di spavento: un tonfo sordo e greve aveva fatto tremare l'intera casa, tintinnare i vetri e smuovere le tende. Qualcosa di massiccio e pesante doveva essere crollato al piano di sopra. Il servitore si alzò di scatto e infilò di corsa le scale che portavano allo studio.
La poltrona occupata abitualmente dal maestro era vuota, come vuota sembrava tutta la stanza... Il domestico già si stava affrettando verso la camera da letto quando scorse Händel riverso al suolo, immobile, con gli occhi sbarrati. Poi, appena si fu ripreso dallo spavento iniziale, udì un rantolo affannoso: quell'uorno grande e robusto giaceva a terra supino, e gemeva debolmente o, per meglio dire, gemiti brevi e sempre più flebili gli sfuggivano dalle labbra.
Muore, pensò il domestico terrorizzato, e gli si inginocchiò accanto per prestargli i primi soccorsi.
Tentò di sollevarlo, di adagiarlo sul divano, ma quel corpo grosso e inerte era troppo pesante. Gli slacciò il colletto che lo soffocava, e il rantolo cessò immediatamente.
Ma ecco che dal piano di sotto già accorreva Christof Schmidt, l'assistente di Händel atteso per copiare alcune arie; entrando in casa aveva udito il forte tonfo e si era spaventato. In due riuscirono a sollevare la corpulenta figura - ma le braccia subito ricaddero penzoloni come quelle di un morto - e a distendere il maestro sul letto tenendogli il capo rialzato. «Spoglialo,» ordinò Schmidt al domestico «io corro a chiamare il dottore. E spruzzagli acqua fredda sul viso finché non rinviene».
Christof Schmidt si precipitò in strada senza nemmeno infilarsi la giacca, e da Brook Street corse indirezione Bond Street facendo un segno a tutte le carrozze che gli passavano accanto, a trotto lento e maestoso, ma i vetturini proseguivano senza degnare d'uno sguardo quell'uomo grasso, ansante, in maniche di camicia. Finalmente una vettura si fermò, il cocchiere di Lord Chandos aveva riconosciuto Schmidt e questi, dimentico di qualsiasi etichetta, spalancò la portiera della carrozza. «Händel muore! » gridò al duca, che conosceva come un appassionato di musica e il più fido mecenate del suo amato maestro. «Devo correre dal medico». Subito il duca gli fece posto in vettura, i cavalli assaggiarono la frusta e i due prelevarono senza riguardi dal suo studio in Fleet Street il dottor Jenkins, che stava procedendo all'analisi urgente di un campione d'urina. Il medico partì di gran carriera con Schmidt alla volta di Brook Street sul suo hansom cab leggero e veloce. «E' colpa delle eccessive preoccupazioni,» si lamentava l'assistente disperato mentre il cocchio correva all'impazzata «l'hanno tormentato a morte quei dannati: i cantantì, i castrati, gli adulatori, i critici da strapazzo, tutto un ripugnante vermicaio. Quattro opere ha scritto in un solo anno per salvare il teatro, ma gli altri si interessano unicamente delle donne e della vita di Corte, e quel che è peggio vanno tutti pazzi per quell'italiano, il maledetto castrato, il bercione mezzo epilettico. Ah, quanto male hanno fatto al nostro caro Händel! Si è giocato tutti i suoi risparmi, diecimila sterline, e ora lo assillano con i titoli di credito, lo fanno morire di crepacuore. Ha fatto cose straordinarie, si è dato anima e corpo come nessun altro; neanche un gigante reggerebbe a un peso simile! Oh, che uomo, che genio!». Il dottor Jenkins ascoltava, silenzioso e impassibile. Prima di entrare in casa si soffermò un attimo sulla soglia, tirò una boccata di fumo, scosse la cenere dalla pipa. «Quanti anni ha?».
«Cinquantadue» rispose Schmidt.
«Brutta età. Si è ammazzato di fatica, ma è forte come un toro. Bene, vediamo che cosa si può fare».
Il domestico reggeva la bacinella, Christof Schmidt sollevò un braccio a Händel, il dottore incise la vena. Ne sgorgò un fiotto di sangue caldo, rosso vivo, e un attimo dopo un sospiro di sollievo schiuse le labbra serrate del malato. Händel trasse un profondo respiro e aprì gli occhi. Ma lo sguardo era vitreo, vuoto, assente. La sua abituale luminosità si era spenta.
Il medico fasciò il braccio. Non c'era più molto da fare ormai. Si stava già alzando quando si accorse che Händel muoveva le labbra. Si chinò verso di lui. Con un filo di voce, appena un sospiro, il maestro mormorò: «è finita... per me è finita ... non ho più forze... non voglio vivere senza forze ...». Il dottor Jenkins gli si fece ancora più da presso. Si accorse che un occhio, il destro, aveva uno sguardo fisso, mentre l'altro era animato. A riprova di quanto già temeva sollevò al paziente il braccio destro, che ricadde come morto. Sollevò il sinistro, e quello rimase nella nuova posizione. Ora il dottor Jenkins ne sapeva abbastanza.
Quando il medico uscì dalla stanza, Schmidt lo rincorse sulle scale, inquieto e preoccupato: «Che cos'ha?»
«Un colpo apoplettico. Il lato destro è paralizzato».
«E potrà... » ora Schmidt balbettava «potrà guarire?».
Il dottor Jenkins estrasse con molta lentezza una presa di tabacco. Non amava quel genere di domande.
«Forse. Tutto è possibile».
«Resterà paralizzato?».
«E' probabile, a meno che non intervenga un miracolo».
Ma Schmidt, dedito al maestro con tutto se stesso, non si dava per vinto.
«Ma almeno... potrà almeno lavorare? Non può vivere senza la sua musica».
Il dottor Jenkins stava già scendendo le scale.
«No, questo no» disse a bassa voce. «Forse riusciremo a mantenere in vita l'uomo, ma il musicista è perduto. Sono compromesse le funzioni cerebrali».
Schmidt lo fissava impietrito, con gli occhi sbarrati. Il suo sguardo rivelava una disperazione così profonda che il dottore ne rimase impressionato. «A meno che non intervenga un miracolo, come dicevo,» soggiunse «anche se a me non è ancora capitato di vederne».
Per quattro mesi Georg Friedrich Händel giacque privo di forze - e la forza era la sua vita. Il lato destro del corpo era come morto. Non poteva camminare, non poteva scrivere, con la mano destra non riusciva neppure a premere un tasto. Lo strappo terribile che gli aveva lacerato il corpo gli impediva di parlare, la bocca pendeva sbieca e le parole gli colavano dalle labbra in un balbettio confuso. Talvolta gli amici suonavano per lui qualcosa, e allora lo sguardo gli si accendeva di una luce fioca e il grosso corpo ribelle prendeva a muoversi, come se il malato sognasse, quasi volesse accompagnare il ritmo, ma le membra erano rigide e contratte, muscoli e tendini non rispondevano più, quell'uomo una volta possente si sentiva rinchiuso in una tomba invisibile, senza via di scampo. Appena la musica cessava le palpebre gli ricadevano pesanti sugli occhi, e il corpo giaceva di nuovo inerte. Il dottore per togliersi d'imbarazzo - era evidente che il maestro non sarebbe guarito - consigliò i bagni alle terme di Aquisgrana: forse il calore dell'acqua avrebbe portato qualche giovamento.
