Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 23, 2013

Sinopoli: Intorno alla "Lou Salomè"

Venezia, "Lou Salomé" di Giuseppe Sinopoli
Giuseppe Sinopoli si è dedicato alla composizione soltanto per una dozzina di anni, tra il 1968 e il 1981. Si possono, grosso modo, distinguere tre maniere nel suo viatico compositivo. Dopo un paio d’anni di apprendistato, tra modalità arcaicizzanti, prossime alla Generazione dell’Ottanta, ed elementari articolazioni dodecafoniche, con la partecipazione ai corsi di Darmstadt si avvicinò alla neo avanguardia, e a Stockhausen in particolare. Successivamente fu decisivo l’incontro con Franco Donatoni, il suo maestro per un triennio, tra il 1970 e il 1973, il periodo in cui il nostro musicista scrisse le prime opere del suo catalogo ufficiale. In queste pagine Sinopoli assimila i meccanismi automatici di Donatoni, il quale teorizzava «la perdita della volontà e della capacità di distinguersi dalla materia». Ma se su piano compositivo Sinopoli ubbidiva ai principi sintattici di Donatoni, nelle sue glosse a commento delle opere andava talora riscoprendo la voce di irrazionali irrequietezze.
Di qui l’abbandono di Donatoni e la conquista di uno stile personale, in cui l’ardita ricerca contrappuntistica e un linguaggio molto complesso si apriva al fuoco della soggettiva: mi riferisco soprattutto a tre opere fondamentali, Souvenirs à la memoire, Tombeau d’Armor e Requiem Hashshirim del 1976 per quattro gruppi corali a parti reali, che conclude il rapporto con l’avanguardia e che Sinopoli riprenderà nel finale di Lou Salomé, la sua unica opera teatrale andata in scena alla Staatsoper di Berlino nel 1981 e ora coraggiosamente ripresa, dopo un trentennio, dalla Fenice, nonostante l’enorme impegno produttivo (due orchestre con centotrenta elementi, una decina di cantanti, un grande coro).
Qui e nel precedente Tombeau d’Armor Terzo, per violoncello e orchestra, che rende omaggio alla tradizione romantica del concerto solistico, si apre la terza maniera del compositore: drastico il rifiuto della nuova musica, e sempre più evidente il rapporto con la storia e con il fine secolo.
Lou Salomé è il culmine delle speculazioni teologiche e filosofiche dell’autore.
È, in certo senso, il suo autoritratto etico e culturale. I personaggi sono costruiti con citazioni di poeti, filosofi e letterati che fanno parte del cosmo spirituale del musicista. L’abile librettista Karl Dietrich Gräwe ne rispetta fedelmente le idee. La protagonista è Lou Andreas Salomé, la scrittrice psicanalista, allieva di Freud, messa in relazione con le figure che l’hanno frequentata e amata. È una drammaturgia simbolica e antinaturalistica, fortemente speculativa, che sarebbe errato non rispettare sul piano rappresentativo.
Agiscono figure allegoriche, espressione di una idea poetica che si muove tra Jugendstil e espressionismo, le capitali di un mondo onirico che interessano anche il direttore d’orchestra. Non c’è una narrazione lineare, né uno sviluppo drammatico: è un teatro a pannelli, deliberatamente statico, che procede per illuminazioni. Si succedono singole stazioni teatrali, che evocano momenti della vita di Lou Salomé, dalla nascita alla morte, senza alcuna pretesa di esattezza biografica, ove il vero si intreccia con l’inconscio. Nel destino di Lou si rispecchia la storia culturale tedesca.
La ricerca di Dio coesiste con una tensione erotica continuamente contraddetta e elusa.
Gli incontri documentati con Nietzsche, con Rilke, con l’orientalista Andreas e con Paul Ree, amico di Nietzsche, sono liberamente espressi, senza realismo e con lirica intensità.
Di conseguenza l’apparente mancanza di drammaturgia è in realtà il segno della modernità dell’opera, nonostante il suo carattere retrospettivo. Sinopoli rivive i miti del mondo mitteleuropeo tra Otto e Novecento con totale immedesimazione.
Affiorano il liederismo mahleriano, i temi notturni del Tristano, la vocalità tentacolare e l’orchestrazione sontuosa e cameristica della Lulu di Berg. Continuamente ritornante l’appello liederistico, in cui riemerge la poetica luttuosa del Viandante romantico (si pensi alla canzone del Servo, come ratifica della disfatta, drammaticamente affine al lamento dell’Innocente nel Boris). Né mancano allusioni rapsodiche, barcarola o valzer, prossime al Wozzeck, con uno sguardo al Kitsch. L’opera fa un largo ricorso alla forma del duetto, quale intensificazione sentimentale: lo splendido doppio duetto del finale primo (Lou – Andreas; Lou – Ree) evoca l’elegia notturna del Tristano. Singolari i quadri corali. L’inizio è un inno alla libertà in Russia nel 1861, l’anno in cui venne abolita la servitù della gleba, che coincide con l’anno di nascita di Lou, una libertà percorsa però da ansie e da inquietudini. Le luci si sprigionano dalle tenebre. L’opera si conclude con un affresco che riprende il Requiem scritto cinque anni prima, uno dei capolavori polifonici del secondo dopoguerra, percorso da ombre schönberghiane. Questo coro, ora sostenuto dall’orchestra, è la punta dello sperimentalismo dell’autore, stilisticamente dissonante con le nostalgie decadentistiche di Lou Salomé.
Comunque una pagina vigorosa, arricchita da un epilogo, in cui la protagonista rilkianamente aspira al divino e insieme alla morte. Il secondo atto è meno coerente del primo. Ci sono aspetti che paiono ancora incompiuti. Soprattutto un lunghissimo parlato di oltre venti minuti è problematico da realizzare in Italia (il testo è in tedesco). Ciò però non compromette l’impressione complessiva. Credo che all’ascolto Lou Salomé apparirà come un momento significativo del teatro italiano postpucciniano.
Rimane aperto un quesito. Come mai Sinopoli ha smesso di scrivere dopo quest’opera? Certo era molto impegnato come direttore d’orchestra, ma probabilmente aveva una sfiducia nel comporre, sia per gli orientamenti della «nuova musica » (espressione che non accettava più), sia per le tendenze neoromantiche allora diffuse in Germania e alle quali veniva superficialmente associato. Sinopoli è uno degli ultimi melodisti, interessato a un’orchestrazione vistosa, ma anche trasparente, con una conoscenza di tutti i sortilegi del liberty internazionale e dei deliri espressionisti, tra Schrecker e Berg: lucentezze nel dramma.
 
