Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, novembre 22, 2015

Mario Martinoli: The well-Tempered Scarlatti

Et'cetera KTC 1915 (1 CD)
Davvero interessante l’idea del clavicembalista Marlo Martinoli di proporre venti Sonate scarlattiane applicando il criterio adottato da Bach ne Il clavicembalo ben temperato e cioé quello di collegare i brani sulla base di un vero e proprio piano tonale, nel caso in questione adottando il circolo delle quinte, con l'alternanza di modo maggiore e modo minore (senza seguire, quindi, l'abbinamento a due a due come nelle copie manoscritte). Tale soluzione é stata suggerita dal fatto che nell’intero corpus sonatistico di Scarlatti sono impiegate ben 21 tonalità su 24, facendo ricorso quindi a tonalità piuttosto inconsuete nel panorama musicale dell’epoca, come nel caso di Fa diesis maggiore e minore, do diesis minore, si bemolle minore, si maggiore. E' stato messo a punto così un itinerario grazie al quale possono essere ascoltale (e godute) pagine non sempre presenti in altre antologie (pur non mancando le Sonate celeberrime, come la K 531), riservando all'ascoltatore delle autentiche, piacevoli sorprese: e il caso, ad esempio, delle Sonate K 426, K 67 e K 203, per citare due autentici gioielli, davvero imprevedibili nella loro scrittura non priva di arcane movenze e risonanze, ove anche le pause acquistano valenza espressiva e ove l’eloquio sembra svolgersi seguendo il filo di un pensiero proteso verso sentieri mai prima esplorati. La proposta risulta tanto più efficace grazie alla notevole varietà espressiva, dovuta proprio alla continua alternanza di tonalità maggiori e minori, alternanza capace di dar vita ad una non comune varietà di ombreggiature e di chiaroscuri. L`approccio esecutivo di Martinoli si avvale poi di soluzioni particolarmente efficaci, grazie all`ariosità dei fraseggi, al dosaggio sempre calibrati dei rubati (suggestivi, ad esempio, i rallentando, le sospensioni, le ineguaglianze), alla contrapposizione dei piani sonori, rendendo così particolarmente vivo e coinvolgente l’itinerario proposto. E' inoltre puntualmente evitata qualsiasi tentazione esteriormente esibizionistica, grazie anche ad una condotta agogica mai portata all’estremo e incline, per contro, alla valorizzazione della componente più assorta e introspettiva (mirabile al riguardo la resa delle tre Sonate sopra menzionate, alle quali vanno aggiunte almeno la delicata Aria in re minore K 32 e la meravigliosa Sonata in si minore K 87).
Alla notevole qualità del risultato ha contribuito anche lo strumento utilizzato: una copia di un Pascal
Taskin del 1769, caratterizzata da una timbrica limpida, ma al tempo stesso morbida e delicata. Ottimo anche il livello della registrazione ed interessanti le note di presentazione (in tre lingue) firmate dallo stesso solista.
 
