Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, agosto 28, 2010

Mario Brunello: alla ricerca del silenzio

La recente pubblicazione in disco dell'integrale delle Suites per violoncello di Johann Sebastian Bach eseguite da Mario Brunello fornisce lo spunto per un'intervista con uno dei più completi musicisti italiani, umile, schivo, pacato, ben radicato nella propria terra e determinatissimo. I riflettori non fanno per lui. Ed è per questo che è facile incrociarlo su una cima dolomitica, in un monastero, in un bosco, oppure, ora, anche nel deserto. Durante il breve tour a piedi nella sua Castelfranco Veneto con una visita ai luoghi dell'infanzia, la Scuola Media, il Conservatorio, il Teatro (purtroppo il Duomo è già chiuso e la pala del Giorgione resta solo un rimpianto), Mario Brunello mi spiega che uno dei motivi che lo convinsero a lasciare l'Orchestra del Teatro alla Scala nella quale suonava nei primi anni ottanta fu proprio il malessere fisico e psicologico causato dalla vita quotidiana nel capoluogo lombardo. Brunello ha bisogno di spazio, di verde, di aria... Se non fosse diventato musicista avrebbe, forse, fatto il guardaboschi...
Giungiamo così all'Antiruggine, il cuore dell'attività del violoncellista veneto, un capannone preso in affitto che ospitava fino a qualche tempo fa un fabbro ferraio e che ora è divenuto lo spazio privilegiato per progettare le cose che più piacciono, ospitando gli amici di sempre (che si esibiscono senza ricevere compenso alcuno). Qui sono passati, ad esempio, Andrea Lucchesini, Moni Ovadia, Vinicio Capossela, Marco Paolini... Ed il pubblico, sempre numerosissimo, è tenuto a pagare un biglietto «responsabile», tre fasce di prezzo a seconda delle possibilità economiche di ognuno. L'ambiente è spoglio, non c'è palco, e le sedie, impilate ai lati della sala, vengono disposte dagli spettatori stessi ad inizio serata. E poi niente manifesti, niente pubblicità sui giornali, ma un semplice passaparola qualche giorno prima dell'evento, un tam-tam che passa anche sul web tramìte il blog http://www.brunelloantiruggine.blogspot.com/ ... et Voilà, il gioco è fatto.

Perché le Suites per violoncello conservano ancora oggi un ruolo privilegiato all'interno della produzione bachiana (e non solo) anche in rapporto agli analoghi lavori per violino e per clavicembalo?
Intanto c'è una ragione pratica che alimenta il mistero che aleggia intorno a quest'opera, e cioè la mancanza del manoscritto, cosa che, recentemente, ne ha fatto mettere in discussione addirittura la paternità...
Si riferisce alla suggestiva ipotesi che a comporle sia stata nientemeno che Anna Magdalena?
Certo. Ma lascerei stare le vicende musicologiche. Mi piacerebbe, invece, soffermarmi su ciò che, secondo me, rende questa musica misteriosa, unica, irripetibile, e cioè proprio l'«assenza» di qualcosa: mancanza del manoscritto come dicevo, mancanza delle indicazioni agogiche e dinamiche, ma soprattutto mancanza di una polifonia scritta per esteso...
... come nella Fuga che giganteggia nel Preludio della Suite n. 5, ad esempio...
... e per la mancanza di un dito rispetto ai violinisti, dovuta alle distanze sulla tastiera del violoncello, noi violoncellisti abbiamo l'handicap di non potere sostenere le note degli accordi a lungo, e di non poter suonare molti bicordi in successione, perciò non riusciamo a sostenere polifonie. Ma in questa musica le polifonie ci sono eccome, evidentissime ma non sempre percepibilissime. L'esecutore e l'ascoltatore possono così seguire una linea che ogni tanto viene messa in chiaro, ma spesso sembra smarrirsi per poi riaffiorare e uno deve navigare un po' di fantasia, adoperando la propria cultura, la propria esperienza per riuscire a raccapezzarsi.
Sta all'interprete stimolare questa sorta di inconscio uditivo?
Sì, ma la verità rimarrà inafferrabile. Questo è il bello. Una Sarabanda, come quella della Suite in Do minore, non potrà mai essere suonata e ascoltata allo stesso modo perché armonicamente resta talmente aperta a più soluzioni che le concatenazioni stesse paiono sempre rinnovate. Anche l'ascoltatore che sa poco o nulla di musica, secondo me, avverte questa ambiguità, avverte l'inconsistenza, la mancanza di un appoggio fermo. E io, lì... inizio a volare. [Mario Brunello alza un po' gli occhi, chiudendoli rapito] Chissà quale armonia percepisce un ascoltatore nella propria testa. Se gli consegno l'accordo completo con la sua bella fondamentale tutto è più semplice...
... come nelle Sonate e Partite per violino solo e, soprattutto, nelle Suites clavicembalistiche, dove la componente armonica è più definita...
... senza contare che all'epoca di Bach i violini e le tastiere erano quasi standardizzati nella forma e nelle dimensioni. Il violoncello no, anzi! Il violoncello, che, mi piace ricordare, non fa parte della famiglia della viola da gamba, era allora di tutte le misure ed era ben diverso da quello odierno, accordatura variabile, più corde, meno corde...
