Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

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venerdì, giugno 21, 2024

Il fenomeno Gazzelloni

Severino Gazzelloni (1919-1992)
Che cosa sia il fenomeno Gazzelloni, 
tutti lo sanno ed è presto detto: fin dai tempi dell'auleta Sacada, quando 1'aulos, impropriamente creduto un flauto, era uno dei due principali strumenti in uso nella musica greca, esso era tenuto in considerazione inferiore rispetto al più nobile strumento a corda, la lira. Sulla strada dei Marsia si trovava sempre qualche Apollo armato di cetra per sconfiggerli, umiliarli e scuoiarli vivi. Gazzelloni è il primo artista che abbia riscattato l'umile flauto dal complesso di inferiorità che gravava sugli strumenti a fiato, uguagliando la fama di solito riservata ai virtuosi della tastiera e dell'arco. Certamente c'erano già stati grandi virtuosi di strumenti a fiato, come quei fratelli Besozzi, oboisti e fagottisti, parmigiani d'ordine, che a Torino, a Dresda, a Napoli e a Parigi costituivano un punto fisso d'attrazione per i viaggiatori settecenteschi durante il Grand Tour europeo. E ci fu il cornista Dennis Brain, ci sono altri grandi flautisti come LeRoy e Rampal. Ma nessuno - Armstrong e jazz a parte - ha raggiunto la fama, che Stendhal avrebbe definito napoleonica, e che poi potremmo paragonare a quella degli idoli sportivi, che circonda Gazzelloni: unico virtuoso di strumenti a fiato che mobiliti la folla dei ragazzini in caccia d'autografi, che scateni entusiasmi deliranti, qualunque cosa suoni: i classici come il jazz, oppure la più difficile musica moderna.
E qui si inserisce l'altro aspetto fondamentale del fenomeno Gazzelloni: la sua partecipazione creativa alla musica moderna. Creativa anche se lui - che si sappia - non ha mai scritto, o per lo meno pubblicato una sola nota. E tuttavia partecipazione creativa per la rivelazione che ha aperto ai compositori di possibilità inedite dello strumento e per la cooperazione fraterna con cui si è introdotto nei loro problemi. Di solito è sempre il compositore di genio che forza i limiti della tecnica strumentale e la spinge avanti: l'intrattenibile Beethoven che strapazza violinisti e cantanti, li costringe ad acrobazie mai immaginate, quelli protestano e brontolano un poco, poi si rassegnano, abbozzano e diligentemente riescono a fare quello che quel satanasso pretende, e l'impossibile di ieri diventa esercizio scolastico di domani, nel continuo, incessante processo della tecnica. Nel caso di Gazzelloni e della musica moderna è il contrario. E' come se Gazzelloni fosse andato dai Maderna, dai Petrassi, dai Berio, dai Nono, dai Boulez, dai Pousseur, dai Castiglioni, e gli avesse detto: "Guardate che col flauto si può fare questo e quest'altro, non abbiate mica paura, scrivete pure le pazzie più ostiche, lo strumento ce la fa".
Intendiamoci, non è solo questione di virtuosismo tecnico. Il merito di Gazzelloni non è soltanto quello di zufolare meravigliosamente, come un merlo ben ammaestrato. La sua dote somma è la naturalezza d'una musicalità tutta istintiva, che gli permette di entrare interamente nell'idea del compositore, sia questi Mozart o Boulez, e di intuire di colpo tutto il sottofondo di cultura e di esperienza vissuta che c'è nell'apparente semplicità dell'uno e di dipanare lucidamente l'intricata complicazione dell'altro, divinare il nesso di relazioni tra note che ai comuni mortali sembrano accozzate a caso, o magari a dispetto, trovare il senso musicale della pagina più astrusa e il segreto di leggi non ancora scritte né codificate in nessun trattato di composizione.
E tutto questo d'istinto. Gazzelloni è la persona meno sofisticata, meno cerebrale, meno intellettualistica che si possa immaginare. Ma non c'è sofisma seriale, non c'è complicazione cerebrale, non c'è intellettualistica sottigliezza di dettato compositivo che resista al grimaldello della sua spontanea natura musicale. Là dove lo studioso e il teorico arrivano attraverso il calcolo di faticose analisi, lui ci è condotto per mano dall'innocenza stessa dei suoni, che lo guidano come i tre Fanciulli guidano Tamino nel Flauto magico, e a lui rivelano immediatamente le norme di inediti collegamenti, le attrazioni di affinità misteriose per tutti, salvo che per l'orecchio felice di Severino.
Massimo Mila, Torino, 24 gennaio 1977
("Symphonia" N° 24 Anno IV, febbraio 1993)

sabato, ottobre 19, 2013

Massimo Mila: La fantacustica, principi di una scienza nuova

Roma, Auditorium
Ci rallegriamo spesso per gli innegabili progressi che la cultura musicale sembra fare nel nostro paese, con tanta abbondanza di pubblicazioni, col miglioramento della programmazione nei concerti e nei teatri, con la qualità delle radiotrasmissioni e l’elevato livello di molta parte della produzione discografica. E poi, ogni tanto, giù una mazzata sulla testa, a ricordarti che tutto é come prima, magari peggio di prima.
Poniamo: a Roma sembra si siano finalmente decisi alla costruzione di un auditorium. Bene. Un quotidiano romano, ("Il Tempo", 16 febbraio 1983, pag.4) dedica un’intera pagina al progetto, amabilmente soffiando nella nota polemica tra "effimero" e "permanente". Reca, tra l’altro, la composizione della commissione nominata dalla Giunta regionale per lo studio del problema. Vi sono nomi illustri della cultura, della musica e della spettacolo, come Paolo Portoghesi, Scaparro, Zafred, Zeffirelli. Un Gianni Borgna ne fa parte con la qualifica di "musicologo". La categoria dei musicologi in Italia é liberamente aperta, e niente vieta che ne faccia parte l’autore di uno studio sulla rnusica dei giovani, da Elvis Presley a Sophie Marceau, anche se di musicologi piu qualificati a Roma ce ne sono tanti. Speriamo solo che non si pensi di costruire un auditorium per il rock, genere di musica che presenta esigenze acustiche del tutto diverse da quelle d’un’orchestra sinfonica o d’un quartetto d’archi.
Ma non si tratta di questo. Il guaio é che Per ricreare l’atmosfera perduta a rieducare la nostra sensibilità il giornale ha la felice idea di fare intervistare da Paolo Sangiorgi "uno dei piu autorevoli studiosi viventi di fisica acustica, se non a livello mondiale, certamente europeo". E' un ingegnere, che é anche professore universitario, "uno scienziato abituato a verificare con i fatti quello che dice". Questo luminare della fisica acustica "è però anche uno di quegli uomini che per un’esclusiva  necessità di saggezza rifiuta le interviste, o se le concede pone come condizione essenziale il fatto di non poter essere identificato".
Bene, quali lumi ci porta questo scienziato ignoto? Dopo avere avanzato la scoraggiante affermazione che per costruire un auditorium come si deve, come lo intende lui, non bastano i 18 miliardi stanziati da un assessore regionale, ma "potremmo cavarcela con 200 miliardi tutto compreso", e dopo avere consigliato, del resto non a torto, di non cedere alla tentazione di dimensioni esagerate, per non elaborare una megastruttura come è accaduto a Berlino dove "il suono è riprodotto con impianti di amplificazione", sicché "non è più un auditorium, è una Telefunken, un tempio dell’elettronica" (lì ci suonano gli sprovveduti orchestrali della Filarmonica, sotto la guida di quel notorio incompetente che è Herbert von Karajan), bene, dopo queste premesse generali si entra in particolari d’ordine, diciamo così, scientifico e si forniscono informazioni interessanti, e soprattutto nuove, sulle qualità del suono, prima delle quali viene considerata l’intensità, che si misura in decibel: "30 decibel è la pulsazione del cuore" (accidenti), "120 decibel è il rumore d’un reattore". Per cui se ne deduce che basta la presenza di quattro o cinque persone per coprire il frastuono d’un reattore. E ci si domandi come sia possibile la conversazione di quattro o cinque persone, tutte col loro cuore rombante a 30 decibel ("Sentilo battere! sentilo battere!" diceva Zerlina).
Segue il problema "dell’impulso musicale", che determina "la così detta intellegibilità del discorso". E qui tutto è troppo bello, e bisogna indulgere a una lunga citazione. "Per dire una parola l’uomo impiega circa un secondo; una frase di dieci parole, 10 secondi. Ma se io parlo in un luogo dove al decimo secondo sto ancora ascoltando una parte della prima parola nessuno capirebbe niente. E questo è il problema della coda sonora. Del corretto distacco tra un impulso musicale e l’altro". (Gran conforto, questa Coda, per i sordastri, quelli che "sentono la voce ma non capiscono le parole").
Evidentemente il nostro scienziato ignoto ignora che la velocità di trasmissione del suono è uguale, 340 metri al minuto secondo, in qualunque luogo, al cesso come alla Scala, e varia soltanto col variare della pressione atmosferica (per questo in alta montagna il suono viaggia più adagio che in pianura). La possibilità di sovrapposizione delle onde sonore deriva soltanto dall’eventuale presenza di riverberazioni, ed è a questo rischio che si deve badare costruendo una sala, qualunque sia la sua ampiezza.
Continuiamo, che ora viene il bello. "Quindi per ascoltare fedelmente un concerto fatto con musiche di Rossini e più in generale di musica italiana dell’800 c’è bisogno di una maggior scansione. Per la musica tedesca e Wagner in particolare è necessario invece un maggiore impasto". Donde la preoccupante deduzione che a rigore "sarebbero necessari auditorium diversi" (con quel prezzo!) "per musiche diverse".
Oltre all’intensità, e in certo senso prima, perché più intrinseci, è noto che il suono possiede altri due parametri: l’altezza e il timbro. Il nostro scienziato riesce brillantemente a confonderli l’uno con l’altro. “Ultimo problema da affrontare è quello del timbro. Della qualità della riproduzione. Questa si misura in "ertz" (sic!). 100 ertz (sic!) ad esempio è il timbro di una voce maschile, 200 quello di una voce femminile, 16.000 ertz (sic!) è invece una zanzara. E' in base a queste frequenze che si distingue il suono di uno strumento da un altro".
L’incognito studioso sarebbe ben imbarazzato a spiegare perché una medesima nota, della stessa altezza, con lo stesso numero di hertz, suoni tanto diversa alle nostre orecchie a seconda che sia emessa dalla voce della Caballé, dal flauto di Gazzelloni o dal violino di Uto Ughi. Qualunque scolaro del sest’anno di conservatorio potrebbe spiegargli che il timbro e l’altezza sono due qualità diverse e distinte del suono. L’altezza, non il timbro, dipende dal numero di hertz, cioè dalla frequenza di vibrazioni d’un corpo elastico (200 per la voce femminile sono davvero un po’ pochine, ma non è escluso che qualche contralto fenomenale ci riesca a scendere). Il timbro dipende dalle diverse combinazioni di suoni armonici che si accompagnano al suono fondamentale. Ma chissà se il nostro Professore sa che Cosa sono i suoni armonici. E tuttavia egli appartiene a quella categoria di personaggi che nel linguaggio giornalistico si designano con l’ineffabile qualifica di "esperti".