Mario Messinis (“Venezia, musica e dintorni”, Anno IX, n.44, febbraio 2012)

sabato, novembre 16, 2013

Gustavo Mahler è morto

Gustav Mahler (1860-1911)
Il 19 maggio 1911, sulla prima pagina de «Il Piccolo» di Trieste, sotto la notizia di un viaggio dell'imperatore Francesco Giuseppe, c'era anche questa breve informazione:

Gustavo Mahler è morto.
 
VIENNA, P. N.
Alle 11.50 di stasera è morto Gustavo Mahler.

Lo stesso giorno fu pubblicato un lungo necrologio, il primo e l'unico degno di nota apparso in territorio linguisticamente italiano. Sarà pertanto utile riportarlo nella sua versione integrale. Vale poi la pena anche dire due parole sull'autore dell'articolo, che all'epoca era giovanissimo. Mario Nordio nasce a Trieste nel 1889, in una famiglia dai forti connotati patriottici. Dopo gli studi classici al cittadino liceo «Dante», si iscrive a giurisprudenza a Graz. Ancora studente, nel 1907 fa il suo esordio giornalistico su «L'Indipendente» di Trieste. Si inserisce presto nell'ambito culturale e politico e nel 1908 è l'autore di un articolo dedicato a Vittorio Emanuele II, a trent'anni dalla scomparsa, che provoca l'ira delle autorità austriache fino al punto da sequestrare tutte le copie de «L'Indipendente». Viaggia su e giù per l'Europa e persino in Africa, seguendo vari eventi d'importanza storica e politica. A vent'anni, nel 1909, diventa professionista presso «Il Piccolo», dove rimarrà per trentacinque anni, passando per vari incarichi, dal giornalista al capo redattore.
Nel 1911 Mario Nordio fu il primo triestino a volare sopra la città. Lo stesso anno scrive il necrologio di Gustav Mahler e si reca in Libia, dove incomincia la carriera del corrispondente di guerra che lo porterà poi anche in Serbia, per seguire la prima delle due Guerre Balcaniche.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, si arruola nelle truppe italiane insieme ai fratelli e, grazie alle sue conoscenze della lingua tedesca e del territorio, riesce ad essere di significativo aiuto. Dopo la guerra gli vengono affidate varie missioni diplomatiche per conto del nuovo stato italiano. Nel 1921 torna al «Piccolo» e da inviato speciale continua a seguire gli eventi importanti in Europa. Scrive una serie di fondamentali articoli sui Balcani e la Russia sovietica. Segue attentamente la situazione politica all'alba del fascismo e poi anche del nazismo, e con la Seconda guerra mondiale viene arruolato col grado di maggiore alla II Armata, con l'incarico di capo dell'Ufficio Stampa.
Con l'occupazione di Trieste da parte delle truppe tedesche, Mario Nordio lascia la città insieme a Silvio Benco, allora direttore de «Il Piccolo», e si stabilisce a Venezia, dove comincia a lavorare per il «Gazzettino», rimanendovi fino al 1959, anno in cui andò in pensione. Per dieci anni fu anche il critico musicale del «Gazzettino Sera».
La sua attività però non comprende solo il giornalismo. Effettua molte traduzioni di varie opere teatrali, musicali e letterarie, tra cui anche Il sogno d'una notte di mezza estate di Mendelssohn, Il Paradiso e la Peri di Schumann, L'angelo di fuoco di Prokofiev, La luna di Orff, i Gurrelieder di Schönberg e soprattutto Das Lied von der Erde e i Lieder eines fahrenden Gesellen di Gustav Mahler. Scrive libri e saggi di contenuto che va dal politico al culturale, tra cui volumi su Verdi, Zampieri, Joyce, Busoni, saggi su Humboldt, Hofmannsthal, Heine, Wedekind e tanti, tanti altri.
Tra le varie note per programmi di sala (la Scala, la Fenice, il Verdi di Trieste, il Comunale di Bologna) se ne trova anche una del 1973, per il ritorno della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler a Trieste, in un concerto diretto da Eliahu Inbal. Nel 1977, a quasi novant'anni, Mario Nordio tenne una conferenza a Trieste, in cui presentò il libro di Giuseppe Pugliese Il mio tempo verrà, dedicato alle opere di Gustav Mahler. Il testo dell'intervento di Nordio, fatto alla presenza dell'autore del libro, si può trovare nell'archivio del Civico Museo Teatrale a Trieste e qui ne riproponiamo solo una parte, soprattutto perché riguarda i concerti triestini:

 
Sembrami doveroso mettere in rilievo come proprio Trieste sia stata una delle prime città italiane, se non addirittura la prima, ad accogliere la musica di Mahler con un interesse e una comprensione, quali sarebbe stato vano cercare altrove. Già nel lontanissimo 1905 – più di settant'anni fa, infatti – durante un ciclo sinfonico promosso da un eletto gruppo di mecenati, il Maestro diresse al nostro Politeama Rossetti la sua da poco ultimata “Quinta Sinfonia”: per me almeno, una delle più belle. (altre musiche in programma; il “Coriolano” di Beethoven e la “Jupiter” di Mozart). Il pubblico non era certamente ancora maturo – né poteva esserlo – per un sinfonismo così ardito e complesso. Non nascose quindi una palese perplessità di fronte a quello struggente “pathos” ed alla turgida opulenza sonora della partitura. Non ci furono contrasti, ma ben pochi, stentati gli applausi. Discorde la critica.Tuttavia, già allora ci fu chi ne rimase entusiasta. Della “Quinta” era quella la prima esecuzione in una città italiana. Nelle sue incessanti peregrinazioni di celeberrimo concertatore, Mahler doveva ritornare a Trieste due anni dopo, nel 1907, per dirigere al Teatro Verdi, con la sua “Prima Sinfonia”, il Preludio dei “Maestri Cantori” e la “Quinta” beethoveniana. Ma di questo secondo soggiorno triestino del Maestro non c'è traccia nell'epistolario. Segno che le cose devono essere andate meglio della prima volta. Certo a Trieste lo avrebbe riportato ancora la sua errante attività direttoriale, se la cruda, tanto presentita morte non lo avesse colpito a soli cinquanta anni. Sulla sua tomba nel cimitero viennese di Grinzing, non ha voluto ricordato che il nome. “Quelli che mi cercano – aveva detto – sanno chi sono stato. Gli altri non hanno bisogno di saperlo.” Ma se a Trieste il Maestro non è più ritornato di persona, la nostra musicale città può annoverare, a titolo d'onore, un alto numero di esecuzioni d'opere sue. Basti a ricordarlo che abbiamo avuto per quattro volte la “Prima Sinfonia” - diretta, come già detto, anche da lui stesso al Teatro Verdi – e per due volte la “Quinta” - nel 1905 da lui pure diretta e nel '73 da Eliahu Inbal. Inoltre la “Seconda” o della “Resurrezione” con uno dei più autorevoli interpreti mahleriani, Jasha Horenstein; la distensiva “Quarta” con Reynaldo Giovaninetti e la nostra Gloria Paulizza, senza dimenticare il “Canto della Terra” col maestro Giersten e la grande Maureen Forrester. E ancora, i “Kindertotenlieder” cantati già nel 1948 da Margherita Voltolina Medicus con la direzione illustre di Hans Münch, e più volte i “Lieder eines Fahrenden Gesellen” con Magda Laszlo, Claudio Strudthoff e Claudio Desideri, quest'ultimo anche per i “Cinque Canti su Poemi di Rückert”.