Beh, a questo punto il riferimento alla Suite n. 6, scritta per uno strumento a cinque corde, è d'obbligo. Lei la suona sul violoncello nonostante in questo modo la stessa Suite sia molto più esigente dal punto di vista tecnico, specialmente nel registro acuto dove, appunto, manca la corda Mi...
In effetti per questa incisione il problema me lo sono posto, però, nei confronti del mio strumento [n.d.r., un magnifico Pietro Santo Maggini di inizio Seicento, appartenuto a Franco Rossi, dal suono caldo e vibrante] sarebbe stato un tradimento e quindi...
... hanno vinto le ragioni del cuore!
[Brunello abbozza timidamente un sorriso] Abbandonare il violoncello proprio in uno dei momenti più espressivi e profondi dell'intera raccolta sarebbe stato un delitto.
E invece che mi dice della «scordatura» praticata eseguendo la Suite n. 4 (e non solo nella Suite n. 5 dove è una prassi)? Mi spiego meglio: Lei suona la Suite in Mi bemolle maggiore con l'accordatura Fa-Sib-Mib-Lab, cioè due toni sotto l'usuale La-Re-Sol-Do. Perché?
Ho sempre visto la Suite n. 4 come la pecora nera delle serie. Le altre cinque hanno un enorme vantaggio nei suoi confronti, e cioè la presenza di due corde vuote con il conseguente aumento della risonanza naturale dello strumento: Sol e Re nella Suite in Sol maggiore, La e Pe nella Suite in Re minore e in quella in Re maggiore, Sol e Do nella Suite in Do maggiore e in quella in Do minore. La Suite in Mi bemolle maggiore ha sì il Sol, ma obbligatoriamente viene stoppato dal dito che deve andare a suonare il Sib o il Mib. Il colore generale del brano è affascinante, ma una indubbia difficoltà a far risuonare e sostenere certi accordi o anche certi tempi è evidente.
Allora Lei ha pensato di modificare l'accordatura a proprio uso?
E' così, ma non mi sono arrovellato più di tanto su questo problema filologico, anche perché si sa che all'epoca tra una città e l'altra il diapason poteva variare anche di un tono e mezzo. Allora ho trasportato la Suite n. 4 dal Mi bemolle al Sol maggiore recuperando così due corde vuote, e per mantenere il colore scuro della tonalità originale ho abbassato di due toni l'accordatura del violoncello.
In questo modo, e mi sto riferendo alle battute 29-31 del Preludio, ha potuto completare la scala discendente dei bassi anche sotto il Do, e raddoppiare in ottava qualche Sib, come nella successiva Allemanda...
Bach ha dovuto spezzare quelle scale proprio a causa del limite dello strumento in basso, ma ogni violoncellista «sente» quelle note... situazioni analoghe si trovano anche nelle composizioni per tastiera... Grazie alla scordatura riesco anche a realizzare il sogno di suonare la Sarabanda in pizzicato.
Quando esegue la Suite in Mi bemolle maggiore in concerto pratica questo tipo di scordatura?
Se la si esegue da sola la cosa sarebbe anche fattibile, ma io preferisco suonarla in Sol maggiore con il diapason a 415. Forse perdo qualcosa in colore, ma la risonanza resta. Provi a pensare allo sconquasso provocato dal cambiamento della tensione delle corde; due toni giù, due toni su... Quando l'ho registrata ho lasciato riposare il violoncello per una quindicina di giorni!
Il colore del suono, diceva. Nel booklet che accompagna la Sua incisione, molto spartano in verità, ci sono tre fotografie abbinate ai tre CD che raffigurano licheni, rispettivamente a sfondo rosso, grigio e giallo...
Fin da quando ero ragazzino mi è sempre piaciuto trovare abbinamenti riferiti al colore del suono e quindi l'impaginazione è proprio legata a una mia sensazione: la terza e la prima Suites sono rosse, la quarta e la quinta grigie, la seconda e la sesta gialle.
Perché i licheni?
I licheni rappresentano una forma di vita misteriosa. Non si sa bene cosa siano... è appassionante, poi, guardarli da lontano. Le loro aggregazioni sfuggono a qualsiasi catalogazione, sembrano nuvole, paesaggi, città, ingranaggi. Solo avvicinandosi si colgono gli elementi costitutivi del tutto. Per me le Suites di Bach sono la stessa cosa, più si sta distante più si può immaginare un universo vago seppur enorme e infinito, man mano ci si accosta si entra nel particolare e si scoprono le piccole cose che rendono grande l'universo.
E' questo il motivo per cui la Sua nuova incisione ha una presa di suono così ravvicinata? Cadono tutte le barriere... e l'ascoltatore fa quasi fatica a distinguere il contenuto musicale dallo strumento che lo produce. Il capolavoro brilla davvero da vicino...
E' stato un rischio che ho voluto correre in prima persona. Mi interessava situare l'ascoltatore accanto a me e non di fronte a me. E il risultato mi soddisfa perché in questa registrazione percepisco quello che sento veramente io mentre eseguo. Il mio suono frontale non lo conosco e mai lo potrò sentire. In genere non mi fido delle registrazioni, ma credo in quello che sento. In questo caso vorrei dire all'ascoltatore «Stai sentendo esattamente quello che sento io», e forse questo è anche un modo di suonare insieme...
