Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 31, 2009

Haydn: e il Classicismo divenne europeo

Il difficile rapporto tra l’Italia e la musica strumentale, le falsificazioni del suo profilo estetico, le geniali interpretazioni di Leonard Bernstein hanno accompagnato l’affermazione del maestro viennese, grande moderno del suo tempo.

Haydn non ha mai goduto, qui da noi, in Italia, di una grande fama. Alla sua Creazione (la stessa che noi ascolteremo a Mantova la sera del 19 aprile 2009) arrise, è vero, un certo successo di pubblico, al punto da esser fatto oggetto, nella sola Italia, di almeno ventuno esecuzioni tra il 1804 e il 1855 e di numerose riduzioni per banda, eppure quel grande, anzi sommo, oratorio sta alla fortuna di Haydn in generale – specie alla fortuna di Haydn nel nostro Paese – così come ogni eccezione sta alla propria regola. Ha probabilmente contribuito alla scarsa comprensione di Haydn, da parte del pubblico nostrano, e ad una insoddisfacente presenza del maestro austriaco nei programmi delle istituzioni concertistiche di casa nostra, oggi come anche in passato, la larvata, ma neanche troppo, polemica che da sempre oppone la sensibilità italiana, prevalentemente melodica e lineare, al culto dell’armonia e del contrappunto che è il contrassegno specifico dell’Europa continentale (l’annosa polemica tra verdiani e wagneriani lo testimonia ampiamente). Impossibile impresa è quella di voler accontentare le due antitetiche tipologie di ascoltatori al di qua e al di là delle Alpi. La “predilezione assoluta per il melodramma” da parte del pubblico italiano (almeno fino alla nascita delle prime istituzioni votate all’esecuzione della musica strumentale, come le Società del Quartetto); l’ignoranza del grande repertorio europeo; il radicato provincialismo degl’intellettuali e artisti di casa nostra, l’ostilità, infi ne, degli italiani nei confronti della musica tedesca: queste, or ora citate, sono fra le ragioni principalissime, o fra le più evidenti, che possono aver contribuito a rallentare, a ostacolare, in taluni casi a impedire, la diffusione della produzione musicale del cosiddetto Classicismo viennese nella penisola.
La rassegna delle recensioni mette in luce, tuttavia, un atteggiamento in certa misura ambivalente. Spesso l’ammirazione per le capacità descrittive della musica di Haydn non va disgiunta da una certa perplessità riguardo alla sua capacità di commuovere (capacità che agli italiani certo non manca). L’oratorio haydniano viene giudicato in basea due differenti parametri, riconducibili da una parte alla “dottrina” – cioè alla perizia tecnico-compositiva –, dall’altra all’”ispirazione poetica”, con una netta prevalenza della prima. Nel nostro Paese Haydn è da sempre considerato il bravo maestro di accademia, il mentore di Mozart, il modello di Rossini (che per questo suo ispirarsi all’autore della Creazione, per questo suo farne il nume tutelare della propria musica, era familiarmente detto “il tedeschino”), il parruccone incipriato che sta all’esatta metà fra Händel e Mozart. Non di rado il nome di Haydn appare associato a quello di Luigi Cherubini, il grande neoclassico, l’aedo della Restaurazione post-napoleonica. Il maestro di cappella degli Este-rappresenta, voce populi, una sorta di chiave di volta, o di passaggio obbligato, o di transizione fatale, fra il vecchio mondo illuministico, quello del Neoclassico, quello nel quale a dominare e a dettar legge sono le famiglie principesche e, in Germania, i vescovi elettori, e il nuovo mondo mercantile e industriale della modernità e del Romanticismo.
Il fatto – in sé incontestabile – che l’aspetto descrittivo della Creazione fosse a quel tempo avvertito come una chiave di lettura privilegiata dell’opera – a discapito delle sue qualità melodiche – trova conferma in alcuni scritti di carattere estetico della prima metà del secolo come le Haydine di Giuseppe Carpani, la Vie de Haydn di Stendhal, nonché la Filosofia della musica di Raimondo Boucheron. In questi testi proprio la Creazione si presta allo scopo di chiarire i diversi modi in cui la musica può assolvere al suo scopo: la neoclassica imitazione della natura. Valutata con tale metro, è chiaro che l’opera di Haydn dovrà ai posteri apparire come il frutto di una sapiente falsificazione. Considerati in prospettiva diacronica – i primi due lavori citati sono anteriori di circa un ventennio al testo di Boucheron –, le tre letture dell’opera di Haydn – in particolare i giudizi relativi alla rappresentazione del Caos – documentano un interessante mutamento dell’orizzonte d’attesa degli italiani nel corso della prima metà dell’Ottocento. In primo luogo, si assiste al progressivo riconoscimento dell’autonomia espressiva della musica strumentale, autonomia favorita dal carattere sempre meno sporadico e privato delle accademie di musica “classica”, con una cospicua presenza dei compositori d’oltralpe. In secondo luogo, il linguaggio armonico di Haydn – a tratti definito troppo tedesco, come nel brano orchestrale che apre la Creazione –, viene pienamente assimilato.
V’è poi un fatto oggettivo, che riguarda non solo il nostro sventurato Paese. Per via di una conoscenza molto limitata della sua opera e di giudizi che lo ritenevano l’esemplare incarnazione di un’epoca galante, razionalista, ingenua, dalla superficiale chiarezza e dagli elementari contenuti drammatici, la fortuna di Haydn – lo notava Paolo Maurizi in un suo contributo – decadde sin dall’inizio del XIX secolo. Gli si riconobbe il merito di aver tecnicamente ‘inventato’ la sinfonia e il quartetto d’archi, ma non gli si vollero accordare la grandezza e l’unicità del creatore, dello scopritore di nuovi mondi sonori, dello sperimentatore di nuove, forti, inedite sonorità orchestrali. Haydn, questo si diceva di lui, si sarebbe limitato a “elaborare” – ossia a “rimaneggiare”, senz’altro apporto che quello di una rilettura sagace, quella tipica del mestierante di talento – forme del passato, ormai morte. Haydn fu privato, a torto, della trasfigurante aureola del genio. L’intero secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle non ha mai messo seriamente in discussione l’egemonica centralità di Mozart. Del pari, il Novecento ha sì scoperto l’enorme ricchezza tecnica e stilistica di Haydn; ma non ha davvero e fino in fondo sondato i contenuti poetici, estetici, profondi della sua opera. Resta ancora tutto da cogliere, da valutare, da interpretare, il senso storico della presenza e dell’attività di entrambi su una stessa e coeva “platea”, quello, insomma, della “presa” su una stessa tipologia di pubblico, individuando nelle rispettive produzioni due percorsi differenti della musica nel periodo cruciale in cui giunse a piena maturazione lo stile classico.
Un fatto curioso va notato: la musica di Haydn viene da tutti, consciamente o meno, retrodatata nel tempo. Nel senso che essa pare regolarmente più vecchia, più parruccona, più incipriata, di quanto in realtà non sia. Spiega Paolo Isotta: “O per malvezzo storicistico, o per il predominio ancora universale d’una idea del Classico come Arcadia degl’impotenti, rituale di settecentesche galanterie, la sua musica viene privata d’ogni tensione tematica, armonica, strutturale: diviene manifestazione d’esangue formalismo” (la stessa cosa, si osservi, era già accaduta per Bach). Toccò a Leonard Bernstein il compito di mettere in luce, nella sua stupefacente interpretazione dell’ultima Messa di Haydn, che è anche la sua ultima opera in assoluto, un’aggressività, una potenza plastica, una monumentalità tutte già, non vi sono dubbi, beethoveniane. Un curioso paradosso vuole che proprio a un americano sia toccato il privilegio di rimediare, almeno in parte, alla colpevole incuria degli europei.

di Carlo Alessandro Landini ("Musicalmente", Anno 4, numero 3, novembre 2008)

domenica, ottobre 18, 2009

Quartetto Casals: profeti in patria

Al suo debutto a Bologna per Musica Insieme, il quartetto spagnolo si racconta: dalla fondazione, auspice il ‘nostro’ Antonello Farulli, ai più prestigiosi riconoscimenti internazionali.