Massimo Mila ("Nuova Rivista Musicale Italiana", n.1, gennaio/marzo 1983)

giovedì, dicembre 27, 2012

Il "gran sole" di Luigi Nono

"Al gran sole carico d'amore" (4 aprile 1975)
All'opera di Luigi Nono rappresentata il 4 aprile al Teatro Lirico, per la Scala, quasi tutti i critici musicali di Milano hanno dedicato due articoli, ripristinando un bel costume del giornalismo milanese nell'Ottocento, quando non solo nella «Gazzetta Musicale», ma anche nell'ufficiosa «Gazzetta di Milano», ne «La Fama», nel «Pungolo», scrittori come il Mazzuccato, il Lambertini, il Cominazzi, sottoponevano le opere di Verdi e d'altri a lunghe disamine a puntate, perfino con fior di citazioni musicali! Inoltre, Al gran sole carico d'amore ha avuto la forza di richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica, fuori della cerchia degli specialisti e dei tifosi del melodramma, confermando che l'impetuosa rinascita attuale del teatro lirico, ad onta delle tremende dillicoltà economiche in cui si dibatte, non si limita al ritorno in forze del vecchio repertorio, ma si estende perfino ai casi tanto rari e discussi di opere nuove.
All'opera di Nono ha perfino dedicato una pagina del suo «Atlante ideologico» nel «Mondo» il politologo Alberto Ronchey. Secondo lui, il contenuto politico dell'opera avrebbe travolto «i critici e pedagoghi musicali», i quali si sarebbero «distolti dal giudizio su cori, ottoni, superacute, salti di nona maggiore e minore», inclinando a riflessioni sulla «tranquilla sicurezza storica che a ogni 1905 segue un 1917». E poiché questa frase è tratta dal mio articolo ne «La Stampa» del 6 aprile, ne prende occasione per invitarmi amichevolmente a domandare a Rostropovich come sia il poststalinismo. Ronchey, infatti, è matematicamente sicuro che «a ogni 1917 segue uno stalinismo», sebbene dieci righe più su ammonisse gravemente Luigi Nono, che «dovrebbe sapere quanto è difficile prevedere il corso delle cose politiche».
A un amico come Ronchey debbo anzitutto una precisazione, ed è che, se mai mi decidessi a prendere lezioni da Rostropovieh, queste sarebbero unicamente di violoncello. In cambio, forse, quale pagamento in natura, potrei fornirgli alcune lezioncine su quel che sia fascismo, lezioncine di cui anche da noi si mostra sempre più urgente ed esteso il bisogno.
L'equivoco in cui è caduto Ronchey per rivolgermi questa tiratina d'orecchi mi torna però assai utile per chiarire qualche punto della mia recensione sull'opera di Nono, associandomi anch'io al civile costume giornalistico milanese di non sbrigare in quattro e quattr'otto gli argomenti importanti. L'equivoco di Ronchey consiste nell'intendere come opinione mia personale quella riflessione storica che gli è dispiaciuta. Le mie opinioni personali su questo argomento sono del tutto fuori causa (e penso di non essere tenuto a renderne conto a nessun direttore de "La Stampa" presente passato o futuro). Quella convinzione, che a ogni 1905 segua un 1917, nel mio articolo era chiaramente riferita a Nono, e serviva a motivare il tono nuovo che presenta Al gran sole carico d'amore in confronto al ribellismo vittimistico che esasperava la protesta musicale della precedente opera di Nono, Intolleranza 1960. Un tono positivo, mentre Intolleranza era un'opera in chiave negativa.
Non farò a Ronchey il torto di attribuire a lui il titolo della pagina ch'egli ha dedicato all'opera di Nono: Il gran comizio a teatro. Ma questo titolo, chiunque l'abbia inventato, compendia l'errore in cui sono caduti quasi tutti i recensori dell'opera, favorevoli o no, intendendola, alla stregua di quel consigliere comunale milanese che a modo suo s'è conquistato un'immortalità musicologica, come un'operazione di propaganda. I più semplici si sono scandalizzali: — Ma questo non è musica! E' politica! — Ma quasi tutti hanno voluto fare i furbi e mettendosi nei supposti panni del compositore gli hanno insegnato che, in quanto comizio e propaganda, la sua opera non vai niente. Come si fa? Un'opera di propaganda ideologica dove non si capisce un accidente delle parole e per sapere di che si tratta bisogna leggerselo sul libretto!
I più semplici sono i più simpatici: loro fanno il solito errore di scambiare i contenuti con le forme e ragionano esattamente come chi dicesse del Tristano e Isotta: — Che orrore! ma questo non è musica! è erotismo!
Gli altri — i nipotini dei cardinali che al Concilio di Trento pretendevano che Palestrina facesse comprendere bene le parole delle Messe polifoniche — dimenticano, tra l'altro, che neanche Sherlock Holmes, neanche Pico della Mirandola riuscirebbero a capire che diavolo succede nel Trovatore se non si leggono attentamente il libretto, o meglio ancora una sinossi esplicativa, eppure ciò non impedisce al Trovatore di essere un'opera mica male. A nessuno è venuto il sospetto che, se Nono tritura e macella le parole nei bellissimi episodi corali dell'opera, non è perché — volendo — non sarebbe capace di farle intendete chiaramente, magari con la solita tecnica del coro parlato, ormai scesa a livello di contestazione stradale. A nessuno è venuto in mente che se Nono seppellisce le note di Bandiera rossa sotto un viluppo di suoni dove non le riuscirebbe più a individuare neanche l'orecchio supersonico di Claudio Abbado — come ha scritto spiritosamente Fedele d'Amico — forse questo dipende dal fatto che quel che gli importa non è di far sentire Bandiera rossa alla Scala, o in altra sede delegata, ma semplicemente gli fa comodo servirsi di Bandiera rossa nel modo che gli par meglio, come ogni compositore è libero di fare con qualunque pezzetto di canto popolare.
Lo scopo del mio articolo era semplicemente di fare intendere che, anche grazie a quella tranquilla sicurezza storica che dispiace a Ronchey, la nuova opera di Nono non si pone nella categoria operativa della propaganda, bensì nella categoria — ma sì, diciamola la vilipesa, ed esattissima parola! — estetica. Il contenuto politico è un prius, è un punto di partenza. II punto d'arrivo, il risultato, è l'opera d'arte. E i contenuti dell'arte — si sa — sono liberi. Uno è padrone d'ispirarsi alle lotte del proletariato e un altro ai tramonti e ai chiari di luna. Né l'uno né l'altro argomento sono garanzia di riuscita artistica né impedimento alla riuscita artistica.
Tristano e Isotta è erotismo? Certo, è erotismo. Ma erotismo diventato musica. E in quanto musica va giudicato. Qualcuno vuole ostinarsi a giudicarlo in quanto erotismo? Padrone. Viviamo in democrazia, e prendere dei granchi non è proibito dalla Costituzione.