La ricerca timbrica L'ha portata a plasmare un suono inaudito, ad esempio, nell'attacco della Suite in Re minore, il Suo Maggini sembra uno strumento a fiato!
Mi fa piacere che Lei l'abbia notato. Mi interessa provare e riprovare timbriche nuove. Ricordo benissimo la primo volta che ascoltai il suono della dulciana. E' a questo che tento di rifarmi qui. Non dimenticherò mai quel colore. Anche nella Bourrée Il della Suite n. 3 o nella Gavotta II della Suite n. 5 cerco di arrivare a quel suono.
Ma non è solo immaginazione... L'effetto timbrico è affascinante. Come si fa? Non credo basti pensarlo...
Ci vuole aria. Bisogna togliere vibrazioni dalle corde e mettere più aria possibile. L'arco ha la possibilità di produrre aria, viaggiando veloce, leggero, eliminando così quella sensazione di fatica dovuta all'attrito dello strofinamento.
E a quel punto scatta l'illusione ...
A quel punto si può immaginare ... e la libertà dell'ascoltatore regna sovrana.
Parliamo ora di prassi esecutiva. L'uso parco del vibrato, ad esempio...
Nella mia prima incisione, che risale al 1993, il vibrato rappresentava una delle risorse espressive. Ora non ne sento più il bisogno. Ho fatto un lavoro abbastanza approfondito sulla tecnica dell'arco pensando a un attacco del suono che assomigli al pizzicato. L'articolazione inizia, quindi, proprio dalla vibrazione provocata dal pizzicato, con un impulso seguito da una risonanza. Il vibrato andrebbe a fermare questa risonanza. Dove invece c'è un suono da sostenere o da enfatizzare è la mancanza di vibrato che ormai mi affascina. Sembra di rimanere senza fiato, a bocca aperta...
Il discorso filologico è stato, quindi, da Lei metabolizzato senza esasperazioni, vedi la sobrietà anche nell'uso degli abbellimenti e delle variazioni...
... con una ferma decisione nello scegliere il tipo di articolazione, come dicevo prima, e una totale apertura nei confronti di un testo che non deve essere letto rimanendo imbrigliati dalla ripetitività delle legature. Ho imparato molto dall'attore Marco Paolini. Anch'io ora provo a far mio un testo, consapevolmente. E' necessario per il futuro della musica. Bisogna avere il coraggio di prendersi delle responsabilità nella lettura del testo.
Nel Preludio della Suite n. 1 quindici anni fa, per esempio, non riuscivo a staccarmi dalle legature delle due quartine, come era d'altronde tradizione. Ora, dopo aver fatto un lavoro sul testo, appoggio la prima nota e, cominciando in su, penso che una melodia ci deve pur essere da qualche parte. La immagino iniziare sulle note Si-La-Si della prima battuta. La libertà sta alla base di tutto...
Libertà anche nel tempo? Se eseguiamo a metronomo proprio il summenzionato Preludio in Sol maggiore, una pagina zeppa di semicrome, si ottiene ben poco! Cosa intende il maestro Brunello per «tempo»?
E' una questione ancora aperta per me quella della scelta e della libertà del tempo. Io non riesco a immaginare il tempo come motore del discorso musicale. Per me il tempo è un'esigenza ovvia. Per dire una cosa bisogna dirla nel tempo ma non è detto che se sul pentagramma trovo una quartina io debba suddividerla esattamente. Il tempo è il silenzio che c'è prima della prima nota e il silenzio che c'è dopo l'ultima nota e io lo devo riempire con le parole che sento la necessità di dire.
Un tempo cercato, un tempo interiore...
Probabilmente un tempo personale. Riascoltando l'incisione delle Suites ho sentito tantissime libertà, tantissimi respiri, ma io faccio così anche quando parlo! Mi prendo i miei tempi, come ho fatto nell'impostazione della mia vita e spero che bastino per arrivare... a fare tutto.
Presumo che l'aspetto speculativo nella musica di Bach non sia allora una priorità...
Questa musica non è scritta solo per gli occhi. Questa è musica viva.
Monastero di Bose e Dolomiti: due luoghi che La vedono spesso protagonista. La spiritualità e la montagna Le si addicono particolarmente?
Ho iniziato a percorrere anche la strada dei deserti. E il denominatore comune resta il silenzio. lo cerco il silenzio! E' impagabile la gioia infinita per un musicista di poter sentire la musica senza che sia suonata. E dove sta questa musica se non nel silenzio? Niente sala da concerto, né tantomeno acustica perfetta, ma uno spazio silenzioso ed infinito che abita la mente dell'esecutore e ancor più del compositore. La musica nasce dal silenzio che diviene così indispensabile. In una sala da concerto il silenzio è teso, carico, provocante, fatto dal «non parlare» di tante persone. Ma in alta montagna, nel deserto, in un monastero il silenzio è sovrano. E lì ho anche scoperto un modo diverso di fare musica, un modo che non va a gratificare solo l'orecchio, ma che privilegia quella fisicità che sa trasformare l'evento in un'esperienza a più ampio respiro, dove interprete ed ascoltatore possono e devono interagire.