Ma sotto la supefficie rigida e immobile scorreva, simile alle misteriose correnti calde ssotterranee, un'irrefrenabile energia: la volontà di Händel, la forza primeva del suo essere era rimasta illesa, e si rifiutava di cedere lo spirito immortale al corpo mortale. Il grande uomo non si era arreso, era ancora capace di volere, voleva vivere, e creare ancora, e fu la sua volontà a operare il miracolo, a dispetto delle leggi di natura. Ad Aquisgrana i medici misero in guardia il maestro: bagni troppo lunghi ne avrebbero compromesso irrimediabilmente il cuore, e gli raccomandarono con insistenza di non rimanere per più di tre ore in quelle acque calde. Ma la sua volontà sfidò la morte per amore della vita, e la vita aveva un unico, incoercibile desiderio: guarire. Lasciando i medici sgomenti, Händel rimaneva anche nove ore al giorno nell'acqua fumante, e insieme alla determinazione crescevano di continuo, seppure a gradi, le sue forze. Dopo una settimana era già capace di trascinarsi sulle gambe, al termine della seconda di muovere il braccio offeso e alla fine, immane trionfo della fiducia e della determinazione, riuscì a sottrarsi alla stretta paralizzante della morte per abbracciare la vita con più calore e passione che mai, traboccante di quell'indicibile felicità nota soltanto al malato in via di guarigione.
L'ultimo giorno, ormai completamente ristabilito, prima di partire da Aquisgrana Händel volle fare una visita in chiesa. Non era mai stato particolarmente religioso, ma, ora che per la benevolenza divina gli era di nuovo concesso di salire con le sue sole forze fino alla cantoria, si sentiva animato da qualcosa d'immenso. Passò rapidamente la mano sinistra sulla tastiera dell'organo. Un suono limpido e puro attraversò l'aria assorta della navata. Allora trepidante sfiorò i tasti con la destra, rimasta così a lungo inerte e rigida, e al suo tocco scaturì uno zampillo di note argentine. Lentamente il maestro cominciò a suonare, a improvvisare, trascinato da una corrente sempre più impetuosa. Meravigliose forme sonore si andavano componendo nei domini dell'invisibile, le aeree costruzioni del suo genio levitavano come figurazioni senz'ombra, sempre più in alto, risonanze incorporee, musica trasfigurata in luce. Più in basso le suore e alcuni anonimi fedeli ascoltavano rapiti. Mai avevano sentito suonare così una creatura mortale. Händel, il capo umilmente chino, suonava, non smetteva di suonare. Aveva ritrovato il suo linguaggio, quel linguaggio in cui parlava a Dio, all'eternità e agli uomini. Poteva di nuovo far musica, poteva rimettersi a comporre. E solo allora si sentì davvero guarito.
«Ho fatto ritorno dall'Ade» diceva fiero, gonfiando l'ampio petto e spalancando le braccia possenti, Georg Friedrich Händel allo strabiliato dottore londinese, costretto ad ammettere un miracolo della medicina. E subito, quasi voracemente, il maestro in via di guarigione si rimise al lavoro con rinnovato ardore, impegnandosi senza risparmio di energie. L'antico spirito battagliero aveva ripreso pieno possesso di quest'uomo di cinquantatré anni. Scrive un'opera la mano risanata gli obbedisce alla perfezione - e ancora una seconda, una terza, poi i grandi oratori Saul e Israele in Egitto, e L'Allegro, il Pensieroso ed il Moderato. La forza creativa erompe gioiosa e inarrestabile come da una sorgente a lungo ostruita. Ma il tempo gli è nemico. Per la morte della regina bisogna sospendere le rappresentazioni, quindi ha inizio la guerra contro la Spagna, le grida e i canti della folla riempiono ogni giorno le pubbliche piazze ma il teatro resta vuoto, e i debiti si accumulano. Sopraggiunge un inverno rigidissimo. Londra è stretta in una morsa di ghiaccio, il Tamigi gela e sulla sua superficie specchiante corrono scampanellando le slitte. In questi tempi difficili tutte le sale restano chiuse, nemmeno una musica divina arriva a mitigarne il freddo glaciale. Poi si ammalano i cantanti, e le rappresentazioni vengono annullate una dopo l'altra: la situazione di Händel, già precaria, si aggrava. I creditori si fanno minacciosi, i critici sarcastici, il pubblico si chiude in un muto disinteresse. A poco a poco s'incrina la capacità di resistenza di questo strenuo lottatore. Organizza ancora un concerto, di cui si riserva il diritto ai proventi come ultima via di scampo prima di finire in prigione per morosità. Ma che vergogna dover mendicare per vivere! Händel si rinchiude sempre di più in se stesso, sempre più tetro si fa il suo umore. Non era meglio avere metà del corpo paralizzata piuttosto che l'anima, come ora, tutta intera? Già nel 1740 Händel si sente di nuovo battuto, sconfitto; della passata gloria non è rimasta che cenere. A fatica gli riescono ancora composizioni raccogliticce tratte da precedenti opere, lavori nuovi ma di poco conto. La vena si è inaridita, e va spegnendosi la grande energia che fluiva nel corpo risanato. Per la prima volta il gigante è stanco, fiacco l'indomito guerriero. Per la prima volta rallenta fino a esaurirsi la corrente di felicità creativa che per ben trentacinque anni si era riversata sul mondo. E' finita, è finita un'altra volta. E ora sa il grand'uomo, nella sua disperazione, o almeno crede di sapere: è finita per sempre. Perché, sospira, Dio mi ha fatto risorgere dalla malattia se poi gli uomini mi affossano? Meglio morire piuttosto che vivere come l'ombra di me stesso nel vuoto e nel gelo di questo mondo. E in un accesso di collera gli accade di pronunciare le parole di Colui che moriva sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Stanco, avvilito, in odio a se stesso, senza più fiducia nelle sue capacità, forse nemmeno in Dio, in quei mesi Händel di sera si aggira a lungo per le strade di Londra. Si arrischia a uscire soltanto a ora tarda, perché di giorno davanti a casa sono appostati i creditori, pronti ad assalirlo con le cambiali in mano, mentre per la strada lo disgustano gli sguardi indifferenti o sprezzanti della gente. Talvolta si chiede se non dovrebbe rifugiarsi in Irlanda, dove la sua fama è ancora ben viva - ah, non s'immaginano quanto siano ormai logore le sue forze! -, o in Germania, o in Italia: forse laggiù si sarebbe sciolto quel gelo interiore, forse il dolce vento del Sud avrebbe di nuovo schiuso al canto le lande desolate dell'anima. Questo è insopportabile: non poter creare, restare inerte. No, Georg Friedrich Händel non tollera l'idea della sconfitta. A volte si sofferma davanti a una chiesa, pur sapendo che le parole non gli arrecano conforto. Altre volte si rifugia in un'osteria, ma a chi ha conosciuto la sublime ebbrezza della creazione i fumi dell'alcol possono solo dare disgusto. Altre volte ancora da un ponte sul Tamigi fissa a lungo la corrente torpida, color della pece, chiedendosi se non sarebbe meglio liberarsi da tutto con un unico gesto risolutore. E non provare più l'assillo di questo vuoto, l'angosciosa solitudine di chi è abbandonato da Dio e dagli uomini.
La notte del 21 agosto 1741 Händel stava ancora una volta vagando senza meta. Il giorno era stato torrido, il cielo gravava su Londra come metallo fuso, l'afa era soffocante. Il maestro si era deciso a uscire solo verso sera, per respirare un po' d'aria ...