Quella del Casals è la scelta orgogliosa di un nome che ricorda uno dei massimi musicisti spagnoli, ed insieme un uomo che ha combattuto per la causa della libertà e dei diritti civili in un periodo, come quello franchista, caratterizzato dal terrore e dalla repressione.
Il Casals nasce fra le mura della Scuola “Reina Sofia” di Madrid, e in poco più di dieci anni conquista e sbalordisce i suoi stessi insegnanti (da Antonello Farulli al Quartetto Alban Berg), il pubblico, le giurie internazionali, la critica specializzata.
In controtendenza rispetto al famigerato adagio secondo cui nessuno è profeta in patria, la Spagna offre da parte sua un grande sostegno alla compagine: il Casals è Quartetto Residente nei Conservatori di Saragozza e Barcellona, e protagonista di una propria stagione all’Auditorium catalano, che nel 2007 ne ha celebrato con tutti gli onori il decennale dalla fondazione. D’altronde, come ricorda in queste pagine Jonathan Brown, che del Casals è il violista, la Spagna non ha sviluppato una tradizione cameristica particolarmente florida, ed è quindi con giustificato orgoglio che la comunità nazionale ha fatto dei quattro i propri vessilliferi nel mondo, vittoriosi allo “Yehudi Menuhin” di Londra come al “Brahms” di Amburgo, borsisti della Fondazione Borletti-Buitoni ed ospiti del Carnegie Hall newyorkese come del Musikverein di Vienna. Ripercorriamo insieme a Jonathan Brown le tappe di questa irresistibile ascesa.
Cominciamo, come si usa, dalle presentazioni: il vostro è un nome piuttosto importante...
«Senza dubbio. Il nostro è di fatto il primo quartetto spagnolo ad essersi conquistato una carriera internazionale, perciò abbiamo scelto di fregiarci col nome di Pablo – in catalano Pau – Casals, ossia uno dei massimi interpreti spagnoli al mondo.
Quindi la scelta era pressoché obbligata. Ci onoriamo del nome di Casals per due fondamentali ragioni: perché lo ammiriamo musicalmente, com’è naturale, ma ammiriamo anche le sue battaglie umanitarie, nella resistenza contro il regime di Franco, e nell’impegno in prima persona per la pace e la democrazia nel mondo».
Da parte vostra, in tutta la Spagna siete già celebrati come un’istituzione.
«Pur avendo la fortuna di suonare in tutto il mondo, la nostra “sede operativa” è catalana, viviamo e lavoriamo a Barcellona, dove animiamo una nostra stagione cameristica, e siamo spesso invitati al Palazzo Reale di Madrid, dove possiamo imbracciare i preziosi Stradivari della famiglia reale. Suoniamo spesso per i monarchi di Spagna, e li accompagniamo nelle visite ufficiali: di recente ad esempio abbiamo tenuto un concerto per il Granduca del Lussemburgo».
Alla luce dei chiari di luna italiani, ed europei, pare un’eccezione. Come se lo spiega?
«È una situazione curiosa: in Spagna gli strumenti ad arco non hanno una grandissima tradizione; è un paese che ha dato i natali a grandi cantanti lirici, un paese dove fioriscono i cori o i complessi di fiati, e naturalmente più che mai la scuola chitarristica.
Ma per gli archi, dal violino al contrabbasso, la musica cambia; la continuità storica manca, il che è sicuramente uno svantaggio. D’altra parte però, negli ultimi venticinque anni la Spagna ha investito enormi energie nella musica classica. Innanzitutto si sono costruite un gran numero di nuove sale da concerto, tanto che la maggioranza delle città spagnole, grandi e piccole, può contare su sedi concertistiche moderne e funzionali, progettate sia per la cameristica che per la sinfonica. Anche i conservatori hanno conosciuto un incremento notevole, con la costruzione di nuovi edifici e la ristrutturazione degli esistenti, ed una rinnovata attenzione per il perfezionamento musicale, in particolare in ambito cameristico.
In generale, il pubblico di questi ultimi anni è assai ringiovanito e più motivato, oserei dire entusiasta... In sostanza, pur non potendo vantare una tradizione cameristica secolare come l’Austria o la Germania, la Spagna ha fatto davvero passi da gigante».
A proposito di tradizione germanica: vi siete perfezionati con l’Alban Berg Quartett, che ne rappresenta l’estrema e già leggendaria propaggine. Quali sono stati i suoi insegnamenti più preziosi?
«Il Casals ha studiato quattro anni a Colonia con l’Alban Berg, fino al 2003 (Brown utilizza la terza persona perché il suo ingresso ufficiale nel Quartetto risale al 2002, ndr). Credo che da allora a oggi tutti noi siamo maturati molto, trovando col tempo una nostra sonorità e un nostro modo di fare quartetto.
Tuttavia, fra le tantissime cose che abbiamo imparato dall’Alban Berg, una in particolare ci è stata di grande utilità: constatare in quanti modi diversi si possa pensare la musica, e riuscire a fonderli nell’esecuzione quartettistica. Mi spiego: abbiamo sempre studiato con i singoli membri dell’Alban Berg, e si trattava di quattro personalità diversissime, quasi contrapposte, tanto da far sembrare incredibile che avessero scelto di suonare insieme; e invece erano capaci di unire le proprie individualità in maniera unica. Un altro aspetto fondamentale era il livello tecnico elevatissimo che pretendevano dagli studenti: la preparazione doveva essere tale da permettere
ad ognuno di noi d’intraprendere la carriera solistica. Per l’Alban Berg quello era semplicemente un punto di partenza».
L’Alban Berg consigliava anche ai suoi studenti di affrontare innanzitutto le pietre miliari del repertorio, incominciando per così dire dai fondamentali. Con Haydn, Mozart e Beethoven, il vostro programma allinea tre padri fondatori del quartetto, quasi immortalando ciascuno di essi in un momento cruciale della propria produzione...
«Le opere in programma sono davvero capisaldi del repertorio quartettistico, la loro composizione abbraccia un quarantennio circa di storia musicale, e ciascuna di esse è a suo modo rivoluzionaria. Il Quartetto op. 33 n. 3 di Haydn lo è sotto molti aspetti: sotto il profilo armonico innanzitutto, e poi nella struttura; pensiamo ad esempio che Haydn vi inserisce per la prima volta uno Scherzo al posto del tradizionale Minuetto.
Inoltre l’opera 33 fa parte di un dialogo aperto fra Haydn eMozart: già con i Quartetti op. 20, Haydn aveva ispirato al giovane salisburghese la stesura dei sei Quartetti “viennesi” (che il Casals ha inciso nel 2005, ndr). Più tardi l’opera 33 darà aMozart lo spunto per i sei Quartetti dedicati ad Haydn, e il primo della serie è proprio il KV 387, in sol maggiore, che eseguiremo a Bologna. L’opera 130 di Beethoven, infine, è una musica assolutamente unica, non esiste nulla di simile nel genere quartettistico: si compone in sostanza di tre Scherzi, il movimento lento è una delle più belle cavatine strumentali mai scritte, e la Grande Fuga finale op. 133 è a sua volta un unicum nella storia del quartetto per archi. Anche l’ultimo movimento del Quartetto KV 387 di Mozart è un fugato; insomma, sono tre opere molto originali e percorse da un sottile filo rosso che le collega l’una all’altra».
In questa scelta tutta rivolta al classicismo viennese, possiamo leggere anche una scelta programmatica del Casals? Ossia la costruzione di un repertorio che poggi storicamente sulle origini del genere, per poi affrontarne magari le principali diramazioni storiche?
«Sicuramente ogni quartetto d’archi deve fare i conti con i fondamentali, ossia Haydn, Mozart e Beethoven, il cui approfondimento ed interpretazione sono imprescindibili. Ma più che seguire un percorso lineare, ritengo che il Casals affronti senza preclusioni la musica che più ama: e quindi Šostakovič, Ligeti e Bartók, le fughe di Bach e Dvorák... Che sia musica degli anni Ottanta o del 1780, non fa differenza, se la amiamo. Questa è in buona sostanza la nostra “strategia”».
Quindi c’è posto anche per la produzione contemporanea.
«Certo, per tutta la musica che ci comunica qualcosa, a prescindere dalla sua età... Commissioniamo opere inedite, ed abbiamo tenuto a battesimo quartetti degli spagnoli Jordi Cervelló, David del Puerto e Jesús Rueda, del tedescoHans Zender, o ancora di James MacMillan e di György Kurtág. Christian Lauba ci ha scelto per l’incisione del suoQuartettoMorphing».
Per una biografia futura del Casals: quali le prossime imprese?
«Continueremo come sempre ad insegnare a Barcellona e a viaggiare per i nostri concerti, ma fra i principali progetti in cantiere c’è l’uscita di un cd dedicato ad Haydn e la registrazione di un album di musica ungherese del ventesimo secolo, che comprenderà opere di Bartók, Ligeti e Kurtág. Infine, per la nostra annuale stagione cameristica all’Auditorium di Barcellona, fra il 2010 e il 2011 eseguiremo l’integrale dei quartetti di Dmitrij Šostakovič. E poi, molto altro ancora...».