Nella sua carriera musicale quale influsso hanno esercitato gli studi di ingegneria da lei affrontati?
Onestamente, nessuno: ho cominciato a suonare molto prima di iscrivermi all'università, ma certamente avere una seconda professione ha facilitato la mia carriera musicale perché ho potuto scegliere solo quello che mi piaceva, senza scendere a compromessi. Ecco perché mi sono sempre dedicato solo a progetti di mio interesse. Ho iniziato a studiare il pianoforte a 8 anni, poi a 13 l`ho abbandonato a favore del clavicembalo, ed erano anni in cui nessuno, in Italia, lo suonava, tanto che ho avuto per lunghi anni una formazione da autodidatta Si è scritto molto, certamente, del rapporto fra musica e matematica, particolarmente presente nella musica barocca: ecco, forse in quel senso c’è un collegamento fra i miei due ambiti di studio, e anche mio padre era ingegnere e suonava Bach!
Quali sono stati i criteri di base seguiti per la selezione e 1’esecuzione delle Sonate scarlattiane effettuata nel suo ultimo disco?
Tutto è partito dalla richiesta di un programma scarlattiano per un concerto a Reggio Emilia: all’inizio non volli accettare, perché si trattava di un autore che non mi interessava particolarmente e credevo ci fossero molti artisti che lo suonavano meglio di me. Poi però ho iniziato a lavorarci, dedicando molto tempo allo studio e alla lettura di almeno duecento Sonate: mi sono reso conto che la varietà cromatica di Scarlatti è un fattore su cui pochi riflettono, preferendo, in sede esecutiva, accostamenti a coppie, legati a fattori più esteriori, tanto che delle seicento composizioni si ricade sempre nelle solite 40. Ho voluto allora creare una sorta di Livre,
alla francese, con Sonate in venti tonalità (scartando La bemolle maggiore): ne esce un interessante caleidoscopio, di cui anche l’ascoltatore stenta ad accorgersi. E poi Scarlatti è furbo: all'interno delle Sonate ci sono modulazioni a tonalità molto lontane (ad esempio, da FA# a DO), e io ho amplificato questo "gioco" fino a costruire un intero programma, secondo un procedimento barocco, fino a creare un "Clavicembalo ben temperato" scarlattiano, fatto solo di Preludi! Per alcune tonalità la scelta era minima, per altre ricchissima: a quel punto ho pensato di creare una sorta di programma di concerto, Senza costruire una sorta di best of.
Ma qual è il legame fra la scrittura tastieristica di Bach e quella di Scarlatti?
Entrambi prendono il cembalo e lo portano alle estreme conseguenze, sfruttandolo in tutta la sua gamma, un fatto che, ad esempio, raramente 
è avvertibile nei francesi; l’altra analogia è che entrambi scrivono musica speculativa, perché le Sonate di Scarlatti sono scritte tutte in sette anni, con un atteggiamento simile al tardo Bach, quello dell’Arte della fuga e dell’Offerta musicale, musica non da concerto ma tutta rivolta al proprio interno.
Per l'esecuzione delle Sonate scarlattiane lei ha scelto uno strumento di fattura francese (la copia di un Pascal Taskin): per quale motivo?
Si tratta di uno strumento molto ricco di armonici aspri: Scarlatti è aspro, violento, non galante, urla molto, con pagine molto aggressive e con quel cembalo francese tutto questo viene assecondato e esaltato. Non si tratta di una scelta filologica, quindi, ma estetica.

Alla base del progetto ci sono alcuni modelli celebri?
Certo: deve sapere che io ho ascoltato Scarlatti per la prima volta tramite Walter (ora Wendy) Carlos al sintetizzatore Moog, e due di quelle Sonate che lui registrò sono nel mio CD come omaggio: quell`album si chiamava The Well-Tempered Synthesizer. Io tuttora ho questa idea di Scarlatti, un’idea particolarissima, anche se poi sono passato dal mondo colorato, super-orchestrato di Carlos al minimalismo, alla purezza di suono di Michelangeli, per approdare a Gustav Leonhardt, che ho ritenuto la via più convincente. E con Bach mi è successa più o meo la stessa cosa: un fatto che non potrebbe accadere con Händel, o tantomeno con Mozart.
Quali sono i suoi progetti discografici futuri?
Realizzo un CD in media ogni cinque anni, quando ho una buona idea o del materiale interessante: cosi sono nati i miei sei dischi. Certamente ho un sogno nel cassetto, per la vecchiaia, ossia incidere le Partite di Bach, ma solo se avrò qualcosa di nuovo da raccontare su quella musica.

 
Claudio Bolzan ("Musica", n.271, novembre 2015)

venerdì, novembre 13, 2015

King Crimson: la frontiera del rock

King Crimson
Robert Fripp, Tony Levin, Bill Bruford, Adrian Belew 
In oltre trent'anni di storia, Robert Fripp e soci hanno rivoluzionato la storia del rock con dischi memorabili, a partire dall'esordio di "In The Court Of The Crimson King". Risponde a dieci domande sulla storia di questa band Cesare Rizzi, uno dei massimi enciclopedisti italiani del rock, autore delle Enciclopedie Rock di Arcana e, oggi, degli atlanti rock di Giunti, tra i quali una recente "Guida al progressive".