... continua a pag.80 e fino a 94 sul libro:
"Momenti Fatali" di Stefan Zweig (Biblioteca Adelphi 479, 2005)

sabato, settembre 27, 2008

Kagel: L'arte sovversiva della composizione

È morto Mauricio Kagel, magnifico interprete del tempo.
Nato a Buenos Aires nel 1931, famiglia ebraica di origini tedesche e russe, diviene protagonista dell'avanguardia argentina prima di trasferirsi in Germania nel 1957. Iconoclasta, ironico, indocile alle regole, lavora sulla coesione di materiali e modi di essere eterogenei e sradicati. Estraneo alla visione del melodramma, si era occupato anche di teatro-danza, radio e cinema.


Iconoclasta. Sovversivo. Ironico. Tutti aspetti verissimi della personalità artistica di Mauricio Kagel. Le regole non gli sono mai piaciute. Perché inventava altri modi di comporre, però. Non per gusto della trasgressione in forma di happening. Sarebbe un errore imperdonabile lasciare in ombra l'interesse per il pensiero espresso con evidenza da questo immenso musicista, uno dei massimi del secolo scorso e di quello presente, uno dei reali contemporanei in quanto vivacemente attivo nell'oggi, musicale e sociale. Ogni tipo di provocazione, di divertimento traumatizzante, figura nel catalogo dei suoi titoli. Sempre in stretta unione con un'arte sopraffina della composizione, intesa non come una successione ordinata di note sul pentagramma ma come affermazione della coesione tra materiali (e modi di essere) sconnessi, eterogenei, sradicati. Kagel è morto l'altro ieri a Colonia, città dove viveva dal 1957. Era in ospedale da qualche giorno. L'Ansa non ha dato la notizia. Ennesima prova della miseria culturale delle fonti informative italiane, specie quando si tratta di musica che non sia quella pop. Eppure Kagel in Italia ha avuto spesso ottima accoglienza. E proprio in questi giorni è qui, in questo paese disastrato, che a lui si sono dedicate e si preparano importanti iniziative, già previste da tempo. A Bressanone ieri sera per la rassegna Transart 08 si è tenuta l'anteprima del concerto-ritratto che Kagel stava preparando con l'Ensemble Modern per i prossimi giorni a Francoforte. Il 6, 7, 8 e 19 ottobre il Bologna Festival presenterà una «monografia» stimolante del compositore. Che avrebbe dovuto essere presente, con la sua gentile e sorniona disponibilità. E invece tutto si svolgerà in memoriam. Era nato il 24 dicembre 1931 a Buenos Aires. Famiglia ebraica di origini tedesche e russe. Uno dei lavori in programma a Bologna (8 ottobre) si intitola, appunto, ... den 24.XII.1931 . Una bella versione diretta dall'autore si è ascoltata alla Biennale Musica del 2007. Un baritono «racconta» che cosa è successo di importante nel giorno della nascita di Mauricio: spicca una rivolta di prigioneri politici in un carcere della capitale argentina. E intorno si snoda una musica imprevedibile e composita, fatta con uno strumentario che comprende sirene, campane, fischietti, cubi di legno ruotanti, stivali usati come bacchette per marimbe. Si sentono anche melodie soavi, scatti swing, marce militari, ma è mirabile il disegno compositivo, il desiderio di proporre come costituenti eventi sonori insorgenti, «disordinati» Presto protagonista negli ambienti dell'avanguardia musicale argentina, Kagel si era trasferito in Germania nel 1957. Enorme la sua produzione, improntata spesso a una vena teatrale (teatro della crudeltà, teatro dell'assurdo, teatro epico da camera), non necessariamente bisognosa della scena. Nell'anno fatale 1968, per esempio, Kagel scrisse una vera pièce sadiana tutta affidata a musicisti (non più di quattro polistrumentisti, spesso anche lui era della partita). Acustica è un brano di scrittura con improvvisazione che utilizza, insieme a una tastiera elettronica, piccole ghigliottine, raganelle, scatole sonore, un violino con ponticello di ferro, lamelle di metallo. E la musica di rumori, quasi sempre violenti, sinistri, oppure fascinosamente persi in incanti di perversione, procede afferrando alla gola, chiedendo rivolta. Un altro lavoro per dire chi era Kagel. Anche questo in programma al festival bolognese (6 ottobre), anche questo messo in scena - perché qui la scena c'è, eccome! - alla Biennale veneziana del 2005. Mare nostrum (1975) è la storia di una colonizzazione alla rovescia. Evoluti amazzonici invadono, anche con intenti di conversione religiosa, i selvaggi popoli monoteisti dell'Europa e dintorni. Strani strumenti a corda e a percussione, in più tante bellissime melodie semplici eppure mai sentite. Kagel sperimentale con una canzoncina, un lied da cabaret. Come è sperimentale, ben lontano dal populismo o dal terzomondismo demagogico, anzi decostruttivo e leggero, in Exotica (1970-71) per strumenti non occidentali. Oppure in Variété (1976-77) per sei strumenti, un raffinato, irresistibile gioco coltissimo intorno ai piaceri della musica «di consumo». Compositore di suoni del tutto estraneo alla visione tradizionale del melodramma, tuttora molto forte tra gli autori «dotti», Kagel si è occupato anche di teatro-danza. Nel modo che, specie durante gli anni Settanta, si poteva aspettarsi da lui: irriverenza a piene mani. Un suo lavoro fondamentale del 1971 si intitola Staatstheater ed è un balletto per non-danzatori. Poi si è occupato di radio: sempre improntato alla poetica dell'assurdo è Ein Aufnahmezustand (1969). Non poteva trascurare il cinema. E qui ha fatto nuovamente centro. Attenzione al titolo: Ludwig van (1969), che ne sapesse qualcosa Stanley Kubrick ai tempi di Arancia meccanica ? In ogni caso è un film in bianco e nero, regia di Kagel, girato per infrangere il mito dell'autore eroico che per un sacco di tempo, e ancora oggi, si è abbinato all'opera di Beethoven.