Ma l'esecutore non può sempre scegliersi il pubblico.
In quei luoghi, forse sì...
E cosa mi dice di Antiruggine, un ex-capannone dove si lavorava il ferro?
Era un'esigenza che sentivo da tempo quella di creare uno spazio libero dove poter condividere esperienze musicali. Qui non si fanno concerti nel senso tradizionale del termine, ma gli artisti si raccontano. Sento che la musica deve perdere un po' di cornice e concentrarsi sul fatto in sé. Vede, non c'è nemmeno un palco.
Uno spazio che è anche un laboratorio?
Certamente. Per esempio l'idea di eseguire le Suites di Bach in sei concerti, in ognuno dei quali una Suite viene suonata, raccontata e, poi, risuonata, è nata qui quasi per caso... E, pare, funzioni, tanto che l'anno prossimo presenterò il progetto all'Accademia di Santa Cecilia.
Quindi non Le interessa eseguirle tutte in una serata come fanno alcuni Suoi colleghi?
No, assolutamente no. Sarebbe impossibile.
Per lo spettatore o per Lei?
Per tutti e due. Per lo spettatore è una maratona a mio parere troppo impositiva. La mia avventura, invece, è nata l'altra estate sulle Dolomiti [ed è narrata con ingenuità e naturalezza dal bimbo Davide nel racconto di Davide Longo «Il signor Mario, Bach e i Settanta» n.d.r.], una vera e propria spedizione alpinistica di quattro giorni inframmezzata dall'esecuzione delle Suites con riferimenti naturalistici a seconda delle ore e dei luoghi. Mi sono sentito veramente appagato.
Chi portava il violoncello?
Io! Nelle avventure importanti lui c'è sempre. Non posso tradirlo...
Il repertorio che La stimola di più è sempre associato ai Suoi interessi? Il melodramma, credo, non sia ai primi posti nella scala dei Suoi gusti musicali...
No, si sbaglia. Ho «rubato» molto dal mondo dell'opera. Ascolto e apprezzo, ma in questo momento mi interessa di più lavorare sul violoncello solo.
E Marin Marais e la viola da gamba?
Arriveranno, arriveranno.... Adesso mi piace molto la musica etnica del Medio Oriente che si adatta benissimo al mio strumento. E poi c'è anche parecchia musica contemporanea...
E la musica da camera? Qualche anno fa al Conservatorio di Milano ebbi la fortuna di assistere a una memorabile esecuzione del Quintetto di Schubert eseguito dal Quartetto Alban Berg. Si ricorda chi sedeva al leggio del secondo violoncello?
[I sorrisi di Mario Brunello non si trasformano mai in risate fragorose. E' da piccoli gesti che si intuisce la sua forte passione.] Fu un'esperienza indimenticabile. Come fare un giro in Ferrari!
Ma a Lei piace anche moltissimo suonare in orchestra...
Le ultime esperienze a Lucerna con Claudio Abbado sono state assolutamente strepitose: tra l'altro una Settima di Mahler e un Secondo Concerto di Brahms con Pollini, dove ho avuto la gioia di suonare l'assolo nel terzo movimento!
Ripercorriamo, ora, brevemente i Suoi esordi.
Fu un percorso abbastanza tradizionale...
Se non erro, Lei iniziò con la chitarra...
... e il mio maestro quando avevo sette anni cominciò a inculcarmi la convinzione che sarei diventato violoncellista. La Bourrée della Suite n. 3 la suonavo già da bambino proprio in una trascrizione per chitarra. Voleva assolutamente farmi conoscere il mondo del violoncello il mio maestro. E aveva ragione! Qui a Castelfranco c'era il Conservatorio e c'era anche un Teatro, dove ho suonato innumerevoli volte nei programmi più disparati. Il salto a Venezia con Vendramelli, primo violoncello alla Fenice, l'incontro con Antonio Janigro che mi aprì gli orizzonti verso il concertismo, essermi imbattuto in Franco Rossi e il suo, ora mio, Maggini, sono tappe forse anche fortunate che hanno segnato fortemente i primi passi di una carriera sfociata spontaneamente nell'Orchestra del Teatro alla Scala. Lì ero primo violoncello e quando arrivò Riccardo Muti gli chiesi un'audizione di conferma. Muti non solo espresse apprezzamenti nei miei confronti, ma mi incoraggiò a misurarmi in un concorso. In quell'anno, nel 1986, mi iscrissi così a tutti i più importanti concorsi internazionali che si effettuavano. Il primo in ordine di tempo era il Ciaikovski. Partecipai e, incredibilmente, lo vinsi...
La commissione da chi era presieduta?
C'erano ben diciassette commissari e il presidente era Danil Shafran. Presentai un programma con i soliti pezzi d'obbligo, ma un brano di Dallapiccola mandò in crisi i giurati. Ero l'unico italiano. Puntavo, è vero, alla finale, ma non avrei mai immaginato come poi sarebbe andata a finire.