di Fulvia de Colle ("MI Musica Insieme" n.3, Ottobre-Novembre 2009)

domenica, ottobre 04, 2009

Claude Debussy: Vincent d'Indy

Le persone dogmatiche definirebbero L'Etranger «una elevata e pura manifestazione d'arte»; secondo il mio umile parere, è qualcosa di meglio.
E' la liberazione da formule senza dubbio pure e altere, ma che conservavano la freddezza, l'azzurro, la finezza e la durezza di un meccanismo d'acciaio. La musica era stupenda, ma come prigioniera, e di una maestria così sorprendente che sarebbe parso quasi sconveniente abbandonarsi all'emozione.
Qualunque cosa ne sia stata detta, l'influenza di Wagner non fu mai profonda su d'Indy: l'eroico istrionismo dell'uno non poté mai trovare un'alleata nella probità artistica dell'altro. Sebbene Fervaal sia ancora sottomesso alla tradizione wagneriana, se ne difende con la sua coscienza, col suo disdegno contro l'isterica magniloquenza che affatica gli eroi wagneriani.
So bene che si rimprovererà a Vincent d'Indy di essersi liberato, di non prediligere più il fuoco dell'«Appuntamento dei temi», gioia dei vecchi wagneriani, informati in anticipo da opportuni prontuari.
Perché, al contrario, non è completamente affrancato da quella necessità di spiegare, di sottolineare tutto, che talvolta appesantisce le più belle scene dell'Etranger?
Perché tanta musica per un doganiere, personaggio aneddotico, di cui comprendo il significato in opposizione all'umanità straripante dell'Etranger, ma che tuttavia avremmo desiderato più insignificante: uno di quei vaghi esseri umani preoccupati soltanto della loro misera pelle?
L'azione drammatica dell'Etranger, malgrado la sua semplicità, non è un brutale fatto di cronaca. Si svolge in riva al mare, in un piccolo villaggio di pescatori. Un uomo è venuto da qualche tempo a stabilirsi in questo villaggio: viene chiamato lo Straniero, perché nessuno conosce il suo nome; è terribilmente antipatico, taciturno, non frequenta nessuno; il suo berretto si fregia di uno smeraldo che naturalmente gli procura una fama di stregone. Egli si sforza di mostrarsi buono e servizievole, offre la sua parte di pesca a coloro che sono tornati con le reti vuote; cerca di liberare un disgraziato che è condotto in prigione; ma l'autorità non ama i simbolisti e i pescatori neppure.
Con due frasi dalle linee semplici, Vincent d'Indy ha caratterizzato molto efficacemente il personaggio dello Straniero. E' un eroe cristiano, che si collega direttamente a quella catena di martiri che svolgono sulla terra una missione di carità ispirata da Dio. Lo Straniero è dunque il fedele servitore che il Maestro ha voluto tentare con l'amore femminile, il cui cuore ha ceduto, e che soltanto la morte potrà riscattare.
Mai la musica moderna ha trovato un'espressione più profondamente devota, più cristianamente caritatevole. In verità, è una convinzione profonda quella che ispira a d'Indy queste due frasi di sovrana bontà; esse illuminano il senso profondo del dramma meglio di qualsiasi commento sinfonico.
Una fanciulla, chiamata Vita, è attratta dal mistero e dalla tristezza sognatrice di quest'uomo; essa d'altronde ama profondamente il mare, abituale confidente della sua malinconia, dei suoi segreti desideri. Vita è fidanzata ad André, il bel doganiere che, in una scena familiare, rivela un animo di egoista soddisfatto. E un funzionario che non capirà mai come una fanciulla possa sognare uno che non sia un bel doganiere.
In una scena in cui Vita e lo Straniero s'incontrano nasce il loro legame. Vita confessa il suo amore. Il mare non è più il suo confidente, da quando lo Straniero è apparso... Profondamente turbato, quest'ultimo si lascia sfuggire il suo doloroso segreto: «Adieu, Vita, le bonheur je te souhaite... Moi je pars dès demain, car je t'aime, je t'aime, oui je t'aime d'amour, et... tu le savais bien».
In effetti, Vita è giovane, Vita è fidanzata. Lo Straniero, pronunciando quelle parole d'amore, ha perduto la purezza di cuore che costituiva la sua forza. La solitudine morale è infatti necessaria alla missione redentrice ch'egli si è assunta. Consacrarsi a tutti impedisce di consacrarsi a uno solo. Non è cosa allegra dover fare tutti i giorni miracoli. Lo Straniero è vecchio, e questa preoccupazione puramente umana non mi dispiace in un personaggio miracoloso.
L'aver dimenticato per un istante la sua missione gli impedirà in avvenire di continuare la sua opera di carità. Egli dona a Vita lo smeraldo oramai inutile e le dice addio per sempre. Scossa da singhiozzi, Vita lancia nel mare inquietante, da cui s'innalzano voci misteriose, lo smeraldo sacro, causa della sua sventura. Il mare si richiude su quella pietra, con gioia selvaggia di tutte le sue onde, per la riconquista di un talismano che un tempo lo costringeva a placarsi. La tempesta si scatena, una barca è in pericolo. Come si può immaginare, i bravi pescatori del primo atto non oseranno portarle soccorso. André, il bel doganiere, approfitta dello smarrimento generale per mostrare a Vita i suoi nuovi galloni e farle dono di un braccialetto di fine argento. Questo doganiere abusa dei diritti dell'egoismo, e Vita gli dimostra con il suo silenzio quanto sia insopportabile. André si allontana senza vergogna, mentre sopraggiunge lo Straniero, richiamato dal pericolo, ordina che gli sia apprestata una barca e sta per avventurarsi da solo in mare, poiché nessuno osa sacrificarsi con lui. Vita si slancia, e con un grido d'amore fra i più belli che mai si siano uditi accompagna lo Straniero. Si imbarcano, scompaiono fra le onde infuriate, che non hanno più il potere di placare. Un vecchio marinaio segue con lo sguardo la loro lotta. Improvvisamente, la fune che li univa alla riva si spezza: il vecchio marinaio si toglie il berretto, recitando le parole del De Profundis. Le due anime hanno trovato riposo nella morte, che sola ha avuto pietà del loro impossibile amore.
Chi lo voglia, è libero di cercare in questa vicenda simboli insondabili. A me piace rilevare in essa un'umanità che Vincent d'Indy ha rivestita di simboli soltanto per rendere più profondo l'eterno dissidio fra la Bellezza e la volgarità delle folle.
Senza attardarmi in questioni tecniche, desidero rendere omaggio alla serena bontà che aleggia su tutta quest'opera, allo sforzo di volontà dell'autore nell'evitare qualsiasi complicazione, e soprattutto al tranquillo ardimento di Vincent d'Indy nel tentativo di superare se stesso.
E se poco fa lamentavo un certo eccesso di musica, è perché qua e là esso mi sembra nuocere a quella completa « fioritura » che conferisce un'indimenticabile bellezza a tante pagine dell'Etranger. Quest'opera, insomma, è una lezione ammirevole per coloro che credono a quella brutale estetica d'importazione, che consiste nel soffocare la musica sotto cumuli di verismo.
Il Théátre de la Mormaie e i suoi direttori si sono conquistati un grande onore presentando Etranger con una cura artistica degna di ogni elogio - si sarebbe forse potuto esigere un maggior rigore nella scenografia. Ma dobbiamo essere riconoscenti per una iniziativa che, anche ai giorni nostri, può definirsi coraggiosa.
Non posso che lodare Sylvain Dupuis e la sua orchestra per la loro intelligenza, così preziosa per il musicista; inoltre Albert e Friché hanno contribuito al trionfo che ha salutato il nome dell'autore. Tutti, del resto, hanno testimoniato uno zelo commovente, e non vedo perché non dovremmo felicitarci con la città di Bruxelles.