Mario Gamba (Il Manifesto, 20 settembre 2008)

sabato, settembre 20, 2008

Genesi di un mito: il Quartetto Italiano

Reggio E. - mercoledì

Cara Lisa, propria ora ho ricevuto una telefonata da Forzanti, da Venezia, con la quale egli mi avvertiva che accetta di venire qui a Reggio il 20 agosto, per iniziare le prove del quartetto. Attraverso l'etere gli ho gridato che, se egli accetta, si deve impegnare a lasciare da parte ogni idea di fare il direttore d'orchestra e a dedicarsi, almeno per questi primi mesi, esclusivamente al quartetto. Egli, con voce strozzata per la lontananza, mi ha detto il sì fatale. Come vedi, è ora il caso di esultare! Il vecchio quartetto, il nostro quartetto, rinascerà. Il nostro sogno ormai si è avverato. Per il 20 è fissato il più bel giorno della nostra vita. Rossi e Forzanti saranno qui; noi ci abbracceremo, brinderemo alla nostra vittoria e alla nostra felicità.
Provvederò ad avvertire di tutto questo Farulli.
Attendendo un tuo sollecito riscontro a questa mia, ti saluta con affetto.
Paolo

Con questa lettera dell'estate del 1945 Paolo Borciani, entusiasta, annunciava a Elisa Pegreffi la rinascita del "nostro quartetto". Dopo gli anni bui della guerra, la ricostituzione del "vecchio quartetto" era diventata per Borciani una vera idea fissa, una ragione di vita grande e pretenziosa. Si dimostrò tale, ma mai riuscì a soffocare nel musicista di Reggio Emilia il piacere e il desiderio di trasmettere la propria arte e le proprie conoscenze ai giovani violinisti.
Paolo Borciani, Elisa Pegreffi, Franco Rossi e Lionello Forzanti si erano conosciuti tre anni prima, nell'estate del 1942, a Siena, durante i corsi di perfezionamento organizzati dall'Accademia Musicale Chigiana. Ma l'deea del loro assemblaggio artistico partì da Arturo Bonucci con lo scopo di un saggio finale dedicato al Quartetto di Debussy. Attrazioni ed esitazioni si coagularono in un attimo per la realizzazione di un fatto concreto, poi dimostratosi storico. Di giorno i giovani studiano il loro strumento - il violino per Borciani e Pegreffi. la viola per Forzanti, il violoncello per Rossi - ma la sera, dopo cena, si ritrovano in una camera della Casa dello Studente. I compagni, alla spicciolata, li raggiungono con le sedie, per ascoltarli, mentre provano Debussy fino a notte. L'entusiasmo che è un trampolino di lancio per ottenere una concentrazione assoluta romarrà un segno inconfondibile del Quartetto Italiano: sempre pronto ad attrontare nuove sfide giocate su tutto l'orizzonte del repertorio musicale. Nuove sfide che appagano l'audacia, che sconfiggono la routine, che tengono sempre all'erta i mezzi e l'intelletto: prerogativa decisiva per la salvaguardia e il vivificante nutrimento di quei delicatissimi equilibri - umani e artistici -su cui si erige qualsiasi grande gruppo quartettistico. Il bollore delle emozioni, le discussioni accese di quelle nottate senesi lasciarono un segno imperituro, trovarono un emblema nella partitura di Debussy: da quel momento, e per sempre, cavallo di battaglia del Quartetto Italiano.
Guerra vuol anche dire separazione: ma l'idea fissa si è ormai formata, ha preso le sue fattezze. Ed ecco, nell'estate del '45, il gruppo che si ritrova, e la promessa di Forzanti che momentaneamente stoppa l'ingresso di Piero Farulli nel quartetto. Quindi il debutto a Carpi, agli Amici della Musica, il 12 novembre; e poi, il giorno successivo a Milano, per la Camerata musicale. Il programma è lo stesso: oltre a Debussy, si esegue Corelli, Beethoven e Stravinskij. Agli inizi del '46, il Nuovo Quartetto Italiano - come si era inizialmente denominato, a causa della preesistenza e contemporaneità di un altro Quartetto Italiano - partecipa a un concorso indetto dall'Accadernia di Santa Cecilia: lo vince. Pochi mesi dopo è il bis, in un concorso bandito dalla Filarmonica Romana. Al Quartetto si aprono le porte delle più importanti sedi concertistiche italiane: tutte conquistate in breve tempo. A questo periodo risale anche la prima incisione discografica: Debussy e Vinci. L'anno successivo, il '47, Forzanti ha l'occasione di andare in Sudamerica come direttore d'orchestra e riferisce francamente le sue intenzioni di ritirarsi dal gruppo, il suo posto viene preso da Farulli. La nuova formazione dei quartetto, che esordisce a Mantova l'8 febbraio, è quella decisiva: durerà fino al dicembre dei 1977. Con