Gli altri candidati erano sostenuti dal loro conservatorio, dalla loro università, dai loro maestri. Alla fine delle prove tutti venivano ricevuti dalle loro ambasciate. Io, invece, mi trovai solo, irrimediabilmente solo, come abbandonato da un paese che negli ultimi anni non hai mai mostrato un reale interesse verso la cultura musicale. E devo dire che ci sono rimasto proprio male. Sono venuto a sapere, poi, che Riccardo Muti, ad una prova, alla notizia della mia vittoria aveva brindato con tutta l'orchestra.
E da allora è iniziata la Sua brillante carriera solistica. Ha ancora desideri?
Vorrei suonare Wagner in orchestra. Tristano o anche Parsifal. Wagner è l'emozione del suono. Bisogna conoscerlo. Non si può saltare da Brahms a Richard Strauss così... [... bussano alla porta. Entra un signore sulla sessantina che saluta Brunello affabilmente. «E' il fabbro!» mi dice sottovoce Mario Brunello ammiccando. L'affettuoso scambio di occhiate fra i due è eloquente. Attendo un attimo, poi riprendo ... ].
Qual è il Suo rapporto con la sala di incisione?
Ho sempre mostrato una certa ritrosia verso la registrazione. Non ne sentivo la necessità. Forse anche perché le cose che suonavo non erano ancora pronte per essere fissate in maniera definitiva. Ora la penso un po' diversamente, il momento è arrivato e poi una registrazione si può anche ripetere in futuro... Janigro mi ha condizionato molto quando mi insegnava che prima di affrontare un pezzo nuovo non dovevo ascoltare le interpretazioni dei colleghi. L'alternativa, mi diceva, era di esaminarle tutte! Una registrazione bene o male influenza e se si vuole rimanere puri di fronte a un pezzo nuovo è meglio spegnere l'Hifi.
Anche nel caso delle Suites di Bach?
Qui la cosa era impossibile. Ne ho ascoltate talmente tante...
Qualche preferenza?
Pablo Casals resta il numero uno per la grande energia che ancora oggi lascia sbalorditi. Ascoltavo volentieri anche l'interpretazione di Maurice Gendron. Mi piaceva molto il suo modo pulito, nitido di eseguire Bach. Ma indubbiamente tutti hanno qualcosa da dire.
Riesce a studiare regolarmente?
In questi ultimi tempi sto recuperando una certa metodicità, cosa che da tempo non succedeva più a causa degli spostamenti, delle tournée... Ora rinuncio volentieri a qualcosa per stare un po' con il mio violoncello.
Mattina o pomeriggio?
Mattina, pomeriggio, sera e notte. Non mi stanco mai!

intervista di Massimo Viazzo ("Musica", n.218, luglio/agosto 2010)

sabato, agosto 21, 2010

Eschenbach: il gesto di Mahler

Gustav Mahler è un compositore che spesso si incontra nei programmi diretti da Christoph Eschenbach, e negli ultimi anni il direttore ha cominciato a inciderne le sinfonie: la Prima con la Houston Symphony Orchestra (Koch Intemational) purtroppo è fuori catalogo; la Sesta con la Philadelphia Orchestra e un movimento di un giovanile Quartetto con pianoforte, qui suonato dallo stesso Eschenbach, fanno invece parte di un doppio cd edito nel 2006 dal label finlandese Ondine (distribuzione Jupiter). Con la stessa orchestra Eschenbach ha registrato anche la Seconda e l'Ottava, ma i dischi ancora non sono in commercio. Non deve quindi stupire che anche con l'Orchestre de Paris, compagine di cui Eschenbach è direttore musicale, abbia deciso di portare in tournée le sinfonie del compositore boemo. Qualche ora prima di un concerto al Festival di Grafenegg, abbiamo incontrato Christoph Eschenbach per parlare della, Prima Sinfonia, opera principale del programma serale.

Il suo sito internet accoglie i visitatori con le note di questa sinfonia. Verrebbe da pensare che per lei abbia un significato particolare.
«No, ogni sinfonia di Mahler per me rappresenta qualcosa di particolare. Le nove sinfonie sono molto diverse e uniche nella loro struttura e nel loro messaggio. Non si può quindi dire che una sia la mia preferita. Tutte mi stanno molto a cuore».
Questa sinfonia guarda sia al passato che al futuro?
«Esattamente. E' in quattro movimenti, con un primo tempo e un'introduzione, uno scherzo, un trio, un movimento lento e un gran finale. Si inserisce quindi nella tradizione di Beethoven e Brahms. Tuttavia, ogni movimento è così unico e peculiarmente nuovo, che la forma tradizionale diventa solo l'involucro per un messaggio. Successivamente, già a partire dalla Seconda Sinfonia, Mahler rompe del tutto la forma. Ma prendiamo l'inizio della Prima Sinfonia, l'introduzione. Fin dal primo suono ci troviamo di fronte a qualcosa di assolutamente fuori dall'ordinario: i suoni flautati, l'inizio in minore e non nella tonalità d'impianto, il fatto che il tema finale trionfale in maggiore qui si trovi in minore e frammentato, in richiami (bb 3-5). Fin dall'inizio Mahler gioca con la struttura. E poi sulla partitura c'è l'indicazione «wie ein Naturlaut' (come un suono della natura)_Questo definisce un mondo sonoro immaginario che, a dire il vero, è incompatibile con la sala da concerto».
Qui al Festival di Grafenegg avrà la possibilità di dirigere la sinfonia all'aperto.
