Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 30, 2010

Glenn Gould: opus 1 e opus 2

"Durante l'adolescenza ero piuttosto restio all'idea di una carriera concertistica", spiegò Gould nel gennaio 1962 in un'intervista con Bernard Asbell "Mi consideravo una sorta di uomo musicale del Rinascimento, abile in tante cose. Di certo volevo diventare compositore. E lo desidero ancora oggi. L'esibizione nell'arena non esercitava su di me alcun fascino. [...] Un'esecuzione musicale non è una contesa, ma una storia d'amore."

L'idea fissa di abbandonare definitivamente non solo la carriera pianistica ma il pianoforte tout court, e dedicarsi esclusivamente alla composizione, si protende come un filo conduttore attraverso le sue interviste ed affermazioni degli anni Cinquanta e Sessanta. D'altro canto egli sapeva bene di non avere - fino a quel momento - un gran che da esibire come prova concreta della sua vocazione compositiva: un brano corale intitolato Our Gifts, composto nel 1943 all'età di undici anni per una festa della Croce Rossa, quattro pezzi per pianoforte (come musica di scena per una rappresentazione studentesca della Twelfth Night [Notte dell'Epifania] di Shakespeare, 1948/49) e una cadenza per il Primo concerto per pianoforte di Beethoven. I lavori successivi, come il frammento di una sonata per pianoforte, una Sonata in tre movimenti per fagotto e pianoforte e i Five Short Piano Pieces, erano certo più autorevoli e di indole più seria, ma appartenevano alla fase dodecafonica trascorsa tra i 18 e i 22 anni, le cui opere Gould aveva - citazione originale - "messo in naftalina". "Durante i miei ventinove anni di vita, ho scritto una sola opera di grandi dimensioni e che mi piaccia: il mio Quartetto per archi. [...] Non è un auspicio particolarmente promettente in campo compositivo, Credo di dover coltivare certi aspetti della tecnica di composizione, soprattutto l'orchestrazione. Forse farei bene a sforzarmi di essere un po' più produttivo. Comunque, ancora non sono arrivato al punto di sentirmi infelice per aver scritto una sola opera completa."
Gould aveva lavorato al suo Quartetto per due anni e mezzo, dall'aprile 1953 all'ottobre 1955, "in un periodo in cui in tutti i miei programmi concertistici e nelle conversazioni mi ero presentato come prode paladino della musica seriale e dei suoi principali esponenti. Emerge così una domanda inattesa, ma dei tutto comprensibile: come conciliare il mio dichiarato entusiasmo per i movimenti d'avanguardia dell'epoca con un'opera che sarebbe stata perfettamente adatta per un'accademia degli inizi del secolo, e che non presentava sfide alle leggi di gravità tonali più audaci di quelle che avevano posto le opere di Wagner, Bruckner, o Richard Strauss? [ ... ] Ebbene, in verità la risposta è semplicissima. Al contrario di tanti studenti, i miei entusiasmi raramente si basavano su idiosincrasie. La mia grande ammirazione per la musica di Schönberg, ad esempio, non implicava affatto il rifiuto dei romantici viennesi della generazione precedente." Dobbiamo dargli atto che il suo Quartetto si presenta come monumentale movimento in forma-sonata in fa minore della durata di una buona mezz'ora, il cui idioma musicale (partendo dal motivo di quattro note do - re bemolle -sol - la bemolle) si riallaccia a quello dei tardi quartetti beethoveniani e ricorda in maniera strepitosa Strauss e Mahler, il giovanile Sestetto per archi Verklärte Nacht, op. 4 di Schönberg e il Quintetto per archi in fa maggiore di Anton Bruckner, opera di cui era venuto a conoscenza poco prima di comporre il Quartetto. (A detta sua, Gould avrebbe scelto la tonalità di fa minore. perché credeva di scorgervi profonde affinità col proprio carattere: il fa minore rappresentava per lui, cosi la sua spiegazione piuttosto enigmatica, "un qualcosa di obliquo - a metà tra complessità e stabilità, tra fermezza di carattere e lascivia, tra il grigio e le tinte intense".)
Ultimata l'opera verso il concludersi del 1955, Gould l'aveva subito inviata al violista Otto Joachim, che doveva eseguirne la première con il suo Quartetto di Montreal. "Il quartetto si trova in mano Sua da quasi due mesi. Finora non mi è giunta notizia che abbiate cominciato a lavorarvi", si lamenta tra il serio e l'ironico - in una lettera all'inizio dei 1956. "Ho atteso con esemplare pazienza, cosa che normalmente non appartiene ai tratti essenziali del mio temperamento. E negli ultimi mesi vi ho fatto un sacco di pubblicità gratuita. Della vostra esecuzione (?) ho parlato in numerose interviste durante i miei viaggi - naturalmente motivato dal massimo altruismo. Ma anche l'aspetto benigno e caritatevole della mia natura è sceso al livello piu abissale. E l'ira gouldiana, per lungo tempo trattenuta con amichevole pazienza, ora comincia a dare sintomi di grave infiammazione (contro la quale gli antibiotici sono dei tutto inefficaci). [...] Il quartetto fra l'altro dovrebbe essere eseguito con certezza (direi almeno del 96%) nella prossima stagione, in un concerto di musica contemporanea nella Town Hall di New York. Rida pure dell'aggettivo 'contemporanea'! Per tornare in chiave seria, sono certo che si renderà conto del problema. [...] Mi resta soltanto da pregarLa di rispondermi al più presto possibile. Suo, pronto a ulteriori accessi di febbre e a culmini estatici, Richard Strauss."
L'esecuzione newyorkese non si materializzò, ma alla fine spettò comunque al Montreal String Quartet (con Hyman Bress, Mildred Goodman, Otto e Walter Joachim) il compito di tenere a battesimo l'opus 1 di Gould: la prima ebbe luogo a Montreal il 25 maggio 1956. Sei settimane dopo - il 9 luglio - fu presentato in un concerto nell'ambito dei festival canadese di Stratford, accanto alla Sonata per pianoforte di Alban Berg (altro "opus 1") alla Terza sonata di Ernst Krenek e all'Ode to Napoleon Buonaparte, op. 41 di Schönberg. Nell'una e nell'altra occasione la critica si mostrò complessivamente positiva e ben disposta; Gould, poté rallegrarsi con pieno diritto dei suo primo successo in veste di compositore, e inviò la partitura (pubblicata dalla piccola casa editrice newyorkese Barger & Barclay) a tutti gli amici e conoscenti immaginabili. Anche il Quartetto Symphonia (formato da quattro membri della Cleveland Orchestra) lo mise in repertorio, ne eseguì la prima statunitense e nel marzo 1960 lo incise per la CBS. "Malgrado l'atmosfera di eleganza sbiadita e l'idioma dolceamaro fin-de-siècle, nell'insieme il mio quartetto ha ottenuto recensioni meravigliose", riferil Gould in una lettera a Silvia Kind. "Vi sono state alcune critiche 'alla moda', che hanno sottolineato l'inopportunità di far rivivere lo spirito di Richard Strauss nell'epoca di Stockhausen (è poi veramente la sua epoca?), ma fortunatamente le voci 'progressiste' sono state in minoranza ed hanno contribuito a suscitare una controversia sana e ragionevole." D'altronde Gould sapeva benissimo che il successo di questo opus 1 in fondo non aveva alcun significato: "E' l'Opus 2 che conta! "
Certo un "opus 2" non ci sarebbe mai stato - o comunque non una partitura che Gould ritenesse degna di un numero d'opera. Di fatto, almeno dal punto di vista cronologico, So You want to Write a Fugue? avrebbe avuto ogni diritto di fare ingresso come "op. 2 " nel catalogo delle sue opere. L'occasione per questo tour-de-force di humour gouldiano venne fornita da un programma televisivo da lui realizzato il 25 gennaio 1963 per la radiotelevisione canadese CBC: "The Anatomy of Fugue". Gould era ben consapevole che il suo concetto, di illustrare la forma in certo senso tramite la forma stessa e di articolare l'intera trasmissione come una specie di fuga, sarebbe rimasto inafferrabile per la maggioranza dei pubblico: "Qualche volta ho la sensazione che non abbiano capito niente di quello che ho detto, ma che si sentano elevati". Ciononostante, rimase fedele al concetto originale. Dopo due madrigali contrappuntistici di Orlando di Lasso e Luca Marenzio, la Fuga in do minore, K. 546 di Mozart, due fughe dal Clavicembalo ben temperato di Bach e le fughe dalle sonate di Beethoven e Hindemith, come culmine finale del programma fu eseguita So You want to Write a Fugue?: una fuga su come scrivere una fuga, con testo originale di Gould, adattata per quattro voci di canto e quartetto d'archi.
Il successo di questo brano d'occasione, scurrile e nel contempo geniale, fu tale che nel dicembre 1963 la CBS decise di inciderla - inizialmente senza nemmeno sapere quando e in quale contesto l'avrebbe pubblicata. Ufficialmente apparve soltanto nel 1980 (nel Silver Jubilee Album di Gould), ma era già stata distribuita nell'aprile 1964 come omaggio insieme a un numero della rivista "HiFi/Stereo Review". "In realtà si tratta di uno spot pubblicitario cantato, di cinque minuti e quattordici secondi ", commentò Gould, "uno spot non sponsorizzato, vogliamo sottolinearlo subito, e per molti versi anche fuori dei comune, poiché raccomanda alla leggera un prodotto che normalmente non viene offerto. il prodotto pubblicizzato è uno dei mezzi creativi più durevoli della storia dei pensiero formale, e una delle pratiche più venerabili dell'uomo musicale. Il mezzo in questione si chiama fuga, e il procedimento è la scrittura fughistica. [...] La composizione assume la forma di una fuga che spiega come si scrivono le fughe - [...] un dialogo musicale tra quattro cantanti, assistiti, e in certi momenti contraddetti, dai commenti di un quartetto d'archi, [...] con citazioni irriverenti di Bach e Wagner." Se il compositore Gould avesse perseverato lungo questo cammino, si sarebbe certamente iscritto negli annali della storia musicale come uno dei sommi maestri di questo secolo, accanto al da lui tanto ammirato e venerato P. D. Q. Bach...

