La lunga saga del "Re Cremisi" è il frutto del genio cervellotico di Robert Fripp, chitarrista geometrico e "dittatore illuminato" della band britannica che ha fatto la storia del progressive e del rock.
PROLOGO
"Ho cominciato a suonare la chitarra a undici anni, nel 1957, pochi giorni prima di Natale. Non avevo per niente orecchio musicale, non avevo neanche il minimo senso del ritmo. Non sarebbe stato possibile immaginare qualcuno musicalmente meno dotato di me. Quando sei così a secco di doti musicali, devi per forza cominciare a riflettere e a farti domande sulla natura del suono. Che cos'è che non ti permette di avvertire la differenza tra una nota e l'altra? Quali sono le parti dell'organismo che reagiscono alle diverse componenti della musica? Dove sono le barriere e i blocchi? Cosa puoi fare per eliminarli?".
Strano personaggio Robert Fripp. Strano e unico personaggio in un mondo del rock che, almeno all'epoca della sua formazione musicale, derivava da un humus culturale e di costume legato indissolubilmente a un certo ribellismo da teddy boys, poi sesso e groupies, droga a volontà, macchine veloci, Harley Davidson e viaggi infernali, Jack Kerouac e le porte della percezione, trasgressione e omologazione. La nascita della gioventù come entità autonoma nel pensiero, nel costume, nel vestire, nei rituali, nelle (ir-)responsabilità ha avuto una colonna sonora bellissima, travolgente e commovente. Ma le colonne sonore, si sa, a volte slegate dalle immagini perdono forza e vigore, le decontestualizzi e ti ritrovi con un pugno di mosche in mano. E poi tutti invecchiano e dopo un po' l'entusiasmo non basta più. Robert Fripp è uno di quei personaggi che hanno salvato il rock da sé stesso, ma per farlo hanno dovuto accompagnarlo verso la senescenza e, lentamente, impercettibilmente, ucciderlo. Perché Robert Fripp, sia ben chiaro, è pienamente un musicista rock, ne possiede l'approccio, la ritmica, l'impatto, la commercialità. Ma ne rifiuta la prospettiva. "La deliberata dichiarazione da parte mia, nel 1969, che era possibile al rock di richiamarsi alla testa oltre che ai piedi causò una sorta d'esplosione passionale e fu considerata eretica". Ma cosa vuole questo borioso provinciale borghese? Perché complicare una cosa in fondo così semplice come il rock? La risposta è forse lapalissiana: perché Fripp (ma, intendiamoci, non è certo l'unico) è un musicista che usa le forme del rock come linguaggio, come tramite, non un ragazzo che fa il musicista per esprimersi nel linguaggio della propria tribù generazionale, culturale ed emotiva e che quindi diventa musicista rock.
Il cambio di prospettiva è copernicano, è il cambio di prospettiva del rock da espressione ad arte, che in quanto tale parla ai posteri come ai contemporanei e necessita di disciplina (parola chiave per la musica di Fripp) e struttura.
ATTO PRIMO
Dopo esperienze musicali trascurabili, un trasferimento a Londra nel 1967 e un disco altrettanto trascurabile con i fratelli Giles ("Giles, Giles and Fripp, The cheerful insanity of..".), nel 1969 forma i King Crimson con appunto i fratelli Michael e Peter Giles e il fiatista Ian Mc Donald. Con la sostituzione successiva di Peter Giles con Greg Lake, poi negli Emerson Lake and Palmer, il line up per il disco di esordio è completo.
Il gruppo ha una frenetica attività live con materiale originale che confluirà nell'esordio e in parte nel successivo e il 10 ottobre del 1969 esce In The Court Of The Crimson King, in un certo senso atto costitutivo del genere che successivamente sarà noto come progressive. Come ben testimonierà successivamente il cofanetto postumo Epitaph, il disco rispetto alla attività live è più ordinato e razionale, meno dirompente.
In The Court Of The Crimson King è disco bello ed epocale. Forse più epocale che bello. Cinque brani famosissimi tra gli appassionati del genere e anche oltre. Una partenza fulminante con il delirio di "21st Century Schizoid Man", con la voce filtrata di Lake che declama l'apocalittico testo di Sinfield su un riff chitarristico, poi un lungo break strumentale con la fuga in progressione di chitarra e sax e ripresa successiva del tema portante. Brano aspro e frenetico, costeggiante l'improvvisazione senza mai toccarla. Poi, un clamoroso cambio di atmosfera con "I Talk To The Wind", di Ian McDonald, melodia dolcissima, di sapore antico, rinascimentale, impreziosita da due bellissimi stacchi in cui il flauto svolge un toccante tema melodico. Poi l'inquietante epica di "Epitaph" e della title track, con il mellotron che stacca in continuazione disancorando i brani dalla loro fisicità, e in mezzo "Moonchild", brano tutto giocato su un tenue minimalismo strumentale, con un'iniziale delicata melodia che si sgretola presto in una lunga improvvisazione tangente al silenzio. Tutti i brani nascono da idee iniziali brillantissime che sono enormemente sovraccaricate di impatto strumentale come di tensione drammatica. Già i Moody Blues usavano il mellotron, già i Nice giocavano con ambizioni classiche, già i Procul Harum, tra gli altri, dilatavano i brani; Ma di fronte a In The Court Of The Crimson King tutto ciò sbiadisce come timido prologo, è il passaggio, preparato, studiato e consapevole del Rubicone verso un nuovo genere, e lo è non tanto e non solo per quello che vi è suonato o per come è stato suonato, ma anche per quello che codifica, per il pensiero estetico, culturale e per le ambizioni che manifesta.
Ambizioni che non sono, a mio parere, risolvibili nella commistione del rock con la musica classica, come certa critica di grana grossa ha affermato per decenni, ma nel creare un approccio che è mentale e ideale prima che compositivo che esca da vecchie traiettorie del rock come forma musicale viscerale, emotiva, generazionale, politica, funzionale allo svolgersi di stanchi rituali di stupefacente conformismo artistico; traiettorie del rock come musica di ghettizzazione artistica, urlata ma in realtà trascurabile e ininfluente.
In The Court Of The Crimson King è l'inizio del tentativo rivoluzionario di fare del rock una forma d'arte, in cui il messaggio fosse insito nella ricerca estetica, in cui non esistesse un contesto o uno sfondo ma solo pura forma, disciplina e cristallizzazione della bellezza come categoria primigenia. In tal senso, o per lo meno anche in tal senso, va ricercato il rifrangersi del progressive nella musica classica. L'esordio dei King Crimson fu l'esordio di un fallimento di successo, perché retrospettivamente possiamo forse dire che il tentativo alla lunga fallì per mancanza generale di coraggio e di visione, ma ciò che nascerà dalle macerie fumanti non sarà più rock ma o la sua caricatura o la sua immagine spettrale.
Disco epocale, tra grandeur, enfasi e l'inquietudine del profondo, disco di saldissima struttura melodica, potente, delicato, iper-razionale ma anche di impeto e tempesta, In The Court Of The Crimson King assume pienamente l'impatto e la ciclicità spaziale del rock, e qui sta il suo limite più evidente, rifiutandone i perimetri dello spettro espressivo.
"Ho cominciato a suonare la chitarra a undici anni, nel 1957, pochi giorni prima di Natale. Non avevo per niente orecchio musicale, non avevo neanche il minimo senso del ritmo. Non sarebbe stato possibile immaginare qualcuno musicalmente meno dotato di me. Quando sei così a secco di doti musicali, devi per forza cominciare a riflettere e a farti domande sulla natura del suono. Che cos'è che non ti permette di avvertire la differenza tra una nota e l'altra? Quali sono le parti dell'organismo che reagiscono alle diverse componenti della musica? Dove sono le barriere e i blocchi? Cosa puoi fare per eliminarli?".