«Sì, ci ho pensato, non ne ho mai avuto la possibilità prima. Continuando, questi suoni della natura durante l'introduzione si fendono in una piccola scena di caccia dei claninetti (da b. 9) che risuona da lontano. E poi a b. 22 entrano le trombe. In partitura Mahler scrive in "sehr weiter Entfernung aufgestellt" (messe a grande distanza)».
Come interpreta tecnicamente questa indicazione?
«Faccio suonare i trombettisti dietro il palco».
E alla fine della sinfonia (quarto movimento, b. 656) fa alzare in piedi i cornisti come richiede la partitura?
«Si, io faccio quello che Mahler ha scritto. Ritornando al primo movimento, il suono delle trombe da lontano si avvicina (adesso in partitura c'è scritto "a distanza" e non più "a grande distanza"), poi entra e si mischia il richiamo del cuculo del clarinetto (b. 30) e i corni intonano una melodia nostalgica che nonostante venga suonata dal palco ha qualcosa di distante. Lentamente il movimento si sviluppa e giunge al tempo principale. In un canone misterioso dei comi (da b. 49) e con il ritorno del richiamo del cuculo, il movimento viene definitivamente aperto. Questa introduzione di per sé è unica per il suo tempo, una cosa del genere nella musica sinfonica non era mai stata scritta, e per questo ha anche un effetto molto particolare. Anche all'inizio dello sviluppo c'è qualcosa che non era mai stato scritto prima: un passaggio "misterioso" con gli incisi del violoncello (da b. 169) e l'elaborazione su un pedale della tuba (b. 180) che si estende per 13 battute e che è terribilmente difficile da eseguire. Si aggiungono i colpi misteriosi di grancassa, ritornano i richiami del cuculo e poi tutto si dischiude».
La simbologia della natura e il contenuto programmatico originariamente dettato da Mahler sono così importanti per l'esecuzione della sinfonia o è l'elemento strutturale a prevalere? In fondo il richiamo dei cuculo, non è altro che l'intervallo di quarta, cellula tematica alla base di tutta la composizione.
«Mahler dava dei titoli alle sinfonie, ma non li voleva vedere stampati, e non voleva che il pubblico li conoscesse. Però parla del pubblico, del direttore d'orchestra non dice nulla».
Da un punto di vista formale, nel primo movimento il tradizionale dualismo tematico della forma sonata viene abbandonato. Anche se alcuni analisti identificano un primo (bb. 62-84) e un secondo gruppo tematico (bb. 84-135), il secondo gruppo sembra derivare dal primo.
«Sì, anch'io la vedo così. Ma nella tradizione sinfonica precedente ci sono diversi esempi che mostrano analogie con questa soluzione formale: il primo movimento della Prima Sinfonia di Brahms non ha un vero e proprio secondo tema e anche la Quarta di Schumann. Mahler aveva studiato la musica di Schumann e prosegue il suo cammino formale alla ricerca di nuovi modi di pensare la forma sonata».
Alla fine dell'introduzione (b. 59), e spesso nel corso dei primo movimento, torna l'indicazione Gemachlich.
«Da una parte vuol dire comodo, ma Mahler intende anche comunicare prudenza. Anche perché a b. 63, quando i violoncelli enunciano il tema ripreso dai Lieder eines fahrenden Gesellen, o meglio quando questo tema dalla eco del richiamo del cuculo, il carattere si sviluppa da sé, dal contesto. Il direttore non deve fare nulla».
Una delle prime versioni della sinfonia, in cinque movimenti, prevedeva un secondo movimento chiamato "Blumine".
«Si, un paio di volte l'ho eseguito anche io, e mi è piacuto molto. Però la sinfonia diventa più lunga e non è più così concisa. Per questo, credo, Mahler lo ha successivamente tolto. Anche perché nella versione in quattro movimenti, le atmosfere del primo e del secondo e del terzo e del quarto movimento sono strettamente correlate. Il movimento 'Blumine' è molto bello, ma per Mahler la correlazione formale era forse più importante di aver dentro "Blumine"».
Anche il carattere del secondo movimento sorprende. Alcuni lo hanno definito usando la categoria estetica della trivialità.
«Ma no, per carità, è una danza boema! Io la lascio eseguire "alla monella"».
Il contrasto con il primo movimento e con il trio che segue è molto forte, anche a livello strutturale. C'è un dualismo semplicità/complessità?
«Sì, il walzer del trio si staglia meravigliosamente dallo scherzo. Qualcosa di simile c'è nella Sonata in sol maggiore di Schubert».
Nel secondo movimento l'elemento popolare è evidente. E nel primo?
«Le allusioni alla musica popolare nel primo movimento sono già nel tema, ma anche a, b. 358. (canta). Direi che questa è una canzone popolare. E poi non bisogna dimenticare la musica della tradizione militare, che tornerà anche nelle sinfonie successive».
Prendiamo il canone Frère Jacques, utilizzato in minore all'inizio del terzo movimento. Sembrerebbe che vi si accenni già nel primo movimento, nell'introduzione (da b. 47) nella progressione di contrabassi e violoncelli e nello sviluppo (arpa da b. 188). Mi chiedo se l'idea di utilizzare questa melodia nel terzo movimento derivi veramente dalla celebre incisione per bambini che mostra gli animali mentre trasportano la bara dei cacciatori, oppure se l'idea tematica del primo movimento gli abbia suggerito l'uso di Frère Jacques.
