Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 28, 2009

Johannes Brahms: Quintetto op.34

La prima stesura del Quintetto op.34 risale al 1862, lo stesso anno in cui Brahms compì il primo soggiorno a Vienna e in cui cominciò a scrivere la prima Sinfonia che avrebbe finito solo nel 1876. Mentre era ancora lontano il compimento della sua prima esperienza sinfonica, la musica da camera (che è comunque sempre la chiave essenziale per penetrare nel mondo poetico brahmsiano) occupava allora una posizione di particolare rilievo nella sua produzione, dopo la fase iniziale di opere prevalentemente pianistiche. E proprio nei primi lavori di musica da camera il pianoforte riusciva indispensabile alla caratteristica densità della scrittura brahmsiana, contribuendo a definire il particolare colore dei Quartetti op.25 e 26 (1861): non a caso il primo pezzo per soli archi fu un Sestetto (1859-60) che consentiva una qualità di suono più densa, scura e "opaca" rispetto al classico quartetto. Neppure il quintetto d'archi riusciva del tutto congeniale al pensiero musicale di Brahms negli anni Sessanta, e infatti la prima versione dell'op.34, destinata appunto a un quintetto d'archi e distrutta dall'autore, non soddisfece pienamente né Brahms, né amici come Clara Schumann e Joseph Joachim. Entrambi avevano espresso con particolare calore la loro ammirazione incondizionata per la musica, ma diverse perplessità sulla veste strumentale. Il Quintetto in fa minore divenne una Sonata per due pianoforti, che fu eseguita a Vienna, il 17 aprile 1864, dallo stesso Brahms insieme con Carl Tausig. Non ebbe successo, e fu rielaborata nel 1864 nella forma definitiva di quintetto per archi e pianoforte; ma a Brahms non dispiacque la versione timbricamente compatta e omogenea per due pianoforti, tanto che la pubblicò in seguito nel 1872. Di tale lunga e travagliata genesi la scrittura strumentale dell'op.34, nella sua stesura finale che associa agli archi lo strumento più familiare a Brahms, non rivela alcuna traccia, tanto compiutamente riesce a valorizzare la eccezionale ricchezza e complessità del pensiero musicale di questo capolavoro.
Basterebbe l'Allegro non troppo a far comprendere un aspetto dell'originalità di Brahms nella sua strenua volontà di definire una salda costruzione formale, sul modello dei classici, e di riallacciarsi all'ideale drammatico che si suole chiamare beethoveniano. Nel primo tempo del Quintetto, pagina di straordinaria compattezza, concentrazione e ricchezza tematica, una corrusca drammaticità si piega ad una personalissima sintesi con le componenti più liriche, introverse, meditative del pensiero di Brahms, in un chiaroscuro di intensissima suggestione. Con il loro ampio respiro le battute introduttive rivelano in modo inconfondibile la mano del loro autore, poi il primo tema si definisce con un rude scatto drammatico. Ma al severo vigore di questa idea segue una serie di affascinanti trapassi chiaroscurali: dalla tenerezza elegiaca del tema di transizione in fa minore, all'ampio secondo tema in do dicsis minore, che indugia in una meditativa, intima suggestione lirica, al disteso respiro del terzo tema in re bemolle maggiore che conclude questa densa esposizione (che racchiude le idee citate in 90 battute). Anche lo sviluppo presenta una notevole concentrazione: basato su elementi del primo e del secondo tema, non è sede di veri e propri conflitti, di netti contrasti, ma presenta accenti riflessivi, in un fitto succedersi di modulazioni, in un denso gioco chiaroscurale, che approda ad un momento culminante di grande intensità, basato sul secondo tema: gli elementi più marcatamente drammatici del primo tema si ripresentano solo nella ripresa (che si svolge in modo regolare) e nel corso della coda conclusiva, aperta da un affascinante 'Poco sostenuto". Non è questo il solo momento del Quintetto in cui si afferma l'inclinazione di Brahms ad indugiare con particolare incanto poetico su divagazioni, parentesi, episodi "secondari".