Farulli il Quartetto Italiano trova la giusta calibratura musicale, quella solidità caratteriale che permette di elaborare progetti a lunga scadenza, quella sicurezza data dalla permanenza nel tempo indispensabile per un progressivo confronto e affinamento delle qualità singole e collettive. Questo è il vero Quartetto Italiano e dopo trent'anni di musica, di straordinaria musica, Borciani confesserà l'unicità di questa esperienza, l'ipotetica possibilità di altre appendici quartettistiche, ma anche l'impossibilità di aggiungere altro a quanto questi tre decenni gli hanno straordinariamente dato. Il 1947 segna anche l'affermazione del complesso sul piano internazionale: un'attività che culminerà in numerose tournée europee e nelle undici del Nordamerica; ma non rimasero esclusi né il Sudamerica, né il Giappone. Le prove del Quartetto Italiano sono accompagnate ogni qual volta dall'ammirazione per lo stile, per la tecnica, per la purezza del suono, per quella rarissima coesione che è la scintilla di un perfezionismo mai freddo e fine a se stesso, di una incomparabile sensibilità che spesso sfocia nel pathos più denso. Il Quartetto Italiano studiava durante le tournée, nei pomeriggi liberi, nei fine settimana, ma il grosso del lavoro,di solito, si svolgeva d'estate: il Quartetto op. 130 di Beethoven, ad esempio, fu preparato già nel '49, proprio d'estate, a Castelnovo ne' Monti, sulla montagna di Reggio Emilia. Nonostante i problemi di tempo, imposti dalla distanza fra le rispettive dimore, per più di dieci anni il complesso suonò a memoria, ed ebbe abitudini "dispendiose". Si effettuava una prima lettura, quindi Borciani segnava le legature sulla partitura, indicando le arcate di ogni strumento secondo le esigenze singole e di gruppo. Il tutto era discusso a lungo, fin nei minimi particolari, battuta per battuta. Un lavoro dispendioso, che però balzava di scatto fuori nel corso delle esecuzioni: in certe profondità interpretative, nella tensione intellettuale, nella ricchezza d'espressione, nella vibrante intensità, via via sempre più stringata, nell'amalgama perfetto. Eppure, il Quartetto Italiano fu anche maestro sovrano nell'arte sottile di lasciare a ciascun arco la propria libertà. Nel grande gioco a incastro non mancava mai la possibilità della privata soddisfazione di una frase propria, di un personale rapimento spirituale.
Indipendente nello studio, libero dalle consuetudini e, tanto più, dai compartimenti stagni stilistici e di repertorio, il Quartetto Italiano seppe tracciare un solco interpretativo unico e originalissimo. Basti pensare alla personale visione che Borciani aveva della poetica beethoveniana. Per il maestro la seconda maniera di Beethoven era da considerarsi come una specie di grande fase di evasione. Controcorrente, Borciani vedeva negli ultimi Quartetti del tedesco i segni delle opere giovanili; segnalava la continuità che lega la prima e la terza maniera del compositore di Bonn. Questo fu solo un aspetto del coraggio di Borciani. Un coraggio che lo spingeva a rischiare, a non ghettizzare i repertori, a eseguire brani del nostro secolo, a non rinunciare ai classici anche in quelle rassegne concertistiche per specialisti dove davanti alle note di Mozart qualcuno esce di sala.
Trent'anni di successi, poi, nel dicembre del '77, Farulli lasciava il gruppo. Dal concerto di Carpi del primo aprile del '78 lo sostituiva Dino Asciolla. Una unione che durò fino al momento del definitivo scioglimento del Quartetto: era il febbraio dell'80.
La carriera del Quartetto Italiano si sintetizza in circa 3500 concerti e una vasta produzione discografica. Un lavoro immenso, svolto con una concentrazione che oggi si vorrebbe vedere ripetuta in altri gruppi, tanto più quando si pensa all'impegno didattico del Quartetto Italiano - strappato con la volontà e l'amore all'incalzare degli appuntamenti concertistici - che portò all'unione di un gruppo di allievi nella formazione del Giovane Quartetto Italiano. Quell'impegno didattico che Borciani considerò sempre come uno dei più gratificanti successi della sua vita.

Massimo Rolando Zegna (1994)

sabato, settembre 13, 2008

Anche gli dei muoiono:"Il crepuscolo" alla Scala

Il 7 dicembre 1998 dopo una assenza di 35 anni ritorna alla Scala "Il crepuscolo" di Wagner - Quest'opera che chiude il "Ring" ha in sé l'origine creativa dell' intera Tetralogia.