Claude Debussy (da "Il Signor Croche antidilettante", SE, 2000)

venerdì, ottobre 02, 2009

King Crimson: una monarchia "progressive"


La lunga saga del "Re Cremisi" è il frutto del genio cervellotico di Robert Fripp, chitarrista geometrico e "dittatore illuminato" della band britannica che ha fatto la storia del progressive e del rock.
PROLOGO
"Ho cominciato a suonare la chitarra a undici anni, nel 1957, pochi giorni prima di Natale. Non avevo per niente orecchio musicale, non avevo neanche il minimo senso del ritmo. Non sarebbe stato possibile immaginare qualcuno musicalmente meno dotato di me. Quando sei così a secco di doti musicali, devi per forza cominciare a riflettere e a farti domande sulla natura del suono. Che cos'è che non ti permette di avvertire la differenza tra una nota e l'altra? Quali sono le parti dell'organismo che reagiscono alle diverse componenti della musica? Dove sono le barriere e i blocchi? Cosa puoi fare per eliminarli?".
Strano personaggio Robert Fripp. Strano e unico personaggio in un mondo del rock che, almeno all'epoca della sua formazione musicale, derivava da un humus culturale e di costume legato indissolubilmente a un certo ribellismo da teddy boys, poi sesso e groupies, droga a volontà, macchine veloci, Harley Davidson e viaggi infernali, Jack Kerouac e le porte della percezione, trasgressione e omologazione. La nascita della gioventù come entità autonoma nel pensiero, nel costume, nel vestire, nei rituali, nelle (ir-)responsabilità ha avuto una colonna sonora bellissima, travolgente e commovente. Ma le colonne sonore, si sa, a volte slegate dalle immagini perdono forza e vigore, le decontestualizzi e ti ritrovi con un pugno di mosche in mano. E poi tutti invecchiano e dopo un po' l'entusiasmo non basta più. Robert Fripp è uno di quei personaggi che hanno salvato il rock da sé stesso, ma per farlo hanno dovuto accompagnarlo verso la senescenza e, lentamente, impercettibilmente, ucciderlo. Perché Robert Fripp, sia ben chiaro, è pienamente un musicista rock, ne possiede l'approccio, la ritmica, l'impatto, la commercialità. Ma ne rifiuta la prospettiva. "La deliberata dichiarazione da parte mia, nel 1969, che era possibile al rock di richiamarsi alla testa oltre che ai piedi causò una sorta d'esplosione passionale e fu considerata eretica". Ma cosa vuole questo borioso provinciale borghese? Perché complicare una cosa in fondo così semplice come il rock? La risposta è forse lapalissiana: perché Fripp (ma, intendiamoci, non è certo l'unico) è un musicista che usa le forme del rock come linguaggio, come tramite, non un ragazzo che fa il musicista per esprimersi nel linguaggio della propria tribù generazionale, culturale ed emotiva e che quindi diventa musicista rock.
Il cambio di prospettiva è copernicano, è il cambio di prospettiva del rock da espressione ad arte, che in quanto tale parla ai posteri come ai contemporanei e necessita di disciplina (parola chiave per la musica di Fripp) e struttura.