I caratteri che abbiamo cercato di sottolineare nel primo movimento gli conferiscono, nei suoi trapassi chiaroscurali, una singolare continuità discorsiva, che appare ancor più evidente nell'ininterrotto fluire del lirico Andante, un poco Adagio. E basato su un tema principale e su altre idee ad esso più o meno affini, e disposte in modo da rendere meno schematica la tradizionale simmetria ternaria (cui pure si può far riferimento). Citeremo solo un esempio che mostri come Brahms persegue con sottili trapassi e collegamenti la continuità di respiro in questa pagina. L'idea principale, esposta dal pianoforte, è accompagnata da un disegno ritmicamente indipendente, affidato a primo violino, viola e violoncello. Soltanto quel disegno e quel ritmo di accompagnamento riappaiono nel corso dello svolgimento della sezione centrale del pezzo: ci si ricollega così al tema principale, facendone presagire il ritorno (che però avrà luogo soltanto venti battute dopo). La ripresa comporta una suggestiva trasformazione (nel proseguimento dell'idea principale) così che si modifica un poco il tradizionale schema ternario A-B-A'; riappare infine lo spunto che proseguiva il tema principale, a mo' di coda conclusiva. Ma lo schema non può rendere l'idea della flessibilità e della continuità con cui si concatena il periodare di questa "prosa musicale" (secondo la nota definizione di Schönberg), fondata su idee legate da sottili affinità, in un suggestivo cangiare di colori e situazioni dettate da una vena di mesto, meditativo intimismo.
Un altro aspetto della fantasia brahmsiana è rivelato dallo Scherzo, di eccezionale ricchezza inventiva, fondato su tre idee che si succedono con febbrile tensione, così che le prime due, entrambe in pianissimo e in do minore, sembrano inizialmente preparare la presentazione della terza, che irrompe in do maggiore con vigorosa, incisiva evidenza; ma nel successivo svolgimento del pezzo la tensione e la ricchezza fantastica non conoscono attenuazioni: riappare l'inquieta idea sincopata dell'inizio (cui il timbro conferisce qualcosa di spettrale), ritorna l'energico profilo ritmico del secondo spunto, che dà vita ad un nervoso episodio fugato, per sfociare nuovamente nella terza idea, seguita da altri due episodi (fondati su primo e secondo tema). Solo il Trio segna un attenuarsi dell'impetuosa tensione fantastica in un clima più grave e meditativo.
Il Finale è preceduto da una intensissima introduzione lenta ("Poco sostenuto"), dal sapore un poco schumanniano. La tensione espressiva di questa stupenda pagina sembra risolversi nell'andamento "ingenuo", popolaresco del primo tema dell'"Allegro non troppo". Ma il Finale presenta caratteri formali ed espressivi assai meno semplici di quello che potrebbe far pensare il tema d'apertura, che sembra un tipico refrain da rondò. Come in alcuni finali schubertiani. e in altre pagine dello stesso Brahms, ci si trova di fronte ad un libero svolgimento che non coincide né con lo schema del rondò né con quello della forma-sonata: anche qui Brahms concentra in una costruzione compatta e non convenzionale una straordinaria ricchezza di idee tematiche. Dopo essere stati esposti, i temi principali non danno vita ad uno sviluppo, ma ad una seconda parte in cui vengono riproposti con libere trasformazioni, in una sorta di ripresa che assorbe in sé anche alcuni caratteri di sviluppo. La loro successione determina umori espressivi mobilissimi e intensamente chiaroscurati: dal piglio popolaresco del primo tema all'introversa meditazione lirica del secondo, al vigore severo del terzo. alla magica leggerezza dell'episodio successivo (che trasforma elementi dei primo tema). Nessuna schematica definizione può render giustizia alla mobilità espressiva dell'"Allegro non troppo" che alla fine conduce ad un trascinante, impetuoso "Presto, non troppo", pagina conclusiva di intensissima energia, fondata su una trasformazione del primo tema e sul secondo.
Paolo PETAZZI
(note di copertina al CD Deutsche Grammophon 419 673-2 / Quartetto Italiano e Maurizio Pollini)