Vuoi dunque scrivere una fuga?

Vuoi dunque scrivere una fuga?
Se hai voglia di scrivere una fuga,
se hai il coraggio di scrivere una fuga,
fai pure e scrivi una fuga che possiamo cantare!

Non prestar fede a quello che t'abbiamo detto,
non badare a quello che t'abbiamo detto,
dimentica tutto quello che t'abbiamo detto,
e tutta la teoria che hai letto,
Perchè l'unico modo per scrivere una fuga,
è di tuffarsi dentro e scriverla.
Dimentica quindi le regole e scrivi una fuga,
prova, sì, prova a scrivere una fuga.

Ignora quindi le regole e provaci,
e vedrai che divertimento,
vedrai quanta gioia ti recherà,
un piacere che certo ti soddisferà.
E allora perchè non tentare?
Ti accorgerai che Giovanni Sebastiano
dev'esser stato un tipo assai piacente.

Ma non fare il furbo solo per il gusto di fare il furbo,
poichè un canone inverso è una pericolosa diversione,
e un po' di aumentazione è una grave tentazione,
mentre uno stretto con diminuzione è un'ovvia soluzione.
Ma non fare mai il furbo solo per il gusto di fare il furbo,
soltanto per darti delle arie!

C'è d'aver paura, non è vero?
E quando avrai finito di scriverla,
penso che vi troverai tanta gioia (almeno lo spero)...
Bene, nulla di perso e nulla di guadagnato, come dicono...
Ma lo stesso, è piuttosto difficile incominciare.
Proviamoci.

Subito?
Scriveremo subito una fuga!

Michael Stegemann (1997)