ATTO PRIMO
Dopo esperienze musicali trascurabili, un trasferimento a Londra nel 1967 e un disco altrettanto trascurabile con i fratelli Giles ("Giles, Giles and Fripp, The cheerful insanity of..".), nel 1969 forma i King Crimson con appunto i fratelli Michael e Peter Giles e il fiatista Ian Mc Donald. Con la sostituzione successiva di Peter Giles con Greg Lake, poi negli Emerson Lake and Palmer, il line up per il disco di esordio è completo.
Il gruppo ha una frenetica attività live con materiale originale che confluirà nell'esordio e in parte nel successivo e il 10 ottobre del 1969 esce In The Court Of The Crimson King, in un certo senso atto costitutivo del genere che successivamente sarà noto come progressive. Come ben testimonierà successivamente il cofanetto postumo Epitaph, il disco rispetto alla attività live è più ordinato e razionale, meno dirompente.
In The Court Of The Crimson King è disco bello ed epocale. Forse più epocale che bello. Cinque brani famosissimi tra gli appassionati del genere e anche oltre. Una partenza fulminante con il delirio di "21st Century Schizoid Man", con la voce filtrata di Lake che declama l'apocalittico testo di Sinfield su un riff chitarristico, poi un lungo break strumentale con la fuga in progressione di chitarra e sax e ripresa successiva del tema portante. Brano aspro e frenetico, costeggiante l'improvvisazione senza mai toccarla. Poi, un clamoroso cambio di atmosfera con "I Talk To The Wind", di Ian McDonald, melodia dolcissima, di sapore antico, rinascimentale, impreziosita da due bellissimi stacchi in cui il flauto svolge un toccante tema melodico. Poi l'inquietante epica di "Epitaph" e della title track, con il mellotron che stacca in continuazione disancorando i brani dalla loro fisicità, e in mezzo "Moonchild", brano tutto giocato su un tenue minimalismo strumentale, con un'iniziale delicata melodia che si sgretola presto in una lunga improvvisazione tangente al silenzio. Tutti i brani nascono da idee iniziali brillantissime che sono enormemente sovraccaricate di impatto strumentale come di tensione drammatica. Già i Moody Blues usavano il mellotron, già i Nice giocavano con ambizioni classiche, già i Procul Harum, tra gli altri, dilatavano i brani; Ma di fronte a In The Court Of The Crimson King tutto ciò sbiadisce come timido prologo, è il passaggio, preparato, studiato e consapevole del Rubicone verso un nuovo genere, e lo è non tanto e non solo per quello che vi è suonato o per come è stato suonato, ma anche per quello che codifica, per il pensiero estetico, culturale e per le ambizioni che manifesta.
Ambizioni che non sono, a mio parere, risolvibili nella commistione del rock con la musica classica, come certa critica di grana grossa ha affermato per decenni, ma nel creare un approccio che è mentale e ideale prima che compositivo che esca da vecchie traiettorie del rock come forma musicale viscerale, emotiva, generazionale, politica, funzionale allo svolgersi di stanchi rituali di stupefacente conformismo artistico; traiettorie del rock come musica di ghettizzazione artistica, urlata ma in realtà trascurabile e ininfluente.
In The Court Of The Crimson King è l'inizio del tentativo rivoluzionario di fare del rock una forma d'arte, in cui il messaggio fosse insito nella ricerca estetica, in cui non esistesse un contesto o uno sfondo ma solo pura forma, disciplina e cristallizzazione della bellezza come categoria primigenia. In tal senso, o per lo meno anche in tal senso, va ricercato il rifrangersi del progressive nella musica classica. L'esordio dei King Crimson fu l'esordio di un fallimento di successo, perché retrospettivamente possiamo forse dire che il tentativo alla lunga fallì per mancanza generale di coraggio e di visione, ma ciò che nascerà dalle macerie fumanti non sarà più rock ma o la sua caricatura o la sua immagine spettrale.
Disco epocale, tra grandeur, enfasi e l'inquietudine del profondo, disco di saldissima struttura melodica, potente, delicato, iper-razionale ma anche di impeto e tempesta, In The Court Of The Crimson King assume pienamente l'impatto e la ciclicità spaziale del rock, e qui sta il suo limite più evidente, rifiutandone i perimetri dello spettro espressivo.
L'anno successivo esce In The Wake Of Poseidon, se ne va Mc Donald (un talento,una meteora e un mistero del progressive), entrano il cantante Gordon Haskell, il fiatista Mel Collins e il grande pianista jazz Keith Tippett, che avrà un importante e misconosciuto ruolo nell'evoluzione successiva del gruppo. La formazione è instabile e inquieta. La prima facciata ripercorre pedissequamente la prima facciata dell'esordio, con un primo brano tirato con riff chitarristico e crescendo centrale, seguito da una ballata, anche qui splendida ("Cadence And Cascade"), e da uno psicodramma per mellotron. Le similitudini finiscono qui. La seconda facciata presenta sostanzialmente due brani, una intelligentissima finta jam jazzata sulla base di un motivetto cabarettistico ("Cat Food") e un inquietante e possente crescendo marziale, costruito attorno al nucleo di "Mars" del compositore Holst, con il mellotron che apre virtualmente all'infinito. Poi, se l'esordio era un progetto corale, il seguito è un disco dominato dalla figura di Fripp. "Un grande disco e un disco deludente", è stato detto, non senza ragione, perché se è eccellente la musica ivi contenuta, non si rilevano la stessa forza visionaria e la stessa suggestione dell'esordio.
L'instabilità del gruppo si accentua, se ne vanno i fratelli Giles e definitivamente Lake, Fripp chiama alla corte dei jazzisti della frenetica scena inglese (oltre a Tippet, Charig, Miller e Evans). Da questa precarietà nasceranno i due capolavori assoluti dei King Crimson e del progressive tutto.

Il primo si chiama Lizard ed esce sempre nel 1970. La discontinuità rispetto ai due dischi precedenti appare netta e spiazzante, l'influenza della scena art-jazz inglese appare palese nel mood dei pezzi, se non proprio nelle composizioni medesime; se negli esordi si operava sulla sovrastrutturazione di nuclei melodici primigeni adesso ci si focalizza, pur essendo Lizard disseminato di intuizione melodiche geniali, sulla cura di arrangiamenti spiazzanti, sovraccarichi di incisi, accordi, rimandi, contrappunti, con vasta aree apparentemente free-form di jazz progressivo. Se prima prevaleva l'epica e il lirismo, adesso prevalgono melodie sghembe, taglienti, ironiche, che galleggiano su una miriade di geniali intuizioni strumentali. Il tutto dona al disco qualcosa di inquietante, di estraniante, di instabile. La prima parte del disco è in tal senso paradigmatica, con Fripp all'acustica che nell'iniziale "Cirkus" divaga distaccato in controcanto alla linea vocale stralunata di Haskell, poi soli di sax e mellotron in un brano di costruzione magistrale. Poi l'indolente "Indoor Games", dalle continue punteggiature jazz, seguita dalla sarcastica " Happy Family", con voce filtrata con gli strumenti che si inseguono e si intersecano in una jam lunare. Chiude la prima facciata la dolcissima "Lady Of The Dancing Water", toccante madrigale per flauto, acustica e bel testo di Sinfield, forse il brano più sentimentale scritto da Fripp.
La seconda contiene la (falsa) suite "Lizard", con una prima parte "Prince Rupert Awake", bella e aperta melodia cantata da un ancora non celebre Jon Anderson che si sfrangia ben presto in "Bolero-Peackock's Tale", che incanta con una struggente melodia all'oboe da cui sviluppa una complessa partitura per fiati, poi la terza parte, "The Battle Of Glass Tears", con Haskell che riappare in una gelida e aliena cantilena, quindi, bordate di mellotron a decomprimere un parte rabbiosamente "free-form", a chiudere i tre minuti futuristi di "Big Top", una nota di basso incombente con accordi spettrali e sospesi di Fripp.
Lizard è un disco unico, complesso, raffinatissimo, di grandissimo spessore compositivo ed emozionale, un disco che si esprime nei particolari, ascolto dopo ascolto, e per questo a suo modo fragile e in qualche modo alieno anche allo stesso mainstream del progressive.