Massimo Mila ("La Stampa", sabato 26 aprile 1975)

sabato, novembre 03, 2012

Nono col suo "Quartetto" ha trasformato se stesso

"Fragmente - Stille, An Diotima"
per quartetto d'archi (1979-80)
Già la sola notizia d'un Quartetto di Nono desta la più viva curiosità, quasi stupore. Nono non ha mal praticato la musica da camera, e il quartetto ne è la forma più rigorosa. Chiedere un Quartetto a Nono è come chiedere una miniatura a un grande maestro dell'affresco. Eppure glie l'hanno chiesto, e chi glie l'ha chiesto! La città di Bonn per il trentesimo Festival Beethoven. E la cosa più straordinaria è che Nono ha scritto veramente un Quartetto, non una cantata sinfonica camuffata da quartetto.
Ha quindi deposto alcune delle sue più costanti prerogative, come l'impegno politico e la predilezione per la voce. Invece che sull'impegno politico ha premuto su quello che già era l'altro pedale della sua ispirazione: la poesia della giovinezza e dell'amore. Un tempo questo motivo era sintetizzato per lui da Garcia Lorca (e anche da Pavese). Ora il tramite è la poesia di Hölderlin, a cui rinvia il titolo del lavoro: Fragmente-Stille, an Diotima. (E piace pensare che ci sia sotto anche l'ombra di affetto verso Maderna, che con Hyperion, contenente tra l'altro una Stele an Diotima, aveva additato in Hölderlin un ricco terreno di esplorazione per la musica nuova).
Quanto all'abbandono del canto, il recente pezzo per pianoforte (sic!) ...sofferte onde serene... costituiva un cospicuo precedente, e in fondo, nonostante la presenza d'un soprano, già Como una ola de fuersa y lus, per pianoforte solista, orchestra e nastro magnetico, aveva dato inizio, dieci anni fa, a una fase, presumibilmente transitoria, di forte interesse per l'espressione strumentale.
Tuttavia alla parola Nono non ci rinuncia completamente. Caratteristica singolare di questo Quartetto è d'avere inscritte in partitura (purtroppo non ancora disponibile) una trentina di citazione da versi di Hölderlin. Queste citazioni si riducono spesso a parole singole, come «sola», «riposa», «maggio», «Stupito», parole appartenenti più al vocabolario che a Hölderlin, ma che il contesto da cui sono estrapolate carica di significato.
Cosi Nono si è trovato anche lui, come Satie, nella necessità di prevenire sciagurate iniziative di chi volesse in qualche modo esternare queste parole durante l'esecuzione della musica. I frammenti di Hölderlin non sono «in nessun modo da essere detti durante l'esecuzione», né sono «in nessun caso indicazione naturalistica programmatica per l'esecuzione».
E allora? «Gli esecutori li cantino interiormente nella loro autonomia, nell'autonomia dei suoni tesi a un'armonia delicata della vita Interiore — forse anche altro ripensamento a Lili Brik e a Vladimir Majakowskij». (E qui fa capolino la componente politica, in quella maniera tutt'altro che dogmatica e ortodossa che è tipica di Nono).
Ma insomma, com'è la musica di questo Quartetto? Non ci si immagini, naturalmente, i Quartetti di Beethoven e di Schubert. Neanche, direi, quelli di Schönberg. Gli unici antecedenti lontani che si potrebbero magari suggerire sono i Quartetti di Bartok, ma soprattutto l'esperienza del suono elettronico. Caratteristica del Quartetto di Nono è la distruzione della dialettica discorsiva. Il Quartetto è una costante alternativa di suoni lunghi, filati, spesso (ma non sempre) in regione molto acuta, e di bravi incisi graffianti, ora a quattro, ora di strumenti singoli.
In principio si crede che questo sia una specie di preludio, di preambolo d'ambientazione per creare il «luogo» sonoro dove poi calare il discorso. Invece poi capisci che no, che sei immesso di forza in un mondo musicale dove non c'è posto per il decorso dialettico delle idee, e perciò non c'è nemmeno posto per il tempo. E' la negazione, l'esclusione del tempo dalla musica.
Cosa vuol dire allora questa provocatoria frammentazione della materia musicale, che esercita nella sua sommessa costanza un forte sortilegio? E' la «armonia delicata della vita interiore». A me è parsa come il pulviscolo della memoria, o piuttosto della coscienza obnubilata del poeta, che visse i suoi ultimi trentasette anni in una queta notte della ragione, da cui esplodevano ancora saltuariamente eccezionali ed isolate folgorazioni poetiche. Il Quartetto è questa armonia delicata d'una coscienza assopita, da cui affiorano i filamenti e i nodi della vita affettiva.
Un Quartetto di questo genere richiede addirittura l'invenzione di un nuovo modo di suonare, ed è quanto ha fatto l'ottimo Quartetto La Salle. che ha portato al successo il difficile lavoro, e si è anche fatto applaudire nel Quartetto op.4 di Zemlinsky, un simpatico lavoretto, molto viennese e molto Jugendstil, e nello squisito Quartetto di Ravel.

Massimo Mila ("La Stampa", martedì 17 febbraio 1981)