«Da un punto di vista tematico e motivico tutti i movimenti della sinfonia sono in relazione. L'intervallo di quarta ha un ruolo importantissimo, vaga per tutta la sinfonia e ritorna sempre in vesti differenti, Ciò vale anche per il tema cromatico del primo movimento (b. 47), un tema misterioso, carattere che ritorna ogni volta che questo tema affiora nella sinfonia. Non so se sia venuta prima l'illustrazione o l'idea motivica, e in fondo non è nemmeno così importante. La cosa essenziale e stupefacente è come Mahler abbia saputo creare tale organicità con così tanti colori, influenze e idee differenti».
L'inizio del terzo movimento è un trattato di strumentazione.
«E' incredibile. La prima parte del movimento, fino alla cifra 5 (b. 38) quando entrano gli oboi in una sorta di musica klezmer, è un capolavoro di strumentazione. Tutto è in pp, e anche se gli strumenti diventano sempre di più, tutto resta in pp».
Come mette in relazione il primo momento tematico, il canone, e la melodia klezmer?
«La melodia klezmer è una sorta di secondo tema, ma è un pensiero nuovo, come anche l'episodio in sol maggiore di cifra 10 (b 83), che è una citazione nostalgica, triste e melanconica di una canzone popolare, che Mahler prende dall'ultimo dei Lieder eines fahrenden Gesellen».
Alla cifra 6 (b. 45) Mahler scrive «con parodia».
«Mahler intendeva l'ironia non come la pensiamo noi, ma in senso aristotelico, con il significato di parodia in sé, che capovolge il suo oggetto. Alla cifra 6 troviamo di nuovo i richiami di quarta, ma capovolti».
E' proprio l'inizio del quarto movimento, l'eruzione sonora, ad accogliere i visitatori della sua pagina internet.
«Volevo aprire la pagina con un grande gesto. Fino a questo momento, nella sinfonia non c'era stato un gesto simile, così grande. La vemenza che pervade la musica fino alla cifra 15 (b. 174) è unica nella sinfonia, è improvvisa. Il fa minore si estende irrequieto per così tante pagine, fino a che arriva nuovamente qualcosa di assolutamente nuovo e unico, il tema andante in re bemolle maggiore di b. 175, uno dei temi più belli della sinfonia. Quello che sorprende è che improvvisamente arriva una cosa nuova, che poi non tornerà più, se non alla fine della composizione, quando Mahler cita parti di tutta la sinfonia. E' un tema completamente nuovo, ma completamente integrato. Stupisce come Mahler non diventi mai frammentario».
Da un punto di vista della tecnica della direzione, nel quarto movimento deve essere molto difficile controllare questa furia sonora senza cadere nell'eccesso.
«II direttore deve fare molta attenzione alla cifra 34 (b. 375). Dopo una pausa generale c'è un'"apoteosi d'inganno" e un accordo di do maggiore che arriva come una meteora. Sembra la fine della sinfonia, ma solo per tre battute. Improvvisamente la partitura si svuota, e lo si vede anche dalla sua immagine visiva. E' parca, non succede nulla, fluisce in una sorta di bassa marea. Poi Mahler cita il primo movimento e altri momenti della sinfonia. Anche questo non ha, precedenti, anche se qualcosa di simile c'è nella Terza Sinfonia di Schumann».
Alcuni hanno definito retorico quest'ultimo movimento, ma alcune sue soluzioni armoniche sono molto audaci, sono costellazioni e agglomerati accordali che anticipano il linguaggio musicale futuro.
«Sicuramente qui Mahler è profetico, soprattutto nell'"apoteosi d'inganno" di cui abbiamo già parlato e a partire dalla cifra 22 (b. 254), dove troviamo armonie molto audaci e musica selvaggia. Alla cifra 12 (b. 143), per esempio, Mahler scrive "mit großer Wildheit" (con gran furore). Questi non sono effetti, e nemmeno momenti episodici e superficiali».

Juri Giannini ("il giornale della musica", Anno XXIV, n.253, novembre 2008)

sabato, agosto 07, 2010

Harnoncourt: il Requiem di Mozart, la sua sola opera di carattere autobiografico

Non voglio dedicarmi in questa sede a uno studio analitico o musicologico di quest'opera, ma solo raccontare le impressioni che ne ho ricevuto quando ho lavorato sul Requiem di Mozart. In primo luogo, benché ci sia giunto in forma frammentarla e sia stato terminato da Sussmayr in un modo che tanto spesso è stato severamente criticato, la coesione, la concezione globale dell'opera mi sembrano ben più pregnanti di un tempo: non posso assolutamente considerare le sezioni complementari come corpi estranei dal punto di vista musicale, sono mozartiane nell'essenza. Mi sembra impossibile e assurdo credere che un compositore di seconda categoria come Sussmayr, le cui opere non vanno mai aldilà di una banale mediocrìtà, abbia potuto completare lui stesso il Lacrimosa e comporre il Sanctus, il Benedictus e l'Agnus Dei. Anche la luminosa ispirazione del resto dell'opera, che in qualche modo avrebbe dato ali a Sussmayr, non riesce a convincermi che questa sia l'origine di quella musica. Secondo me, anche quei movimenti sono di Mozart, vuoi che Sussmayr fosse astuto a tal punto, vuoi che Mozart, nel corso della loro collaborazione, gli abbia suonato queste composizioni che sarebbero rimaste scolpite nella memoria di Sussmayr. La manifesta differenza di qualità fra la composizione e la strumentazione dì Sussmayr non fanno che rafforzare la mia convinzione.