1. Qual è il contesto musicale e culturale in cui nascono i
King Crimson? Avevano avuto altre precedenti esperienze?
Non è ancora chiaro se il
progressive sia evoluzione o involuzione della psichedelia, gli storici discordano, il pubblico pure. Sta di fatto che, negli USA come in Gran Bretagna, il rock del 1969 viva di luce psichedelica riflessa, ed è da quei riverberi che nascono i primi semi del progressive: non c’è più voglia di cambiare il mondo, rimane il desiderio di cambiare il rock, di conferirgli uno spessore artistico/culturale che prima non si conosceva. I King Crimson sono figli di quel periodo di transizione, cruciale per la musica e per la società, non arrivano da nessuna parte, non hanno esperienze artistiche di rilievo (l’album realizzato nel 1968 da Fripp con i fratelli Giles è più che trascurabile), ma hanno una carica sufficiente per proporre una musica nuova, rivoluzionaria, che non si appoggia ai comodi appigli del pop ma che anzi propone scelte coraggiose e controcorrente, tutt’ora insuperate.

2. A differenza di altre band di quel periodo come Procol Harum e Moody Blues, i King Crimson decidono di non attingere dalla musica classica e di superare anche i possibili legami del progressive con il jazz. Quali sono, allora, le influenze principali sulla loro musica degli esordi?
La scelta di base del progressive fu di combinare in vario modo musica e arte (art rock non a caso è il termine più spesso usato): un rock colto e intellettuale quindi, in contrapposizione al rock & roll di strada. Mentre gran parte delle band progressive aveva le tastiere in primo piano, il che significava per lo più jazz rock o rock sinfonico, Fripp propone un uso "progressivo" della chitarra, che non si ispira a precedenti esperienze, e che soprattutto non fa nessun tipo di revivalismo. Quella di Fripp è una vera frontiera progressiva, senza la diffusa pretenziosità del genere, che rivela comunque studi di avanguardia contemporanea e jazz, e anche qualche minimo residuo di cultura visionaria lisergica.

3. "
In The Court Of The Crimson King", il loro primo album, è rimasto anche il più memorabile. Quali sono le caratteristiche che rendono questo lavoro una "pietra miliare" della storia del rock?
Essenzialmente la perfetta combinazione tra le parti in gioco, tra la creatività di Fripp, l’espressività di Lake, la tecnica di McDonald, la poesia di Sinfield. E la straordinaria novità della musica: non solo un disco di rock progressivo, di chitarra e mellotron, ma uno dei più memorabili esordi di quegli anni, aggressivo, compatto, delicato, poetico.

4. E' vero che con la nascita del movimento progressive la scena britannica si svincolò dalla "dittatura musicale" degli Stati Uniti, trovando proprie originali forme d'espressione?
È vero che il
progressive fu musica esclusivamente inglese (ed europea), e che la cosa fu vista come un tentativo di svincolarsi dalla predominanza americana. Anche il beat, anni prima, è stata musica molto inglese, con profonde radici, però, nella musica nera americana. La grande diffusione europea del progressive, e la sua minima notorietà negli Stati Uniti, credo siano più che altro dovute a problemi di predisposizione "culturale" all’ascolto. Il pubblico americano, notoriamente di gusti facili, non avrebbe comunque mai accettato scelte musicali troppo complesse o pretenziose, quindi va da sé che il progressive non trovò sbocchi a occidente, mentre li trovò, per esempio, da tutt’altra parte, verso terre tradizionalmente non rock, nell’Est Europeo, in Giappone.
Più che un moto indipendentistico della scena britannica, andrebbe però sottolineato quanto il progressive ha significato per la musica non inglese in generale: sono quelle realtà musicali "terzomondiste" che per la prima volta trovano una loro originalità d’espressione non anglocentrica, spesso ingenua o tutt’altro che memorabile, ma degna se non altro di menzione. Cito il caso curioso del progressive italiano, che trovò inaspettata attenzione in Giappone, primo vero processo di esportazione su larga scala di una qualsiasi forma di rock tricolore.