sabato, agosto 11, 2012

Festival di Berlino 1969: la novità è Stravinsky

XX Berliner Festwochen
Berlino, ottobre 1969. Sta volgendo al termine la manifestazione delle Festwochen, che per venti giorni ha occupato le scene della città con spettacoli d'opera, di prosa, di balletto, concerti, film ed esposizioni. Tra queste, bellissima quella di Whistler nella nuova Nationalgalerie, un cubo di vetro progettato da Mies van der Rohe, che delimita uno spazio raccolto, eppure d'insospettabile ampiezza. Una rassegna, queste Festwochen, che non obbedisce ad alcun criterio né tendenza, e nella quale erano quest'anno un po' scarsi i contributi internazionali, limitati alle rcrtte dell'Opera Nazionale di Belgrado, apprezzatissime, ai balletti della compagnia israeliana Baatsheva, che hanno bene assimilato la lezione di Martha Graham, alla tournée dell'Orchestra sinfonica svedese diretta da Celibidache e, per la prosa, al Rabelais di Barrault e agli spettacoli ambulanti del «Bread and Fuppet Theater». Nessun complesso italiano, quest'anno, ma solo un recital della pianista Maria Tipo e un concerto diretto da Mario Rossi, che alla testa della splendida Orchestra Filarmonica di Berlino ha portato al successo la Decima Sinfonia di Malipiero e il Magnificat di Petrassi (ottima solista il soprano Silvia Gròschke).
Fra le novità o curiosità musicali che è accaduto di ascoltare, due autori s'impongono nella memoria: l'americano Charles Ives e, tanto per cambiare, Stravinsky. Di Ives è in corso un'inflazione straripante. Questo compositore della domenica, che scriveva musica nei ritagli di tempo lasciatigli dal business (era presidente d'una grande società d'assicurazioni), ha lasciato una quantità sterminata di inediti, che soltanto ora, a quindici anni dalla morte, vengono tumultuosamente pubblicati e diffusi, senza che sia possibile per il momento prendere le misure del fenomeno e stabilirne i contorni. Non c'è che lasciarsi cadere addosso i nuovi lavori, registrando impressioni momentanee: chissà quando riuscirà a qualcuno di trarre un primo bilancio. In un concerto della Filarmonica diretto da Lukas Foss, che presentava anche le proprie capricciose Variazioni barocche e gli Ariosi di Henze con soprano e violino solisti (la coppia Irmgaard Seefried e Wolfgang Schneiderhahn), si è ascoltato un Orchestral Set Nr. 2: francamente aperto a esiti ritmici di estrazione jazzistica, è parso uno dei lavori buoni di Ives, sempre irregolare, lutulento, ma maledettamente aderente alla realtà umana d'un'America di pionieri.
Di questo compositore, che per mera spregiudicatezza non professionale divinava soluzioni armoniche e timbri che a cui la musica europea giungeva attraverso le consapevoli teorizzazioni schoenberghiane, è stato finalmente possibile ascoltare un bel mazzo di songs, o canzoni, o liriche che dir si voglia. Le ha cantate William Pearsons, il baritono di colore che si è affermato nella musica d'avanguardia, come interprete tragico e buffonesco delle avventure fonetiche di Mauricio Kagel, di Gyórgy Ligeti e di Hans Otte, ma che è pure un compiuto e drammatico liederista.
Le canzoni di Ives, su testi di cui non sono purtroppo stati indicati gli autori, vanno dalla romanza sentimentale o salottiera, su ritmo di valzer ottocentesco (Amphion, Marie, Songs my mother taught me) al realismo tragicomico di ballate dove la voce si abbaruffa con sé stessa fino all'urlo e alla risata (lo straordinario Charlie Rullage). C'è la lirica d'arte aggiornata ai canoni europei (Evening) e c'è la canzone nello stile dello spiritual (Watchman). In Walking il pianoforte se n'esce fuori con un intermezzo di vero e proprio swing. Il testo di The things our father love ci fornisce la poetica dell'arte di Ives, cosi ricca di ibridazioni e commistioni realistiche: «Penso che ci dev'essere un posto nell'anima, tutto fatto di suoni, di suoni del passato; risento l'organetto sull'angolo di Main Street, la zia Sarah che canticchia i suoi gnspels; sere d'estate, la banda del paese che suona in piazza». E' il repertorio di suoni e d'esperienze vissute di cui sono fatti i migliori lavori orchestrali di Ives.
E poi Stravinsky. Anche dal suo letto d'ospedale in America riesce a tenerci col fiato sospeso. Il suo discepolo Robert Craft presentava con l'orchestra sinfonica della radio un programma dedicato prevalentemente a quel tipico aspetto stravinskiano che sono le divoranti scoperte d'autori del passato, rifatti o trascritti in segno d'ammirazione. Doveva aprirsi, questo concerto, con la prima mondiale delle trascrizioni orchestrali di due Preludi e Fughe dal Clavicembalo ben temperato, poi, all'ultimo momento, questa ghiotta primizia spari, un po' misteriosamente, dal programma. Si disse che il maestro, ammalato, non l'aveva potuta terminare. Rimasero, insieme con il solito Pulcinella pergolesiano e con il Monumentum prò Gesualdo, le trascrizioni di due Lieder di Hugo Wolf, in prima esecuzione europea. Sono due canti spirituali dallo Spanisches Liederbuch, e lo spirito di macerato raccoglimento religioso ne è singolarmente vicino, sia pure in clima romantico, a quello dei tormentati madrigali di Gesualdo da Venosa. La trascrizione della parte pianistica per un piccolo complesso strumentale non fa che accentuarne la diafana e immateriale sostanza sonora.
C'è qualche cosa di commovente ed irritante ad un tempo nell'ovvia semplicità con cui l'ottuagenario compositore viene scoprendo la grandezza di quei classici e romantici che aveva un giorno disprezzato e che erano in effetti agli antipodi della sua poderosa, ma semplicistica personalità. A proposito dell'attuale ammirazione di Stravinsky per gli ultimi Quartetti di Beethoven, il critico berlinese H. H. Stuckenschmidt cita il dialogo riferito da George D. Painter nella sua biografia di Proust. Lo scrittore e il musicista si erano incontrati in un ricevimento mondano a Parigi nel 1922, e pare che Proust, anticipando Francoise Sagan, avesse chiesto a Stravinsky: «Amate Beethoven?». Risposta: «Lo detesto». «Ma almeno gli ultimi Quartetti?». «La cosa peggiore che abbia scritto!». Al tempo dell'Histoire du Soldat Stravinsky si era meravigliato che «un uomo così moderno» come Busoni ammirasse i classici tedeschi. E Busoni di rimando gli aveva fatto dire che se li avesse conosciuti li avrebbe ammirati anche lui. Come tante altre profezie di Busoni, anche questa si è pienamente avverata.
Ma non si limitava a questo l'interesse del concerto di Craft; esso raggiungeva la punta massima con l'esecuzione di Noces (ottimi solisti vocali Katherine Gayer, Kerstin. Meyer, Helmut Krebs e Anton Diakov), preceduta da due frammenti di versioni anteriori a quella definitiva. Una, del 1914-1918, contrappone un gruppo d'ottoni a un gruppo d'archi, con in mezzo i due cymbalon, strumenti ungheresi a corde metalliche percosse con bacchette, che allora affascinavano l'orecchio e la golosità acustica del compositore. Ma l'impiego ne è ancora timido, e gli strumenti tradizionali hanno il sopravvento. Invece il frammento del 1919, per i due cymbalon (egregiamente suonati da Derek Bell e John Leach), harmonium, pianola (qui sostituita da tre pianoforti) e percussione, è sembrato una rivelazione sbalorditiva, tale da far considerare la versione definitiva, per voci, quattro pianoforti e percussione, come un ripiego, tanto è selvaggia e vivida l'evidenza sonora dell'insieme. Lo stesso Stravinsky, in un gustoso scritto dell'anno scorso, non ancora noto fra noi, ammette che soltanto la difficoltà di assicurarsi due competenti suonatori di cymbalon e l'impossibilità di associare alle voci umane uno strumento meccanico cosi rigido nell'intonazione e implacabile nel ritmo come la pianola, lo indussero ad abbandonare quella versione strumentale che, con la sua sonorità di metalli violentemente sbattuti, era di gran lunga la sua preferita.

Massimo Mila ("La Stampa", 7 ottobre 1969)

sabato, maggio 21, 2011

Sylvano Bussotti: "I semi di Gramsci"