venerdì, novembre 20, 2009

Ex Novo Musica 2009

Trentanni! Mi sembrano trecento se penso alle migliaia di cose che ci abbiamo messo dentro; mi sembrano trenta, ma minuti, se penso alla voglia che c'è ancora di fare, di andare avanti.
Nel 1979, con alcune importanti occasioni, tra cui la Biennale di Venezia, la "barca" Ex Novo è stata varata e il viaggio è iniziato. Come in tutte le navigazioni, abbiamo dovuto superare tempeste e croste di ghiacci e gorghi di sargassi, potendo contare quasi sempre solo sul nostro "vento" e sul rimboccarsi le maniche e mettersi ai remi, ma abbiamo anche calato le ancore in baie accoglienti come il Mozarteurn a Salisburgo, o il Gasteig a Monaco, o la Kaufmann Hall a New York o qui, alla Fenice.
Centinaia di concerti, decine di registrazioni radiofoniche e Cd e molti lavori dedicati all'Ex Novo dai compositori più diversi decorano il "medagliere" eppure credo che, al di là della bravura musicale, la forza di un gruppo come questo - in sostanza costituito dalle prime persone che cominciarono a farne parte stabilmente - risieda nelle qualità umane e intellettuali dei suoi componenti: quando abbiamo cominciato l'atmosfera era a metà tra quella di un laboratorio sperimentale e quella di un cenacolo. L'intento principale era - e mi auguro sempre lo sia - far musica, dando a queste parole il significato di cercare, scoprire, migliorare... insieme.
E facendo in particolare attenzione al suono: non a caso e giustamente - in italiano - si dice suonare: non è il "gioco/rappresentazione" dell'inglese o del francese (jouer, to play) e non è nemmeno il solo contatto fisico del tocar spagnolo. Non solo, quindi, aspirare al dominio delle nuove tecniche strumentali ma anche alla coesione, all'equilibrio e soprattutto alla qualità del "tessuto": un suono che sappia esser vellutato, evocativo ma anche capace di escursioni dinamiche estreme: dal fortissimo abbagliante a quel pianissimo quasi inudibile che Luigi Nono tanto amava. Un suono veneziano, che trovi le sue radici nelle sperimentazioni timbriche e spaziali che in questa città si facevano dai tempi dei Gabrieli e di Monteverdi.
E' impossibile, qui, citare quanti - strumentisti, compositori, ascoltatori, musicologi, tecnici, artisti - hanno collaborato o ci sono stati vicini durante il percorso o ci hanno stimolato con le loro osservazioni: a tutti va il nostro sincero e affettuoso ringraziamento. E un appuntamento: ai concerti della rassegna di Ex Novo Musica (per un'altra manciata di decenni, naturalmente!)