5. Il percorso dei King Crimson, a partire da "In the wake of Poseidon", si snoderà per tutti gli anni '70 lungo direttrici diverse e a volte spiazzanti. Quali ragioni spinsero Fripp a questi continui mutamenti di rotta? C'erano dissidi all'interno della band?
Come tutti i genii anche Fripp ha vissuto momenti critici e grandi squilibri, con riflessi più o meno pesanti sulla musica del gruppo. La grande differenza tra i dischi del periodo l’ha fatta il grado di sintonia di Fripp con la propria arte e con il resto del gruppo: migliore accordo con i suoi musicisti equivaleva a grande disco, e viceversa. Nel primo album non era forse sintonia perfetta ma era un rapporto artistico ancora vergine, sostenuto dall’euforia del momento e dal favore di vento. Nei successivi è però percepibile il graduale deterioramento nei rapporti tra leader e gregari, e il conseguente sgretolamento di quel wall of sound progressivo che Fripp andava ipotizzando.

6. Definisci "Lark's Tongues In Aspic" il "capolavoro della seconda stagione dei King Crimson". Quali sono i suoi punti di forza? E quali sono gli esperimenti che Fripp porta avanti nel disco, a partire dai curiosi "frippertronics"?
"Lark’s" è esempio di perfetta sintonia tra una guida creativa e feconda e un gruppo formidabile per tecnica (Bruford e Wetton) o spontaneità (Cross e Muir). È il disco dei primi King Crimson nel quale Fripp si trova meglio con i suoi musicisti, che a loro volta sono i migliori che il leader abbia avuto fino a quel momento. I punti di forza sono gli inediti duetti tra chitarra e violino, la voce di Wetton (paragonabile a quella di Lake degli esordi), le progressioni strumentali che rimangono tra i più tipici esempi del suono King Crimson.

7. Fripp sembra sempre dibattersi tra un'anima melodico-romantica e una sperimentatrice, più vicina al free-jazz. Quale delle due, a tuo avviso, ha poi preso il sopravvento?
Fripp è stato romantico a ritmi sincopati, irregolari, e forse anche casuali, ma a mio giudizio la sperimentazione e lo spiccato gusto progressivo della sua arte hanno sempre avuto il sopravvento sulla melodia o sul romanticismo. E lo hanno tuttora, basti ascoltare le sonorità un po’ ossessive degli ultimi dischi. I momenti melodici della storia dei King Crimson sono forse dovuti più a fattori non sempre riconducibili a Fripp che a una precisa scelta artistica: nel trittico discografico degli anni ’80, per esempio, erano perlopiù opera di Adrian Belew.

8. In quali grandi stagioni suddivideresti la storia dei King Crimson?
Oggi parlerei essenzialmente di tre stagioni, per comodità e affinità stilistiche: la prima (fino al 1975), la seconda (i tre album degli anni '80), e l’attuale (da "Vroom" in avanti). Volendo si potrebbe suddividere ulteriormente la prima stagione in due, perché esistono sufficienti elementi per ricondurre a "
In The Court Of The Crimson King" e "Lark’s Tongues In Aspic" l’inizio di due momenti espressivi distinti ma in qualche modo conseguenti. Rimango dell’idea che quei due album siano a (quasi) pari merito i vertici della prima stagione; "Discipline" è il disco migliore della seconda; per la terza parte di carriera sceglierei "Thrakkatak", un disco di improvvisazioni che ben rappresenta l’ideale evoluzione del suono progressivo originario. Nonostante alcune opere siano superiori ad altre, la parte più recente di carriera è però troppo dispersa e confusa per produrre cose memorabili; immagino che il pensiero di Fripp sia rivolto più a una "continuità concettuale" di zappiana memoria che a un percorso discografico chiaro e rettilineo.