Strano personaggio Robert Fripp. Strano e unico personaggio in un mondo del rock che, almeno all'epoca della sua formazione musicale, derivava da un humus culturale e di costume legato indissolubilmente a un certo ribellismo da teddy boys, poi sesso e groupies, droga a volontà, macchine veloci, Harley Davidson e viaggi infernali, Jack Kerouac e le porte della percezione, trasgressione e omologazione. La nascita della gioventù come entità autonoma nel pensiero, nel costume, nel vestire, nei rituali, nelle (ir-)responsabilità ha avuto una colonna sonora bellissima, travolgente e commovente. Ma le colonne sonore, si sa, a volte slegate dalle immagini perdono forza e vigore, le decontestualizzi e ti ritrovi con un pugno di mosche in mano. E poi tutti invecchiano e dopo un po' l'entusiasmo non basta più. Robert Fripp è uno di quei personaggi che hanno salvato il rock da sé stesso, ma per farlo hanno dovuto accompagnarlo verso la senescenza e, lentamente, impercettibilmente, ucciderlo. Perché Robert Fripp, sia ben chiaro, è pienamente un musicista rock, ne possiede l'approccio, la ritmica, l'impatto, la commercialità. Ma ne rifiuta la prospettiva. "La deliberata dichiarazione da parte mia, nel 1969, che era possibile al rock di richiamarsi alla testa oltre che ai piedi causò una sorta d'esplosione passionale e fu considerata eretica". Ma cosa vuole questo borioso provinciale borghese? Perché complicare una cosa in fondo così semplice come il rock? La risposta è forse lapalissiana: perché Fripp (ma, intendiamoci, non è certo l'unico) è un musicista che usa le forme del rock come linguaggio, come tramite, non un ragazzo che fa il musicista per esprimersi nel linguaggio della propria tribù generazionale, culturale ed emotiva e che quindi diventa musicista rock.
Il cambio di prospettiva è copernicano, è il cambio di prospettiva del rock da espressione ad arte, che in quanto tale parla ai posteri come ai contemporanei e necessita di disciplina (parola chiave per la musica di Fripp) e struttura.
ATTO PRIMO
Dopo esperienze musicali trascurabili, un trasferimento a Londra nel 1967 e un disco altrettanto trascurabile con i fratelli Giles ("Giles, Giles and Fripp, The cheerful insanity of..".), nel 1969 forma i King Crimson con appunto i fratelli Michael e Peter Giles e il fiatista Ian Mc Donald. Con la sostituzione successiva di Peter Giles con Greg Lake, poi negli Emerson Lake and Palmer, il line up per il disco di esordio è completo.
Il gruppo ha una frenetica attività live con materiale originale che confluirà nell'esordio e in parte nel successivo e il 10 ottobre del 1969 esce In The Court Of The Crimson King, in un certo senso atto costitutivo del genere che successivamente sarà noto come progressive. Come ben testimonierà successivamente il cofanetto postumo Epitaph, il disco rispetto alla attività live è più ordinato e razionale, meno dirompente.
In The Court Of The Crimson King è disco bello ed epocale. Forse più epocale che bello. Cinque brani famosissimi tra gli appassionati del genere e anche oltre. Una partenza fulminante con il delirio di "21st Century Schizoid Man", con la voce filtrata di Lake che declama l'apocalittico testo di Sinfield su un riff chitarristico, poi un lungo break strumentale con la fuga in progressione di chitarra e sax e ripresa successiva del tema portante. Brano aspro e frenetico, costeggiante l'improvvisazione senza mai toccarla. Poi, un clamoroso cambio di atmosfera con "I Talk To The Wind", di Ian McDonald, melodia dolcissima, di sapore antico, rinascimentale, impreziosita da due bellissimi stacchi in cui il flauto svolge un toccante tema melodico. Poi l'inquietante epica di "Epitaph" e della title track, con il mellotron che stacca in continuazione disancorando i brani dalla loro fisicità, e in mezzo "Moonchild", brano tutto giocato su un tenue minimalismo strumentale, con un'iniziale delicata melodia che si sgretola presto in una lunga improvvisazione tangente al silenzio. Tutti i brani nascono da idee iniziali brillantissime che sono enormemente sovraccaricate di impatto strumentale come di tensione drammatica. Già i Moody Blues usavano il mellotron, già i Nice giocavano con ambizioni classiche, già i Procul Harum, tra gli altri, dilatavano i brani; Ma di fronte a In The Court Of The Crimson King tutto ciò sbiadisce come timido prologo, è il passaggio, preparato, studiato e consapevole del Rubicone verso un nuovo genere, e lo è non tanto e non solo per quello che vi è suonato o per come è stato suonato, ma anche per quello che codifica, per il pensiero estetico, culturale e per le ambizioni che manifesta.
Ambizioni che non sono, a mio parere, risolvibili nella commistione del rock con la musica classica, come certa critica di grana grossa ha affermato per decenni, ma nel creare un approccio che è mentale e ideale prima che compositivo che esca da vecchie traiettorie del rock come forma musicale viscerale, emotiva, generazionale, politica, funzionale allo svolgersi di stanchi rituali di stupefacente conformismo artistico; traiettorie del rock come musica di ghettizzazione artistica, urlata ma in realtà trascurabile e ininfluente.
In The Court Of The Crimson King è l'inizio del tentativo rivoluzionario di fare del rock una forma d'arte, in cui il messaggio fosse insito nella ricerca estetica, in cui non esistesse un contesto o uno sfondo ma solo pura forma, disciplina e cristallizzazione della bellezza come categoria primigenia. In tal senso, o per lo meno anche in tal senso, va ricercato il rifrangersi del progressive nella musica classica. L'esordio dei King Crimson fu l'esordio di un fallimento di successo, perché retrospettivamente possiamo forse dire che il tentativo alla lunga fallì per mancanza generale di coraggio e di visione, ma ciò che nascerà dalle macerie fumanti non sarà più rock ma o la sua caricatura o la sua immagine spettrale.
Disco epocale, tra grandeur, enfasi e l'inquietudine del profondo, disco di saldissima struttura melodica, potente, delicato, iper-razionale ma anche di impeto e tempesta, In The Court Of The Crimson King assume pienamente l'impatto e la ciclicità spaziale del rock, e qui sta il suo limite più evidente, rifiutandone i perimetri dello spettro espressivo.
L'anno successivo esce In The Wake Of Poseidon, se ne va Mc Donald (un talento,una meteora e un mistero del progressive), entrano il cantante Gordon Haskell, il fiatista Mel Collins e il grande pianista jazz Keith Tippett, che avrà un importante e misconosciuto ruolo nell'evoluzione successiva del gruppo. La formazione è instabile e inquieta. La prima facciata ripercorre pedissequamente la prima facciata dell'esordio, con un primo brano tirato con riff chitarristico e crescendo centrale, seguito da una ballata, anche qui splendida ("Cadence And Cascade"), e da uno psicodramma per mellotron. Le similitudini finiscono qui. La seconda facciata presenta sostanzialmente due brani, una intelligentissima finta jam jazzata sulla base di un motivetto cabarettistico ("Cat Food") e un inquietante e possente crescendo marziale, costruito attorno al nucleo di "Mars" del compositore Holst, con il mellotron che apre virtualmente all'infinito. Poi, se l'esordio era un progetto corale, il seguito è un disco dominato dalla figura di Fripp. "Un grande disco e un disco deludente", è stato detto, non senza ragione, perché se è eccellente la musica ivi contenuta, non si rilevano la stessa forza visionaria e la stessa suggestione dell'esordio.
L'instabilità del gruppo si accentua, se ne vanno i fratelli Giles e definitivamente Lake, Fripp chiama alla corte dei jazzisti della frenetica scena inglese (oltre a Tippet, Charig, Miller e Evans). Da questa precarietà nasceranno i due capolavori assoluti dei King Crimson e del progressive tutto.