domenica, ottobre 24, 2010

Intervista a Sergej Krylov

Maestro Krylov che strumenti suona attualmente?
Attualmente ho lo strumento di mio padre costruito nel 1994 ed è quello che ho suonato ultimamente nei concerti a Portogruaro per la 28.Estate Musicale, Festival Internazionale di Musica di Portogruaro, diretto da Enrico Bronzi, e ho anche uno Stradivari “Scotland University” del 1734 proveniente dalla collezione Eva Lam di New York che mi è stato dato in prestito dalla Fondazione Stradivari di Cremona, grazie al progetto “Friends of Stradivari”.
Questo Stradivari è uno strumento di dimensioni regolari?
Direi di sì, non ho controllato millimetro per millimetro, ma direi che è di dimensioni regolari.
Quindi non deve fare particolari adattamenti per suonarlo?
No, no, direi proprio di no.
Quanto è importante suonare uno strumento antico?
Non è una domanda facile a cui rispondere in due parole, diciamo che ci sono strumenti antichi e moderni straordinari, così come vediamo strumenti antichi e moderni di poco valore dal punto di vista sonoro. Se si prende uno Stradivari ben conservato con caratteristiche sonore eccellenti credo non possa essere paragonato ad uno moderno in quanto lo Stradivari ha una storia alle spalle di 300 anni, sarebbe un po' come paragonare un whisky di 3 anni con uno di 50, di conseguenza non si può paragonare uno strumento moderno con uno antico, senza tenere conto che un whisky o un vino invecchiato sono stati fatti con materiali pregiati unici, forse difficili da reperire in epoca moderna. In più c'è l'incognita che per un vino ed un violino prodotto oggi non sappiamo come diventerà nel futuro, quindi è molto complicato esprimere giudizi. Ma c'è un aspetto da considerare, spesso da parte dei violinisti c'è un pregiudizio nei confronti degli strumenti moderni dovuto ad una ignoranza di base riguardante gli strumenti ad arco, ignoranza anche involontaria in quanto la musica per un musicista è un fatto molto personale dipendente da gusti ed esperienze diverse. Può benissimo succedere che un violinista abbia avuto modo di ascoltare solo violini moderni che non suonavano un granché e da qui a pensare che tutti i violini moderni suonino male il passo è breve. Ma ci sono strumenti moderni straordinari che possono essere messi a paragone con quelli antichi, anche se bisogna tenere conto di un fattore molto importante: quello economico. Se si hanno a disposizione 15 milioni di euro, è ovvio che si avrà a disposizione la scelta sui migliori strumenti antichi, e su questo è difficile competere. Ma se si hanno 15.000 euro da spendere si deve per forza scegliere un buon strumento moderno, uno strumento antico per una cifra così modesta equivale all'acquisto di legna da ardere, a meno che non si sia avuta la fortuna di trovare l'impossibile ossia il famoso “violino nella soffitta”, acquistato per pochi soldi, che rivela di essere poi uno Stradivari o un Guarneri di cui non si sospettava nemmeno l'esistenza.
Che corde usa?
Utilizzo due tipi di corde, le Evah Pirazzi e le Larsen Tzigane. Uso le mute complete, non amo mescolare corde di diverse marche.
E' vero che i maestri russi erano soliti suonare con la prima e la seconda corda in metallo?
Non saprei dire esattamente, ma so che David Oistrakh suonava corde sovietiche di buona qualità che conoscevo anch'io quando ero bambino, il RE e il SOL erano in budello, invece il LA e il MI erano in metallo.
Che archi usa per i suoi concerti?
SK: Ne ho uno di François e Dominique Peccatte che ho acquistato circa 3 anni fa, poi ho un Lamy che mi piace sempre tantissimo, acquistato circa 11 anni fa.
Constato con piacere che lei possiede due archi della migliore tradizione francese, io credo che gli archi francesi abbiano la capacità di sviluppare il massimo degli armonici a patto di avere il “giusto” punto di contatto. E' corretto?
A prescindere dalle differenze tra le varie scuole, l'unica cosa che mi ha veramente interessato finora è la caratteristica del suono e come l'arco è capace di entrare in contatto con le corde, invece per tutto quello che riguarda la “manualità”, ossia i colpi d'arco come il picchettato o lo staccato, è un fattore che riguarda il violinista al 99 per cento.
Ritorniamo al suo Stradivari: secondo il M° Renato Zanettovich (Trio di Trieste), in una conversazione amichevole avuta con lui molti anni fa, gli Stradivari sono cavalli di razza non molto facili da padroneggiare. Invece, secondo la sua esperienza, maestro Krylov?
SK: Guardi, tutto dipende dalla percezione violinistica strumentale dei musicisti, è ovvio quindi che musicisti diversi possano avere diversi pareri sullo stesso strumento. E' molto difficile generalizzare, ma è vero che tutti gli strumenti che producono un suono importante hanno una gamma timbrica e dinamica tale che bisogna saper cogliere, quindi io torno a porre l'attenzione sul musicista e sulla sua personalità unica e originale, non tanto sullo strumento in quanto tale.
Il suo Stradivari quanta attenzione richiede per ciò che riguarda la manutenzione? deve far ricorso molto spesso al suo liutaio di fiducia?
SK: Dipende dai periodi, all'inizio andavo dal liutaio abbastanza spesso per controllare se tutto era a posto, che poi risultava sempre tutto a posto, era più una questione mia anche di abitudine. Poi man mano che il tempo passava le visite sono diventate meno frequenti, bisogna stare molto attenti a non confondere i due aspetti del suono: quello del violinista e quello dello strumento. I sensi del musicista devono essere sempre molto aperti per cogliere le sfumature e per lavorare in modo appropriato su se stessi a prescindere dal suono dello strumento, che comunque può suonare bene o male. Le impressioni che il musicista ricava dal suo strumento non sono tutta la verità, ma c'è molto altro. D'altra parte non vedo come il proprio suono possa cambiare radicalmente solo attraverso, per fare un esempio, un piccolo spostamento dell'anima. Io non faccio parte di quella categoria di persone che è ossessionata dalla messa a punto degli strumenti, non divento pazzo a far spostare l'anima in un senso o nell'altro pretentendo dallo strumento chissà cosa, anche se per il musicista è importante conoscere i fenomeni che determinano il suono, perché ciò aumenta molto la consapevolezza sulla propria musica.
Torniamo un attimo alle origini: chi le ha trasmesso la passione per la musica e il violino?
Sono stati i miei genitori, mia madre pianista e mio padre si è diplomato in violino al Conservatorio di Mosca nei primi anni '70 con il massimo dei voti, egli è stata una persona molto speciale dal mio punto di vista, era un brillante violinista e al tempo stesso anche liutaio, due professioni fuse in una sola.
Dove ha imparato suo padre a fare il liutaio? (stiamo parlando di Alessandro Crillovi, padre di Sergej. N.d.r.)