Grazie alle sue lettere, sappiamo che l'idea della morte, che affrontava da credente, era familiare e naturale per Mozart. Così, nel 1787, dunque all'età di trentun'anni, scriveva al padre malato: «... Poiché la morte (a guardare da vicino) è il vero scopo finale della nostra vita, mi sono a tal punto familiarizzato, negli ultimi anni, con questa vera e perfetta amica dell'uomo che la sua immagine non solo non ha più nulla di temibile per me, ma mi appare tranquillizzante, molto consolante! E ringrazio Iddio per avermi concesso la felicità di cogliere l'occasione (Voi mi capite) di imparare a conoscerla come la "chiave" della nostra autentica felicità... Non mi corico mai senza pensare che forse l'indomani (per giovane ch'io sia) non sarò più qui ... ».
Il quartetto della morte di Idomeneo, che Mozart scrisse dieci anni prima del Requiem, mi sembra già un confronto molto personale con la propria morte. Il compositore, che si identificava con Idamante, conservò per tutta la vita un rapporto emotivo di straordinaria intensità con quest'opera, ma soprattutto con questo quartetto. Si dice che una volta che gli accadde di cantarlo a Vienna, certamente nella parte di Idamante, ne fosse commosso fino alle lacrime, fino a doversi interrompere. Si racconta una storia analoga a proposito di una specie di prova del Requiem nel corso della quale, poco tempo prima della sua morte, provando le sezioni già terminate, Mozart si sciolse in lacrime nel Lacrimosa, incapace di continuare.
L'intera opera mi dà l'impressione di un accostamento molto profondamente personale, spaventevole, sconvolgente in un compositore che normalmente separava in maniera addirittura sorprendente la sua vita e la sua esperienza personale dalla sua arte. Il preludio strumentale è un compianto funebre (corni di bassetto e fagotti), su cui gli archi gravi e acuti suonano alternativamente delle figure, diciamo così, singhiozzanti che in Mozart rappresentano il pianto. Questa quieta tristezza è spezzata dagli squilli forti dei tromboni, delle trombe e dei timpani alla battuta 7: la morte non è solo una dolce compagna, ma anche il gradino verso il temuto giudizio. Qui per la prima volta, come forse anche Mozart, sento come il testo liturgico ufficiale diventi un confronto sconvolgente, assolutamente personale, con la morte: la morte coglierà un giorno cìascuno di noi ma cosa ne sarà di me? O come, dopo «luceat eis», alle battute 17-20, le preghiere comuni sfociano in un tranquillizzante motivo di consolazione: andrà tutto bene perché esiste una misericordia. Il Kyrie, preghiera per la divina misericordia, si eleva dalla fuga generale, in appelli omofonici sempre più personali, esigenti: Signore, devi perdonarmi! L'opposizione del generale e del particolare è particolarmente marcata nella sequenza: il Dies Irae dipinge impietosamente l'orrore del giudizio estremo, la severità del giudice («cuncta stricte discussurus!»); il Tuba mirum, il risveglio dei morti nel giudizio: nulla resta inespiato («nil inultum remanebit») dopo di che viene la domanda angosciosa, personale e commovente: «Povero come sono, cosa dirò allora?» O il vivo contrasto fra il re onnipotente e l'«io» e me stesso: «Salvami, sorgente di pietà», nel Recordare, movimento che, secondo la testimonianza di Costanza, era per Mozart di un'importanza particolare, sfocia in una preghiera pressante e profondamente fiduciosa: «Mi hai salvato per mezzo della tua sofferenza, questo dolore non deve essere vano». Capisco l'atteggiamento particolare di Mozart, religioso e musicale, verso questo movimento: a tal punto sottolinea l'elemento personale dei rapporti con Dio e rappresenta l'eventualità di un'affettuosa clemenza da parte di questo giudice che in precedenza era descritto come impietosamente severo, e questo in due punti: «Tu che hai perdonato a Maria Maddalena, lascia che anch'io speri» (battute 83-93) «Lascia che io sia alla tua destra fra le pecore» (battuta 116 fino alla fine). Nel Confutatis, che fin dall'inizio implica l'opposizione tutti-io, il rapporto intimo e personale con Dio dell'ultimo movimento, «Siimi vicino quando morirò», è sottolineato al tempo stesso sul piano armonico e da un'intepretazione musicale dei testo che esprime la certezza e la fiducia. Qui sento Mozart in persona che parla per sé, con tutta l'insistenza e l'emozione di cui era capace, come un bambino malato che guardi fiducioso la madre e allora l'angoscia scompare.

Nikolaus Harnoncourt ("Il discorso musicale", Jaca Book, 1987)