Il primo si chiama Lizard ed esce sempre nel 1970. La discontinuità rispetto ai due dischi precedenti appare netta e spiazzante, l'influenza della scena art-jazz inglese appare palese nel mood dei pezzi, se non proprio nelle composizioni medesime; se negli esordi si operava sulla sovrastrutturazione di nuclei melodici primigeni adesso ci si focalizza, pur essendo Lizard disseminato di intuizione melodiche geniali, sulla cura di arrangiamenti spiazzanti, sovraccarichi di incisi, accordi, rimandi, contrappunti, con vasta aree apparentemente free-form di jazz progressivo. Se prima prevaleva l'epica e il lirismo, adesso prevalgono melodie sghembe, taglienti, ironiche, che galleggiano su una miriade di geniali intuizioni strumentali. Il tutto dona al disco qualcosa di inquietante, di estraniante, di instabile. La prima parte del disco è in tal senso paradigmatica, con Fripp all'acustica che nell'iniziale "Cirkus" divaga distaccato in controcanto alla linea vocale stralunata di Haskell, poi soli di sax e mellotron in un brano di costruzione magistrale. Poi l'indolente "Indoor Games", dalle continue punteggiature jazz, seguita dalla sarcastica " Happy Family", con voce filtrata con gli strumenti che si inseguono e si intersecano in una jam lunare. Chiude la prima facciata la dolcissima "Lady Of The Dancing Water", toccante madrigale per flauto, acustica e bel testo di Sinfield, forse il brano più sentimentale scritto da Fripp.
La seconda contiene la (falsa) suite "Lizard", con una prima parte "Prince Rupert Awake", bella e aperta melodia cantata da un ancora non celebre Jon Anderson che si sfrangia ben presto in "Bolero-Peackock's Tale", che incanta con una struggente melodia all'oboe da cui sviluppa una complessa partitura per fiati, poi la terza parte, "The Battle Of Glass Tears", con Haskell che riappare in una gelida e aliena cantilena, quindi, bordate di mellotron a decomprimere un parte rabbiosamente "free-form", a chiudere i tre minuti futuristi di "Big Top", una nota di basso incombente con accordi spettrali e sospesi di Fripp.
Lizard è un disco unico, complesso, raffinatissimo, di grandissimo spessore compositivo ed emozionale, un disco che si esprime nei particolari, ascolto dopo ascolto, e per questo a suo modo fragile e in qualche modo alieno anche allo stesso mainstream del progressive.
Dopo Lizard, un'opera che potrebbe irradiare un' intera carriera, i King Crimson, sempre più instabili e precari, compiono un'impresa incredibile: fanno un disco ancora più bello. Si chiama Islands ed esce nel 1971. Boz sostituisce Haskell alla voce, il line up di ospiti jazzisti rimane immutato.
Islands condivide la raffinatezza e la ricercatezza del predecessore, ma è al contempo meno algido e lezioso, con momenti di grandissimo pathos musicale difficilmente eguagliabile e che i King Crimson (e Fripp) non raggiungeranno mai più. "Formentera Lady" inizia come una malinconica e oscura ballata con Keith Tippet al piano e Mel Collins al flauto che si inseguono meditabondi, poi una lunga chiusa di incredibile suggestione con un giro di basso che àncora al suolo un coacervo di voci spettrali (è presente anche una soprano), con un sax triste e nervoso che vaga inquieto. Un brano in qualche modo spaziale, pur essendo completamente acustico, dal clima irreale, vicino in qualche modo a forme di musica contemporanea. Poi un lungo e vibrante assolo in progressione di Fripp ("The Sailor Tale") e "The Letter's", tristissima e straniante. La seconda parte inizia con " Ladies Of The Road", una personalissima interpretazione di Fripp di un come fare un pezzo "alla Beatles" eppure renderlo inconfondibilmente dei King Crimson; chiudono, con un brusco cambio di clima, "Song Of The Gulls", un bellissimo pezzo classico per archi e oboe, e la lunga "Island", a mio parere il brano più bello mai composto da Fripp, peraltro su un bellissimo testo di Sinfield, un brano malinconico lirico e toccante con degli inserti pianistici raffinatissimi e indimenticabili di Tippett e con un finale liberatorio, con il mellotron che accompagna un solo al sax da brivido.
Nel complesso Lizard e Islands sono opere uniche e ineguagliate nella storia del rock. Opinione personalissima, s'intende. Si, perché di questo ancora si tratta, in fondo, perché nella loro vertigine e nella loro alterità formale, rimangono sullo sfondo le vestigia del rock, spolpate, disincarnate, sublimate, ma presenti.
Dopo Island, si chiude la prima fase dei King Crimson, con la coda del live Earthbound, trascurabile, quasi volutamente mal prodotto e registrato malissimo.
Il gruppo si scioglie e per un po' i King Crimson sembrano un gruppo sepolto.
ATTO SECONDO
L'instabilità del gruppo si accentua, se ne vanno i fratelli Giles e definitivamente Lake, Fripp chiama alla corte dei jazzisti della frenetica scena inglese (oltre a Tippet, Charig, Miller e Evans). Da questa precarietà nasceranno i due capolavori assoluti dei King Crimson e del progressive tutto.
Il primo si chiama Lizard ed esce sempre nel 1970. La discontinuità rispetto ai due dischi precedenti appare netta e spiazzante, l'influenza della scena art-jazz inglese appare palese nel mood dei pezzi, se non proprio nelle composizioni medesime; se negli esordi si operava sulla sovrastrutturazione di nuclei melodici primigeni adesso ci si focalizza, pur essendo Lizard disseminato di intuizione melodiche geniali, sulla cura di arrangiamenti spiazzanti, sovraccarichi di incisi, accordi, rimandi, contrappunti, con vasta aree apparentemente free-form di jazz progressivo. Se prima prevaleva l'epica e il lirismo, adesso prevalgono melodie sghembe, taglienti, ironiche, che galleggiano su una miriade di geniali intuizioni strumentali. Il tutto dona al disco qualcosa di inquietante, di estraniante, di instabile. La prima parte del disco è in tal senso paradigmatica, con Fripp all'acustica che nell'iniziale "Cirkus" divaga distaccato in controcanto alla linea vocale stralunata di Haskell, poi soli di sax e mellotron in un brano di costruzione magistrale. Poi l'indolente "Indoor Games", dalle continue punteggiature jazz, seguita dalla sarcastica " Happy Family", con voce filtrata con gli strumenti che si inseguono e si intersecano in una jam lunare. Chiude la prima facciata la dolcissima "Lady Of The Dancing Water", toccante madrigale per flauto, acustica e bel testo di Sinfield, forse il brano più sentimentale scritto da Fripp.
La seconda contiene la (falsa) suite "Lizard", con una prima parte "Prince Rupert Awake", bella e aperta melodia cantata da un ancora non celebre Jon Anderson che si sfrangia ben presto in "Bolero-Peackock's Tale", che incanta con una struggente melodia all'oboe da cui sviluppa una complessa partitura per fiati, poi la terza parte, "The Battle Of Glass Tears", con Haskell che riappare in una gelida e aliena cantilena, quindi, bordate di mellotron a decomprimere un parte rabbiosamente "free-form", a chiudere i tre minuti futuristi di "Big Top", una nota di basso incombente con accordi spettrali e sospesi di Fripp.
Lizard è un disco unico, complesso, raffinatissimo, di grandissimo spessore compositivo ed emozionale, un disco che si esprime nei particolari, ascolto dopo ascolto, e per questo a suo modo fragile e in qualche modo alieno anche allo stesso mainstream del progressive.
Dopo Lizard, un'opera che potrebbe irradiare un' intera carriera, i King Crimson, sempre più instabili e precari, compiono un'impresa incredibile: fanno un disco ancora più bello. Si chiama Islands ed esce nel 1971. Boz sostituisce Haskell alla voce, il line up di ospiti jazzisti rimane immutato.
Islands condivide la raffinatezza e la ricercatezza del predecessore, ma è al contempo meno algido e lezioso, con momenti di grandissimo pathos musicale difficilmente eguagliabile e che i King Crimson (e Fripp) non raggiungeranno mai più. "Formentera Lady" inizia come una malinconica e oscura ballata con Keith Tippet al piano e Mel Collins al flauto che si inseguono meditabondi, poi una lunga chiusa di incredibile suggestione con un giro di basso che àncora al suolo un coacervo di voci spettrali (è presente anche una soprano), con un sax triste e nervoso che vaga inquieto. Un brano in qualche modo spaziale, pur essendo completamente acustico, dal clima irreale, vicino in qualche modo a forme di musica contemporanea. Poi un lungo e vibrante assolo in progressione di Fripp ("The Sailor Tale") e "The Letter's", tristissima e straniante. La seconda parte inizia con " Ladies Of The Road", una personalissima interpretazione di Fripp di un come fare un pezzo "alla Beatles" eppure renderlo inconfondibilmente dei King Crimson; chiudono, con un brusco cambio di clima, "Song Of The Gulls", un bellissimo pezzo classico per archi e oboe, e la lunga "Island", a mio parere il brano più bello mai composto da Fripp, peraltro su un bellissimo testo di Sinfield, un brano malinconico lirico e toccante con degli inserti pianistici raffinatissimi e indimenticabili di Tippett e con un finale liberatorio, con il mellotron che accompagna un solo al sax da brivido.