9. Qual è il tuo giudizio del periodo più recente dei King Crimson, dalla metà degli anni '80 ad oggi? Tra vari progetti, sottoprogetti, "frattali" e compagnia, c'è anche qualche lavoro all'altezza dei loro dischi "storici"?
Il recente percorso artistico dei King Crimson è la conclusione inevitabile di un mercato discografico sempre più modesto e confuso, dove la sopravvivenza delle bande alternative (e i King Crimson lo sono sempre stati) è legata all’autoproduzione e all’indipendenza. In tale disdicevole situazione Fripp ha saputo tuttavia creare un microsistema discografico esemplare, che funziona a patto di autoalimentarsi senza sosta, di rimanere perennemente vigile e attivo per soddisfare lo zoccolo duro degli appassionati. In altre parole Fripp mi sembra condannato a suonare per l’eternità, a creare qualcosa di nuovo tutti i giorni, a moltiplicare pani, pesci e musica per nutrire i suoi discepoli. Da qui alla frenesia discografica il passo è breve. Come nel caso dei
Grateful Dead, è un tipo di microsistema che può funzionare in maniera soddisfacente per entrambe le parti a patto di procedere lungo percorsi estranei a quelli consueti del rock. Per contro provoca una sorta di iperspecializzazione che non tiene più conto degli effettivi valori artistici del prodotto ma soltanto di quelli affettivi: in sintesi, il "sistema" mira al sostentamento di una fascia di pubblico che acquista tutto, indipendentemente dal valore. Nel caso specifico dei Crimson quasi tutto quel che è uscito negli ultimi dieci anni è perlomeno interessante, alcune cose anche splendide, ma niente è imperdibile; vale a dire che la storia del gruppo è già stata scritta, indipendentemente dal numero di progetti e sottoprogetti, frattali, dischi vecchi e nuovi che Fripp è riuscito o riuscirà a realizzare.

10. "Dittatore illuminato", compositore "cerebrale" o "cervellotico", "perfezionista maniacale". Si sono sprecate, in questi anni, le definizioni di Robert Fripp. Puoi raccontare, in poche parole, che personaggio è il leader dei King Crimson? E quali sono le peculiarità del suo stile chitarristico?
Fripp ha sempre proceduto per la sua strada con ammirevole e implacabile ostinazione, lo si può accusare di essere dispotico, perfezionista, eccessivo, ma non di non essere coerente con scelte artistiche che hanno ormai più di trent’anni ma conservano ancora il fascino di un tempo. L’aver conservato una propria indipendenza artistica, discutibile ma cristallina, pone Fripp al di sopra delle parti, e la cosa è di per sé un merito inalienabile. Il suo stile viene dopo, e al contrario di altri reduci, rispecchia il rigore e l’orgoglio del personaggio, e da lì acquista spessore e consistenza. Il fatto di non essere mai stato riconosciuto tra i grandi della chitarra è forse dovuto al fatto che Fripp è un artista, prima che un chitarrista, la sua forma di espressione è la musica prima della chitarra.

Claudio Fabretti intervista Cesare Rizzi (www.ondarock.it)