Per quanto riguarda il necrologio, è sorprendente quanto all'epoca Nordio fosse informato sotto alcuni aspetti, nonostante vari e numerosi errori presenti nel testo (che fanno sorridere). I giudizi sulle qualità artistiche di Mahler sono stati superati anni fa, ma hanno il loro posto nel contesto storico. Lasciamo però il testo integrale del necrologio parlare da sé.
GUSTAVO MAHLER
È morto. È morto in circostanze quasi tragiche, che accrescono il lutto nei suoi ammiratori, in tutto il mondo musicale. Il precipitoso degenerare d'una semplice malattia nella più inesorabile infezione del sangue; le due agonie quella di Parigi e quella di Vienna; il triste convoglio ferroviario che ricondusse in patria il morente, avevano stretto in pietà il cuore dei suoi avversari; anche quello dei suoi detrattori. E negli ultimi giorni da tutte le parti si seguiva con apprensione il corso del terribile male, si facevano voti di guarigione, di salvezza per l'illustre musicista. Con lui è scomparsa oggi una delle più notevoli figure dell'arte tedesca, uno dei più grandi direttori d'orchestra della nostra epoca. Gustavo Mahler era nato il 7 luglio del 1860 a Kalitsch [sic] presso Iglau in Bohemia. Compiuti gli studi medii a Praga, s'era iscritto contemporaneamente all'Università e al Conservatorio. A vent'anni egli iniziava la sua carriera di direttore d'orchestra a Hall. La sua genialità, la profonda intuizione, la forza della sua volontà, gli fecero percorrere rapidamente le vie della fama. Cinque anni dopo la sua prima comparsa nel mondo teatrale, egli aveva già diretto notevoli stagioni a Lubiana, Olmütz e Kassel ed assumeva l'offertagli direzione dell'Opera di Praga. Ormai il suo nome era lanciato. Lipsia lo volle a sostituito di Nikisch per sei mesi; Amburgo lo chiamò a risollevare le sorti del suo teatro d'opera, Budapest lo tolse ad Amburgo, sino a che nel 1897, gli fu aperta l'agognata porta dell'Opera imperiale di Vienna che sotto la sua direzione divenne nei primi tempi la scena più importante del teatro tedesco. Quando dieci anni più tardi egli lasciò Vienna per il «Metropolitan» di Nuova York, la sua partenza non provocò quel generale rimpianto che per l'arte sua o per il suo valore si sarebbe potuto aspettare, e ciò principalmente a causa del suo temperamento davvero difficilissimo, che gli aveva creato intorno tutta un'atmosfera di odii e di antipatie. Si fu più tardi appena che i viennesi si accorsero della perdita fatta; dopo di lui nessuno seppe portare uno spettacolo a quel grado di magnificenza, di perfezione artistica, con cui egli aveva viziato il pubblico. A Nuova York, aveva trovato un rivale formidabile: Arturo Toscanini. Nella gara con lui, non indagheremo se per ragioni di merito e di simpatie, egli era uscito onorevolmente battuto, tanto è vero che dall'anno scorso non dirigeva più in America che i concerti sinfonici; quest'anno contava di cedere alle vive insistenze della sua famiglia e di ristabilirsi definitivamente in Europa. Sebbene sia morto a soli cinquant'anni, ben pochi più vecchi di lui possono vantare una carriera più bella, più rapida, più completa. E' noto come Gustavo Mahler fosse anche compositore, e compositore di non secondaria importanza. Per la teatralità, la grandiosità, la struttura polifonica delle sue creazioni, si può dire che se non ci fosse Strauss, egli sarebbe stato il più complesso sinfonista dell'epoca. Le sue opere: otto sinfonie, delle quali la maggior parte con cori e soli; alcune «Humoresken» [sic] per orchestra; «Das Klagende Licht» [sic], specie di oratorio con cori e soli; parecchi «lieder»; le due opere giovanili «Argonauten» e «Rübezahl» , peccano purtroppo di un duplice difetto: sono concepite in proporzioni eccessivamente gigantesche, e appunto perciò presentano uno squilibrio troppo evidente tra forma e contenuto. Quella genialità che spesso non lo abbandona negli sviluppi armonici e nell'istrumentazione, è quasi completamente assente dove si cerchi l'ispirazione, l'originalità della vena melodica, che egli cercava di aiutare con reminiscenze del repertorio popolare. L'Untersteiner dà forse un giudizio esatto sulle composizioni di Gustavo Mahler quando scrive: «Per molti la sua musica è vera “Kapellmeistermusik”, scritta da un autore cioè, che per la lunga pratica di dirigere le opere più disparate e per una grande sapienza tecnica, ha potuto creare delle opere mastodontiche e ipertrofiche, che si risentono di tutti gli stili. Per altri egli è un grande musicista, che con ogni nuova opera si innalza sempre più in su nella parabola. Al solito, la verità sta forse nel mezzo... La prima volta che si sente una sinfonia di Mahler, l'effetto è di sbalordimento ed egli ci appare ineguale, esagerato, alle volte vuoto, bizzarro e persino grottesco; alle volte invece ci irrita, ma ci conquide con la grandiosità dell'idea, che gli balena alla mente e con la smisurata architettura