Nel complesso Lizard e Islands sono opere uniche e ineguagliate nella storia del rock. Opinione personalissima, s'intende. Si, perché di questo ancora si tratta, in fondo, perché nella loro vertigine e nella loro alterità formale, rimangono sullo sfondo le vestigia del rock, spolpate, disincarnate, sublimate, ma presenti.
Dopo Island, si chiude la prima fase dei King Crimson, con la coda del live Earthbound, trascurabile, quasi volutamente mal prodotto e registrato malissimo.
Il gruppo si scioglie e per un po' i King Crimson sembrano un gruppo sepolto.
ATTO SECONDO
Nel 1973 esce Lark's Tongue In Aspic. Fripp ha praticamente formato un altro gruppo, con altri musicisti, con un'altra filosofia e con un approccio distantissimo dagli esordi. Solo la sua presenza giustifica la sopravvivenza del nome. Il Re ha chiamato a sé Bill Bruford alla batteria, transfuga dagli Yes, John Wetton al basso, ex Family, il violinista David Cross, che sostituisce il sax alla seconda voce solista, e Jaime Muir, che se andrà dopo poco, alle percussioni. Questo line up caratterizzerà tutta la seconda fase del gruppo fino al 1975. Bruford e Wetton, che funge anche da vocalist, costituiscono una sezione ritmica potente, granitica e irrequieta, di grande impatto sonoro, ma al contempo creativa e moderna, che ben si compenetra con il nervoso ed elegiaco violino di Cross e con la chitarra di Fripp, che assume un approccio diverso allo strumento, dimenticando quasi del tutto toni acustici e votandosi a suoni aspri, taglienti, secchi, geometrici, a scale vorticose. Rimane Muir, usato come elemento terroristico di disordine percussivo, che se ne andrà dopo Lark's Tongue In Aspic e di cui non esistono, almeno a mia conoscenza, testimonianze live.
Se avevamo lasciato i King Crimson come gruppo di surreale antitesi del rock, il gruppo che reincontriamo in Lark's Tongue In Aspic del rock riacquista il linguaggio e la spazialità, interpretandolo però in maniera libera e originale, in un appassionante dialogo tra disordine e schema, tra caos free-form e libertà jazz rock da una parte e riff squadrati dall'altra.
Questa dicotomia è, in realtà, un' analisi soprattutto postuma. Mi spiego meglio: i King Crimson della seconda fase sono essenzialmente un formazione live e che in tale dimensione trova pieno compimento nell'incontro-scontro tra un'anima improvvisativa e un'anima di forte rigidità formale, tra astrazione e durezza, tra impatto e lirismo. Il primo disco di tale formazione, Lark's Tongue In Aspic, appunto, è considerato a torto un gran disco, ma in tutti i casi può essere considerato tale solo nell'ottica della non conoscenza delle testimonianze, quasi tutte postume, dell'impatto live del gruppo, al confronto del quale la prova in studio è una pallida copia senza forza. L'impatto di Lark's Tongue In Aspic è comunque dirompente. Il disco comprende tre strumentali ("Lark's Tongue In Aspic" pt 1 e 2, posti all'inizio e alla fine, e "The Talking Drum") e tre brani cantati ("Book Of Saturday","Exiles" ed "Easy Money").
L'incipit con la prima parte della title track è già programmatico dello stile del gruppo, con un inizio di delicato rumorismo opera di Muir che si risolve in un cupo e sospeso accordo di violino, che prelude all'entrata di Fripp il quale infila una serie di passaggi chitarristici ora frenetici ora quasi hard con la sezione ritmica in piena epilessia che divaga su territori jazzati; il violino di Cross chiude poi il brano in toni più lirici, sebbene sempre oscuri. Già dal primo brano appare abissale il distacco dal gruppo di Islands: innanzi tutto i King Crimson sono in parte diventati una guitar-oriented band, poi il sound complessivo è condizionato dalle notevoli capacità tecniche dei musicisti, molto superiori alle precedenti formazioni. Prevalgono poi toni minacciosi, oscuri, con derive quasi hard che si sfrangiano in un eclettismo strumentale, vero elemento centrale e "progressivo", con continue e inaspettate variazione ritmiche e melodiche, con la sezione ritmica che assurge a ruolo creativo con forti richiami, almeno come impostazione di fondo, al jazz-rock.
Ancora più lampante in tal senso la seconda parte della title track, con Fripp che costruisce tutto il brano su semplici riff chitarristici lanciati in progressione ed espansi via via da innumerevoli inserti strumentali fino all'esplosione finale. In "Talking Drum" una ipnotica base ritmica in crescendo fa da sfondo a una linea melodica vagamente orientaleggiante tenuta da Cross e doppiata dalla chitarra lancinante di Fripp. Più deludenti i brani cantati, con la breve "Book Of Saturday", che prova senza successo lirismi in prove precedenti più centrati, "Easy Money" stupisce per la banalità della melodia salvata solo dagli equilibrismi frippiani (molto più coinvolgenti nella dimensione live, comunque), più riuscita la malinconica "Exiles", con bellissimi stacchi di Cross al violino.
Opera a mio parere un po' sopravvalutata, Lark's Tongue In Aspic risulta comunque essere un passaggio importante perché stampo di un nuovo sound foriero di ulteriori sviluppi e soprattutto tuttora moderno. Se infatti i brani della prima fase del gruppo ascoltati oggi, al di là dei giudizi, appaiono senz'altro, anche a un ascoltatore distratto, appartenenti a stagione passate, non così i brani di Lark's Tongue In Aspic, in particolare gli strumentali, posti come sono tra la tesi di un rock aspro e diretto e l'antitesi della sua negazione in un intellettualismo, tipico dei Crimson in tutte le varie incarnazioni passate e future, che ne rompe non solo gli schemi ma anche il mood e il pubblico di riferimento. La musica del gruppo, in questa fase, parte sicuramente dal recupero di una visceralità rock, che però viene sottoposta a una decomposizione e a una consapevole e programmatica ristrutturazione su basi puramente razionali.
L'anno successivo esce Starless And The Bible Black, senza Muir. Un disco che ricalca le orme del precedente, ma con più lucidità. La prima facciata comprende ben sei brani con due assoluti gioielli strumentali, "We'll Let You Know", grande finta-improvvisazione con basso rombante di Wetton, e la straordinaria "Trio", 5 minuti toccanti di delicati aforismi sonori. Poi "The Mincer", con Fripp che delizia con i suoi tipici stacchi alienati supportati dal mellotron; quindi la splendida "The Night Watch", con un assolo di Fripp che farà scuola, l'iniziale "The Great Deceiver", con Fripp che fa le prove generali per scale frenetiche che sfrutterà fin troppo nel futuro, e il solito tentativo di canzone melodica con "Lament". Nel complesso, il gruppo sembra toccare con più consapevolezza e raffinatezza una dimensione astratta e indeterminata, appena accennata nel disco precedente. A testimonianza di ciò i 9 minuti della title track che apre la seconda facciata: una lunga e delirante jam esistenziale, iperdescrittiva, inquietante, che fa da preludio agli 11 minuti finali di "Fracture", che riprendono in pieno il filo di "Lark's Tongue In Aspic Part 1".