sabato, novembre 07, 2015

Appunti su trappole ed inciampi nella carriera del cantante d’opera

Lorenzo Arruga (12 giugno 1937)
Normalmente incomincia per caso. Qualcuno, un vecchio ascoltatore più dei giovani, individua la bellezza d’una voce. “Con quella fai carriera”, dicono i più banali; ed i migliori “Ma tu non sai che dono hai ricevuto”.
Il possessore della voce privilegiata, in caso già lo sapesse, stava sognando di diventare Mina o Jovanotti; ma se ci prova con l’opera, a un certo punto la scoperta di quello che può succedergli entrando in sintonia è così rapinosa che decide di continuare. Si tratta di trovare un maestro di canto. Un bel rischio. Non perché non esistano buoni insegnanti, ma perché sono mescolati agli altri in modo confondibile. Non basta infatti una bella voce né una brillante carriera per comunicare una tecnica e formare una personalità artistica. Inoltre, insieme al canto, si dovrebbe imparare un po’ di cultura, frequentare i teatri e soprattutto studiare bene la musica; e il maestro di canto, di solito, non ha queste aperture e queste ambizioni; e quanto al conoscere la musica egli stesso talora riesce a malapena a seguire con un dito o poco più la melodia sulla tastiera, con quello che i maestri di pianoforte d’una volta chiamavano “tecnica da cucciolo”.
Insegnare canto in sé è difficile, bisogna avere il coraggio di mettere la propria esperienza al servizio di una gola e di una personalità diversa dalla propria, perché, come nelle diete, ottimi sistemi per taluni fanno ingrassare gli altri. E quanto alla cultura, il cantante deve coordinare  nozioni ed emozioni, conoscenze e intuizioni con quello che la natura gli ha dato: non dev’essere un intellettuale, ma essere aperto a capire la realtà sua, quella dell’opera e del mondo. Il mestiere del maestro di canto è però uno dei più possessivi che si conosca. Ancor più, forse, che negli altri mestieri, chi lo esercita è convinto di essere l’unico che sa ciò che ci vuole. E non è raro il caso che molti allievi consultino nuovi maestri e ricomincino continuamente da capo.
A un certo punto il giovane apprendista tenta d’andare in Conservatorio. Se ha qualità, soprattutto se non è ricco, ci va appena sia in grado di dimostrarle. Può trovarsi davanti, però, ad esempio, giovani stranieri che hanno già ottenuto il diploma nel loro Conservatorio, e vengano ad ottenerne uno italiano, prezioso per insegnare nel loro paese, e si prendano la precedenza. In genere quelli meglio appiattiti sono preferiti ai più dotati ancora incompleti. I Conservatori italiani non han cambiato abitudine nei secoli. A Eros Ramazzotti è stato detto più o meno ciò che era stato detto a Giuseppe Verdi: lei ha qualità, studi un anno e si ripresenti. Ramazzotti diede più o meno la stessa risposta di Verdi: sono venuto appunto qui per studiare. Ma non ci fu verso.
Chi viene ammesso nel Conservatorio, con tante classi di insegnamento potrebbe incontrare entusiasmanti esperienze comuni; ma è difficile trovare docenti che abbiano desiderio di allargare lo striminzito tempo delle lezioni addirittura ad un lavoro con i colleghi, perché il sospetto di inquinamento evita il rischio di mettere assieme vari allievi ed esercitarli, come potrebbero utilmente, in duetti, pezzi d’insieme o addirittura opere intere. Diplomati, i cantanti hanno bisogno degli agenti, su cui i teatri contano anche a scarico di responsabilità. L’agente non rassomiglia all’impresario di una volta, che accudiva il cantante e all’occorrenza anticipava denaro. In questo momento, dato il pallore dei direttori artistici, che poco frequentano i teatri e non sempre conoscono sufficientemente la musica, l’agente prende un potere decisivo, anche se l’interesse naturale del suo mestiere non è tanto trovare le compagnie più adatte, quanto favorire qualche esecutore d’alto livello per piazzare in cambio un gruppo di generici intercambiabili. Nei rapporti diretti con il cantante o la cantante, gira la fama del consigliere tirannico e impunito. Questo è possibile anche per il carattere isolato dei giovani cantanti, molto più indifesi che ad esempio gli strumentisti. Ad esempio non si ha notizia di molte denunce contro agenti per certi disinvolti convenevoli (me la dai/me lo dai, se no niente), mentre è assai poco diffusa l’espressione “casto come un agente”.