delle sue concezioni.» Tutti ricorderanno il rumore levato in Germania nello scorso autunno per la prima esecuzione della sua «Ottava sinfonia» a Monaco, con oltre mille esecutori. Ora egli stava compiendo una «Nona sinfonia», che molto probabilmente farà, come le precedenti, rumore alla sua apparizione, e poi rimarrà a costituire nella storia della musica l'esponente di un immenso sforzo nel vuoto... Mahler era un artista di vastissima coltura; raccontano i suoi intimi che in casa era sempre intento allo studio di opere filosofiche e letterarie; era infatti al corrente del movimento intellettuale di tutti i paesi. Sentiva poi vero entusiasmo per tutto ciò che era italiano, e in particolare per l'arte italiana; lo stizziva invece la scarsa organizzazione artistica che secondo lui regnerebbe in Italia. Era stato anzi questa sua grande simpatia per gli italiani, che lo aveva indotto a venire molto volentieri fra noi. Egli fu a Trieste due volte: nel dicembre del 1905, e in tale occasione diresse al Politeama Rossetti il «Coriolano» di Beethoven, l'ouverture [sic] «Giove» di Mozart, e la sua Quinta sinfonia, che eseguita dalla nostra orchestra, ottenne buon successo; due anni dopo egli diresse in primavera, al «Verdi», il preludio dei «Maestri Cantori», la Quinta sinfonia di Beethoven e la sua Prima sinfonia. La nostra orchestra ricorda ancora con simpatia la sua piccola figura saltellante nell'atrio o rannicchiata durante le prove sullo scanno, per dare a tratti dei balzi, degli scatti di slancio, di vigore, che infiammavano gli esecutori. In orchestra era di una disciplina ferrea; esigeva il massimo dai professori; tutti ricordano come in due o tre brevi prove riuscisse a presentare la Quinta sinfonia di Beethoven all'applauso del pubblico. Affascinava gli esecutori non solo, ma, contrariamente al sistema dei maestri italiani, trascurava ogni stancamento dell'orchestra con le inutili ripetizioni di brani facili: rivolgeva esclusivamente la sua attenzione ai passaggi difficili, e soprattutto curava gli effetti polifonici, non dando alcuna importanza alle piccole virtuosità orchestrali nei particolari. E' da ricordarsi che appena giunto a Trieste si trovò molto a disagio non riuscendo a farsi intendere dall'orchestra, ma alla seconda prova egli aveva a sua disposizione già tante parole italiane da farsi comprendere perfettamente. Trieste gli piaceva moltissimo. Alcuni amici lo avevano condotto un giorno ad Opicina con l'elettrovia. A mezza strada era rimasto così entusiasta del panorama che si apriva ai suoi occhi, che aveva voluto scendere dal carrozzone e continuare la via a piedi. Intrattabile per temperamento, una delle cose che più lo facevano montar sulle furie si era quando, nel rientrare all'«Hotel de la Ville», dove alloggiava, si trovava signore e signorine che gli chiedevano autografi. Mahler non ha mai dato una fotografia al più intimo dei suoi amici! Ciò che più resterà di lui, sarà probabilmente la sua memoria di «inscenatore». Nessun maestro ha forse dato tanta importanza al modo di mettere in scena un'opera quanto lui. Voleva che in ogni spettacolo la parte scenica fosse alla stessa altezza della parte musicale, per ottenere un insieme artisticamente completo. Le opere di Mozart da lui messe in scena a Vienna erano infatti quello di più perfetto per carattere, fusione ed equilibrio tra palcoscenico ed orchestra che si possa immaginare. Nelle opere di Wagner, che egli volle sempre dirigere nella loro integralità, senza il minimo taglio, cercò di togliere tutto ciò di soprannaturale che poteva cadere nel ridicolo; così ad esempio, nel «Siegfried» non si vedeva l'informe, comica forma del drago, che restava celato fra le rupi; e la cavalcata delle Valchirie, di effetto sempre misero se non addirittura ridicolo, era ridotto ad una fuga di nubi cinematografata dal vero. Per quello che riguardava gli scenari, procurò sempre di eliminare il banale, cercando la grandiosità nel semplice e nell'austero. Tre opere che avrebbe allestito all'Opera di Vienna, se vi fosse rimasto ancora e che godevano di tutta la sua ammirazione, erano il «Barbiere di Bagdad» di Cornelius, la «Bisbetica domata» del Götz e l'«Ifigenia in Aulide» di Gluck, che chiamava una «sinfonia in bianco e oro». Profondo era pure stato il suo dispiacere per non aver potuto mettere in scena la «Salome» di Strauss. Negli ultimi tempi Gustavo Mahler si sentiva stanco e vecchio per continuare la vita randagia del direttore d'orchestra; amava la pace e la calma vita della famiglia. Passò più d'un'estate a Toblach, in una casetta di contadini isolata fra i monti, introvabile; e là faceva lunghe passeggiate e componeva all'aperto. Attualmente si faceva fabbricare al Semmering un villino, che doveva essere finito quest'anno; e in quella solitudine sperava di poter riposare. Un'altra solitudine lo aspettava, ohimè!...
Mario Nordio
Pavlović Milijana