Un omaggio musicale all'opera di Gramsci "I semi di Gramsci" di Sylvano Bussotti, eseguiti insieme con il "Quarto quartetto" di Malipiero e la "Grande aulodia" di Maderna a ricordo dei due musicisti scomparsi.
Siena, 27 agosto.
Celebre un tempo per avere ravvivato l'archeologia musicale, portando a contatto del pubblico i risultati dello scavo musicologico, la Settimana musicale senese, che giunge ogni anno a coronamento dei fortunati corsi di studio internazionali, sente sempre più forte l'attrazione del moderno. Ieri la trentunesima edizione della manifestazione fondata un tempo dal conte Chigi Saracini con Alfredo Casella, si è aperta con un atto di fede nella musica, italiana contemporanea. Nel pomeriggio hanno avuto luogo i consueti discorsi inaugurali: del direttore artistico Luciano Alberti su Spontini, di Leonardo Pinzauti su Puccini (autori presenti entrambi in questa «settimana»), dell'avv. Danilo Verzili, presidente dell'Accademia musicale chigiana, che nella sua relazione ha dato notizia d'un lusinghiero riconoscimento attribuito dalla Cee all'istituzione senese, e dell'on. Fracassi, sottosegretario al Turismo e Spettacolo, il quale ha portato il saluto del governo e la promessa di maggiori e concreti riconoscimenti. La sera, sempre nella sala dell'Accademia, perché l'incertezza del tempo impediva di tenere il concerto nel cortile del palazzo pubblico, il Quartetto italiano e, in coppia, Severino Gazzelloni flautista e Lothar Paber oboista, docenti dei corsi estivi dell'Accademia, hanno impartito una splendida lezione di interpretazione musicale ad altissimo livello, presentando opere di Malipiero e Maderna, i due compositori perduti l'anno scorso dalla musica italiana, e di Sylvano Bussotti, ben vivo questo, ed ormai assurto, dai capricci sperimentali di un tempo, a un rango incontestabile di maestro, per quanto strano possa suonare questo epiteto addosso a un personaggio così pieno di estri fuori ordinanza. Di Malipiero i meravigliosi artisti del Quartetto italiano hanno presentato il Quarto quartetto: del 1934, è meno famoso dei due che l'avevano preceduto, i Cantari alla madrigalesca e Rispetti e strambotti, forse perché non porta un titolo, ma non ne è meno essenziale e denso. Una polifonica melodia incessante nasconde l'asprezza del contrappunto nell'apparente spontaneità di un canto a più voci, dalle cui onde perennemente agitate e sovrapposte ogni tanto un rivolo di melodia isolata va a finire, come per un fenomeno di risacca, nel tranquillo golfo timbrico della viola. La Grande aulodia di Maderna e I semi di Gramsci, di Bussotti, sono stati eseguiti in una versione cameristica, consentita dagli autori, che isola gli strumenti solistici — rispettivamente la coppia di flauto ed oboe e il quartetto d'archi — prescindendo dall'orchestra. Nella Grande aulodia viene così proiettata in primo piano la disperata volontà melodica ch'era una costante dell'arte di Bruno Maderna, e quasi, si direbbe, un simbolo della sua personalità, tutta protesa alla conquista d'una felicità terrena malgré tout. Non direi che non si senta, qua e là, un'impressione di vuoto: Maderna era un tale maestro dell'orchestra, proprio come la sua vita d'uomo felice per vocazione è stata così crudelmente piena d'affanno. Tanto più poetica risulta la bellissima chiusa del pezzo, uno di quei momenti miracolosi che fioriscono ogni tanto nella sua arte, quando il possesso della melodia vi si insedia come un pegno di raggiunta beatitudine. Gazzelloni e Faber, col loro arsenale di flauti, oboi ed affini, grandi e piccoli, hanno eseguito il pezzo non solo con la bravura ben nota, ma con affetto e commozione di amici, rendendo trasparenti le intenzioni espressive dell'artista scomparso, che del diverso registro degli strumenti d'una stessa famiglia si serviva come d'un mezzo sicuro di caratterizzazione poetica. I semi di Gramsci sono una composizione, anzi, un «poema sinfonico per quartetto e orchestra», dedicato da Bussotti al Quartetto italiano. Non conoscendone la versione integrale, devo dire che nella esecuzione per solo quartetto non si avvertono segni d'incompletezza. L'autore spiega di avere concepito la partitura orchestrale quasi come la prigione in cui il protagonista — il quartetto — è rinchiuso. Ciò nonostante, e malgrado la provocatoria qualifica di «poema sinfonico», nel pezzo non c'è nulla di descrittivo. Mille allusioni estensive si possono leggere nel titolo: ma I semi di Gramsci, documentati da una scelta di passi delle lettere dal carcere, sono semplicemente i semi vegetali che il detenuto coltivava in «un quarto di metro quadrato» di terreno del penitenziario, appassionandosi al loro sviluppo con la stessa lucidità d'intelligenza storicistica con cui esplorava le ragioni della storia d'Italia e delle classi sociali europee. Da queste premesse si potrebbe temere un sentimentalismo bucolico di georgica carceraria. No: negli ispidi e arruffati scatti del discorso quartettistico, solo placati in un a solo del secondo violino, tagliato su misura per il suono della Pegreffi, e nella bellissima chiusa per il violoncello solo, il Gramsci che viene fuori non è il povero carcerato tubercolotico, bensì il maestro, la guida, perfino il tribuno, tanto forte di cervello e di carattere quanto macilento nel fisico. Una bella serata musicale, stimolante e coraggiosa: il calore spontaneo degli applausi non andava forse soltanto allo splendore delle esecuzioni, ma, nella persona di Bussotti e nel ricordo di Malipiero e Maderna, anche a questa nostra nuova musica che, cresciuta attraverso tante diffidenze ed ostacoli, mostra di meritare la fiducia in essa riposta, e a dispetto delle previsioni pessimistiche di interessati demagoghi, si sta perfino, piano piano, conquistando un pubblico.

Massimo Mila ("La Stampa", mercoledì 28 agosto 1974)