A un certo punto, il cantante deve affrontare la professione e si sottopone all’audizione. L’audizione consiste nell’eseguire uno o due pezzi singoli per una piccola commissione che crea immediatamente non un clima da recita, ma un sentore minaccioso da esame. Di solito, al termine del pezzo, il presidente della giuria dice “grazie”, e non se ne sa più niente. Il rispetto per la fatica, la serietà, la volontà di chi si è sottoposto magari a una trasferta faticosa, e ha lottato contro l’emozione, non viene quasi mai considerato; talvolta il cantante è interrotto alle prime note, al contrario della felice esperienza dell’esame di patente in Svizzera, dove – almeno fino a qualche anno fa – i primi dieci minuti della prova di guida non vengono considerati. Si sa che un’attenzione accanita da parte dei giurati è terrorizzante; è noto il procedimento a cui, nei processi per l’annullamento del matrimonio, in caso di denunciata impotenza del marito, il poveretto doveva sottoporsi a una prova davanti a una dozzina di prelati; e faceva inevitabilmente cilecca. Ma un’attenzione accanita, salvo in caso di dispute furibonde, può darsi per esclusa in gran parte delle audizioni: le commissioni, per cattiva abitudine tradizionale e per oggettiva noia degli ascolti ripetuti, sembrano considerare bagaglio professionale i quotidiani del mattino e soprattutto i telefoni cellulari, a cui parlano normalmente facendosi notare perché ingenuamente tengono la mano davanti al telefono; comunque il cantante dev’essere preparato a non valutare il proprio grado di interesse dal tipo di partecipazione di questo genere di ascoltatori.
Se è bravo e fortunato, prima o poi, il cantante arriva in scena. E’ inutile rimpiangere immaginari tempi d’oro; ma è difficile non notare che una volta un giovane cantante riteneva una felicità e un onore fare da “doppio” ad un cantante illustre, sfruttando l’incomparabile occasione di prendere buoni esempi e di imparare molti segreti del mestiere; mentre attualmente c’è come un atteggiamento un poco autosufficiente e bizzoso, che forse si inserisce nel fenomeno tra i più gravi del nostro tempo, la perdita del gusto dell’attesa. Eppure anche in una carriera modesta, in ogni caso, tutte le parti hanno una grande dignità, sono gioiosamente ragguardevoli; dai comprimari, per esempio, si impara la vita del teatro in tutte le sue sfaccettature, sono loro i custodi delle tradizioni e i salvatori di tante situazioni sceniche; e non per nulla il pubblico ama riconoscerli e ritrovarli.
Ma è naturale che il giovane cantante ambisca a ricoprire i ruoli principali. Già la natura compie le sue predilezioni; per fortuna, le affermazioni di alcuni privilegiati sono sacrosante. Altre sono assai più discutibili, soggette alle mode, alle conoscenze, alle competenze ed incompetenze, al costume e al malcostume. Il fatto che la professione del cantante sia così allo scoperto sembra non influire per nulla sul mercato delle raccomandazioni e bizzarrie. La condizione organizzativa dei nostri giorni chiede un tale continuo spostamento e una tale disponibilità, che viene più facilmente preferito un mestierante prevedibile a un artista di personalità forte e fantasiosa. E poi ci sono alcuni miti che giocano a sfavore dell’affermazione d’un bravo cantante. Per esempio, degli uomini, o almeno dei tenori, si bada soprattutto alla voce; che sia inerte o montagnoso interessa poco; che la sua attenzione alla scena, anche nelle situazioni elementari, sia del tutto insufficiente, ancor meno.
Quanto ai soprani, vale il commovente pensiero che coloro che tanto hanno dato nella vita hanno diritto a rispetto ed affetti; però vale un po’ troppo, e prima che una cantante gloriosa lasci il suo posto a quelle più giovani e meglio in arnese, normalmente passano stagioni imbarazzanti.
C’è un altro ostacolo. I cantanti sono pagati a recita, suddiviso nel cachet delle recite è il periodo di prove; spesso, però, ai cantanti che contano è concesso di presentarsi a pochissime prove, e vengono sostituiti nelle altre da colleghi giovani il cui titolo è chiamato cover; e potrebbe essere un’occasione per far debuttare in caso di emergenza il giovane cantante, protetto dalla simpatia del pubblico; ma per le recite in cui i grandi nomi mancano di solito si preferisce pararsi il ruolo convocando dispendiosamente un nome noto che abbia già in repertorio la parte, mostrando così in un colpo solo disistima per il giovane cantante e per il direttore ed il regista, la cui impostazione interpretativa fino allora provata viene considerata inutile. A favore delle cantanti giovani, però, se appartengono al genere “gnocca”, viene spesso offerta una scorciatoia, presentandole come rivelazione; il guaio è che di solito una cantante di questo tipo è sfruttata per pochi anni senza che possa maturare e viene presto sostituita con un’altra simile.