Dopo Lizard, un'opera che potrebbe irradiare un' intera carriera, i King Crimson, sempre più instabili e precari, compiono un'impresa incredibile: fanno un disco ancora più bello. Si chiama Islands ed esce nel 1971. Boz sostituisce Haskell alla voce, il line up di ospiti jazzisti rimane immutato.
Islands condivide la raffinatezza e la ricercatezza del predecessore, ma è al contempo meno algido e lezioso, con momenti di grandissimo pathos musicale difficilmente eguagliabile e che i King Crimson (e Fripp) non raggiungeranno mai più. "Formentera Lady" inizia come una malinconica e oscura ballata con Keith Tippet al piano e Mel Collins al flauto che si inseguono meditabondi, poi una lunga chiusa di incredibile suggestione con un giro di basso che àncora al suolo un coacervo di voci spettrali (è presente anche una soprano), con un sax triste e nervoso che vaga inquieto. Un brano in qualche modo spaziale, pur essendo completamente acustico, dal clima irreale, vicino in qualche modo a forme di musica contemporanea. Poi un lungo e vibrante assolo in progressione di Fripp ("The Sailor Tale") e "The Letter's", tristissima e straniante. La seconda parte inizia con " Ladies Of The Road", una personalissima interpretazione di Fripp di un come fare un pezzo "alla Beatles" eppure renderlo inconfondibilmente dei King Crimson; chiudono, con un brusco cambio di clima, "Song Of The Gulls", un bellissimo pezzo classico per archi e oboe, e la lunga "Island", a mio parere il brano più bello mai composto da Fripp, peraltro su un bellissimo testo di Sinfield, un brano malinconico lirico e toccante con degli inserti pianistici raffinatissimi e indimenticabili di Tippett e con un finale liberatorio, con il mellotron che accompagna un solo al sax da brivido.
Nel complesso Lizard e Islands sono opere uniche e ineguagliate nella storia del rock. Opinione personalissima, s'intende. Si, perché di questo ancora si tratta, in fondo, perché nella loro vertigine e nella loro alterità formale, rimangono sullo sfondo le vestigia del rock, spolpate, disincarnate, sublimate, ma presenti.
Dopo Island, si chiude la prima fase dei King Crimson, con la coda del live Earthbound, trascurabile, quasi volutamente mal prodotto e registrato malissimo.
Il gruppo si scioglie e per un po' i King Crimson sembrano un gruppo sepolto.

ATTO SECONDO
Nel 1973 esce Lark's Tongue In Aspic. Fripp ha praticamente formato un altro gruppo, con altri musicisti, con un'altra filosofia e con un approccio distantissimo dagli esordi. Solo la sua presenza giustifica la sopravvivenza del nome. Il Re ha chiamato a sé Bill Bruford alla batteria, transfuga dagli Yes, John Wetton al basso, ex Family, il violinista David Cross, che sostituisce il sax alla seconda voce solista, e Jaime Muir, che se andrà dopo poco, alle percussioni. Questo line up caratterizzerà tutta la seconda fase del gruppo fino al 1975. Bruford e Wetton, che funge anche da vocalist, costituiscono una sezione ritmica potente, granitica e irrequieta, di grande impatto sonoro, ma al contempo creativa e moderna, che ben si compenetra con il nervoso ed elegiaco violino di Cross e con la chitarra di Fripp, che assume un approccio diverso allo strumento, dimenticando quasi del tutto toni acustici e votandosi a suoni aspri, taglienti, secchi, geometrici, a scale vorticose. Rimane Muir, usato come elemento terroristico di disordine percussivo, che se ne andrà dopo Lark's Tongue In Aspic e di cui non esistono, almeno a mia conoscenza, testimonianze live.
Se avevamo lasciato i King Crimson come gruppo di surreale antitesi del rock, il gruppo che reincontriamo in Lark's Tongue In Aspic del rock riacquista il linguaggio e la spazialità, interpretandolo però in maniera libera e originale, in un appassionante dialogo tra disordine e schema, tra caos free-form e libertà jazz rock da una parte e riff squadrati dall'altra.
Questa dicotomia è, in realtà, un' analisi soprattutto postuma. Mi spiego meglio: i King Crimson della seconda fase sono essenzialmente un formazione live e che in tale dimensione trova pieno compimento nell'incontro-scontro tra un'anima improvvisativa e un'anima di forte rigidità formale, tra astrazione e durezza, tra impatto e lirismo. Il primo disco di tale formazione, Lark's Tongue In Aspic, appunto, è considerato a torto un gran disco, ma in tutti i casi può essere considerato tale solo nell'ottica della non conoscenza delle testimonianze, quasi tutte postume, dell'impatto live del gruppo, al confronto del quale la prova in studio è una pallida copia senza forza. L'impatto di Lark's Tongue In Aspic è comunque dirompente. Il disco comprende tre strumentali ("Lark's Tongue In Aspic" pt 1 e 2, posti all'inizio e alla fine, e "The Talking Drum") e tre brani cantati ("Book Of Saturday","Exiles" ed "Easy Money").
L'incipit con la prima parte della title track è già programmatico dello stile del gruppo, con un inizio di delicato rumorismo opera di Muir che si risolve in un cupo e sospeso accordo di violino, che prelude all'entrata di Fripp il quale infila una serie di passaggi chitarristici ora frenetici ora quasi hard con la sezione ritmica in piena epilessia che divaga su territori jazzati; il violino di Cross chiude poi il brano in toni più lirici, sebbene sempre oscuri. Già dal primo brano appare abissale il distacco dal gruppo di Islands: innanzi tutto i King Crimson sono in parte diventati una guitar-oriented band, poi il sound complessivo è condizionato dalle notevoli capacità tecniche dei musicisti, molto superiori alle precedenti formazioni. Prevalgono poi toni minacciosi, oscuri, con derive quasi hard che si sfrangiano in un eclettismo strumentale, vero elemento centrale e "progressivo", con continue e inaspettate variazione ritmiche e melodiche, con la sezione ritmica che assurge a ruolo creativo con forti richiami, almeno come impostazione di fondo, al jazz-rock.
Ancora più lampante in tal senso la seconda parte della title track, con Fripp che costruisce tutto il brano su semplici riff chitarristici lanciati in progressione ed espansi via via da innumerevoli inserti strumentali fino all'esplosione finale. In "Talking Drum" una ipnotica base ritmica in crescendo fa da sfondo a una linea melodica vagamente orientaleggiante tenuta da Cross e doppiata dalla chitarra lancinante di Fripp. Più deludenti i brani cantati, con la breve "Book Of Saturday", che prova senza successo lirismi in prove precedenti più centrati, "Easy Money" stupisce per la banalità della melodia salvata solo dagli equilibrismi frippiani (molto più coinvolgenti nella dimensione live, comunque), più riuscita la malinconica "Exiles", con bellissimi stacchi di Cross al violino.
Opera a mio parere un po' sopravvalutata, Lark's Tongue In Aspic risulta comunque essere un passaggio importante perché stampo di un nuovo sound foriero di ulteriori sviluppi e soprattutto tuttora moderno. Se infatti i brani della prima fase del gruppo ascoltati oggi, al di là dei giudizi, appaiono senz'altro, anche a un ascoltatore distratto, appartenenti a stagione passate, non così i brani di Lark's Tongue In Aspic, in particolare gli strumentali, posti come sono tra la tesi di un rock aspro e diretto e l'antitesi della sua negazione in un intellettualismo, tipico dei Crimson in tutte le varie incarnazioni passate e future, che ne rompe non solo gli schemi ma anche il mood e il pubblico di riferimento. La musica del gruppo, in questa fase, parte sicuramente dal recupero di una visceralità rock, che però viene sottoposta a una decomposizione e a una consapevole e programmatica ristrutturazione su basi puramente razionali.

L'anno successivo esce Starless And The Bible Black, senza Muir. Un disco che ricalca le orme del precedente, ma con più lucidità. La prima facciata comprende ben sei brani con due assoluti gioielli strumentali, "We'll Let You Know", grande finta-improvvisazione con basso rombante di Wetton, e la straordinaria "Trio", 5 minuti toccanti di delicati aforismi sonori. Poi "The Mincer", con Fripp che delizia con i suoi tipici stacchi alienati supportati dal mellotron; quindi la splendida "The Night Watch", con un assolo di Fripp che farà scuola, l'iniziale "The Great Deceiver", con Fripp che fa le prove generali per scale frenetiche che sfrutterà fin troppo nel futuro, e il solito tentativo di canzone melodica con "Lament". Nel complesso, il gruppo sembra toccare con più consapevolezza e raffinatezza una dimensione astratta e indeterminata, appena accennata nel disco precedente. A testimonianza di ciò i 9 minuti della title track che apre la seconda facciata: una lunga e delirante jam esistenziale, iperdescrittiva, inquietante, che fa da preludio agli 11 minuti finali di "Fracture", che riprendono in pieno il filo di "Lark's Tongue In Aspic Part 1".