venerdì, marzo 25, 2011

Gli strumenti della Musica

La storia degli strumenti musicali procede parallela alla storia della musica e ad essa si accompagna come Sancho Panza a Don Chisciotte. Una è la storia del corpo, l'altra è la storia dell'anima. Ovviamente, sono una sola e medesima cosa, vista da differenti punti di vista, cosi come anche — si potrebbe aggiungere — la storia della notazione musicale è storia della musica, e non storia di qualcosa di diverso applicato alla musica dall'esterno. La vocazione umanistica che prevale negli studi musicali italiani fa sì che questa identità non sia sempre ben chiara e presente nella storiografia, e che alla storia degli strumenti venga concessa un'attenzione indulgente, come a un fenomeno marginale. Nei Paesi d'alte tradizioni musicologiche la storia degli strumenti musicali è attentamente coltivata, e spesso da veri e propri storici della musica, come il grande Curt Sachs, i quali non ritengono con questo di entrare in una specializzazione esterna al filone principale dei loro interessi. Avveduto intenditore di musica moderna e autore, fin dal 1931, d'uno dei più bei libri su Stravinsky è André Schaeffner, di cui viene finalmente proposta alla cultura italiana quella Origine degli strumenti musicali (Sellerio editore, Palermo, pagg. 446, lire 8000) che circa quarant'anni or sono fondava, si può dire, gli studi di etnografia musicale. (Schaeffner è il fondatore del dipartimento di musicologia del Musée de l'Homme e ne rimase direttore fino al 1965; questa specializzazione, coltivata attraverso viaggi di ricerca nel Sudan, Guinea e Camerun, non gli ha impedito di studiare Debussy e il jazz, Couperin, Hoffmann e Nietzsche). Appunto perché tardiva, la traduzione italiana di quest'opera fondamentale ha la fortuna di cadere su un terreno meno incolto di quello che avrebbe trovato quarant'anni or sono: lavori imponenti come i due volumi di Giampiero Tintori su Gli strumenti musicali (Utet 1971), o stimolanti come Gli arnesi della musica di Leonardo Pinzauti (Vallecchi 1965), provano che non si è rimasti ai Manuali Hoepli e alla vecchia Liuteria dello Strocchi. Abbiamo in questo campo il prezioso volume sugli Strumenti ad arco del Peterlongo (Siei, Milano, 1973). L'organaria gode di una situazione privilegiata, con gli studi di Renato Lunelli e di Sandro Dalla Libera, rispettivamente sugli organi trentini e su quelli veneti, con l'opera complessiva su L'organo italiano di Corrado Moretti (Eco, Milano, 1973) e i moderni studi di Oscar Mischiati e Luigi Tagliavini. Importanti musei di strumenti musicali si trovano a Roma e a Milano, e di quest'ultimo, allogato nel Castello Sforzesco, è disponibile un ricco catalogo a stampa, a cura di Natale e Franco Gallini; cosi come Vinicio Gai ha pubblicato cenni storici e catalogo descrittivo de Gli strumenti musicali della corte medicea e il Museo del Conservatorio «L. Cherubini» di Firenze (Licosa, Firenze, 1969). Infatti, dell'idealistico disprezzo in cui sono talvolta tenuti, gli strumenti si vendicano alla maniera tipica della materia, delle «cose», degli oggetti concreti e solidi: durando, esistendo e conservandosi, laddove l'etereo canto svanisce senza lasciar tracce. Sembra pacifico che nella musica dell'antica Grecia il canto occupasse una posizione prevalente, e che gli strumenti vi fossero in gran parte subordinati. Eppure, quando si pensa alla musica dei Greci, la prima cosa che viene in mente è la cetra, è l'aulos; che cosa fosse il canto di Orfeo, capace di rendere mansuete le belve e di forzare le porte dell'Ade, non lo sappiamo più. Per oltre un millennio la musica del mondo cristiano è quasi esclusivamente canto. La vita degli strumenti è grama e quasi clandestina. La musica del Medioevo, nella sua accezione più elevata, è preghiera, e soltanto la voce umana è considerata degna di cantare la lode del Signore. L'uso degli strumenti musicali pare occupazione di rango servile, non diversamente dall'uso della zappa, della vanga, del martello o della falce: tutti «strumenti», cioè arnesi del lavoro manuale. Nella Bibbia l'invenzione della musica è associata con la prima lavorazione del ferro; musicanti e fabbri si reclutano fra i discendenti di Caino. Delle due mogli di Lamech, pronipote di Enoch, l'una partorì Jubal, «padre de' sonatori di cetra e d'organo», e l'altra partorì Tubalcain, «che lavorò di metallo, e fu artefice d ogni sorta di lavori di rame e di ferro». Non va però dimenticato che questo disprezzo degli strumenti e della pratica musicale il cristianesimo l'ereditò pari pari dalla civiltà classica. Nerone sarà stato un poco di buono e avrà avuto tutti i difetti di questo mondo, ma la virtuosa indignazione dei senatori romani per il fatto che suonasse la cetra fa il paio La bottega del liutaio (dalle tavole dell'Enciclopédie) con la diffidenza di certi banchieri che in epoca recentissima negarono ogni credito a un giovane industriale italiano, finché non avesse smesso il vizio, per loro più imperdonabile che quello di sperperare quattrini al gioco o in amanti di lusso, di coltivare la direzione d'orchestra e di diffondere la musica, corale e strumentale, tra i dipendenti della sua azienda. La pratica della musica, e in particolare degli strumenti, non era reputata degna dell'uomo libero, ma compito di schiavi (vi eccellevano i Frigi, provenienti dall'Asia minore). Ben inteso, a questo disprezzo legale facevano riscontro, di fatto, una vivissima attrazione e un'immensa fortuna: ma era un'attrazione del genere di quella esercitata dai piaceri proibiti. Alcibiade era un uomo libero cui piaceva imbrancarsi nella compagnia di auleti, citaredi, mimi e danzatrici; ma è noto che non era considerato precisamente come un modello di virtù. Testimonianze iconografiche come la splendida coppa di Epitteto conservata al British Museum, o la pittura della tomba di Véset (Tebe egiziaca), del XV secolo a.C, provano in maniera inequivocabile l'associazione della musica col piacere nel mondo antico, e pertanto le ragioni del suo discredito. L'ostracismo gettato dalla chiesa cristiana sui suonatori li sospinse al margine della società, in un sol branco con giocolieri, saltimbanchi, ciarlatani e buffoni ambulanti. Certamente la musica era compresa nella classificazione delle scienze e faceva parte del Quadrivio, ossia del gruppo delle discipline superiori, insieme ad aritmetica, geometria e astronomia. Ma si trattava della teoria musicale, mentre agli esecutori — né ai cantori, né tanto meno agli strumentisti — nessun no si sognava d'accordare una qualsiasi dignità culturale. La liberazione degli strumenti dal primato dogmatico del canto è opera anch'essa, come tante altre, del Rinascimento, e come tanti altri fatti del Rinascimento spinge i suoi antefatti molto addietro. Il cavallo di Troia per la futura ammissione degli strumenti nel giro della musica «bene» fu il dono di un organo che Costantino Copronimo, imperatore romano d'Oriente, fece a) re di Francia Pipino il Breve nel 757. Già da tempo diffuso in Egitto, l'organo non era sconosciuto al mondo romano. Ma la penetrazione nel regno dei Franchi gli aprì le porte del mondo cristiano. Poco adatto ad impieghi profani, si rese prezioso in chiesa, per il sussidio che poteva prestare alle voci, sostenendone l'intonazione. Di tutti gli strumenti era quello che più si avvicinava alla natura del canto e alla dignità della voce umana. Che la prima rozza forma di polifonia vocale tentata nel secolo IX si sia chiamata organum, è un fatto pieno di significato e argomento di suggestive congetture. Anche in questo campo il Rinascimento ha la sua prova generale nella fioritura trecentesca della civiltà toscana. Francesco Landino, protagonista dell'ars nova fiorentina, era chiamato «il cieco degli organi», dalla maestria con cui non solo sapeva suonare questi strumenti, ma anche smontarli e rimontarli, pur avendo perduto la vista fin dalla fanciullezza. Uno storico non particolarmente attento alle cose della musica, come Filippo Villani, ritiene doveroso ricordare che gli organi «egli toccava con tale velocità di suono e tanta maestria e dolcezza che senza comparazione trapassò tutti gli organisti di cui si ha memoria». La storia degli strumenti si annoda a quella della musica in un inestricabile corpo a corpo, tipico esempio del venerabile dilemma se sia nato prima l'uovo o la gallina. Anche André Schaeffner se lo chiede, al principio del libro or ora ricordato: «La musica è il prodotto dei suoi strumenti, o questi sono stati costruiti a sua immagine?». La seconda ipotesi, idealistica e suggestiva, parrebbe confermata da certi esempi. In pieno Rinascimento, quando tutta l'arte assiste a un risveglio prodigioso dell'individuo, e di conseguenza la musica si sta trasformando da polifonica in monodica, sorge il violino a liquidare, con la sua prepotente personalità di primo attore, la collettività familiare delle viole da braccio, che con la loro discrezione di suono postulavano l'integrazione in un tutto. Ma in senso contrario si potrebbe citare un esempio clamoroso. Bartolomeo Cristofori inventa il pianoforte negli ultimi anni del Seicento. Bene, il Settecento non sa che farsene. Niente di più scoraggiante che la vita dura incontrata dal pianoforte per mezzo secolo e oltre. La gente non lo amava, lo trovava rumoroso e volgare in confronto al clavicembalo. Nei testi del Settecento si parla del pianoforte in termini simili a quelli che noi usiamo per il juke-box. «Lorenzo ha ceduto il suo clavicembalo», scrive Jacopo Ortis, «d'ora in avanti suonerà uno di quei pianforti, che fanno tanto strepito». Ed anche in questo echeggiava Werther: «Qui, mio caro amico, da alcuni mesi si fa un autentico furore per i nuovi pianoforti; Carlotta ha persuaso il Padre Suo a comprarne uno, e tutto il giorno dalle finestre se n'ode l'orribile rimbombo». Per gli esemplari di pianoforti che Federico II gli presentò nella reggia di Potsdam, Bach non dimostrò niente più di quell'irresistibile curiosità artigianale che egli provava per qualsiasi arnese capace di emettere suono. Ma il pianoforte aveva più di venti e più di quarant'anni quando Bach, imperterrito, produsse la prima e la seconda parte del Clavicembalo ben temperato. Il fatto è che il dilemma non si risolve né in un modo né nell'altro. La circolazione dell'arte musicale non è a senso unico: né dagli strumenti all'ispirazione, né dall'ispirazione agli strumenti. La circolazione avviene in ogni senso. Mozart creava per gli strumenti, anzi, per i singoli strumentisti. Beethoven mandava sgarbatamente al diavolo il violinista Schuppanzig e le sue rispettose obiezioni tecniche, quando lo spirito gli dettava dentro. Quel che è certo è che un legame stretto associa la fabbricazione degli strumenti e la produzione della musica strumentale. La reciprocità dei due fenomeni si mostra nell'unicità dei focolai geografici in cui essi si producono. E' raro che gli strumenti musicali si fabbrichino in un luogo e la musica strumentale si scriva in un altro. Senza pregiudizio d'altre eccelse apparizioni strumentali, come la scuola cembaloorganistica napoletana di Trabaci, Mattia Vento e Domenico Scarlatti, resta un fatto che la meravigliosa fioritura strumentale delle scuole veneta ed emiliana nel corso del Sei e Settecento avviene negli stessi luoghi dove si fabbricano organi e violini. Quell'angolo prezioso dell'entroterra veneto, formato dalla convergenza di Emilia-Romagna, Lombardia e Repubblica di Venezia, non è solo la patria di Vivaldi, Corelli, Locatelli, Albinoni e Frescobaldi, ma proprio lì, tra Brescia, Bergamo e Cremona, si pone pure la patria di Gaspare Bertolotti da Salò, degli Amati e dei Guarnieri, di Stradivari, principi dei liutai, e delle grandi dinastie d'organari, gli Antegnati e i Serassi.