Arrivato in scena, nel mondo incantato sognato da sempre, il cantante deve comunque tener conto di alcune sorprese deludenti, che dovrà trasformare battendosi con serietà ed entusiasmo. Il direttore anziano è normalmente poco disposto a trovare nella collaborazione una verità nuova o almeno equilibrata; ma il direttore giovane, a parte alcune felici casi proprio delle ultime generazioni, molto spesso non è abbastanza informato sul teatro, non ha studiato drammaturgia, non è stato immerso nelle produzioni operistiche, vanta talora di curar solo la musica perché “è quella che conta”, ritiene che regista, scenografo e costumista non siano complici di scelte interpretative, ma solo curatori della parte visiva, su cui si riserva di protestare a cose fatte, e sul podio tiene l’atteggiamento del “devi dare retta a me”.
E’ difficile imparare a recitare con il regista d’opera. Se legato alla tradizione, tende a non affrontare i problemi del nuovo immaginario, e persino a non correggere mai certi usi nati dalla lettura cinica e indifferente dei libretti e delle partiture e certe trascuratezze sopportate per abitudine: quando mai alle danze di Traviata ci si sente in una piccola volgare festa con gli invitati che ballano; quando mai il fratello di Lucia, che arriva normalmente azzimato e asciutto durante la follia di lei, fa capire d’essere arrivato da uno spaventoso temporale, dove è andato a regolare i conti con il nemico Edgardo, fulcro del dramma; perché mai a Siviglia, sul far dell’alba, Figaro deve incontrare tanta gente ben vestita, e magari tante suore? In questo genere di teatro disattento, la recitazione, quando viene curata, va più per prototipi illustri che per convinzioni interiori, e punta molto sul suscitare comunque emozioni (Luca Ronconi, scherzando, in un incontro pubblico ha detto che “interpretazione è per un cantante un salame degli effetti che hanno avuto successo nelle diverse edizioni precedenti”). Il regista aggiornato può essere un grande artista esperto proprio nel teatro d’opera, pronto a collaborare col direttore se autorevole, o a sopraffarlo se ignavo: ce ne sono di bravissimi, in grado di dare una lezione di quelle che cambiano la vita, così come ci sono eccezionali direttori. Ma il genere che va più di moda è il regista estraneo all’opera o ad essa contrario, che attua quelle che si chiamano con termine stantio “provocazione”, cioè più che convincere i presenti, fa parlare di sé e del teatro gli assenti, anche se male, conferendo così l’idolatrata “visibilità”: viene forzato un carattere della storia, lasciando il resto immutato come quell’astronave dove viveva la sua storia Otello, e tutti entravano e uscivano non si sa da dove né per dove. Oppure facendo quadrare coartatamente gli altri elementi. Non fa interpretazione, ma può fare notizia, all’inizio del Ballo in maschera, la Corte sul water.
L’ambiente del teatro d’opera, soprattutto nel grande teatro, continua a vivere grandi momenti di dedizione e di entusiasmo; ma si dimostra spesso più rivendicativo che appassionato, più frustrato che orgoglioso. Difficilmente il cantante che esce da recite giovanili e disadorne trova la stessa mobilità agile e felice nel coro.
Difficilmente trova un pubblico voglioso di accogliere nuove interpretazioni con gioia; e questa è un’antica malattia.
Molto difficilmente incontra un critico che lo ringrazi per avergli fatto capire qualcosa di bellissimo a cui non era arrivato.
Così, abbiamo spregiudicatamente richiamato trappole e inciampi nella professione del cantante d’opera in Italia. Abbiamo tralasciato di ricordare i disagi, le ingiustizie, le assurdità che vengono da una dissestata formulazione politica, sindacale, organizzativa e all’origine culturale e morale che caratterizza, in questo campo non meno che negli altri, l’attuale periodo di storia italiana, seguendo, pur con tono rapsodico e anche ironico, la priorità indicata dai cantanti stessi nella loro prima decisa e sontuosa presa di coscienza e di posizione.
Perché oggi sui cantanti d’opera possiamo sorridere sulla sproporzione fra la grandiosa nobiltà, la geniale brillantezza o la tenera innocenza dei loro personaggi e la concreta realtà della loro vita e della loro persona, che può benissimo non avere il dono di tanta straordinarietà. Ma non possiamo avere che gratitudine e ammirazione per la dignità piena con cui attraverso la bellezza del loro canto, immersi nei loro personaggi, ci danno testimonianza imparagonabile di che cosa potrebbe essere la vita.

Lorenzo Arruga