Il Presidente dell'Ex Novo Ensemble
Claudio Ambrosini

Nel 2oo9 ricorrono i trent'anni della fondazione dell'Ex Novo Ensemble, gruppo di musicisti veneziani il cui percorso rappresenta una realtà di riferimento nell'esecuzione della musica nuova. Nel 2004 l'impegno ad approfondire il linguaggio contemporaneo per sua natura sfaccettato e pieno di fermenti contradditori - ha portato alla creazione di Ex Novo Musica, la cui sesta edizione si svilupperà quest'anno in undici appuntamenti che affiancano agli spettacoli vari altri momenti di ricerca, confronto e dibattito. Un disco che raccoglie importanti opere cameristiche dedicate all'Ex Novo Ensemble negli anni dal 1985 al 2oog da Sciarrino, Clementi, Bussotti, Pennisi, Ambrosini, Ferrero, dall'Ongaro, intende porsi a metà del guado tra la pausa di riflessione celebrativa e nuovi stimoli per l'avvenire. L'unico superstite movimento del Klavierquartett del 1876 del quindicenne Gustav Mahler, che aprirà il Festival 2009 potrebbe divenirne l'emblema: in quegli anni di studio - confiderà Mahler a Natalie Bauer-Lechner - "non ho terminato una sola opera" perchè "prima di terminare il lavoro, lo stesso non mi era più sufficiente, l'avevo già superato". Nella serata inaugurale la sinfonia da camera di Schoenberg, brano amatissimo dai musicisti dell'Ex Novo Ensemble, -autentica pietra miliare nella storia della musica, destinata a rappresentare un'intera generazione"- citando le parole di Alban Berg - introdurrà la presenza dei grande attore Gabriele Lavia impegnato nei melologhi di Strauss e Tutino.
Una corposa sezione è dedicata a ripensare la musica del passato: la lezione di Haydn, giunge intatta sino ai nostri giorni nelle mani di grandi compositori quali Feldman, Britten, Kurtág e Martinu i quali ci propongono un linguaggio musicale semplice, privo di sforzo apparente, ma che occulta un veemente controllo intellettuale.
I percorsi artistici diversissimi ma stranamente congrui di Bohuslav Martinu e Heitor Villa-Lobos, dei quali ricorre nel 2009 il cinquantenario della morte, saranno ben evidenziati nel loro ripensare una musica discorsiva, genuina, fluida e antiretorica innestata su radici folkloriche e popolari. Due volti della musica del secolo scorso lasciati in ombra rispetto all'attenzione per le Scuole Strutturaliste di pensiero musicale a cui è dovuto oggi un attento riesame.
Un'istanza mistico-religiosa caratterizza la parabola artistica di due grandi compositrici russe, Galina Ustwolskaja e Sofia Gubaidulina rivelatesi tardivamente in Occidente soltanto intorno agli anni '8o. Il mondo sonoro sospeso tra Oriente e Occidente evocato nelle loro opere avrà forse in Venezia il luogo ideale per cullare antichi segreti.
"Al limite dell'udibilità o della inaudibilità", la serata dedicata a Luigi Nono - in collaborazione con l'Archivio Nono e Casa Ricordi - muove da una bellisima citazione tratta dal Prometeo per riproporre Musica-Mamfesto n. 1 nell'interpretazione di due giovani interpreti appassionate alla ricerca di nuove possibilità di emissione del suono e di articolazione della voce. Cadenza estesa e coda di Claudio Ambrosini, commissione del Laboratorio Permanente della Biennale di Venezia, mirabilmente testimonia la voglia di inventare, di scoprire, di "fare' di quegli anni di fervente ribollire di entusiasmi per la tecnologia, le cui prorompenti valenze artistiche, affascinavano e incantavano. Infine ...fili bianco velati... (2oo6/2oo9), un recente frutto della passione di Adriano Guarnieri per il live electronics, qui presentato in prima esecuzione assoluta, corona questo spazio sonoro dedicato alla inesauribile sete di ricerca che trasuda ogni musica, parola, gesto lasciatoci dal grande maestro veneziano da noi tutti indimenticato.