"Pensi", mi diceva qualche giorno fa un nuovo e attempato conoscente, "ho conosciuto direttamente Richard Strauss e Gabriele D'Annunzio". "Davvero? Incredibile!". Infatti si è colpiti da questo tendersi la mano nel tempo: dalla morte di D'Annunzio sono trascorsi sessant'anni, da quella di Strauss quarantanove. Basta che il nostro interlocutore abbia tra i settanta e gli ottant'anni, e che abbia avuto occasioni fortunate, ed è possibile. Comincia a diventare merce rara chi abbia conosciuto Furtwangler, morto nel 1954, e persino Stravinskij, scomparso nel 1971. Ma per i milanesi, un'ormai lontana esperienza è più rara dell'aver detto a Stravinskij: "Molto piacere, onoratissimo". É l'esperienza di chi narra: "Lo sai? Sono uno di quelli che hanno ascoltato alla Scala Il crepuscolo degli dei". Infatti, sono passati trentacinque anni. L'ultima Gotterdammerung scaligera, conclusiva dell'intero Ring rappresentato nella stagione 1962-63, andò in scena alla Scala, diretta da André Gluytens e con la regia di Heinz Tietjen, il 28 maggio 1963. Negli anni Settanta il ciclo nibelungico, scandito in annate successive, fu diretto da Wolfgang Sawallisch con la regia di Luca Ronconi, ma si arrestò a Siegfried (stagione 1974-75), per motivi ancora oggi alquanto misteriosi. Un brutto episodio nella storia della Scala. Un'intera generazione è stata privata della possibilità di vedere, a Milano, l'intero "Buhnenfestspiel" dalla vigilia (Das Rheingold) alla terza e ultima giornata in cui la peripezia drammatica si chiude, appunto, ad anello. Potrebbe anche nascere il sospetto che sotto il cielo di Milano gravi, su Gotterdammerung, una sorta di malaugurio, e il sospetto sarebbe giustificato dalle catastrofi che avvengono sulla scena. O forse è il diavolo, il vecchio diavolo armato di corna, coda e piede caprino, che sentendosi escluso dal mondo eddico e pagano-germanico malgrado la propria fisionomia nordica e gotica, e perciò ritenendosi offeso, si diverte ripetutamente a fare il suo mestiere di dia-bolos, ossia a tagliare la strada?.
Sciocche fantasie di malevoli. Riccardo Muti, che inaugurerà la stagione scaligera 1998-99 (ah, queste date che cominciano ad atterrirci con la loro fuga temporum!) dirigendo Gotterdammerung, è un direttore solare e vittorioso, e a lui tocca sfatare il maligno incantesimo. Certo, Gotterdammerung è un' opera che va maneggiata con ogni precauzione, più delle altre che con essa costituiscono il Ring. É qui che è custodito il segreto di fabbricazione. Un bel saggio di simbologia dei numeri, D'Artagnan und die Urteilstafel di Reinhard Brandt, uscito nel 1991 e ora tradotto in italiano da Feltrinelli, analizza un principio d'ordine della storia culturale d' Occidente, quello del numero tre cui si aggiunge un quarto elemento: potremmo definirlo una dialettizzazione della dialettica. Nel Ring wagneriano, detto anche "Tetralogia" con termine vulgato e impreciso, Gotterdammerung ha un apparente numero d'ordine: al quarto posto. In realtà, è la terza e ultima giornata (la prima è Die Walkure, la seconda Siegfried), poiché Das Rheingold è un prologo, anzi, come Wagner lo definì, una vigilia ("Vorabend"). Il quattro in superficie rivela il tre in profondità. Nelle tre giornate, lo schema che deriva dalla sequenza delle tre conclusioni (e quindi dei tre segni da attribuire alle rispettive trame - o, in senso aristotelico, "peripezie") è il seguente: tragedia con un barlume di speranza finale, vittoria, catastrofe. In termini astratti e formalizzati: negativo con possibilità di rovesciare il segno algebrico, affermativo, interamente negativo. Lo schema dialettico a sogni alternati è l'inverso di quello hegeliano: affermativo in cui si annida la negatività, negativo, negazione della negazione e quindi affermazione piena. La dialettica esattamente anti-hegeliana delle tre giornate nibelungiche entra a sua volta in dialettica con il vero quarto termine, che non è Gotterdammerung bensì la vigilia antecedente alle tre giornate, Das Rheingold. Il suggello anti-hegeliano (schopenhaueriano, per consapevole decisione di Wagner) delle tre giornate entra a sua volta in gioco dialettico con Das Rheingold: alla luce di quest' opera iniziale in un atto, ci si avvede che la conclusione di Gotterdammerung e dell'intero Ring è meno nihilistica di quanto apparirebbe se non prendessimo in esame il "Vorabend". Infatti, il rogo del Walhalla e del mondo non annienta tutto: intatto resta il fiume Reno, intatto e anzi restituito e riunificato in fulgente blocco l'oro già maledetto dal misfatto di Alberich e ora purificato e riconsacrato dalle fiamme, intatte le tre figlie del Reno con la loro maliziosa sensualità e le loro innocenti astuzie. Insomma, la natura si prende la rivincita sulla storia, e la peripezia dell'intero ciclo si chiude ad anello, poiché la realtà finale dell'esistente coincide con la realtà finale.
Tutto come in principio? Quasi. Resta una macchia, un graffio, una traccia della colpa e della corruzione che hanno condotto il mondo alla catastrofe, infettando anche l'innocenza dell' eroe Siegfried. Ne è simbolo musicale il rapporto di tonalità tra l'Alfa e l'Omega del Ring. L'introduzione orchestrale a Das Rheingold, e con essa quest'opera e l' intero ciclo tetralogico, si apre in Mi bemolle maggiore: è l'origine del cosmo, e il fluire dell'arpeggio in quella tonalità, con il Mi bemolle grave dei bassi in profondità, è il nascere della natura e delle sue forze primigenie. La tradizione battezzatrice, coltivata soprattutto da Hans von Wolzogen a partire dal 1876, definisce quell'arpeggio di Mi bemolle "Natur-Motiv". All'estremo opposto, Gotterdammerung si conclude in Re bemolle maggiore, dopo aver reiterato e ingigantito in immensa espansione il motivo della "Erlosung durch Liebe" (redenzione mediante amore). Questa discesa di un tono intero nell'adozione della tonalità ha un significato perentorio: il cosmo si è conservato nel suo nucleo aureo-acqueo-femminile, e forse potrebbe ricominciare in eterno ritorno (non volevamo alludere a Nietzsche, ma non ci dispiace averlo fatto: i dissidi tra uomini di genio vanno osservati con ironia), ma ricomincerebbe da un gradino più in basso. Il cosmo vive, muore e rinasce infinite volte, ma ogni volta il nuovo ciclo d'esistenza è impercettibilmente degradato, immiserito e umiliato. Nel teatro wagneriano il numero tre non soltanto è una costante presenza dialettica, ma si trasforma in urgenza estetica. I tre atti in cui, dopo Rienzi, ogni opera wagneriana si articola, sono una cifra, un contrassegno d'autore, di fronte alla consuetudine verdiana dei quattro atti, cui nell'ultimo Verdi soltanto il lavoro estremo, Falstaff, si sottrae. Ma proprio Gotterdammerung ha in sé il segreto di fabbricazione, la legge del tre più uno cui Reinhard Brandt ha dedicato il suo libro. Il paradosso numerico-estetico, la struttura "tetralogica" delle tre giornate precedute dalla vigilia, genera all'interno un processo imitativo a scatola cinese o a "matrioska", in cui la microstruttura riproduce la macrostruttura. Gotterdammerung