Lui è stato uno dei primi liutai sovietici venuto a Cremona per frequentare la scuola di liuteria, nel 1971.
E' venuto da solo o con la famiglia?
Da solo, io e mia madre eravamo a Mosca.
Che tipo di liutaio era suo padre?
Ha costruito circa 300 strumenti, inizialmente ha seguito modelli stradivariani e guarneriani, all'inizio degli anni '90 ha elaborato una sua forma personale. Avrebbe potuto dare di più alla liuteria non fosse che è scomparso prematuramente a 50 anni 11 anni fa.
Lei ha mai costruito un violino?
E' una cosa che mi piacerebbe molto fare, ma solo per mio puro gusto personale, non ho nessuna pretesa di diventare liutaio!
Lo sa che più di qualche suo collega si è cimentato almeno una volta nella costruzione di uno strumento ad arco?
Vivendo a Cremona ho molti amici liutai e chissà che un giorno anch'io non riesca a costruirne uno. Non mi importerebbe se lo strumento costruito da me fosse bello o brutto, ma costruirselo da solo significherebbe scendere nei particolari, avere l'opportunità di capire almeno superficialmente, com'è e com'è farlo sarebbe molto bello ed importante. Ma ci vogliono un sacco di conoscenze e bisogna avere un insegnante molto capace che ti ospiti nel suo laboratorio, almeno inizialmente. Sono sicuro che verrebbe fuori una schifezza!
Chi può dirlo? io credo che per un musicista il costruire un proprio strumento sarebbe come andare alla sorgente del suono.
Credo di sì, sarebbe molto divertente, ma sarebbe anche un divertimento con un aspetto educativo. Un'altra idea interessante, avendo fatto più volte parte di giurie di concorsi di liuteria, è quella di avere l'opportunità di vedere e suonare molti strumenti. Dopo aver suonato più di 100 strumenti in un concorso non solo si impara a valutarne il suono, ma si impara anche a guardarli in modo diverso.
A proposito di concorsi, sono sempre stato molto perplesso di fronte al fatto che una giuria di musicisti sia costretta a giudicare in poco tempo un grande numero di strumenti. Anche ad essere un grande musicista come lo è lei, credo che non ci sia proprio lo spazio fisico per una giudizio sereno.
E' molto difficile, infatti, per questo la giurie di cui ho fatto parte erano composte da più musicisti che lavorano con grande attenzione. Certamente bisogna anche esserne capaci, perché, torno a dire, è molto difficile e le giurie possono anche sbagliare perché composte da esseri umani. Per quello che riguarda gli eventi a cui io ho partecipato, è successo di aver premiato il suono di due violini piuttosto diversi nello stile costruttivo, e poi abbiamo scoperto essere dello stesso autore, da questo posso dire che il suono ha una sua impronta piuttosto ben definita che non può sfuggire al musicista ben preparato. E poi c'è considerare anche che le giurie hanno un dibattito interno che le vede spesso divise nel giudizio sugli strumenti, così come nella durata del concorso, si possano mutare le proprie opinioni, come si può intuire, il funzionamento di una giuria di 10 persone non segue regole matematiche.
Abbiamo parlato degli strumenti, ma ora andiamo più nello specifico della musica, nel suo modo di suonare io avverto un duplice aspetto che si traduce in una grande dinamica di suono. Il suo non sembra un virtuosismo fine se stesso, lei pare essere capace anche di una grande cavata e cantabilità. In poche parole lei non sacrifica la musica sull'altare del virtuosismo, cercando di ammaliare il pubblico con grandi acrobazie ed effetti speciali. Le faccio un esempio riferendomi ad un grande del passato: Jasha Heifetz. La sua “Zingaresca” di De Sarasate è strabiliante, precisa e veloce come un treno, ma ascoltando lo stesso pezzo eseguito da lei, Maestro Krylov, si scopre anche una dimensione per me abbastanza inedita di cantabilità.
Io la ringrazio, solo che lei mi sta paragonando ad uno dei violinisti più grande della storia: Jasha Heifetz. Come se, per modo di dire, io paragonassi lei che è un liutaio, ad Antonio Stradivari! Eppure per la “Zingaresca” il modello di Heifetz, è quello che io ho seguito di più perché ritengo che egli abbia espresso il massimo possibile su questo brano. Se poi lei aggiunge che in più ha trovato nella mia esecuzione un aspetto di cantabilità, non posso che esserne compiaciuto, ma forse è un complimento fin troppo esagerato nei miei confronti.
Guardi, dopo anni di assedio da parte di giovani musicisti asiatici che suonano perfettamente tutto, ma che al tempo stesso fanno apparire banali i brani di repertorio più difficili, non trovo esagerata l'ammirazione per un esecutore che è capace di restituire alla musica un aspetto della sua umanità. Ma anche le esecuzioni da parte dei musicisti occidentali dell'ultima generazione, sembrano eseguire tutto con una brillantezza cristallina, talmente perfetta da sembrare finta, meccanica.
Oggigiorno, la qualità puramente strumentale ed esecutiva della musica non è cosa da poco, ma bisogna che il quadro sia completo. Sicuramente mi fa molto piacere che lei e il pubblico riconoscano un aspetto di completezza nella musica che suono, è uno dei compiti più difficili rendere musicali anche la parti virtuosistiche. E' uno dei complimenti più belli che si possano fare ad un musicista, in realtà noi suoniamo per la musica e non per la tecnica strumentale, di conseguenza intorno a tutto questo c'è un film, un'immagine, c'è un qualcosa che senza ombra di dubbio ha a che fare con l'immaginazione dell'ascoltatore, non solo dell'interprete e del compositore che ha voluto “sollevare l'immaginario attraverso i suoni”, di conseguenza, per me esecutore, la musica è sollevare l'immaginario, una riscoperta di immagini durante l'ascolto. Questa è una delle cose più difficili e complicate, se sono riuscito in questo anche in minima parte, per me è già un grande motivo di felicità.
Cosa c'è di russo e di italiano nel suo modo di suonare?
C'è moltissimo di tutte e due le scuole, diciamo che io mi considero un musicista russo, con una formazione sovietica e anche europea, grazie all'abbattimento delle frontiere di questi ultimi anni. Musicalmente devo moltissimo al M° Accardo, con cui ho studiato 7 anni, ma prima ho frequentato il Conservatorio di Mosca, una delle scuole violinistiche migliori del mondo e tra le più severe, dopo tanti anni di studio finisci con lo scoprire che il migliore maestro è quello che giorno dopo giorno ti consente di scoprire te stesso e la tua arte. La vera arte inizia nel momento in cui la tecnica scompare, l'arte non è che un pensiero che ha a che vedere con la sezione aurea dei pitagorici, una sorta di perfezione geometrica a cui bisogna arrivare per poi abbandonare, mantenendo le forme che sono state concepite non da noi umani, ma qualcuno più grande di noi. Noi siamo cacciatori della perfezione, la perfezione della bellezza, cacciatori della bellezza. Questo, in due minuti di discorsetto è più o meno il nostro scopo di vita.