Il disco successivo, Red, esce nello stesso 1974 a gruppo sostanzialmente già sciolto. Come caratteristica della band, l'instabilità è direttamente proporzionale alla creatività e "Red" non fa eccezione, essendo, a mio parere, il vero capolavoro della seconda fase dei King Crimson. Il disco è attribuito a una formazione a tre (Fripp, Wetton, Bruford), con Cross che appare come ospite assieme ai redivivi Mc Donald, Collins, Miller e Charig. L'iniziale title track diverrà un classico sia perché tutt'ora highlight da concerto sia, e soprattutto, perché lo squadrato barrage chitarristico su cui è costruita farà da modello per tante prove successive in anni anche molto più recenti. Le successive "Fallen Angel", con alcuni richiami alle passate stagioni di "In The Wake Of Poseidon" e "One More Red Nightmare" sono di gran lunga le canzoni migliori composte da questa formazione, melodica ed epica la prima, più nevrotica la seconda, che sembra costruita strumentalmente per fare emergere la grande bravura e sensibilità di Bruford. Poi, otto minuti di improvvisazione senza centro, patrimonio dei concerti ("Providence"), infine l'apoteosi di "Starless": una linea melodica indimenticabile di Fripp su fondo di mellotron si alterna alla voce volumetrica e malinconica di Wetton su intercalari di sax; poi un ostinato accordo minimale alla chitarra che sale all'infinito fino a una furibonda jam che, all'apice della tensione, si libera nella ripresa della primitiva linea melodica con il basso tuonante di Wetton che entra nello stomaco. Dodici minuti mirabili, sicuramente tra le massime espressioni dei King Crimson.
In generale, Red è disco relativamente più diretto e meno eclettico e tortuoso dei precedenti, ma quello che viene perso in complessità viene ampiamente riguadagnato da una scrittura felicissima dei brani, con punte di entusiasmate potenza e lirismo.
Nel 1975 esce il live USA, e per qualche anno non si sentirà più parlare dei King Crimson. Non così di Fripp, che si era già cimentato nell'elettronica con Brian Eno ("No Pussyfooting") e che ne farà tesoro per esperimenti chitarristici di elaborazione in loop (le famose frippertronics, che faranno scuola, di "Let The Power Fall"), le collaborazioni con Peter Gabriel, David Bowie, Brian Eno, Daryl Hall ("Sacred Songs"), uno splendido disco solista nel 1979 ("Exposure"). Fripp come ricercato chitarrista e produttore nonché come "testa pensante" del rock, perfettamente a suo agio nella incombente new wave e nelle "strategie oblique" teorizzate da Eno, Fripp "nel mercato senza essere sottoposto alle sue regole", Fripp due occhi nel futuro e un grande passato mai rinnegato né tradito.
ATTO TERZO
Tutto ciò esula comunque da questa piccola trattazione, e per quanto ci riguarda troveremo i King Crimson, a sorpresa, sette anni dopo Red, nel 1981, con Discipline. Molte cose sono cambiate. Della vecchia line-up è sopravvissuto solo Bruford, batterista degli anni 60 così come del 2000, a cui si affiancano, oltre a Fripp, Tony Levin al basso e Stick, ancora lontano da essere il ricercatissimo session-man dei giorni nostri, nonché Adrian Belew alla seconda chitarra. Perché una cosa salta subito agli occhi e alle orecchie, dopo i fiati e il violino, Fripp ha deciso di utilizzare una seconda chitarra come seconda voce armonica.
Il focus di Discipline è tutto in questa primitiva scelta. Il disco, infatti, è tutto costruito sull'interazione tra Fripp e Belew, a volte all'unisono, a volte in dialogo, a volte in concordanza di fase, a volte sfasato, creando una specie di ipnotico minimalismo chitarristico. Il disco del ritorno è comunque degno del nome del gruppo, con uno splendido lento sentimentale come "Matte Kudasai", grandi esercizi di stile chitarristico ("Elephant Talk", "Frame By Frame"), furenti digressioni ("Indiscipline"), costruzioni ingegnose su ritmi tribali ("Thela Hun Ginjeet"), spazi spettrali ("The Sheltering Sky"). Mancano quasi del tutto il pathos e l'epica strumentale ed emotiva dei King Crimson precedenti, rimane una grande ricercatezza sonora, accompagnata da un'algida disciplina costitutiva. Discipline ci consegna un gruppo nuovo, moderno, tutt'altro che residuale ma anzi ben spendibile in nicchie di mercato intelligente, un gruppo che ha lasciato alle spalle gli anni 70, perfettamente a suo agio nella disillusione e nella sintesi della parte intelligente degli anni 80, perfettamente consono al superamento dell' epica ed estetica rock del decennio precedente, senza per questo rinunciare alle proprie prerogative artistiche. Il bagaglio tecnico dei musicisti è, se possibile, ancora più alto, e ciò permette una espressività che è si diretta e intelleggibile, ma anche molto ricercata sia nella ritmica, mai così centrale nell'economia del gruppo, ondeggiante tra jazz-rock e falso tribalismo, sia nell'inedito lavorio chitarristico tra minimalismo portante, su cui si inseriscono il rumorismo onomatopeico di Belew (in "Elephant Talk") e le digressioni tese e vibranti di Fripp ("The Sheltering Sky").
Ancora meglio farà il secondo disco di tale formazione, Beat, con due strumentali lancinanti ("Sartori In Tangier" e soprattutto la lunare "Requiem", una specie di delirio in chiave jazz) che valgono da soli il disco, un tentativo, riuscito, di singolo con tanto di video-clip ("Heartbeat"), e la follia urbana di "Neurotica", degna colonna sonora di un racconto di Easton-Elliss.
Quando nel 1984 esce il terzo capitolo, Three Of A Perfect Pair, molti gridano allo scandalo per i ritmi pop-dance di alcuni pezzi come la title track e "Sleepless". Le critiche appaiono, tanto più retrospettivamente, ingenerose. Three Of A Perfect Pair è un ottimo disco, e se di pop si tratta è pop stralunato, intelligente, metabolizzato e filtrato da una prospettiva di disimpegno straniante. Poi, forse, nel criticare il disco ci si dimentica che oltre ai brani leggeri troviamo in esso l'esercizio ambientale per bassi filtrati e chitarra esistenziale di "Nuages", nonché le inquietanti improvvisazioni di "No Warnings" e "Industry", e in fondo "Lark's Tongue In Aspic Part 3", in cui il titolo dice già tutto.
Three Of A Perfect Pair è disco che marca una discontinuità rispetto ai due precedenti, lavori molto omogenei, sia per la ricerca di melodie accattivanti sia per il recupero di un astrattismo improvvisativo che riporta il gruppo a Starless And The Bible Black, ponendosi al contempo come il più orecchiabile e il più introverso e difficile lavoro di questa incarnazione del gruppo.
Ma una domanda aleggia sottotraccia: si tratta di progressive? "Non lo so e non mi interessa" potrebbe essere la risposta di molti, Fripp compreso, probabilmente. Ma noi siamo legati a certi artifici se non altro linguistici, e riteniamo che una risposta possa e debba essere data: Sì, indubitabilmente le ambizioni e la struttura dei dischi di questa fase e delle successive sono inerenti al progressive.
A Three Of A Perfect Pair segue un lungo silenzio, rotto musicalmente dalla collaborazione di Fripp con David Sylvian ("The First Day" e il successivo live "Damage") e dai dischi prodotti dalla scuola di chitarra dello stesso Fripp ("The League Of Crafty Guitarist").
ATTO QUARTO
Se avevamo lasciato i King Crimson come gruppo di surreale antitesi del rock, il gruppo che reincontriamo in Lark's Tongue In Aspic del rock riacquista il linguaggio e la spazialità, interpretandolo però in maniera libera e originale, in un appassionante dialogo tra disordine e schema, tra caos free-form e libertà jazz rock da una parte e riff squadrati dall'altra.
Questa dicotomia è, in realtà, un' analisi soprattutto postuma. Mi spiego meglio: i King Crimson della seconda fase sono essenzialmente un formazione live e che in tale dimensione trova pieno compimento nell'incontro-scontro tra un'anima improvvisativa e un'anima di forte rigidità formale, tra astrazione e durezza, tra impatto e lirismo. Il primo disco di tale formazione, Lark's Tongue In Aspic, appunto, è considerato a torto un gran disco, ma in tutti i casi può essere considerato tale solo nell'ottica della non conoscenza delle testimonianze, quasi tutte postume, dell'impatto live del gruppo, al confronto del quale la prova in studio è una pallida copia senza forza. L'impatto di Lark's Tongue In Aspic è comunque dirompente. Il disco comprende tre strumentali ("Lark's Tongue In Aspic" pt 1 e 2, posti all'inizio e alla fine, e "The Talking Drum") e tre brani cantati ("Book Of Saturday","Exiles" ed "Easy Money").