è a sua volta, naturalmente, in tre atti, ma prima dei tre atti veri e propri c'è il Prologo ("Vorspiel"), costituito dalla scena delle tre Norne e dalla scena d'amore tra Siegfried e Brunnhilde: unica, per loro, poiché da allora in poi essi non si diranno mai più, entrambi viventi, parole d'amore. Ancora una volta, tre più uno. Così la peripezia di Gotterdammerung ripete in dimensioni concentrate l'arcata dell'intero Ring, e ciò è sottolineato da due connotati artistici. Il primo è la tonalità con cui Gotterdammerung (e perciò il Prologo) si apre, Mi bemolle minore: è il Mi bemolle maggiore che apre l'intero Ring e qui ritorna, tonalità aurorale, come ricomparsa più ombrosa, oscurata, nel modo minore, da una nebbia triste, minacciosa, appunto crepuscolare. Il secondo è il carattere di "nuovo inizio" (tristemente illusorio) che si insinua nel Prologo di Gotterdammerung. I due accordi iniziali, Mi bemolle minore e Do bemolle maggiore, costituiscono ciò che per tradizione i custodi del canone leitmotivico chiamano "motivo del risveglio". Insomma, Gotterdammerung è un Ring in miniatura ma dai colori immiseriti e rattristati. Il risveglio, se ascoltiamo l' ultima parte del Prologo ossia il dialogo tra Siegried e Brunnhilde, è in apparenza fresco, vitale e pieno di speranza; ma la scena delle Norne e della fune del destino spezzata, che precede la scena d'amore, esclude già a priori ogni illusione. Non basta: la serie di scatole cinesi ci invita a scendere ancora di un grado dimensionale. Il terzo e ultimo atto di Gotterdammerung è a sua volta una riproduzione in miniatura della miniatura: tre scene, precedute da un preludio. Anche qui, il quarto elemento che precede gli altri tre è contrassegnato da tre figure femminili: Woglinde, Wellgunde, Frosshilde, le figlie del Reno ora lamentose ma sempre pronte, all'occasione, a civettare con un uomo bello e forte com'è Siegfried. Esse rovesciano esteticamente le tre Norne che si associano al Prologo dell'intera opera, cioè della struttura immediatamente sovraordinata. La relazione si rivela perfetta, tanto da sorprendere, se ricordiamo che nella gigantesca struttura a sua volta sovraordinata a tutto, ossia il Ring, ancora tre figure femminili, le figlie del Reno non ancora lamentose se non dopo il furto dell'oro da parte di Alberich, inaugurano tutta la serie di monumentali personaggi. Se badiamo a questo modello archetipico, "le tre dell' inizio". Così il gioco di riapparizioni e di rovesciamenti estetici è davvero mirabile: le tre luminose, aggraziate e prive di conoscenza si collocano alternamente nella prima e nella terza delle presenze femminili ternarie, le tre oscure, solenni, tristi e dotate di fatale conoscenza si collocano al centro.
C'è un' altra, importantissima ragione per cui Gotterdammerung ha nel Ring una funzione speciale. La quarta opera è in realtà la prima, l'origine creativa. Wagner conobbe i miti nibelungici grazie all'opera, ancora recente quando egli era giovane, di due sommi germanisti cui si deve la reviviscenza di quei miti nella cultura tedesca dopo lungo oblio. Friedrich Heinrich von der Hagen (1780-1856) pubblicò l'edizione critica del poema tedesco medioevale Das Nibelungenlied tre anni prima della nascita di Wagner, e ancor prima, al pricipio del secolo, aveva scritto il saggio filologico preliminare zur Geschichte der Nibelungen ("per la storia dei Nibelunghi", 1800). Karl Simrock (1802-1876) pubblicò, quando Wagner era quattordicenne, una nuova edizione critica del Nibelungenlied (1827), emendata rispetto a quella di Hagen. Più tardi il compositore ebbe modo, grazie ad altri lavori di Simrock, di avvicinare le fonti eddiche. Delle due versioni dell'Edda, quella antica in versi, anonima, e quella del XIII secolo scritta da Snorri Sturluson in prosa, Simrock pubblicò una prima edizione a Stoccarda nel 1851. Da quell'arcaico e roccioso poema in lingua norrena (l'islandese antico in fase intermedia), Wagner utilizzò soprattutto la parte intitolata Volupsá ("La profezia della veggente"), in cui si parla dell'origine e della fine degli dèi e del mondo e si preannuncia il ragna rok, ossia, appunto, il "triste e crepuscolare fato" degli Asa, gli dèi luminosi del Walhalla, e dei mortali. Ciò che prima affascinò Wagner fu il nucleo narrativo-drammatico della morte di Siegfried (Sigurdhr nell'Edda, Sifrit nel Nibelungenlied). Il primissimo progetto preliminare, un canovaccio in prosa intitolato Die Nibelungensage e terminato il 4 ottobre 1848 con un nuovo titolo, Der Nibelungen-Mythus, si limitava alla vicenda di Siegfried alla corte dei Chibicunghi e all'uccisione dell'eroe da parte di Hagen. Ne nacque l'abbozzo in prosa del vero e proprio dramma, Siegfrieds Tod ("La morte di Siegfried"), scritto tra l'8 e il 20 ottobre 1848, e, come poema in versi, tra il 12 e il 28 novembre di quell'anno. Il dramma corrispondeva più o meno a ciò che poi fu Gotterdammerung. Poi, com'è noto, Wagner procedette quasi esattamente a ritroso nell' ideazione e nella sceneggiatura degli "antefatti", divenuti poi le altre tre opere del Ring. Solo un tratto della sequenza, la successione Der Raub des Rheingoldes ("Il furto dell'oro del Reno", poi intitolato Das Rheingold) e Die Walkure, seguì la cadenza cronologica degli eventi mitici. La composizione della musica seguì invece in tutto l'ordine delle quattro trame, dal Mi bemolle che apre il Ring sino al Re bemolle che conclude Gotterdammerung.
É ferrea, in quest' ultima opera più che nelle tre precedenti, l'immanenza del destino. Il cupo e strisciante Schicksalsmotiv ("motivo del destino"), più volte preannunciato sin dal Rheingold, qui assume un'urgenza minacciosa, che riempie ogni vuoto e ci preme da vicino. Già nel prologo, prima e durante la scena delle Norne, esso appare, a interrompere il "motivo del risveglio". Striscia tenebroso a metà della potente marcia funebre, durante il corteo di guerrieri che sollevano la salma dell'eroe ucciso. Destino e decadenza: tutti i personaggi, più volte apparsi nelle opere precedenti, sono in Gotterdammerung intristiti, oscurati o corrotti da qualcosa che prima non c'era, invecchiati. L'aura senile è onnipresente. In questo clima, tutto ciò che avviene per volontà dell'inconoscibile destino senza volto, del quale dèi e giganti e nibelunghi e uomini e le stesse Norne parlano con un brivido di sgomento, ha sempre il significato delle cose ultime. Quando, nel Prologo, la Norna più carica d'anni (di migliaia di secoli?) narra alle più "giovani" gli eventi sepolti nell' abissale passato e quelli tremendi fissati irrevocabilmente per il futuro (poi, dopo l'incendio universale, non ci sarà più né il futuro né il tempo), tuttavia, non si è ancora giunti all'irrevocabile, così come quando in Die Walkure Brunnhilde spera ancora, malgrado l'ineluttabile già scritto nelle rune, di salvare Siegmund. Nel momento in cui la fune d'oro si spezza nelle mani delle Norne, ed esse ripetono a catena: "Spezzata... spezzata... spezzata!", in quel momento si passa dall'ancora minimamente revocabile all'irrevocabile.