Il disco successivo, Red, esce nello stesso 1974 a gruppo sostanzialmente già sciolto. Come caratteristica della band, l'instabilità è direttamente proporzionale alla creatività e "Red" non fa eccezione, essendo, a mio parere, il vero capolavoro della seconda fase dei King Crimson. Il disco è attribuito a una formazione a tre (Fripp, Wetton, Bruford), con Cross che appare come ospite assieme ai redivivi Mc Donald, Collins, Miller e Charig. L'iniziale title track diverrà un classico sia perché tutt'ora highlight da concerto sia, e soprattutto, perché lo squadrato barrage chitarristico su cui è costruita farà da modello per tante prove successive in anni anche molto più recenti. Le successive "Fallen Angel", con alcuni richiami alle passate stagioni di "In The Wake Of Poseidon" e "One More Red Nightmare" sono di gran lunga le canzoni migliori composte da questa formazione, melodica ed epica la prima, più nevrotica la seconda, che sembra costruita strumentalmente per fare emergere la grande bravura e sensibilità di Bruford. Poi, otto minuti di improvvisazione senza centro, patrimonio dei concerti ("Providence"), infine l'apoteosi di "Starless": una linea melodica indimenticabile di Fripp su fondo di mellotron si alterna alla voce volumetrica e malinconica di Wetton su intercalari di sax; poi un ostinato accordo minimale alla chitarra che sale all'infinito fino a una furibonda jam che, all'apice della tensione, si libera nella ripresa della primitiva linea melodica con il basso tuonante di Wetton che entra nello stomaco. Dodici minuti mirabili, sicuramente tra le massime espressioni dei King Crimson.
In generale, Red è disco relativamente più diretto e meno eclettico e tortuoso dei precedenti, ma quello che viene perso in complessità viene ampiamente riguadagnato da una scrittura felicissima dei brani, con punte di entusiasmate potenza e lirismo.
Nel 1975 esce il live USA, e per qualche anno non si sentirà più parlare dei King Crimson. Non così di Fripp, che si era già cimentato nell'elettronica con Brian Eno ("No Pussyfooting") e che ne farà tesoro per esperimenti chitarristici di elaborazione in loop (le famose frippertronics, che faranno scuola, di "Let The Power Fall"), le collaborazioni con Peter Gabriel, David Bowie, Brian Eno, Daryl Hall ("Sacred Songs"), uno splendido disco solista nel 1979 ("Exposure"). Fripp come ricercato chitarrista e produttore nonché come "testa pensante" del rock, perfettamente a suo agio nella incombente new wave e nelle "strategie oblique" teorizzate da Eno, Fripp "nel mercato senza essere sottoposto alle sue regole", Fripp due occhi nel futuro e un grande passato mai rinnegato né tradito.

ATTO TERZO
Tutto ciò esula comunque da questa piccola trattazione, e per quanto ci riguarda troveremo i King Crimson, a sorpresa, sette anni dopo Red, nel 1981, con Discipline. Molte cose sono cambiate. Della vecchia line-up è sopravvissuto solo Bruford, batterista degli anni 60 così come del 2000, a cui si affiancano, oltre a Fripp, Tony Levin al basso e Stick, ancora lontano da essere il ricercatissimo session-man dei giorni nostri, nonché Adrian Belew alla seconda chitarra. Perché una cosa salta subito agli occhi e alle orecchie, dopo i fiati e il violino, Fripp ha deciso di utilizzare una seconda chitarra come seconda voce armonica.
Il focus di Discipline è tutto in questa primitiva scelta. Il disco, infatti, è tutto costruito sull'interazione tra Fripp e Belew, a volte all'unisono, a volte in dialogo, a volte in concordanza di fase, a volte sfasato, creando una specie di ipnotico minimalismo chitarristico. Il disco del ritorno è comunque degno del nome del gruppo, con uno splendido lento sentimentale come "Matte Kudasai", grandi esercizi di stile chitarristico ("Elephant Talk", "Frame By Frame"), furenti digressioni ("Indiscipline"), costruzioni ingegnose su ritmi tribali ("Thela Hun Ginjeet"), spazi spettrali ("The Sheltering Sky"). Mancano quasi del tutto il pathos e l'epica strumentale ed emotiva dei King Crimson precedenti, rimane una grande ricercatezza sonora, accompagnata da un'algida disciplina costitutiva. Discipline ci consegna un gruppo nuovo, moderno, tutt'altro che residuale ma anzi ben spendibile in nicchie di mercato intelligente, un gruppo che ha lasciato alle spalle gli anni 70, perfettamente a suo agio nella disillusione e nella sintesi della parte intelligente degli anni 80, perfettamente consono al superamento dell' epica ed estetica rock del decennio precedente, senza per questo rinunciare alle proprie prerogative artistiche. Il bagaglio tecnico dei musicisti è, se possibile, ancora più alto, e ciò permette una espressività che è si diretta e intelleggibile, ma anche molto ricercata sia nella ritmica, mai così centrale nell'economia del gruppo, ondeggiante tra jazz-rock e falso tribalismo, sia nell'inedito lavorio chitarristico tra minimalismo portante, su cui si inseriscono il rumorismo onomatopeico di Belew (in "Elephant Talk") e le digressioni tese e vibranti di Fripp ("The Sheltering Sky").

Ancora meglio farà il secondo disco di tale formazione, Beat, con due strumentali lancinanti ("Sartori In Tangier" e soprattutto la lunare "Requiem", una specie di delirio in chiave jazz) che valgono da soli il disco, un tentativo, riuscito, di singolo con tanto di video-clip ("Heartbeat"), e la follia urbana di "Neurotica", degna colonna sonora di un racconto di Easton-Elliss.

Quando nel 1984 esce il terzo capitolo, Three Of A Perfect Pair, molti gridano allo scandalo per i ritmi pop-dance di alcuni pezzi come la title track e "Sleepless". Le critiche appaiono, tanto più retrospettivamente, ingenerose. Three Of A Perfect Pair è un ottimo disco, e se di pop si tratta è pop stralunato, intelligente, metabolizzato e filtrato da una prospettiva di disimpegno straniante. Poi, forse, nel criticare il disco ci si dimentica che oltre ai brani leggeri troviamo in esso l'esercizio ambientale per bassi filtrati e chitarra esistenziale di "Nuages", nonché le inquietanti improvvisazioni di "No Warnings" e "Industry", e in fondo "Lark's Tongue In Aspic Part 3", in cui il titolo dice già tutto.
Three Of A Perfect Pair è disco che marca una discontinuità rispetto ai due precedenti, lavori molto omogenei, sia per la ricerca di melodie accattivanti sia per il recupero di un astrattismo improvvisativo che riporta il gruppo a Starless And The Bible Black, ponendosi al contempo come il più orecchiabile e il più introverso e difficile lavoro di questa incarnazione del gruppo.
Ma una domanda aleggia sottotraccia: si tratta di progressive? "Non lo so e non mi interessa" potrebbe essere la risposta di molti, Fripp compreso, probabilmente. Ma noi siamo legati a certi artifici se non altro linguistici, e riteniamo che una risposta possa e debba essere data: Sì, indubitabilmente le ambizioni e la struttura dei dischi di questa fase e delle successive sono inerenti al progressive.
A Three Of A Perfect Pair segue un lungo silenzio, rotto musicalmente dalla collaborazione di Fripp con David Sylvian ("The First Day" e il successivo live "Damage") e dai dischi prodotti dalla scuola di chitarra dello stesso Fripp ("The League Of Crafty Guitarist").