Quali sono i suoi compositori preferiti?
E' una domanda che mi viene rivolta spesso, io non ho compositori preferiti, amo tutta la bella musica e mi è difficile confrontare Beethoven o Bach con la musica di Shostakovich, questo mi è difficile perché ogni compositore appartiene alla propria epoca ed è portatore di emozioni e valori tipici dell'epoca in cui vive. In ogni caso devo eseguire il brano nel migliore dei modi cercando di capire il messaggio che il compositore ha voluto lasciare in tutti i generi di musica, perché paragonare, ad esempio, l'impressionismo francese con la musica di Paganini? entrambe sono forme di pensiero straordinarie e danno sensazioni uniche, perciò è difficile esprimere preferenze.
Allora cambio domanda: cosa pensa del concerto per violino di Beethoven?
Guardi, quello di Beethoven è il concerto per violino forse più bello e più difficile, per me è il concerto per violino per eccellenza, il fondamento di tutto, che racchiude in sè tutta la vita di un uomo.
Quale cadenza preferisce per il concerto per violino di Beethoven?
Guardi, questa è un'altra bella domanda. La cadenza che eseguo l'ho scritta io.
Si è forse ispirato a Kreisler?
No, la mia cadenza in realtà non si è ispirata a nessuno, anzi, l'ho scritta così, anche abbastanza breve perché non voglio disturbare Beethoven.
A cosa pensa quando suona?
Non faccio altro che tentare di portare a termine una mia missione, quella che mi ha portato ad essere presente sul palcoscenico del teatro in cui sto suonando. Questo è già sufficiente a consumare tutti i miei pensieri.
Lei ha mai avuto paura del pubblico?
Ho paura di dirlo, fino a ieri mai.
Sa perché le ho fatto questa domanda? perché in vita mia ho conosciuto moltissimi bravi musicisti. Una buona metà di loro però si sono visti la carriera rovinata a causa della paura del palcoscenico. Il problema è che mi è sembrato spesso che non ne fossero molto consapevoli, al punto da non ammetterlo nemmeno a se stessi.
A mio parere dipende molto da quando si è iniziato a suonare. La prima volta che sono salito su un palcoscenico avevo sei anni, da quel momento non so quanti concerti sono riuscito a suonare fino a ieri. Non parliamo del domani perché non si sa mai cosa può succedere, ma comunque fino a ieri è andato sempre tutto bene. Penso che il pubblico debba essere considerato come tale, una parte del “sistema”, senza il pubblico tutto questo non avrebbe senso. Il pubblico è il punto finale del nostro lavoro, esso rappresenta un grosso stimolo a far sì di suonare il meglio che si può. Se si ha davanti un pubblico esigente ed attento a tutto ciò che si suona, questo non può che essere positivo e che non fa altro che caricare le mie batterie interiori.
Lei ha mai sbagliato durante un concerto?
Ovviamente sì, chi non ha mai sbagliato in vita sua?
Io però vorrei proprio sapere cosa succede quando capita di prendere una nota piuttosto che un'altra.
Non siamo mica delle macchine, è normale, può succedere. Ovviamente meno si sbaglia, meglio è. E poi ci sono errori di varia natura che possono essere piccoli o grandi, in questi ultimi anni mi pare di non averne commessi di così grossi.
Ho rivisto recentemente un video in cui lei suonava con Bruno Canino: grande pianista, grande accompagnatore, non trova?
Definire Canino un “accompagnatore” è assolutamente riduttivo, è sopratutto un grandissimo musicista che ha suonato insieme ai più grandi musicisti della musica contemporanea. Egli stesso è considerato unanimemente un grande musicista.
Anni fa lo vidi esibirsi insieme a Rocco Filippini e Mariana Sirbu nell'ensemble “Trio di Milano”, l'impressione che mi dette allora fu di grande fiducia e naturalezza.
Sicuramente un grande protagonista.
Maestro Krylov, quante ore al giorno riserva allo studio?
Non so esattamente quante ore, dipende molto dai programmi, in genere vado dalle 3-4 ore che in alcuni casi possono diventare anche 6-8 ore giornaliere.
Lei è uno di quei violinisti che studia fino all'ultimo minuto prima di salire sul palcoscenico?
Direi di no, sono molto tranquillo e a meno di non avere programmi pazzeschi da eseguire, cerco di essere il più fresco possibile il giorno del concerto, cerco di riposare bene e al limite di suonare un pochino.
Cosa pensa dei Conservatori italiani?
I Conservatori italiani possono migliorare molto, comunque stanno facendo un buon lavoro.
Cosa consiglia ai giovani musicisti?
Molto semplice: appena alzati, dopo aver fatto colazione ed essersi lavati i denti, sanno che li aspetta il loro strumento musicale. Finito il tempo da dedicare alla musica, poi possono dedicarsi ad altre cose.
Cosa mi dice di Bashmet?
Un musicista straordinario con cui ho avuto occasione di suonare più volte, è sempre una grandissima esperienza musicale suonare con lui. Abbiamo alcuni progetti da realizzare insieme nel prossimo futuro.
Si può sapere qualcosa di più a questo proposito?
Sono concerti in varie città dove suoneremo insieme e dove lui avrà anche la funzione di direttore.
Suonerete anche la Sinfonia Concertante di Mozart?
L'abbiamo già suonata insieme e la suoneremo ancora nel futuro.
Nel 2009 lei è stato nominato direttore dell'Orchestra da camera Lituana. Nel suo futuro c'è il progetto di abbandonare il violino a favore della direzione?
Questo assolutamente no, quella della direzione e il violino, sono due attività che vanno di pari passo e devo dire che sono stato molto fortunato ad essere stato chiamato a dirigere questa orchestra, ma tenga presente che oltre a dirigere io suono quasi sempre con loro.
Nel suo modo di suonare traspare sempre grande passione, virtuosismo non disgiunto da un buon grado modestia, si riconosce in queste impressioni?
Fortunatamente ho avuto vicino grandi personalità come Rostropovich, ma anche Bashmet stesso, che a me sono apparse come persone estremamente semplici, socievoli e pratiche. Esattamente il contrario di persone piene di sè. Se uno non sapesse chi era Rostropovich, conoscendolo anche nel privato, basterebbe dire che era una persona assolutamente “normale”, una normalità fatta di simpatia, apertura mentale e grande trasparenza. Questa è stata la mia impressione, la semplicità dei grandi, no? Ho sempre avuto ben presente che queste persone che ho conosciuto nel lavoro fossero severe e che pretendevano moltissimo per tutto ciò che riguardava la ricerca artistica, ma nel privato e in generale erano persone semplici come tutti i grandi personaggi dovrebbero essere.
Caro M° Krylov questa era l'ultima domanda, abbiamo finito. La ringrazio di cuore per il tempo che ha dedicato a questa intervista e spero di tornare presto a sentire lei e il suo violino. Finita questa chiacchierata cosa farà?
Continuerò a studiare il Concerto per Violino n° 2 che suonerò il prossimo 25 Settembre a Budapest.
Buon lavoro, Maestro!