L'incipit con la prima parte della title track è già programmatico dello stile del gruppo, con un inizio di delicato rumorismo opera di Muir che si risolve in un cupo e sospeso accordo di violino, che prelude all'entrata di Fripp il quale infila una serie di passaggi chitarristici ora frenetici ora quasi hard con la sezione ritmica in piena epilessia che divaga su territori jazzati; il violino di Cross chiude poi il brano in toni più lirici, sebbene sempre oscuri. Già dal primo brano appare abissale il distacco dal gruppo di Islands: innanzi tutto i King Crimson sono in parte diventati una guitar-oriented band, poi il sound complessivo è condizionato dalle notevoli capacità tecniche dei musicisti, molto superiori alle precedenti formazioni. Prevalgono poi toni minacciosi, oscuri, con derive quasi hard che si sfrangiano in un eclettismo strumentale, vero elemento centrale e "progressivo", con continue e inaspettate variazione ritmiche e melodiche, con la sezione ritmica che assurge a ruolo creativo con forti richiami, almeno come impostazione di fondo, al jazz-rock.
Ancora più lampante in tal senso la seconda parte della title track, con Fripp che costruisce tutto il brano su semplici riff chitarristici lanciati in progressione ed espansi via via da innumerevoli inserti strumentali fino all'esplosione finale. In "Talking Drum" una ipnotica base ritmica in crescendo fa da sfondo a una linea melodica vagamente orientaleggiante tenuta da Cross e doppiata dalla chitarra lancinante di Fripp. Più deludenti i brani cantati, con la breve "Book Of Saturday", che prova senza successo lirismi in prove precedenti più centrati, "Easy Money" stupisce per la banalità della melodia salvata solo dagli equilibrismi frippiani (molto più coinvolgenti nella dimensione live, comunque), più riuscita la malinconica "Exiles", con bellissimi stacchi di Cross al violino.
Opera a mio parere un po' sopravvalutata, Lark's Tongue In Aspic risulta comunque essere un passaggio importante perché stampo di un nuovo sound foriero di ulteriori sviluppi e soprattutto tuttora moderno. Se infatti i brani della prima fase del gruppo ascoltati oggi, al di là dei giudizi, appaiono senz'altro, anche a un ascoltatore distratto, appartenenti a stagione passate, non così i brani di Lark's Tongue In Aspic, in particolare gli strumentali, posti come sono tra la tesi di un rock aspro e diretto e l'antitesi della sua negazione in un intellettualismo, tipico dei Crimson in tutte le varie incarnazioni passate e future, che ne rompe non solo gli schemi ma anche il mood e il pubblico di riferimento. La musica del gruppo, in questa fase, parte sicuramente dal recupero di una visceralità rock, che però viene sottoposta a una decomposizione e a una consapevole e programmatica ristrutturazione su basi puramente razionali.
L'anno successivo esce Starless And The Bible Black, senza Muir. Un disco che ricalca le orme del precedente, ma con più lucidità. La prima facciata comprende ben sei brani con due assoluti gioielli strumentali, "We'll Let You Know", grande finta-improvvisazione con basso rombante di Wetton, e la straordinaria "Trio", 5 minuti toccanti di delicati aforismi sonori. Poi "The Mincer", con Fripp che delizia con i suoi tipici stacchi alienati supportati dal mellotron; quindi la splendida "The Night Watch", con un assolo di Fripp che farà scuola, l'iniziale "The Great Deceiver", con Fripp che fa le prove generali per scale frenetiche che sfrutterà fin troppo nel futuro, e il solito tentativo di canzone melodica con "Lament". Nel complesso, il gruppo sembra toccare con più consapevolezza e raffinatezza una dimensione astratta e indeterminata, appena accennata nel disco precedente. A testimonianza di ciò i 9 minuti della title track che apre la seconda facciata: una lunga e delirante jam esistenziale, iperdescrittiva, inquietante, che fa da preludio agli 11 minuti finali di "Fracture", che riprendono in pieno il filo di "Lark's Tongue In Aspic Part 1".
Il disco successivo, Red, esce nello stesso 1974 a gruppo sostanzialmente già sciolto. Come caratteristica della band, l'instabilità è direttamente proporzionale alla creatività e "Red" non fa eccezione, essendo, a mio parere, il vero capolavoro della seconda fase dei King Crimson. Il disco è attribuito a una formazione a tre (Fripp, Wetton, Bruford), con Cross che appare come ospite assieme ai redivivi Mc Donald, Collins, Miller e Charig. L'iniziale title track diverrà un classico sia perché tutt'ora highlight da concerto sia, e soprattutto, perché lo squadrato barrage chitarristico su cui è costruita farà da modello per tante prove successive in anni anche molto più recenti. Le successive "Fallen Angel", con alcuni richiami alle passate stagioni di "In The Wake Of Poseidon" e "One More Red Nightmare" sono di gran lunga le canzoni migliori composte da questa formazione, melodica ed epica la prima, più nevrotica la seconda, che sembra costruita strumentalmente per fare emergere la grande bravura e sensibilità di Bruford. Poi, otto minuti di improvvisazione senza centro, patrimonio dei concerti ("Providence"), infine l'apoteosi di "Starless": una linea melodica indimenticabile di Fripp su fondo di mellotron si alterna alla voce volumetrica e malinconica di Wetton su intercalari di sax; poi un ostinato accordo minimale alla chitarra che sale all'infinito fino a una furibonda jam che, all'apice della tensione, si libera nella ripresa della primitiva linea melodica con il basso tuonante di Wetton che entra nello stomaco. Dodici minuti mirabili, sicuramente tra le massime espressioni dei King Crimson.
In generale, Red è disco relativamente più diretto e meno eclettico e tortuoso dei precedenti, ma quello che viene perso in complessità viene ampiamente riguadagnato da una scrittura felicissima dei brani, con punte di entusiasmate potenza e lirismo.
Nel 1975 esce il live USA, e per qualche anno non si sentirà più parlare dei King Crimson. Non così di Fripp, che si era già cimentato nell'elettronica con Brian Eno ("No Pussyfooting") e che ne farà tesoro per esperimenti chitarristici di elaborazione in loop (le famose frippertronics, che faranno scuola, di "Let The Power Fall"), le collaborazioni con Peter Gabriel, David Bowie, Brian Eno, Daryl Hall ("Sacred Songs"), uno splendido disco solista nel 1979 ("Exposure"). Fripp come ricercato chitarrista e produttore nonché come "testa pensante" del rock, perfettamente a suo agio nella incombente new wave e nelle "strategie oblique" teorizzate da Eno, Fripp "nel mercato senza essere sottoposto alle sue regole", Fripp due occhi nel futuro e un grande passato mai rinnegato né tradito.
ATTO TERZO
Tutto ciò esula comunque da questa piccola trattazione, e per quanto ci riguarda troveremo i King Crimson, a sorpresa, sette anni dopo Red, nel 1981, con Discipline. Molte cose sono cambiate. Della vecchia line-up è sopravvissuto solo Bruford, batterista degli anni 60 così come del 2000, a cui si affiancano, oltre a Fripp, Tony Levin al basso e Stick, ancora lontano da essere il ricercatissimo session-man dei giorni nostri, nonché Adrian Belew alla seconda chitarra. Perché una cosa salta subito agli occhi e alle orecchie, dopo i fiati e il violino, Fripp ha deciso di utilizzare una seconda chitarra come seconda voce armonica.