venerdì, novembre 08, 2013

Sinopoli: Pasifal a Venezia

Giuseppe Sinopoli (1946-2001)
Dante si perde in una "selva oscura", e per uscirne deve attraversare i tre regni dell'oltretomba, venire a contatto con il "mal dell'universo", purificarsene, e disporre la mente a incontrare la verità, solo allora tornerà al mondo: ma ormai il suo "disire e il velle", sensi e volontà, anima sensitiva e anima razionale, istinto e ragione, sono governati dalla Conoscenza dell'"Amor che move il sole e l'altre stelle". Parsifal si perde anche lui in una selva, inseguendo un cigno, e anche lui, per uscirne, deve attraversare un labirinto, incontrare il sogno e la morte, conoscere in fine la vera conoscenza: la foresta del Gral, nel primo atto, è solo la foresta di Amfortas, della colpa, dell'orgoglio che inchioda gli uomini alle apparenze, allontanandoli dalla verità. Il secondo atto è la fantasmagoria di tutte le apparenze: più forte di tutte, quella della donna come pura animalità, come puro, inappagabile desiderio, Kundry-Orgheluse. Il ricordo della madre, che precipita Tristano nel regno della Notte, dov'egli invita Isotta, risveglia invece Parsifal sul punto dell'annientamento: staccandosi dal bacio di Kundry salva se stesso, Kundry e l'umanità, ritornando alle origini, alla madre abbandonata. Ma Wagner non è Goethe: le origini wagneriane, protestanti, non hanno nulla a che vedere con le "Madri" pagane del Faust, le matrici originarie, alchemiche, della Natura. E tuttavia, senza che Wagner possa nemmeno sospettarlo, Parsifal è vicinissimo a quelle misteriose terribili origini.
Giuseppe Sinopoli si smarrisce in una selva di pietra, Venezia, labirinto di terre e di acque, costruito magicamente intorno a una spirale ermetica, il Canal Grande, che attraversa a forma di S i sestieri della città. Sinopoli racconta in questo suo bellissimo libro  "Parsifal a Venezia" proprio questo smarrirsi nel labirinto di Venezia, simbolo pietrificato del Labirinto della Conoscenza. Come ogni città magica, o, meglio, sacra, anche Venezia è un Centro sospeso tra la Vita e la Morte, tra Oriente e Occidente: tra il mare, oltre le bocche di Malamocco, e l'isola di San Michele, l'isola dei Morti. A nord il Montsalvat è San Marco, a sud il giardino di Klingsor è il Ghetto. Nel percorrere questo cerchio, smarritosi dopo le prove di Parsifal al Teatro La Fenice, Sinopoli percorre una Via iniziatica di Morte e Resurrezione, come l'uccello divino che dà nome al teatro, e come il giovanetto, puro folle, di cui, a teatro, canta il canto. Il libro è il racconto di questa iniziazione.
Dedicato a Luigi Nono, è anche la confessione di un amore: l'amore della madre, Venezia, città dove Sinopoli è nato. I simboli s'infittiscono. Del resto la scrittura è, sempre, una scrittura di simboli. I cinesi credevano che il mondo andasse ogni volta riscritto: l'interrogazione dell'oracolo - I King - è interrogare la scrittura dell'attimo, ciò che nell'attimo il cosmo ci comunica attraverso la scrittura dei segni ottenuta dal lancio degli steli di bambù. Greci e romani, e noi dopo di loro, credevano invece che il mondo fosse stato scritto una volta per sempre dagli dei, e agli uomini toccasse decifrarlo. In fondo la fisica di Galilei nasce dagli stessi presupposti. Ma non quella di oggi, sospesa a una continua riscrittura del calcolo. Sinopoli, in fondo, anche lui si tiene sospeso tra le due scritture: il simbolo non è solo ciò che si crede nascosto nella Natura, ma anche ciò che la stessa Natura riscopre attraverso l'esperienza dell'uomo che la interroga. E ciò che si scopre, la risposta, o, più esattamente, il responso, è a sua volta un simbolo già scritto, ma che solo si conosce riscrivendolo da capo come non ancora mai scritto.
Dino Villatico
("Repubblica", 8 gennaio 1992)