Massimo Mila ("La Stampa", Anno 112, numero 130, giovedì 8 giugno 1978)

sabato, marzo 12, 2011

Massimo Mila: il tragico incidente

Entreves (Aosta) — Il musicologo Massimo Mila, collaboratore de La Stampa e nome tra i più noti del mondo culturale italiano è rimasto gravemente ferito ieri pomeriggio in un incidente stradale nel quale ha perso la vita la moglie, Francesca Rovedotti di 79 anni. A bordo di una Renault 14 DL i coniugi Mila viaggiavano sulla statale 26 diretti verso Courmayeur, quando l'auto, forse per un malore di Massimo Mila, ha sbandato sulla corsia opposta, schiantandosi sotto un Tir. Nell'urto violento la moglie del critico è morta sul colpo; Massimo Mila, soccorso dalla Croce rossa di Morgex, è stato trasportato all'ospedale di Aosta con prognosi riservata. L'incidente è avvenuto alle 15.53 a Runaz, poche centinaia di metri oltre l'abitato di Arvier a una quindicina di chilometri a monte di Aosta. La polizia stradale del distaccamento di Entreves ha potuto accertare che l'auto del musicologo viaggiava a velocità moderata e il fondo stradale non era ghiacciato né bagnato. Affrontando una curva a destra tra Aosta e Courmayeur su un ponte sul fiume Dora, la Renault 14 ha sbandato andando a scontrarsi frontalmente con un Tir francese, condotto da Jacques Pisanelli, di 42 anni. L'urto è stato estremamente violento. I primi soccorritori non sono riusciti ad aprire un varco tra le lamiere contorte. Solo l'arrivo dei vigili del fuoco ha permesso di estrarre dalla vettura i corpi del prof. Mila e della moglie. Mentre la salma della signora Francesca era composta nella camera mortuaria del cimitero di Avise, piccolo comune non lontano da Runaz, Massimo Mila veniva ricoverato nel reparto rianimazione dell'ospedale di Aosta con la frattura di un omero, fratture costali e una forte contusione polmonare. «Se non vi saranno complicazioni potrebbe essere ristabilito anche fra dieci giorni — ha detto il medico di guardia —, ma l'età e le condizioni dei polmoni consigliano la riserva di prognosi. Appena le condizioni del ferito saranno migliorate si penserà a ridurre anche la frattura del braccio». Al capezzale di Massimo Mila, che ha 71 anni ed abita a Torino in corso Mediterraneo 130, sono accorsi in serata parenti e amici. Molto noto nel mondo della cultura, imprigionato per cinque anni durante il fascismo, il musicologo era recentemente al centro di un dibattito sulla pena di morte alla quale si era dichiarato favorevole in un articolo pubblicato recentemente da La Stampa. Mercoledì sera era stato ospite degli studenti del liceo classico Gioberti di Torino ai quali aveva esposto le sue tesi nel corso di un'assemblea.

Roberto Reale ("La Stampa", 27 febbraio 1981)

giovedì, dicembre 16, 2010

Bach: Massimo Mila versus Piero Buscaroli

Che in occasione del tricentenario della nascita di Bach siano uscite in Italia due monumentali biografie, quella di Alberto Basso e ora quella di Piero Buscaroli (Mondadori, 1180 pagine, 65.000 lire), entrambe scrupolosamente aggiornate sui risultati sconvolgenti (per lo meno in fatto di cronologia) della neue Bach-Forschung, conferma lo straordinario progresso della cultura musicale del nostro Paese, progresso che ormai può venir messo in dubbio soltanto da quelli che Buscaroli definisce, con un termine che gli è caro, critici piagnoni.

Biografia, anzi "solo biografia", secondo un aforisma di Nietzsche. Far rivivere lo hic et nunc dell'autore. Non analisi delle opere, su cui Buscaroli si lascia andare talvolta ad incaute ironie. Dichiarata abdicazione (fortunatamente non sempre mantenuta) all'esercizio della critica. "Un libro come questo non può gareggiare coi manuali, che dedicano centinaia di pagine di analisi ai singoli generi". (E pour cause, verrebbe fatto di commentare, quando si legge che l'autore "due intervalli discendenti di terza minore" configurano la successione delle note: do - la bemolle - fa naturale).

Invece, biografia über alles. Giustissimo. Tutti sanno che per la comprensione di Bach è imprescindibile la conoscenza della biografia: con la successione dei posti di lavoro occupati, essa è organicamente integrata negli sviluppi della sua arte. Biografia così appassionata da riuscir quasi romanzata. Non che Buscaroli s'inventi fatti o metta discorsetti in bocca a Bach e a chi gli stava intorno. Ma, se non romanzata, biografia interiore. Sforzo di essere dentro la testa di Bach. Smania di mettere a nudo "la macchina della riflessione creativa". Sapere che cosa succedeva nel suo spirito. Cogliere "il preciso calcolo di...", o "l'indizio di un'intenzione".

Donde, sebbene Buscaroli sia severissimo contro "le fantasie dei biografi" e i "frutti dell'immaginazione" di altri critici, un festival delle supposizioni, delle ipotesi e delle congetture. I "forse", i "probabilmente", i "si può pensare che", si sprecano. Quasi mai un verbo si presenta nudo e crudo al passato remoto, come è proprio della narrazione storica, ma per lo più al futuro anteriore (avrà fatto, avrà detto, avrà pensato, ecc.), oppure coniugato con l'ausiliare ipotetico "dovere": dovette credere, dovette pensare, dovette preferire, ecc.. Ne viene, a chi legge, un certo disagio, come se si camminasse sulle uova, molto simile al mal di mare.

Sa benissimo, il Buscaroli, che "ogni ipotesi ci ricaccerebbe nel regno delle invenzioni da cui siamo usciti per sempre", e giustamente si fa beffe di quella ricerca che "arranca tra le ipotesi". Ma deve ammettere lealmente: "Ci restano le deduzioni, le congetture", e giù con i "si può credere", "è evidente che", ecc..

Manca infatti al Buscaroli un chiaro concetto dell'arte: quello che il Riezler, biografo di Beethoven da lui citato, chiamava "un'idea generale dell'arte". L'estetica di Buscaroli si fonda sul concetto, così fasullo, di "genio", di "uomo eccezionale". Nel suo culto di superuomo egli è affascinato dal "mistero della grandezza". Donde la frenesia biografica interiorizzata. "Riesce difficile resistere alla tentazione di valorizzare ogni increspatura, ogni saliente di questi anni". Eppure il Buscaroli c'insegna che "quanto a ipotesi sballate la critica bachiana ne ha conosciute, davvero, di tutti i generi".

Tre divieti reggono la struttura biografica, sviluppata senza economia di spazio e con sbalorditiva ricchezza di documentazione: che Bach sia un musicista eminentemente serio, che Bach sia stato un vinto, uno sconfitto dalla storia; che Bach sia da considerare un "artigiano" della musica.

La disputa sul sacro e il profano in Bach è sempre esistita. C'è chi "tiene" per i Concerti brandeburghesi e chi "tiene" per le Passioni. Chi vede il momento grande di Bach nel brillante servizio mondano alle corti di Weimar e di Cöthen, e chi il vero Bach lo trova nell'organista di chiesa e nel Cantor della Thomasschule.

Niente di male: è grande in entrambi i campi, e la dialettica sacro-profano non fa che rinfocolare lo zelo degli studiosi. Ma sostenere che è "esigua" (sì, dice proprio esigua) "la quantità della musica di chiesa da lui composta se si paragona con la produzione di un gran numero di maestri", questo è proprio un po' forte. In calce al volume c'è un eccellente catalogo delle opere di Bach. Ne risulta che l'esigua produzione da chiesa consta di: circa 200 cantate sacre, 5 Messe, 5 Sanctus, 1 Credo, 2 Magnificat, 5 tra Passioni e Oratori, 5 Mottetti, per non parlare dei Corali, trascritti e elaborati.

Nemico intransigente della Riforma luterana, in cui vede la causa di tutti imali e le colpe della Germania (ammesse a denti stretti, le colpe), il Buscaroli vuole soprattutto dissociare da Bach l'immagine del luterano tutto d'un pezzo, sostenuta dagli "ottusi ignoranti giullari del Bach tutto-chiesa", e a questo scopo s'impegna in una tendenziosa svalutazione, anzi demolizione del famoso progetto di una "reguloirte Kirchenmusik" con cui Bach si licenziò dal servizio nella chiesa pietista di Mühlhausen. Tira talmente la corda che finisce quasi per trasferire Bach nel campo opposto ("Si comporta in tutto e per tutto come un pietista") e lo fa apparire come uno spudorato mentitore, che avrebbe architettato la storia della ben regolata musica di chiesa semplicemente per passare a un impiego migliore nella corte di Weimar, dove sapeva benissimo che di Kirchenmusik, bene o mal regolata, non avrebbe avuto da occuparsi. "Equivoci non sono leciti. Più c'inoltriamo in questa linea vitale, e più ci convinciamo che la 'regulierte Kirchenmusik in nome di Dio' altro non fosse che un sospiro ornamentale, messo a coprire, col suo accorato rimpianto, la giovanile gioia di un posto migliore, con doppio guadagno".