di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 29/11/1998)

sabato, settembre 06, 2008

Berio nel Laborintus

La sala non è piena e gira nell'aria minaccia di sciopero. Niente stupori, siamo alle solite: quando il piatto offre musica contemporanea, chi sa perché, gli umori all' interno dei teatri si riscaldano, e le curiosità del pubblico all'esterno si afflosciano. É successo di nuovo a Genova, dove in questa settimana (prudentemente, per sole tre repliche) il Carlo Felice ha tributato un dovuto omaggio al compositore ligure Luciano Berio con un programma ben impaginato: due classici degli anni Sessanta, su testo di Edoardo Sanguineti - Passaggio e Laborintus II - e una novità più recente, workwithinwork, in prima esecuzione genovese, da vedere oltre che sentire per la perfetta coreografia di William Forsythe col suo Ballett Frankfurt. La complessa messa in scena, firmata per la regia da Daniele Abbado, con le scene e i costumi di Gianni Carluccio, e con la direzione d'orchestra affidata a Pierre-André Valade (conosciuto come flautista), prevedeva la partecipazione di un drappello notevole di forze esterne: attori e mimi, chiamati per la parte dei contestatori, non si sono limitati a recitarla. E alle loro richieste si sono unite quelle di altri settori del teatro. Di fatto le attenzioni si sono spostate fuori della musica. Peccato. Il trittico - tre atti unici, mezz'ora l'uno - suona come una voce del nostro tempo. Tempo velocissimo, che fa sembrare le due partiture del '63 e del '65 teatro vecchio, mentre workwithinwork, in apparenza composizione esilissima, un castello di carte messo su con gesti delicati e perfetti - ventotto paginette per due violini soli, una manciata di secondi l'una -, dice molto della poesia semplice e fresca, spoglia ed essenziale, di cui oggi si ha bisogno. C'erano letteralmente due generazioni a confronto, nella musica di Berio. Da un lato i rumorosi contestatori di quarant'anni fa, con le loro verbosità iconoclaste, ridenti e irridenti; dall'altro i giovani di oggi, alta perfezione tecnica a colmare i silenzi espressivi. Il fil rouge che scorre interno alle tre partiture di Luciano Berio brilla di una luce adolescente e giovanile, fatta di disagi e solitudini, abiti magici di quelle età.
L'elemento contestatore in Passaggio (debuttante nel 1963 alla Piccola Scala, tra proteste e schiamazzi) è rappresentato dai due "cori", uno nella buca d'orchestra, l'altro mischiato tra le poltrone del pubblico, che contrastano la voce della donna sola sul palcoscenico. Eroina e vittima, viene messa all'asta ("una donna: perfettamente domestica"), e gli acquirenti chiedono di lei tutto, scatenati in fantasie d'epoca, del tipo se sia esotica o mordace ("e se scappa? Cosa mangia?"), concludendo che è troppo cara rispetto alle 610mila lire fissate da un invisibile battitore. "Dio, dio, che prezzi!", grida scandalizzata una dama-bene, alzandosi in piedi dalla sala. La sua vicina di posto, una signora anziana visibilmente turbata dalla baraonda che gioca a fare della realtà un copione di teatro, piano piano fa scattare la molla della borsettina da sera e, attenta a non far rumore, scartoccia una caramella. Ecco come il tempo della realtà - che Berio, come il teatro anni Sessanta, voleva interagisse con la scena - risponde oggi a una dichiarata provocazione dell'arte. Ieri il pubblico della Piccola Scala inveiva vociferando (l'aplomb di Eugenio Montale definì l'esito della prémiere "burrascoso"); oggi le abbonate genovesi del turno A tremolando s'infilano un dolcetto, a mandar giù la pillola un po' amara, mentre gli applausi sanciscono che quei gesti di rottura hanno fatto il loro tempo. Datatissimo, per il gusto odierno, suona Passaggio, sovraccarico nell'ordito, greve negli interventi aleatori in orchestra; insopportabile, ovviamente, dopo i primi tre minuti tutto il gridare degli elegantissimi attori disseminati in sala. Una piccola fiammella di luce viene dalla voce, quella della brava Alda Caiello, presenza minuscola tra quinte gigantesche, opprimenti. Un po' più fluida è la corrente in Laborintus II, non a caso tra i brani più eseguiti e incisi di Berio. Nobilitato da un testo dantesco rivisitato da Sanguineti (qui recitato dal figlio, Federico, appeso in alto a metà scena, imbracato come uno speleologo) e affidato al trio dalla patina arcaica di Nicole Tibbels, Sarah Leonard e Susan Bickley, il brano sprofonda, con scrittura raffinatissima, nel labirinto di un catalogo medioevale, saturo di oggetti e parole. Speculare a questo "tutto tutto tutto" angosciante, la regia di Daniele Abbado riempiva la scena con una sfilata impressionante di oggetti: una lavatrice, due poltrone di fronte a una tv, una bici, una ruota, due braccia e una gamba, una brandina, un bazooka, una scatola di detersivo Tide, per finire con la calata dall'alto di una mezza automobile, la mitica Fiat 1100, unico sguardo "umano" su quel deserto di relitti immoti.
Ma il dulcis, nella serata, era all'inizio. Da siparietti neri, nella scena vuota e nera, uscivano a piccoli gruppi, atletici e discinti in canotte e mutandine, senza un filo di malizia, i fantastici ragazzi del Ballett Frankfurt. Adolescenti tristi, ipercinetici, snodatissimi, perfetti acrobati avviticchiati, esplosivi di energia e velocità. Le loro figurazioni astratte, nelle silhouette di Forsythe, continuamente cangianti, andavano al cuore dell' interpretazione dei Duetti di Berio. Coriandoli in aria, poesia a piccoli sorsi. Suonavano Verena Sommer e Maxim Franke, evocando ora Bach, ora Bartok, ora l'andamento a berceuse di una canzone popolare; la fantasia dei gesti strumentali sposava il rigore di pochi elementi essenziali, spesso evidenti nei richiami delle armonie. Magari con un'amplificazione meno ruvida, di workwithinwork c'era da chiedere il bis.
di Carla Moreni (Il Sole 24 Ore, 25/2/2001)