venerdì, novembre 01, 2013

Vivat: Robert King direttore e discografico

Robert King (1960)
Robert King, il celebre direttore inglese, debutta nel mondo discografico con una propria etichetta, Vivat: in occasione delle prime uscite con l’ensemble King's Consort, lo abbiamo incontrato per chiedergli i motivi di questa decisione.

Cosa l’ha spinta a creare una nuova etichetta dopo la lunga collaborazione con Hyperion?
L'industria discografica è cambiata profondamente e il mio desiderio era quello di avere un controllo maggiore su quanto incidiamo: non mi fraintenda, Hyperion e un'etichetta meravigliosa ma col passare del tempo mi sono accorto che quello che noi volevamo registrare non faceva parte dei loro progetti. Ad esempio, ho dovuto lottare moltissimo per far passare il progetto del Requiem di Michael Haydn, che poi ha venduto quarantamila copie! Quindi ho deciso di seguire l'esempio di altri e di fondare un’etichetta tutta nostra: certo, per quanto riguarda i complessi di strumenti originali noi siamo fra i primi, forse dopo il solo John Eliot Gardiner. Insomma, Vivat nasce per permetterci di avere libertà di scelta, controllo totale e per farci prendere dei rischi, quando le etichette tradizionali sembrano giocare in difesa. Forse siamo dei pazzi!
I primi tre dischi sono molto diversi tra loro, perché si spazia dal Barocco francese alla musica sacra inglese tra Otto e Novecento, per finire con i Quartetti op.18 di Beethoven. Mi spiega il motivo di queste scelte?
Prendiamo il CD con le musiche di Stanford e Parry: Hyperion non ce l'avrebbe mai fatto incidere o, semmai, l'avrebbe affidato ad altri. Si tratta di musica che adoro e che, da inglese, sento scorrermi nelle vene: quindi ho deciso potesse inaugurare degnamente il nuovo catalogo, che per il resto sarà basato sul repertorio per cui il King's Consort è diventato famoso, senza tralasciare qualche deviazione un po’ stravagante! Un altro punto fermo delle nostrc registrazioni sarà sempre l'altissima qualità di tutte le componenti: prenda, ad esempio, il booklet, molto ricco, in varie lingue, pieno di informazioni. Se vogliamo aggiungere quattro pagine per descrivere ogni strumento di ogni musicista dell'orchestra, o se vogliamo mettere un album fotografico, ebbene, possiamo farlo adesso.
Torniamo a Stanford e Parry, la cui musica è poco nota da noi in Italia...
Stanford, in particolare, è un grande compositore, la cui lezione si protrasse per almeno cinquant’anni dopo la sua morte, e appartiene alla tradizione della musica sacra, non a quella del Romanticismo inglese: c'è una palese influenza di Brahms nel suo stile, senza tralasciare poi alcuni momenti Wagneriani, come nella seconda traccia del CD dove pare di sentire il Rheingold! Penso che il pubblico italiano possa amare questa musica, considerandolo come un buon vino che deve essere aperto con cura e gustato lentamente. Tenga poi conto del fatto che abbiamo utilizzato, per l'incisione, strumenti dell'epoca e uno stile esecutivo il più fedele possibile; molti cantanti, che già conoscevano questa musica praticamente a memoria, si sono stupiti per quanto sembrasse nuova, come passare da una visione bidimensionale ad una tridimensionale, con una cura inusitata di tutti i dettagli strumentali e vocali (pensiamo ai portamenti). Musica sacra, certo, ma imponente, grandiosa, non proprio con l'intimismo di un Tallis!
Per Couperin, e le Leçons de Ténébres, si tratta invece di un ritorno, dopo l'incisione del 1990. Cosa è cambiato?