Perduto in una città d'acque ha impresso - per usare le parole di Salvatore Sciarrino "il sorriso taciturno di Nono", il "dilatato gocciare dei suoni", il "rivolgersi della memoria, della percezione su di sé, mentre ci perdiamo, allorché riconosciamo e non riconosciamo.
Il 17 novembre Salvatore Sciarrino torna a Venezia per una serata monografica a lui dedicata e un incontro di studio con Sandro Cappelletto e Pietro Bria alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Ca' Foscari: E ascolta ... ! quando lo musica cerca il silenzio.
A Lorenzo Ferrero deve andare la riconoscenza di tutti i musicisti italiani per aver voluto impegnarsi nel tradurre e curare, con la sua profonda competenza di musicista e studioso, la traduzione italiana de Lo studio dell'orchestrazione di Samuel Adler, apparso nel gennaio 2oo9 nella collana I Manuali EDT/SidM. Ex Novo Musica 2009 vuole onorare con una serata Lorenzo Ferrero, presentandone la figura di compositore attraverso un excursus di opere dagli esordi nel 1982 (My blues) alla sua ultima fatica (Three simple songs), che il Maestro ha voluto dedicare all'Ex Novo Ensemble, per festeggiarne il trentesimo anniversario.
In collaborazione con l'istituto per la Musica due appuntamenti di musica elettroacustica avranno luogo nelle splendide sale della Fondazione Giorgio Cini. Nella convinzione che ogni suono possa incontrare la propria forma solo nello spazio in cui viene prodotto, il progetto intende stimolare la ricerca sul campo di convergenze strutturali tra la dimensione acustica e quella elettronica di uno spazio fisico. Se gli spazi animano e plasmano i suoni è però altrettanto vero che far suonare bene uno spazio è un'operazione artistica, si tratta cioè di comprenderne la vita interna, le rifrazioni, le riverberazioni, armonizzando ruvidezze e estasi dei "suoni del contemporaneo", attuando un singolare sincretismo tra "suoni della memoria" - prodotti con gli strumenti tradizionali - e "suoni del reale", quel reale la cui forza immaginativa traspare inevitabilmente in ogni opera che si avvale del mezzo elettronico. Accanto a lavori di riconosciuti protagonisti del mondo musicale contemporaneo - Luca Francesconi, Ivan Fedele, Claudio Ambrosini - e ad opere di autori più giovani attenti alle potenzialità delle nuove tecnologie - Emanuele Casale, Roberto Doati, Stefano Bulfon, Michele Tadini - verrà proposto un omaggio a Mauricio Kagel, con la proiezione dello storico film Ludwig van (1969), e ad Alvin Lucier di cui verrà presentata una nuova versione con elettronica di Risonanza opera composta per l'Ex Novo Ensemble nel 1982.
Una preziosa anteprima del Festival, il 2 ottobre, vedrà un significativo momento di collaborazione tra Ex Novo Musica 2009 e l'Accademia di Scienze Ambientali di Venezia (IAES). Nell'ambito del programma culturale del World Venice Forum - simposium internazionale sul tema "La salute del pianeta Terra e dell'Uomo. Disastri ambientali: irresponsabilità e tutela" - verrà proposta una maratona concertistica dell'Ex Novo Ensemble che si esiberà dal Salone del Conservatorio di Venezia in collegamento live con prestigiose orchestre straniere (Camerata Manchester e Dresden Sinfoniker) presentando opere in prima esecuzione assoluta di Michele dall'Ongaro, Luca Mosca e Linda Buckley.
La Rassegna sostenuta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dall'Amministrazione Provinciale, dal Comune di Venezia, deve la sua realizzazione al generoso contributo del Teatro La Fenice. Un sincero ringraziamento all'Istituto per la Musica della Fondazione Giorgio Cini, all'Archivio Nono, a Casa Ricordi, alla Casa Discografica Stradivarius, a Veneto Banca e a tutti gli studiosi e i musicisti che si sono impegnati alla realizzazione di Ex Novo Musica 2009.