Mai dimostrata l'"intransigenza luterana" di Bach? Sarà, ma in queste diatribe sul sacro e il profano si assiste a una ridda di farneticazioni biografiche alle quali si possono opporre altre farneticazioni di segno contrario, altrettanto plausibili ed altrettanto campate in aria. Non sarà mica una "fabbrica di fantasticherie" come quelle così aspramente rimproverate al vecchio Spitta?

Bach vittorioso. C'è nell'autore una mentalità militarista simpaticamente infantile, da lettore di Salgari e di Nembo Kid, che non ammette possa essere il suo eroe, uno sconfitto, un vinto. Via la "nuffita oleografia" disegnata dagli "specialisti del pignisteo bachiano", del "Cantor misconosciuto e vessato da grette autorità cittadine ed ecclesiastiche" della bigotta Lipsia! Perciò gran peso attribuito ai postumi della questione Scheibe e alle retoriche difese di Bach redatte dal professor Birnbaum, unica vittoria (ma lenta e tardiva, ai punti) riportata da Bach nell'ultima fase della sua vita. L'entusiasmo per il vittorioso si estende fino alla "sessualità indomita" dell'"ardente vedovo", che generò ancora un figlio a 57 anni. Be', che c'è di straordinario?

"Nè vinto, nè isolato", dunque, salvo che sul fronte della scuola. E' qui che Buscaroli estrae dai documenti una selva di prove per dimostrare la totale erosione dei suoi doveri scolastici e municipali che Bach effettuò nei ventisette anni d'insabbiamento a Lipsia, comportandosi come un perfetto lavativo.

Ma sarà poi proprio vero che "Bach non si sentiva nè umiliato, nè maltrattato"? Un centinaio di pagine più in là, in uno dei tentativi di crepida penetrazione nell'animo del Grande, Buscaroli suggerisce: "Non avrà mancato di sentirsi superato e abbandonato, di gemere sulla sua sorte". Il che s'accorderebbe con le "periodiche crisi di depressione e di sterilità" che lo scrittore gli attribuisce, con l'"ansia", l'"insoddisfazione e forse anche una fragilità" riconoscibile nell'esordiente Bach. Aggiungendo che la parodia, cioè il "continuo lavoro di riscrittura" che è il modus operandi di Bach, è, sì, sempre miglioramento, perfezionamento e inveramento, ma anche "discende da un vizio psicologico ed estetico".

E' quanto all'artigianato musicale, va bene, ammettiamo pure che Bach fosse un romantico. D'un artista così grande si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Ma a proposito dell'Arte della fuga leggiamo che "anche il vecchio Bach ha bisogno, per finire un'opera, del pungolo esterno, la commissione, la data fissata per l'utilizzazione". E se non è artigianato questo, che cos'è?

Nonostante il maltusianesimo critico professato dall'autore, analisi musicali non ne mancano, spesso ottime, ma saltuarie, quasi a titolo di campionature sul versante preferito. Non Cantate sacre, ma profane. Sulla Messa e sulla Passione secondo San Matteo solo aride diatribe di cronologia. Invece una splendida rilettura del Clavicembalo ben temperato, parte prima, e un felice inquadramento storico dell'Offerta musicale, che attraverso Federico II e il barone Van Swieten congiunge materialmente Bach a Mozart. Meno approfondito l'esame dell'Arte della fuga, che pure è il vertice di quella "musica assoluta" proposta come terreno d'incontro e risoluzione della contraddizione tra sacro e profano, la cui tensione conturba drammaticamente il poderoso volume.

La cui lettura è aggravata, oltre che dall'orgia di supposizioni, anche dalla rissosa volgarità delle contumelie versate sui colleghi presenti e passati della ricerca bachiana. C'è nel Buscaroli una sindrome di fascismo intellettuale per cui chiunque si permetta di avere un'opinione diversa dalla sua è un nemico. "Tipica sensibilità fascista", per dirla con parole di Isotta a proposito di Barilli, "nel senso delle categorie mentali, non degli schieramenti nella prassi politica quotidiana".

E' quell'arroganza ghibellina, quella "standardizzata altezzosità nei confronti della massa" che in realtà "è un comportamento tipicamente massificato" secondo la luminosa diagnosi di Claudio Magris, poichè "chi parla della pochezza intellettuale generale dovrebbe sapere di non esserne immune, deve assumerla su di sè come rischio e destino comune degli uomini".

Da questo genere di penitenza il Buscaroli è proprio alieno e così, con una preparazione straordinaria, invece d'un libro di storia, ci ha dato un violentissimo pamphlet. Ma i pamphlets, per essere buoni, devono essere brevi. Questo, invece, è di 1200 pagine.

Massimo Mila ("La Stampa", 19/10/1985)

martedì, agosto 23, 2005

Il Quartetto in due tempi (1955) di Bruno Maderna

Bruno Maderna (1920-1973)
Gli inizi, contrariamente a quanto si crede, son sempre facili. Le opere I nascono sotto il crisma della felicità. Si dice quello che passa per la testa, senza porsi problemi di originalità stilistica. Nei sentieri già aperti si cammina molto più svelti che su terreno vergine. Maderna non aveva difficoltà a riconoscere i propri debiti: «Una volta - scrisse nella già citata autopresentazione - si aveva la più grande fiducia nella bontà dell'imitazione; oggi ognuno custodisce gelosamente la propria sensibilità coccolata al riparo degli influssi». Queste cautele non erano per lui, che la pratica della direzione d'orchestra esponeva ai quattro venti della musica presente e passata.
Difficile non è cominciare, difficile è continuare. Le pene della creazione, les offres du style, gli affanni della consapevolezza stilistica cominciano con le opere 2. Prendiamo ad esempio il Quartetto in due tempi, un altro dei lavori giovanili di Maderna, insieme con la Serenata, che costituiscono un punto fermo, un riferimento essenziale.
Qui sì, siamo in piena dodecafonia. L'esaltante parentesi bartokiana è stata niente più che la scappata d'un puledro selvaggio, buttatosi fuori della pista. Il Concerto per due pianoforti sembra un frutto maturo, ma quella maturità è finta, è stata raggiunta attraverso una scorciatoia, rinunciando all'originalità stilistica. L'autenticità del suo stile Maderna non la può trarre dall'esperienza isolata del geniale ungherese. Deve entrare in quella che - piaccia o non piaccia - sta allora diventando la strada maestra della musica nuova: la dodecafonia nelle sue ultime formulazioni, quelle che, attraverso la lezione di Webern, portano al momento puntillista. Col Quartetto (e con la Serenata) Maderna trova il suo posto nel quadro della musica europea. Non definitivo, ché Maderna non era tipo da restare l'epigone di nessuno, e anche la crisalide postweberniana, al momento giusto egli la farà saltare. Diciamo che ha trovato la sua strada, e comincia a percorrerla in umiltà, stringendo i denti e sopportando un duro basto. Nessun dubbio che il Quartetto è meno piacevole da sentire di quanto lo fosse il Concerto per 2 pianoforti, con l'euforia del suo dinamismo ritmico. Eppure è molto più avanti. Non diciamo che sia più vero, più autentico. Neanche qui Maderna non è ancora lui. Ma è sulla strada giusta per trovarsi. Attraverso quell'inizio cauto, esplorante, del puntillistico primo movimento, attraverso le fiammate drammatiche del secondo tempo, con quegli incendi di tremoli, con gli accessi furiosi di sciabolate sonore alternate a smarrimenti quasi statici, si istituisce una bilancia tra Schönberg e Webern, ma fanno pure capolino gli estremi della personalità di Maderna, macerati in un'ascetica disciplina. C'è un'insistenza singolare sulla ripetizione d'un singolo suono, assunta quasi a funzione tematica, come un rifiuto a dis-correre, cioè a trascorrere via da una nota all'altra. Accanto a questa mortificazione e accanto all'esasperato rigore seriale, l'altro aspetto della natura di Maderna, la sua insaziabile golosità del fenomeno acustico, si manifesta nell'interesse per i più diversi attacchi del suono: il pizzicato, l'arco, gli armonici, i colpetti battuti sulla cassa dello strumento.
Magistrale nella scrittura seriale, che nel secondo tempo riproduce a specchio il primo, fedelmente, nota per nota, il Quartetto può anche parere una tappa poco amena nell'itinerario stilistico di Maderna, qualcosa come una penitenza, un'autopunizione. Ma di lì bisognava passare, e fu un esempio, un modello per molti.
Massimo Mila
(da "Maderna musicista europeo", Einaudi, 1976)