All'epoca rcgistrai questo capolavoro con due grandissimi controtenori, James Bowman e Michael Chance, mentre ora ho deciso di tornare alle indicazioni originali e di utilizzare due soprani, nonché al diapason francese, molto più basso; si tratta quindi  di una versione del tutto nuova per la quale ho voluto scegliere con la massima cura le mie cantanti, e credo che oggi non ci sia artista migliore, per questo repertono Barocco, di Carolyn Sampson, la cui voce si sposa benissimo con quella della norvegese Marianne Beate Kielland, più scura e timbrata perché, se guardiamo bene la partitura, la tessitura della seconda voce è piu bassa rispetto alla prima. Ho voluto enfatizzare questa differenza, avendo nel medesimo tempo cura che, quando le due voci si uniscono, si amalgamino bene, calzino proprio come la migliore scarpa italiana!
Nell’ultimo CD troviama i Quartetti op.18 di Beethoven. Cosa distingue questa versione dell'Allegri String Quartet?
Vivat non vuole essere solo l’etichetta discograhca del King's Consort, ma comprenderà, nei prossimi anni, anche artisti che apprezzo come uomini e come musicisti, e i membri dell'Allegri appartengono a questa categoria; certo, so bene che la concorrenza è enorme c che questo disco certo non venderà un milione di copie, ma credo che il pubblico apprezzerà il suono di questi ragazzi, registrato da molto vicino, senza trucchi e con un’estrema chiarezza dei dettagli. Un suono onesto, lo definirei, fanno musica con grande temperamento, e prima di scegliere loro ho ascoltato molti altri quartetti. Tenga presente che il violista del Quartetto Allegri è anche la prima viola del King's Consort: a cinquantatre anni voglio lavorate solo con gente che mi piace!
I prossimi progetti casa comprenderanno?
Il quarto disco sarà monteverdiano, dal titolo "Heaven and Earth", una raccolta di madrigali tratti dagli ultimi libri (dal quinto all'ottavo), nonché un paio di brani operistici (Orfeo e Poppea): in passato il King's Consort ha inciso molta musica sacra di Monteverdi, ma questa volta ho voluto concentrarmi invece sulle pagine profane. Una pagina come “Hor che 'l ciel" è una delle composizioni più grandi di tutti i tempi, l'ho ascoltata centinaia di volte eppure riesco sempre a trovare dettagli nuovi: sono molto contento di questa incisione, che uscirà intorno ad ottobre. E poi in settembre incideremo una raccolta di arie tratte dagli oratori di Haendel con Iestyn Davies, "il controtenore del momento", per proseguire in ottobre con la musica da camera dell'amato Purcell, le Sonate a quattro: c'è voluto molto tempo a trovare il team perfetto, che comprende anche Cecilia Bernardini, figlia del grande oboista Alfredo e a sua volta splendida violinista.
Oltre alla Sua attività col King’s Consort, dirige anche orchestre tradizionali: come cambia il metodo di lavoro in queste occasioni?
Amo lavorare con gli strumenti moderni, ho portato a termine splendidi progetti, per esempio alla Rai di Torino, i cui musicisti si sono mostrati molto aperti allo stile filologico: il mio comportamento, in ogni caso, non cambia, perché la musica e il compositore rimangono sempre al primo posto e il direttore è solo un tramite che deve garantire la fedeltà alle intenzioni del compositore.
Ma per i nostri lettori sarà forse una sorpresa conoscere la Sua attività nel mondo hollywoodiano, per le colonne sonore di tanti celebri film!
ln effetti ho avuto la fortuna di collaborare, specie con il mio coro, ad alcuni Blockbuster, come Il Codice Da Vinci o Shrek: io amo lavorare in teatro e per il cinema, mi interesso di tutti gli aspetti coinvolti, dalle luci alle scene alle parrucche, quindi se c'è una buona opportunità non me la faccio scappare.
C'è in vista qualche concerto in Italia?
Purtroppo no, perché si tratta di uno dei Paesi che amo di più, ma non dispero: il mercato della musica, come tanti altri, ormai lavora con preavvisi sempre minori e per noi musicisti può essere un problema non sapere cosa faremo, magari, fra tre e quattro mesi. Ma credo fermamente che anche in tempi difficili, la gente non potrà rinunciare alla musica: sta a noi, semmai, essere più creativi e flessibili.

Nicola Cattò ("Musica", n.249, settembre 2013)