ATTO QUARTO
Nel 1995 esce, a sorpresa e preceduto dall'Ep Vroom, un nuovo album: Thrak. Il line-up del gruppo questa volta non ha subito rivoluzioni, al quartetto Fripp-Belew-Levin-Bruford si è aggiunto Trey Gunn allo stick e Pat Mastellotto alla batteria. Fripp denota questo line-up come "double trio". Il gruppo si ripresenta dopo 11 anni e Thrak riceve critiche positive. Tali critiche sono positive forse anche in parte per distorsione data dalla lunga attesa. La continuità rispetto al gruppo di Discipline è evidente, con però alcune palesi differenze. Innanzi tutto sono nettamente ridotti i dialoghi e la rete chitarristica di Fripp e Belew, preferendosi un approccio più diretto, meno eclettico, a tratti più duro. Poi, comincia ad apparire un uso misurato dell'elettronica, mentre è evidente un arretramento della sezione ritmica, che ora suona molto più " normalizzata" e meno creativa. Spesso, poi, si indulge in riff e digressioni aspre e schematiche, tangenti un approccio hard-rock, quasi a recuperare una visceralità e la ricerca di un impatto appartenente più al gruppo del biennio 73-75 che al periodo successivo, pur evitando accuratamente un approccio stilistico ridondante e sovraccarico di chiaroscuri, tipico del periodo. Però, al di là di queste considerazioni, quello che non funziona sono proprio i pezzi, con stanche riprese di Red ("Vroom", "Vroom Vrooom"), aggressività mascheranti pezzi certo non irresistibili ("Sex Sleep Eat Dream", " Dinosaur"), inutili accenni sperimentali, ombre del tempo che fu ("B-Boom", "Thrak"), improbabili disco-funk ("People"), superflui camei elettronici ("Radio" 1 e 2). Rimangono due pezzi lenti, entrambi riusciti, "Walking On Air", in cui Belew ripesca certe atmosfere anni 50, e la più inquetante "One Time", nonché le due brevi "Inner Garden" 1 e 2, di gran lunga le cose più riuscite del disco. Complessivamente Thrak è l'album meno riuscito del King Crimson, non perché manchino spunti anche belli e interessanti, ma perché fanno capolino due categorie fino ad allora inapplicabili al gruppo: la mediocrità e la prevedibilità. Infatti la mediocrità di alcuni brani non può essere mistificata dalla fascinazione del nome del gruppo, e, per la prima volta, il sound suona prevedibile per quanto al contempo moderno.

Dopo Thrak, Fripp, che ha fondato una sua casa discografica, la Discipline Global Mobile (DGM), in accordo con il suo sano realismo demitizzante per il quale se esiste arte al di fuori delle regole del mercato, certamente non esiste al di fuori del mercato tout-court, inizia a fare uscire una grande quantità di materiale, tra live postumi (da segnalare il cofanetto Epitaph con materiale del 1969), live del tour di Thrak (B- Boom), dischi di improvvisazioni live (Thrakattack), tendenza che prosegue a tutt'oggi in una logica che risponde a ovvie esigenze di mercato, sia di tipo economico (il denaro per Fripp evidentemente non è lo sterco del demonio) che strategico (tenere vivo il nome del gruppo).

In questo contesto, nel 2000 riappaiono i King Crimson con un nuovo disco, The Construction Of Light. I Crimson ritornano un quartetto con i soliti Fripp e Belew accompagnati da Mastellotto e Gunn. L'album è sicuramente migliore del precedente: si recupera nettamente il fitto e minimale dialogare chitarristico (in tal senso, è più vicino a Discipline e a Beat del precedente), appaiono canzoni interessanti (l'ironico cyber-blues di "Prozak Blues", la title track), con palesi riprese di temi passati ("Lark's Tongue In Aspic Part 4", " Fractured"). Però permangono delle perplessità. Innanzi tutto, si rimpiange Levin e soprattutto Bruford, Mastellotto non ne ha il carisma e c'è un fastidioso sovrautilizzo della batteria elettronica. Poi, il disco è molto costruito, lambiccato, tesissimo, ma a tratti troppo convulso e narcisista, con poco e nulla del feeeling che residuava anche in Thrak, come schiacciato nel vorticoso rotear di chitarre. Poi, è certamente meno prevedibile e mediocre del precedente, ma appare una categoria anch'essa inedita per il gruppo: la noia. The Construction Of Light è un disco spesso noioso: a suo modo possente, deflagrante, interessante, modernissimo, ma anche noioso.
La critica in questa fase guarda il gruppo con una certa sufficienza: considerati a torto troppo vecchi per la stampa generalista, i King Crimson risultano troppo fuori schema per il sottobosco progressive tradizionale. La realtà è che i King Crimson sono in questa fase, discussa e discutibile, inerenti al progressive come non mai, ma al contempo ne danno una direttrice personale, basata su una rigida disciplina strutturale, e a suo modo anche influente, basti pensare a gruppi di tutt'altra origine e di varia ispirazione come i Tool, i Don Caballero e i Muse.

Nel 2003, dopo un'attesa di "soli" tre anni, esce The Power To Believe. C'è una discreta attesa attorno al disco, alcuni che lo ascoltano in anteprima parlano esplicitamente di capolavoro menzionando una deriva metal. The Power To Believe non è un capolavoro e non è nemmeno un disco metal, ciononostante è di gran lunga il disco migliore della quarta fase del gruppo. Il line up è immutato rispetto a Construction Of Light, ma il suono appare molto più lucido e articolato, riprendendo in parte il furibondo minimalismo di quel disco (ma senza elevarlo più a rigida metodologia), e in parte il tentativo di rock alienato e difforme di Thrak, ma stavolta supportato da vera inquietudine e vera ispirazione. Il disco si pone in un'ipotetica terza via rispetto alle tendenze del recente passato, teso tra convincenti spirali chitarristiche ora dure ("Level Five"), ora minimali ("Elektrik"), tra deliri suburbani ("Facts Of Life"), strane cantabilità ("Eyes Wide Open"), progressioni possenti ("Dangerous Curves"), astrazioni elegiache ("The Power To Believe 2 & 3"). The Power To Believe è disco sovraccarico di lancinanti toni cupi e tecnologici e sembra chiudere il filo rosso che ha unito i King Crimson da Discipline in poi, ponendosi come opera di sintesi tra le ricercatezze iperstrutturali degli anni 80, le frippertronics e l'approccio rigido e aggressivo della nuova formazione. Opera di sintesi e come tale, crediamo e speriamo, opera in un certo senso conclusiva di un periodo. E dopo? Sarà rispettata la "regola dei tre dischi" e dopo la quarta fase se ne aprirà una quinta del tutto nuova? E con quali musicisti? Oppure Fripp deciderà di insistere su questo gruppo e, se sì, con quali artifici ripresenterà i King Crimson? E sapranno raccontare ancora il futuro, se non altro il "loro" futuro? In tutti i casi, saremo sulla riva del fiume ad aspettare un miracolo o magari solo un buon disco.
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di Michele Chiusi ( www.ondarock.it) - alcune citazioni di frasi di Fripp sono tratte dal libro "King Crimson/Robert Fripp", a cura di Paolo Bertrando, Arcana Editrice