Claudio Rampini intervista Sergej Krylov ( 2 settembre 2010)

domenica, ottobre 17, 2010

Gustav Mahler: Das Lied von der Erde

Se la Terza di Brahms è una Sinfonia fuori dalla norma, a maggior ragione Das Lied von der Erde (Il canto della Terra) costituisce un caso a sé. Il sottotitolo recita "Sinfonia per contralto, tenore e orchestra da "Die chinesische Flöte (Il flauto cinese) di Hans Bethge", ma la discussione se si tratti di una Sinfonia o piuttosto di un ciclo di lieder è tuttora aperta.
Mahler sembra sia stato molto superstizioso, sicché temeva che, dato il suo stato di salute decisamente compromesso, non sarebbe riuscito a superare il numero fatale per un sinfonista, ovvero nove (la numerazione delle Sinfonie di Schubert arriva talvolta a dieci, ma solo contando due opere frammentarie, oltre alla cosiddetta Incompiuta, sicché anch'egli, come Beethoven, in realtà non scrisse più di nove Sinfonie, come del resto anche Dvorák). Già il suo maestro Anton Bruckner non era riuscito a terminare la sua nona (in compenso esistono due Sinfonie giovanili), e Mahler non poteva non tenere presente questa circostanza; egli perciò aveva escogitato un piano per ingannare il destino: non contava Das Lied von der Erde come Sinfonia (sarebbe stata, appunto, la nona) bensì come opera a parte, per cui aveva agio (per modo di dire, visti i suoi numerosi guai sia sul piano del lavoro come direttore a New York, sia sul piano affettivo) di comporre una nona Sinfonia che in realtà sarebbe stata già la sua Decima. Quando poi si accinse a scrivere una Sinfonia effettivamente contata come Decima, essa tuttavia fatalmente rimase incompiuta a causa della sua morte prematura (egli riusci a completarne il solo Adagio iniziale).
Sinfonia sui generis, dunque, Il canto della terra, composto fra l'autunno del 1907 e il 1908, nacque in quello che probabilmente fu il peggior momento di tutta la vita di Mahler: le polemiche della stampa viennese (specie quella apertamente antisemita) avevano portato nella primavera del 1907 alle sue dimissioni dal posto del direttore generale della Hofoper, che lasciò con un'ultima recita di Fidelio (15 ottobre 1907); nell'estate era morta di difterite la figlia maggiore Maria Anna, il che gli aveva provocato un crollo psico-fisico; quando si cercò di rimetterlo in sesto i medici gli diagnosticarono un male incurabile al cuore (che in effetti lo avrebbe portato alla tomba meno di quattro anni dopo); infine il matrimonio con Alma Schindler, bella e intelligente, anch'essa musicista raffinata, una delle donne più desiderate dell'impero austroungarico, era entrato definitivamente in crisi. In questo momento di profonda angoscia Mahler volse il suo pensiero ancora alla letteratura, trovando in un'antologia di poesie cinesi pubblicate da Hans Bethge con il titolo di Die chinesische Flöte (Il flauto cinese) qualcosa che potesse fare sia da contraltare alla sua crisi esistenziale, sia anche, volendo, da 'cassa di risonanza'.
I gusti letterari di Mahler erano piuttosto eterogenei: egli, infatti, accanto ai classici, da Tirso de Molina a Goethe, da Klopstock a Rückert a Nietzsche, amava molto la poesia popolare (o anche popolareggiante), sicché compose parecchi lieder su testi dell'antologia romantica Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), curata da Achim von Arnim e Clemens Brentano, ma anche su testi propri, scritti in uno stile pseudopopolare.
L'interesse per l'estremo oriente sembra però sia da considerarsi una novità nella vita di Mahler; viceversa non lo era nella storia della cultura occidentale, perché negli ultimi decenni dell'ottocento il Giappone era diventato un paese alla moda.
Da quando nel 1853 un manipolo di navi americane forzò il blocco all'occidente (a parte i cinesi, dal 1641 al 1854 i soli olandesi ebbero il permesso di svolgere attività commerciale in Giappone, limitata peraltro a Nagasaki), ebbe termine l'isolamento dell'arcipelago autoimpostosi nel 1637/38. Nei decenni successivi, i più svariati oggetti giapponesi (e molte copie occidentali) invasero i mercati europei, in primis quelli francesi, da cui lo japonisme si diramò nel resto del mondo. Madame Chrysanthème di Pierre Loti (lo pseudonimo con cui Julien Vaud, scrittore entrato nell'Académie Française nel 1891, pubblicò i suoi numerosi libri d'ambientazione esotica) uscì a puntate sul Figaro nel 1887 e in volume l'anno seguente: questo romanzo - tradotto anche in tedesco (1896) e in italiano (1908) - per molto tempo costituì una sorta di breviario europeo a uso popolare degli usi e costumi giapponesi: la storia di una geisha sposata a tempo a un ufficiale di marina francese, musicata da André Messager (Paris 1893) e più tardi riccheggiata dalla più celebre Madama Butterfly di Puccini (Milano 1904) sembra abbia ispirato a Luigi Illica più di un dettaglio del suo libretto di Iris, intonata da Pietro Mascagni nel 1898.
Alla esposizione Universale di Parigi del 1889 (quella rimasta celebre per la costruzione della Torre Eiffel) si esibirono dei musicisti indonesiani, suscitando l'entusiasmo non passeggero di Debussy, che avrebbe impiegato scale esatonali (a toni interi) in molte delle sue opere a venire. Da La princesse jaune di Camille Saint-Saéns (Paris 1872) e The Mikado di Sir William Schwenck Gilbert e Sir Arthur Seymour Sullivan (London 1885) a The Geisha di Sidney Jones (London 1896) e Das Land des Lächelns (Il paese dei sorrisi) di Franz Lehár (Berlin 1929) è tutta una fioritura di titoli teatrali ambientati in Giappone; ricordare la Turandot gozziano-pucciniana (completata da Franco Alfano e rappresentata a distanza di un anno e mezzo dalla morte dell'autore alla Scala di Milano nel 1926) è quasi superfluo, ma non va dimenticato nemmeno un amico di Mahler, Alexander Zemlinsky (1871-1942), che poco dopo si sarebbe fatto tentare da Der Kreidekreis (Il cerchio di gesso, 1925) di Klabund (pseudonimo di Alfred Henschke, 1890-1928), a sua volta basato su un dramma cinese del XVIII secolo; l'opera di Zemlinsky sarebbe stata rappresentata nel 1933 a Zurigo.
Il Premio nobel per la letteratura nel 1913 venne conferito a uno scrittore indiano, Rabindranath Tagore (1861~194 1): insomma, tra otto e novecento le culture orientali godevano di grande popolarità nei salotti francesi e mitteleuropei.
Mahler, ricorrendo a poesie classiche cinesi, tradotte e adattate da Hans Bethge, non indugiò tuttavia su un orientalismo di maniera; gli elementi musicali che eventualmente potrebbero essere identificati come asiatici sono assai pochi: salta all'occhio l'inizio del terzo lied, Von der jugend, laddove ai legni (flauti, oboe, clarinetti) spetta qualche figurazione similpentatonica (fa-sol-si bemolle-do-re), ma si tratta di momenti episodici. Quel che interessa davvero a Mahler è il lato direi mistico delle poesie: apparentemente semplici, cantano la gioventù, l'amicizia, la natura, le stagioni (primavera e autunno), ma in realtà in esse si manifesta un micro (o piuttosto macro) cosmo che giustifica appieno il titolo di Canto della terra.
Tra gli autori, infatti, si conta il maggior poeta classico cinese, Il T'ai Po (altre grafie in uso sono li Bo, li Taibo, li Tai-peh), nato intorno al 700 e scomparso nel 762 o 765; inoltre Wang Wei e Meng Hao-jan, tutti più o meno contemporanei, nonché il più tardo Chang Chi.
La veste strumentale come sempre assai curata e la qualità dell'invenzione melodica dei primi cinque lieder ne fanno alcune delle più sentite creazioni di Mahler, che aveva previsto, accanto al tenore, cui spettano il primo, il terzo e il quinto lied, in alternativa al contralto anche il baritono, cui toccano i restanti tre, quelli pari. Bruno Walter alla prima assoluta, postuma, avvenuta il 20 novembre 1911 a Monaco di Baviera, aveva scritturato un contralto, Sara Jane Cahier; alla prima viennese, sempre diretta da Walter (1912), cantò invece un baritono, ma questa scelta timbrica è stata condivisa da pochissimi interpreti.
Senza dubbio l'epicentro spirituale e musicale del Lied von der Erde è tuttavia l'ultimo brano, Der Abschied (L'addio), che da solo occupa ben cinquanta delle centoquaranta quattro pagine della partitura dell'Universal-edition e la cui esecuzione dura all'incirca ventotto minuti.
Fin dalle prime battute il clima si fa ancor più desolato: il motivo dolente dell'oboe, basato su un gruppetto, fa da controccanto alla voce scura del contralto che narra dell'abbandono da parte del sole, da cui nasce uno dei momenti più struggenti della storia della musica. L'icasticità dell'abbinamento testo-musica è ancor più mirabile se si tiene presente che Mahler combinò due poesie in origine separate, di due poeti diversi: ne nacque però un tutt'uno omogeneo nella sua assoluta essenzialità. A tratti si fa musica da camera (Es wehet kühl), con la riduzione dell'organico a pochi solisti (nella fattispecie, oltre al contralto vi si ascolta il solo flauto su un pedale del contrabbasso), laddove poche battute dopo trova spazio anche il mandolino, in un momento assai aereo, ma riemerge sempre il motivo iniziale dell'oboe a fare da collante, cui si aggiunge il corpo degli archi, mai trattati, se possibile, con simile umana partecipazione e quasi fisica simpatia, nel senso di sofferenza comune. Mai il pathos fu meno patetico.
Un grande direttore alcuni anni fa propose l'esecuzione separata (peraltro mirabile) di Der Abschied, abbinato alla nona Sinfonia dello stesso Mahler. A mio modesto avviso fu una scelta infelice: dopo L'addio non si può suonare altro, oltre la metafisica non può che seguire il nulla.