Il focus di Discipline è tutto in questa primitiva scelta. Il disco, infatti, è tutto costruito sull'interazione tra Fripp e Belew, a volte all'unisono, a volte in dialogo, a volte in concordanza di fase, a volte sfasato, creando una specie di ipnotico minimalismo chitarristico. Il disco del ritorno è comunque degno del nome del gruppo, con uno splendido lento sentimentale come "Matte Kudasai", grandi esercizi di stile chitarristico ("Elephant Talk", "Frame By Frame"), furenti digressioni ("Indiscipline"), costruzioni ingegnose su ritmi tribali ("Thela Hun Ginjeet"), spazi spettrali ("The Sheltering Sky"). Mancano quasi del tutto il pathos e l'epica strumentale ed emotiva dei King Crimson precedenti, rimane una grande ricercatezza sonora, accompagnata da un'algida disciplina costitutiva. Discipline ci consegna un gruppo nuovo, moderno, tutt'altro che residuale ma anzi ben spendibile in nicchie di mercato intelligente, un gruppo che ha lasciato alle spalle gli anni 70, perfettamente a suo agio nella disillusione e nella sintesi della parte intelligente degli anni 80, perfettamente consono al superamento dell' epica ed estetica rock del decennio precedente, senza per questo rinunciare alle proprie prerogative artistiche. Il bagaglio tecnico dei musicisti è, se possibile, ancora più alto, e ciò permette una espressività che è si diretta e intelleggibile, ma anche molto ricercata sia nella ritmica, mai così centrale nell'economia del gruppo, ondeggiante tra jazz-rock e falso tribalismo, sia nell'inedito lavorio chitarristico tra minimalismo portante, su cui si inseriscono il rumorismo onomatopeico di Belew (in "Elephant Talk") e le digressioni tese e vibranti di Fripp ("The Sheltering Sky").
Ancora meglio farà il secondo disco di tale formazione, Beat, con due strumentali lancinanti ("Sartori In Tangier" e soprattutto la lunare "Requiem", una specie di delirio in chiave jazz) che valgono da soli il disco, un tentativo, riuscito, di singolo con tanto di video-clip ("Heartbeat"), e la follia urbana di "Neurotica", degna colonna sonora di un racconto di Easton-Elliss.
Quando nel 1984 esce il terzo capitolo, Three Of A Perfect Pair, molti gridano allo scandalo per i ritmi pop-dance di alcuni pezzi come la title track e "Sleepless". Le critiche appaiono, tanto più retrospettivamente, ingenerose. Three Of A Perfect Pair è un ottimo disco, e se di pop si tratta è pop stralunato, intelligente, metabolizzato e filtrato da una prospettiva di disimpegno straniante. Poi, forse, nel criticare il disco ci si dimentica che oltre ai brani leggeri troviamo in esso l'esercizio ambientale per bassi filtrati e chitarra esistenziale di "Nuages", nonché le inquietanti improvvisazioni di "No Warnings" e "Industry", e in fondo "Lark's Tongue In Aspic Part 3", in cui il titolo dice già tutto.
Three Of A Perfect Pair è disco che marca una discontinuità rispetto ai due precedenti, lavori molto omogenei, sia per la ricerca di melodie accattivanti sia per il recupero di un astrattismo improvvisativo che riporta il gruppo a Starless And The Bible Black, ponendosi al contempo come il più orecchiabile e il più introverso e difficile lavoro di questa incarnazione del gruppo.
Ma una domanda aleggia sottotraccia: si tratta di progressive? "Non lo so e non mi interessa" potrebbe essere la risposta di molti, Fripp compreso, probabilmente. Ma noi siamo legati a certi artifici se non altro linguistici, e riteniamo che una risposta possa e debba essere data: Sì, indubitabilmente le ambizioni e la struttura dei dischi di questa fase e delle successive sono inerenti al progressive.
A Three Of A Perfect Pair segue un lungo silenzio, rotto musicalmente dalla collaborazione di Fripp con David Sylvian ("The First Day" e il successivo live "Damage") e dai dischi prodotti dalla scuola di chitarra dello stesso Fripp ("The League Of Crafty Guitarist").
ATTO QUARTO
Nel 1995 esce, a sorpresa e preceduto dall'Ep Vroom, un nuovo album: Thrak. Il line-up del gruppo questa volta non ha subito rivoluzioni, al quartetto Fripp-Belew-Levin-Bruford si è aggiunto Trey Gunn allo stick e Pat Mastellotto alla batteria. Fripp denota questo line-up come "double trio". Il gruppo si ripresenta dopo 11 anni e Thrak riceve critiche positive. Tali critiche sono positive forse anche in parte per distorsione data dalla lunga attesa. La continuità rispetto al gruppo di Discipline è evidente, con però alcune palesi differenze. Innanzi tutto sono nettamente ridotti i dialoghi e la rete chitarristica di Fripp e Belew, preferendosi un approccio più diretto, meno eclettico, a tratti più duro. Poi, comincia ad apparire un uso misurato dell'elettronica, mentre è evidente un arretramento della sezione ritmica, che ora suona molto più " normalizzata" e meno creativa. Spesso, poi, si indulge in riff e digressioni aspre e schematiche, tangenti un approccio hard-rock, quasi a recuperare una visceralità e la ricerca di un impatto appartenente più al gruppo del biennio 73-75 che al periodo successivo, pur evitando accuratamente un approccio stilistico ridondante e sovraccarico di chiaroscuri, tipico del periodo. Però, al di là di queste considerazioni, quello che non funziona sono proprio i pezzi, con stanche riprese di Red ("Vroom", "Vroom Vrooom"), aggressività mascheranti pezzi certo non irresistibili ("Sex Sleep Eat Dream", " Dinosaur"), inutili accenni sperimentali, ombre del tempo che fu ("B-Boom", "Thrak"), improbabili disco-funk ("People"), superflui camei elettronici ("Radio" 1 e 2). Rimangono due pezzi lenti, entrambi riusciti, "Walking On Air", in cui Belew ripesca certe atmosfere anni 50, e la più inquetante "One Time", nonché le due brevi "Inner Garden" 1 e 2, di gran lunga le cose più riuscite del disco. Complessivamente Thrak è l'album meno riuscito del King Crimson, non perché manchino spunti anche belli e interessanti, ma perché fanno capolino due categorie fino ad allora inapplicabili al gruppo: la mediocrità e la prevedibilità. Infatti la mediocrità di alcuni brani non può essere mistificata dalla fascinazione del nome del gruppo, e, per la prima volta, il sound suona prevedibile per quanto al contempo moderno.
Dopo Thrak, Fripp, che ha fondato una sua casa discografica, la Discipline Global Mobile (DGM), in accordo con il suo sano realismo demitizzante per il quale se esiste arte al di fuori delle regole del mercato, certamente non esiste al di fuori del mercato tout-court, inizia a fare uscire una grande quantità di materiale, tra live postumi (da segnalare il cofanetto Epitaph con materiale del 1969), live del tour di Thrak (B- Boom), dischi di improvvisazioni live (Thrakattack), tendenza che prosegue a tutt'oggi in una logica che risponde a ovvie esigenze di mercato, sia di tipo economico (il denaro per Fripp evidentemente non è lo sterco del demonio) che strategico (tenere vivo il nome del gruppo).
In questo contesto, nel 2000 riappaiono i King Crimson con un nuovo disco, The Construction Of Light. I Crimson ritornano un quartetto con i soliti Fripp e Belew accompagnati da Mastellotto e Gunn. L'album è sicuramente migliore del precedente: si recupera nettamente il fitto e minimale dialogare chitarristico (in tal senso, è più vicino a Discipline e a Beat del precedente), appaiono canzoni interessanti (l'ironico cyber-blues di "Prozak Blues", la title track), con palesi riprese di temi passati ("Lark's Tongue In Aspic Part 4", " Fractured"). Però permangono delle perplessità. Innanzi tutto, si rimpiange Levin e soprattutto Bruford, Mastellotto non ne ha il carisma e c'è un fastidioso sovrautilizzo della batteria elettronica. Poi, il disco è molto costruito, lambiccato, tesissimo, ma a tratti troppo convulso e narcisista, con poco e nulla del feeeling che residuava anche in Thrak, come schiacciato nel vorticoso rotear di chitarre. Poi, è certamente meno prevedibile e mediocre del precedente, ma appare una categoria anch'essa inedita per il gruppo: la noia. The Construction Of Light è un disco spesso noioso: a suo modo possente, deflagrante, interessante, modernissimo, ma anche noioso.