Johannes Streicher (Festspiele Südtirol 2010)

lunedì, ottobre 11, 2010

Hans Knappertsbusch: capitani coraggiosi

Oggi nei manifesti, nelle locandine, nei programmi di sala del teatro musicale leggiamo, in posizione dominante rispetto agli altri partecipanti allo spettacolo, il nome del direttore: "Direttore, Giovanni Tizio". Qualche volta, specie in provincia, troviamo una dizione leggermente diversa: "Direttore Maestro Giovanni Tizio". Se andiamo indietro di cent'anni troviamo "Maestro concertatore e direttore d'orchestna Giovanni Tizio". E, non di rado: "Cav." o "Comm. Giovanni Tizio". Se andiamo indietro di centocinquant'anni troviamo: "Maestro concertatore Giovanni Tizio, Direttore Giovanni Caio". Quindi, in origine, avevamo il concertatore e il direttore, poi le due funzioni vennero assunto dalla stessa persona, infine la funzione del "direttore" assorbì la funzione di "concertatore", Un po' come se, in una società per azioni, il signor Sempronio fosse "presidente e amministratore delegato", e poi ci fosse solo più l'amministratore delegato che fa anche, senza bisogno di specificazioni, il presidente. Il teatro niusicale è del resto ricco di funzioni e di denominazioni che variano col variare dei tempi. Una volta avevamo il regista che faceva anche le luci, oggi abbiamo - spesso, non sempre - il regista e il light designer, il "disegnatore luci". Talvolta il signor Tale fa "scene e costumi", talvolta le scene le fa il Tale e i costumi il Talaltro. Il coro viene preparato dal "maestro del coro" e viene diretto dal "direttore", ma in un concerto corale a cappella il "maestro del coro" diventa "direttore del coro". Il "maestro della banda" è colui che prepara la banda, diretta poi, in palcoscenico, dal "direttore muisicale di palcoscenico". Ma, mi obbietterà il lettore, il "direttore", quello che sta di fronte all'orchestra, non dirige tutto lui, orchestra, cantanti, coro, e quindi anche la banda? Errore, ingenuità. La banda che sta dietro le scene deve "anticipare" rispetto all'orchestra, altrimenti, dato che il suono viaggia ad una velocità modesta (trecentoquaranta metri al secondo), la musica della banda sarà sfasata rispetto alla musica dell'orchestra. E chi le dà l'"anticipo" alla banda'? Il direttore musicale di palcoscenico, che guarda il direttore d'orchestra nel televisore, e che un tempo lo guardava da un forellino nelle scene. Quindi, il direttore d'orchestra dirige il direttore musicale di palcoscenico che dirige la banda. Ma, mi obbietterà di nuovo il lettore zelante, come può il direttore dirigere uno che lo "anticipa"? Eppure è così: il direttore musicale di palcoscenico prevede quel che farà il direttore d'orchestra e se il direttore d'orchestra non è coerente la banda va a gmbe all'aria. Allora il direttore d'orchestra chiama immediatamente il direttore musicale di palcoscenico, se si è in prova, o lo chiama in camerino alla fine dell'atto, se si è in..recita, e lo apostrofa dicendo: "che è successo, maestro mio?". Il direttore musicale di palcoscenico si scusa, sebbene la responsabilità non sia sua, borbottando "sa, mi sono distratto perché un corista è passato dove non doveva, mi scusi, mi scusi proprio, non succederà píù"! Ottiene il perdono e va a sfogarsi con un altro direttore, il direttore artistico: "Se lei scrittura ancora questo qui io mi dò malato, lo giuro: non si può sbacchettare a questo modo e poi chiedermi conto di errori non miei". "Ma lasci perdere, lo sa come sono certi direttori". "Questo qui non è un direttore: buon musicista, ma come direttore un p...". "Via, non esageri". "Ma se lo dico io, che ho trent'anni di palcoscenico sul groppone: un fior di p...".
Quanti direttori, dirà il lettore. E' sempre sato così? Non è sempre stato così. Un tempo c'erano meno direttori, e quindi meno maestri, perché i direttori devono essere chiamati "maestro". Si racconta che un celeberrimo direttore veneziano entrò una volta in un grande teatro, in cui metteva piede per la prima volta, accompagnato dal capo ufficio stampa. Il quale, procedendo dalla portineria verso il camerino del direttore, incontrava un sacco di gente e salutava con "buongiorno maestro, mi permetta, maestro (rivolto al direttore), di presentarle il maestro..:". Quando finalmente arrivarono nel camerino, il direttore veneziano disse: "Quanti maestri avete qui. A mi, per favor, la me ciami - chiedo scusa al lettore, ma devo riferire, la frase come fu pronunciata - mona".
Torniamo ab ovo, cioè al concertatore e al direttore. Concertatore è colui che concerta. Concertatore, è termine antico che oggi, al di fuori della musica, viene usato solo più nel burocratese: "Il Ministro della Pubblica Istruzione, di concerto con il "Ministro del Vattelappesca, ha stabilito che...".
Nel linguaggio comune non si "concerta" più ma si "coordina".
E il compito del concertatore, in linguaggio di oggi, era di coordinare i cantanti che prendevano parte all'esecuzione, Altrimenti i cantanti litigavano sui "tempi", sul "rallentando", sull'"accelerando" e così via. Un signore a cui si riconosceva, per lo meno in linea di principio, una superiore autorità, coordinava gli interventi del cantante X e del cantante Y, cioè concertava. Una volta concertato il concrtabile portava la compagnia in orchestra e la consegnava al direttore, il quale aveva preparato l'orchestra e che, da quel momento in poi, "batteva il tempo" per tutti quanti, per l'orchestra, per i cantanti, per il coro, per la banda, per le comparse che non dovevano marciare a pecorone. Il concertatore sedeva però vicino al direttore e suonava il clavicembalo, e più tardi il fortepiano, nei recitativi. Proprio a causa della progressiva abolizione dei recitativi "secchi", cioè non accompagnati dall'orchestra, decade la figura, del concertatore. Nello stesso tempo la complessità delle partiture esclude dalle funzioni di direttore il primo violino, che in genere dirigeva lui, sospendendo di suonare in certi momenti. Qualcuno dei miei lettori ricorderà i concerti di Capodanno dei Filarmonici di Vienna diretti da Willy Boskowski, che dei Filarmonici era il primo violino e che, dopo aver accennato lo stacco di tempo coll'archetto, suonava. Fin verso la metà dell'Ottocento accadeva in genere così, anche nelle opere. Poi il primo violino si limitò a fare il primo violino e non più il direttore. Venne compensato con la denominazione "primo violino di spalla". Oggi la "spalla", in verità, è l'aiutante del comico, ma in musica si è attaccati alle tradizioni e la "spalla" è un personaggio importante, a cui si riconosce la retribuzione massima di tutta l'orchestra. Non sembra, ma concertare e dirigere sono due funzioni distinte che richiedono attitudini distinte e distinte professionalità. Il concertatore lo si vede alla "prova", che gli stranieri chiamano, in modo più appropriato, "ripetizione". La prova consiste di due fasi diverse, la "lettura" e la "concertazione". Durante la lettura il direttore si limita a verificare che si suonino tutte le note, pulite, e che si sappia suonarle al tempo voluto. E' questa una fase che con orchestre di altissima professionalità - i Filarmonici di Berlino o di Vienna, l'Orchestra dell'Opera di Vienna, l'Orchestra del Metropolitan e tante altre - non esiste nemmeno, ma che esiste con tutte le orchestre che siano un gradino sotto. In certi casi si fa anche prove di lettura "a sezioni" (gli archi da soli, i fiati e le percussioni da soli) o addirittura "a sottosezioni" (i soli primi violini, i soli ottoni, ecc.). E qui si comincia a vedere la tempra del direttore, perché c'è chi gli errori non proprio grossolani non li sente, c'è chi li sente ma non sa a chi attribuirli, e c'è chi sente tutto e sa scovare gli incauti. I direttori della prima specie non fanno volentieri le letture, e le lasciano invece volentierissimo agli assistenti, quelli della seconda specie cominciano con le prove a sezioni, che restringono gli accadimenti, quelli della terza specie iniziano con letture a orchestra completa e passano poi alle prove a sezioni.
Le tre specie non sono ordinate gerarchicamente. Furtwängler, ad esempio, sentiva molto poco. Uno strumentista dell'orchestra della Scala mi raccontò che un oboista, durante um prova, non poteva suonare alcune note per un guasto del sistema di chiavi. Nell'intervallo andò a scusarsi con Furtwängler: "Sa, maestro, non posso fare il re e il si perché, ecc.". "Ah", fece Furtwängler", che non si era accorto di niente. All'opposto, ho visto -un assistente iniziare la prima prova di un'opera del Novecento, molto difficile, con un'orchestra, svogliata. Dopo dieci secondi l'assistente si fermò. Non inveì, non disse "suonate come si deve, lazzaroni", ma cominciò con calma: "Il secondo clarinetto ha suonato la tal nota invece della talaltra, il quarto corno cresceva qui, il primo fagotto calava là, i primi violini hanno sporcato il semitono in quel punto", e così via. L'orchestra si sentì come frustata, e ci mise tutto l'impegno possibile.
Dopo le letture arriva la concertazione. La dinamica, salvo poche eccezioni, è fissata uniformemente. su tutte le parti: tocca. al concertatore, che ha analizzato il testo, stabilire i livelli effettivi, cioè creare delle differenze, minime ma fondamentali, là dove c'è uniformità ' - Poi il concertatore spiega e fa realizzare il "fraseggio", la declamazione del testo, con le sue accentuazioni e con le sue ondulazioni lievissinie di tempo. Infine subentra il direttore, che fa eseguire porzioni sempre più estese del pezzo. La "prova generale" è già un'esecuzione definitiva, anche se al termine può esserci qualche ritocco di concertazione.
Il vero direttore non vien fuori però nemmeno nella prova generale, ma solo nell'esecuzione pubblica, nella quale una larga fetta di ciò che è stato studiato rimane inalterata e, una piccola fetta risulta del tutto imprevista La presenza degli spettatori crea una tensione nuova, che il direttore deve saper governare.
E qui, ad esempio, Fuitwängler era imbattibile, mentre in fase di lettura e di concertazione era secondo a parecchi. E qui era oressoché imbattibile Hans Knappertsbusch. Knappertsbusch era fermamente legato alle tradizioni interpretative della cultura tedesca ed era abituato a lavorare in teatri o presso istituzioni sinfoniche con programmazioni a repertorio e con folte preve di assistenti.
Quella larga fetta sicura gli andava quindi bene così com'era sempre con qualsiasi direttore di tradizione. E quell'altra fetta non sicura, in cui lui si muoveva da dominatore, non poteva averla che all'esecuzione pubblica. Perciò, in pratica, provava meno che poteva, o per niente.
Una volta venne in Italia per dirigere due Sinfonie di Beethoven. Provò qualcosa qua e là, e mandò tutti a casa (il direttore stabile, si capisce, aveva prima preparato l'orchestra). Knappertsbuch cominciò il concerto con l'Eroica. Ma alla prova non aveva detto se intendeva fare o non fare il ritornello del primo tempo. Così, alla barra del ritornello, metà orchestra tornò da capo e metà andò avanti, con il risultato che Knappertsbusch dovette fermare lßesecuyione. "Da capo senza ritornello", disse in italiano con fortissimo accento tedesco. E poi, in tedesco, tra sé e sé, ma abbastanza forte da asere udito: "Quella prova di m...".
Nel concerto a Lugano che pubblichiamo Knappertsbusch avrà borbottato qualcosa anche di peggio all'inizio della Seconda Sinfonia di Brahms. Capitò l'imprevisto, e lui, per una volta tanto, non riuscì a dominarlo. Per tutto il resto della serata fu degno della sua fama di capitano di lungo corso che, senza cercare rotte nuove, sa, in una rotta conosciuta, far fare ai suoi passeggeri un viaggio meravigliosamente emozionante, anche se non si è preoccupato della pulizia dei motori.
Piero Rattalino
(1995 Ermitage)

martedì, ottobre 05, 2010

I Musici: a trent'anni dal buon suono antico

Alla fine del 1991 l'Ermitage pubblicava un'esecuzione delle Quattro Stagioni di Vivaldi, diretta da Bernardino Molinari con gli archi dell'Accademia Nazionale di S. Cecilia. In quella circostanza cercai di spiegare com'era nato in Italia, su quali motivazioni culturali e anche in quali circostanze politiche, il culto di Vivaldi. Riprenderò ora, completandolo, il discorso. Prima di Bernardino Molinari e di Alceo Toni, direttori d'orchestra, Vivaldi era stato appannaggio dei violinisti, che ne eseguivano alcune pagine in versione per violino e pianoforte collocandole nel settore dell'"antico" con cui usavano aprire i loro recitals. Di questo settore non faceva parte soltanto Vivaldi: gli tenevano compagnia Corelli, nume tutelare del violinismo italiano barocco, e Tartini, Pugnani, Geminiani, Nardini, Tomaso Vitali, Valentini, ecc. ecc.. Le revisioni e trascrizioni di Tivadar Nachéz, ungherese, nato nel 1859 e che suonò in pubblico fino al 1926, lanciarono una moda e furono onorate da tutti i violinisti. Se pensiamo che il Nachéz fu anche autore di due celebrati fascicoli di Zigeunertänze, Danze tzigane, possiamo possiano immaginare da quale angolo egli osservasse Vivaldi o Geminiani o Tartini. E se pensiamo che i pastiches di Fritz Kreisler nello stile Pugnani e di altri non destarono per parecchio tempo alcun sospetto, possiamo capire come il pubblico si divertisse - è il caso di dirlo - con quei simpaticoni del periodo barocco che sembravano i profeti della belle époque e presso i quali veniva scoperta musica che non sarebbe stata fuor di luogo nei vaudevilles parigini o nelle operette viennesi.
Con Bemardino Molinari le cose cambiano. In meglio, per quanto riguarda la ricerca della fedeltà storica, necessariamente per quanto riguarda gli esiti artistici. Perché i "falsi" Kreisler sono tali solo in senso filologico ma non presentano pecche estetiche, e meno che mai quando sono da lui eseguiti.
Ho già cercato di spiegare le motivazioni culturali da cui muovevano Alceo Toni e Bernardino Molinari. Ad essi si aggiungono prima della guerra Alfredo Casella, che però si occupa soprattutto del Vivaldi sacro, e nel dopoguerra Gianfrancesco Malipiero, che comincia a pubblicare sistematicamente le opere strumentali. Si conclude cosà il lavoro della "generazione, dell'"Ottanta" e arriva Renato Fasano, nato nel 1902, che dopo la cacciata di Bernardino Molinari, compromesso con il fascismo, lavora dal 1944 al 1947 come direttore artistico dell'Accademia Nazionale di S.Cecilia.
Nel 1948 Fasano fonda il Collegium Musicum Italicum, che dal 1952 prcsenta il suo complesso strumentale sotto il nome più "americano" di I Virtuosi di Roma.
Fasano riprendeva un'idea che era stata lanciata nel 1939 da Adriano Lualdi, direttore del conservatorio di Napoli e fondatore dell'Orchestra da camera del Conservatorio di Napoli, formata da professori del conservatorio stesso. Dal 1939 al 1943 il Lualdi aveva assicurato alla sua orchestra un'attività concertistica intensa, in Italia, ma anche nella Germania alleata e nella Francia occupata. Una manna per i professori del conservatorio, che venivano gratificati artisticamente, guadagnavano, e non dovevano trepidare nel richiedere permessi perché i permessi glieli organizzava anche pro domo sua, il loro capo di istituto e direttore del complesso. Il Lualdi si occupò specialmente di compositori barocchi napoletani, e puntò in particolare su Francesco Durante, che grazie all'Orchestra da camera dei Conservatorio di Napoli, acquistò una certa fama. Renato Fasano formò il suo complesso con strumentisti che in gran parte insegnavano in vari Conservatori. Abilissimo nell'organizzare le tourneés, molto introdotto nei Ministeri dell'Estero e della Pubblica Istruzione, autentico autentico mastino che sapeva porsi obbiettivi raggiungibili e non demordeva finché non li aveva raggiunti, Renato Fasano portò i suoi Virtuosi in tutto il mondo, ebbe a New York un solenne benedicite di Toscanini e creò fanatismi intorno a Vivaldi e ad alcuni compositori del barocco italiano, a cominciare da Albinoni.
I Virtuosi di Roma suonavano strumenti montati m modo moderno; per qualche, anno impiegarono per il continuo il pianoforte, poi lo sostituirono con il clavicembalo: clavicembalo - vada sè - moderno. Il passo in avanti che essi compirono rispetto a Bernardino Molinari fu di non usare trascrizioni o adattamenti ma di rifarsi ad edizioni testualmente attendibili e di rifiutare le grazie e i languori, che erano state le delizie della belle époque in favore della vitalità e del vitalisino ritmico. Suono brillante ma corposo e arco che correva rapido negli allegri, espressività intensissima ma contenuta negli adagi. Questa idea del barocco non era figlia né della storia né della filologia, ma dello Stravinsky neoclassico: l'ideale sonoro, in senso lato, era quello del Concerto per violino, eseguito magari da David Oistrach. E i Virtuosi di Roma, che coglievano sagacemente un momento di evoluzione del gusto del pubblico, dominarono la vita concertistica internazionale con i loro Vivaldi e soci, mentre l'Orchestra da camera di Stoccarda diretta da Kart Münchinger la dominava nel repertono bachiano.
I Musici, che nascevano come gruppo nel 1952, seguivano la scia dei Virtuosi di Roma. Felix Ayo, il loro primo violino, era anzi allievo di Remy Principe, che sedeva allora al primo leggio dei Virtuosi, e i Musici erano un po' i Giovani Virtuosi di Roma, i cadetti. Così per lo meno, furono visti dal pubblico, che li adottò come si adottano le mascottes. I Musici seguirono poi, almeno in parte, un loro cammino, che li portò ad affrontare Bach e Händel, Mozart (alcune splendide incisioni di Divertimenti e Serenate), Haydn e Rossini, autori del Novecento (Britten, Bucchi, Hindemith, Martin, Roussel), e persino il tardo novecento con il Carl Nielsen della Little Suite op.l. Più complesso d'archi aperto verso un repertono differenziato, dunque, che ambasciatore nel mondo del barocco italiano. Nel concerto di Lugano che ascoltiamo nel disco i Musici si presentavano però come i cadetti dei Virtuosi di Roma, con una programma interamente setecentesco che culminava in Vivaldi. Tipico di quegli anni è l'inserimento di un compositore preclassico - o rococò che dir si voglia - in un contesto barocco. Il Concerto in do maggiore di Giovanni Paisiello fu composto verso il 1780, quando Mozart aveva già scritto parecchi dei suoi concerti, compreso il K 271, ed è un'opera "leggera", adatta al gusto dei dilettanti e più ancora, come si diceva a quel tempo, del beau sexe. La sua storia è curiosa. Dopo essere circolato manoscritto nel Settecento venne completamente dimenticato. Attilio Brignoli, nel clima di esaltazione nazionalistica che era esploso dopo gli studi di Fausto Torrefranca sul Settecento clavicembalistico italiano, lo pubblicò in una trascrizione per pianoforte molto elaborata e nettamente più antiquata delle trascrizioni vivaldiane di Bemardino Molinari. Adriano Lualdi lo ripubblicò in un'edizione più "pulita" e lo portò in giro con la sua Orchestra da camera del Conservatorio di Napoli affidandolo al pianoforte. I Musici lo ripresero nella versione del Lualdi ma con il clavicembalo moderno.
Oggi, naturalmente, si darebbe la preferenza ad un fortepiano viennese, oppure ad un clavicembalo del tardo Settecento, magari con saltarelli "armati" in cuoio invece che in penne di corvo. La scelta dell'uno o dell'altro strumento dipenderebbe da motivazioni stilistiche, cioè da scelte interpretative indirizzate verso la messa in luce, rispettivamente, degli elementi di relativa novità o di tradizione barocca del Concerto. Negli anni Sessanta queste concezioni critiche non erano ancora maturate e il clavicembalo, moderno, veniva impiegato in contrapposizione all'uso tutto-fare che nella prima metà del secolo si era affidato al pianoforte. Così, ad esempio, il clavicembalo era di rigore non solo per una scrittura in realtà ambivalente come quella di Paisiello ma anche in contesti, come il Barbiere di Siviglia di Rossini, in cui risultava chiaramente anacronistico. E oggi, ad ascoltare il Concerto di Paisiello sul clavicembalo moderno, si ricava sì l'impressione di una testimonianza su un momento importante della nostra storia culturale, ma ancor più di un buon tempo antico in cui non si andava tanto, per il sottile e ci si tuffava nel Settecento con la fresca ingenuità dei neofiti. Oggi non è più così. Oggi siamo diventati adulti, o per lo meno più attempatati, e certamente più consapevoli. Ma la musica antica "leggera" come quella di Paisiello, non abbiamo più occasione di ascoltarla.

di Piero Ratialino (Ermitage, 1993)