La critica in questa fase guarda il gruppo con una certa sufficienza: considerati a torto troppo vecchi per la stampa generalista, i King Crimson risultano troppo fuori schema per il sottobosco progressive tradizionale. La realtà è che i King Crimson sono in questa fase, discussa e discutibile, inerenti al progressive come non mai, ma al contempo ne danno una direttrice personale, basata su una rigida disciplina strutturale, e a suo modo anche influente, basti pensare a gruppi di tutt'altra origine e di varia ispirazione come i Tool, i Don Caballero e i Muse.
Nel 2003, dopo un'attesa di "soli" tre anni, esce The Power To Believe. C'è una discreta attesa attorno al disco, alcuni che lo ascoltano in anteprima parlano esplicitamente di capolavoro menzionando una deriva metal. The Power To Believe non è un capolavoro e non è nemmeno un disco metal, ciononostante è di gran lunga il disco migliore della quarta fase del gruppo. Il line up è immutato rispetto a Construction Of Light, ma il suono appare molto più lucido e articolato, riprendendo in parte il furibondo minimalismo di quel disco (ma senza elevarlo più a rigida metodologia), e in parte il tentativo di rock alienato e difforme di Thrak, ma stavolta supportato da vera inquietudine e vera ispirazione. Il disco si pone in un'ipotetica terza via rispetto alle tendenze del recente passato, teso tra convincenti spirali chitarristiche ora dure ("Level Five"), ora minimali ("Elektrik"), tra deliri suburbani ("Facts Of Life"), strane cantabilità ("Eyes Wide Open"), progressioni possenti ("Dangerous Curves"), astrazioni elegiache ("The Power To Believe 2 & 3"). The Power To Believe è disco sovraccarico di lancinanti toni cupi e tecnologici e sembra chiudere il filo rosso che ha unito i King Crimson da Discipline in poi, ponendosi come opera di sintesi tra le ricercatezze iperstrutturali degli anni 80, le frippertronics e l'approccio rigido e aggressivo della nuova formazione. Opera di sintesi e come tale, crediamo e speriamo, opera in un certo senso conclusiva di un periodo. E dopo? Sarà rispettata la "regola dei tre dischi" e dopo la quarta fase se ne aprirà una quinta del tutto nuova? E con quali musicisti? Oppure Fripp deciderà di insistere su questo gruppo e, se sì, con quali artifici ripresenterà i King Crimson? E sapranno raccontare ancora il futuro, se non altro il "loro" futuro? In tutti i casi, saremo sulla riva del fiume ad aspettare un miracolo o magari solo un buon disco.
--Dopo Thrak, Fripp, che ha fondato una sua casa discografica, la Discipline Global Mobile (DGM), in accordo con il suo sano realismo demitizzante per il quale se esiste arte al di fuori delle regole del mercato, certamente non esiste al di fuori del mercato tout-court, inizia a fare uscire una grande quantità di materiale, tra live postumi (da segnalare il cofanetto Epitaph con materiale del 1969), live del tour di Thrak (B- Boom), dischi di improvvisazioni live (Thrakattack), tendenza che prosegue a tutt'oggi in una logica che risponde a ovvie esigenze di mercato, sia di tipo economico (il denaro per Fripp evidentemente non è lo sterco del demonio) che strategico (tenere vivo il nome del gruppo).
In questo contesto, nel 2000 riappaiono i King Crimson con un nuovo disco, The Construction Of Light. I Crimson ritornano un quartetto con i soliti Fripp e Belew accompagnati da Mastellotto e Gunn. L'album è sicuramente migliore del precedente: si recupera nettamente il fitto e minimale dialogare chitarristico (in tal senso, è più vicino a Discipline e a Beat del precedente), appaiono canzoni interessanti (l'ironico cyber-blues di "Prozak Blues", la title track), con palesi riprese di temi passati ("Lark's Tongue In Aspic Part 4", " Fractured"). Però permangono delle perplessità. Innanzi tutto, si rimpiange Levin e soprattutto Bruford, Mastellotto non ne ha il carisma e c'è un fastidioso sovrautilizzo della batteria elettronica. Poi, il disco è molto costruito, lambiccato, tesissimo, ma a tratti troppo convulso e narcisista, con poco e nulla del feeeling che residuava anche in Thrak, come schiacciato nel vorticoso rotear di chitarre. Poi, è certamente meno prevedibile e mediocre del precedente, ma appare una categoria anch'essa inedita per il gruppo: la noia. The Construction Of Light è un disco spesso noioso: a suo modo possente, deflagrante, interessante, modernissimo, ma anche noioso.
La critica in questa fase guarda il gruppo con una certa sufficienza: considerati a torto troppo vecchi per la stampa generalista, i King Crimson risultano troppo fuori schema per il sottobosco progressive tradizionale. La realtà è che i King Crimson sono in questa fase, discussa e discutibile, inerenti al progressive come non mai, ma al contempo ne danno una direttrice personale, basata su una rigida disciplina strutturale, e a suo modo anche influente, basti pensare a gruppi di tutt'altra origine e di varia ispirazione come i Tool, i Don Caballero e i Muse.
Nel 2003, dopo un'attesa di "soli" tre anni, esce The Power To Believe. C'è una discreta attesa attorno al disco, alcuni che lo ascoltano in anteprima parlano esplicitamente di capolavoro menzionando una deriva metal. The Power To Believe non è un capolavoro e non è nemmeno un disco metal, ciononostante è di gran lunga il disco migliore della quarta fase del gruppo. Il line up è immutato rispetto a Construction Of Light, ma il suono appare molto più lucido e articolato, riprendendo in parte il furibondo minimalismo di quel disco (ma senza elevarlo più a rigida metodologia), e in parte il tentativo di rock alienato e difforme di Thrak, ma stavolta supportato da vera inquietudine e vera ispirazione. Il disco si pone in un'ipotetica terza via rispetto alle tendenze del recente passato, teso tra convincenti spirali chitarristiche ora dure ("Level Five"), ora minimali ("Elektrik"), tra deliri suburbani ("Facts Of Life"), strane cantabilità ("Eyes Wide Open"), progressioni possenti ("Dangerous Curves"), astrazioni elegiache ("The Power To Believe 2 & 3"). The Power To Believe è disco sovraccarico di lancinanti toni cupi e tecnologici e sembra chiudere il filo rosso che ha unito i King Crimson da Discipline in poi, ponendosi come opera di sintesi tra le ricercatezze iperstrutturali degli anni 80, le frippertronics e l'approccio rigido e aggressivo della nuova formazione. Opera di sintesi e come tale, crediamo e speriamo, opera in un certo senso conclusiva di un periodo. E dopo? Sarà rispettata la "regola dei tre dischi" e dopo la quarta fase se ne aprirà una quinta del tutto nuova? E con quali musicisti? Oppure Fripp deciderà di insistere su questo gruppo e, se sì, con quali artifici ripresenterà i King Crimson? E sapranno raccontare ancora il futuro, se non altro il "loro" futuro? In tutti i casi, saremo sulla riva del fiume ad aspettare un miracolo o magari solo un buon disco.
di Michele Chiusi ( www.ondarock.it) - alcune citazioni di frasi di Fripp sono tratte dal libro "King Crimson/Robert Fripp", a cura di Paolo Bertrando, Arcana Editrice
1 commento:
simo...ciao a tutti...
...i K.C. mi accompagnano da almeno 20 anni...nell'84 feci un viaggio in Scozia e ricordo benissimo l'emozione di ascoltare Islands o Epithaph e osservare il panorama...ancora qualche anno dopo ho i brividi nel ricordare l'emozione din sentire Neurotica osservando le ciminiere fumanti di notte...
...boh...sarà perchè sono un chitarrista (scarso)...ma sentire Mr.Fripp è sempre bello ed emozionante...
...li ho visti live nel 1985 e nel 2003(?)...e credo siano stati i migliori concerti visti...
...ps...la tua disamina della discografia credo sia eccellente e le condivido...
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