Aldo Orvieto

sabato, novembre 14, 2009

Luciano Berio: oltre l'aneddoto

Queste righe sono insieme il mio ricordo di una grande personalità, di un Maestro, con me invariabilmente gentile e affettuoso, e il tentativo provvisorio di cucire insieme un'idea mia di Berio, della sua musica, come si è venuta formando, nell'ascolto ma anche nella conversazione, nel corso degli incontri e delle interviste.

Luciano Berio viveva a Firenze, ma c'era e non c'era; agiva su una scena ben più ampia; stava sempre scrivendo un nuovo pezzo, una nuova opera, per la Scala, per il Concertgebouw, per Salisburgo; stava dando l'assalto al tempio classico dell'Accademia di Santa Cecilia; era potente, polemico, ascoltato e - per il poco e nei termini in cui la musica colta contemporanea continua a fare notizia - faceva notizia. Ai giornali interessavano il paradosso, il colore, l'affondo (che non gli era piaciuto per niente il concerto di Bob Dylan per il Papa; che l'incultura musicale della classe politica italiana è spaventosa; cosa avrebbe fatto del famoso auditorium romano; cosa avrebbe fatto a Santa Cecilia), eppure nella mezz'ora o più di un'intervista tendevo a sbrigare in fretta il colore giornalistico, da cui si fanno i titoli, e cercavo, a mio esclusivo beneficio, di rilanciare e allargare le questioni, insomma di fare le domande che si fanno a un Maestro e di riflettere sulle risposte. Molte volte non ero d'accordo ma, come avviene con i veri Maestri, la lezione agiva in profondità e in direzioni diverse. Il modo con cui guardo un frammento vivido di immagine staccarsi dalla superficie grigia, che rappresenta le immagini e i colori perduti, in un affresco restaurato, questo modo è cambiato a causa di Rendering, il geniale e poetico "restauro" fatto da Luciano Berio dei frammenti di un'incompiuta sinfonia di Schubert.
Restauri: l'ultima volta che ho avuto modo di parlare con Berio fu a proposito del suo nuovo finale per la Turandot di Giacomo Puccini, alternativo a quello, non bello, di Franco Alfano. Berio ha lavorato - riscritto, orchestrato, completato, "restaurato", immerso nel bagno elettroacustico, riorganizzato sulla base di frammenti superstiti - su Monteverdi, Purcell, Boccherini, Weill, De Falla, poi, mirando più in alto, Schubert, Mahler, Mozart (la Zaide), Brahms. Il che è sempre stato inteso come una riprova abbagliante dell'altissimo grado in cui Berio possedeva i saperi "artigianali" della composizione e tutte le forme storiche e le espressioni linguistiche della musica; ma credo che questo facesse parte integrante di una visione via via più profonda, affettuosa e malinconica della bellezza musicale.
Per me quest'aspetto di Berio "restauratore" fa tutt'uno con certi aspetti della sua fisionomia di compositore, in particolare con quella sorta di velo delle Grazie che diventa materia musicale fluida e rarefatta, sullo sfondo delle linee orizzontali in maggior evidenza, in pezzi come Sinfonia, Ofanim, Agnus, Corale, Requies, Voci. Un aspetto dell'arte di Berio fin troppo sommerso dalle interpretazioni legate alla sua musica anni Sessanta: all'aggressiva energia gestuale e/o idiomatica delle Sequenze, ad esempio.
Certamente dietro la sua arte c'è un percorso di fughe dai vicoli ciechi, dagli steccati, dai divieti, dall'altera trascendenza della generazione musicale "strutturalista" (di cui peraltro condivideva in buona misura la cultura e le idee); e questa però non ha niente a che vedere con certe riappropriazioni e mimesi gaglioffe e cicisbee, e tutto a che vedere con un umanistico - prima che artigianale - rifiuto delle categorie "adorniane" imperniate sulla negazione; ma soprattutto molto a che vedere con il savoir faire artistico scaltrito di chi le tendenze le intuiva e valorizzava prima degli altri. Pensiamo ai Folk Songs in cui nel 1964 Berio si mostra capace di interpretare con felicità qualcosa che sarebbe diventato evidente qualche decennio dopo: la sponda "etnica". Agnus mi è sempre suonato come la versione nobile del tipico e spesso banale caroleggiare minimalista che poi ci ha così velocemente stufato; Il ritorno degli Snovidenia, un'anticipazione di tendenze in varie guise "neoromantiche".
La sua idea della drammaturgia musicale è da intendere in senso esteso, tale da coinvolgere tutte le raffinate implicazioni del rapporto musica-testo-narrazione- rappresentazione, e non necessariamente l'opera. Al tempo in cui scriveva Outis per la Scala, una decina di anni fa, l'opera del Novecento che Berio mi disse di ammirare di più era La carriera di un libertino di Igor Stravinskij, "per i tanti congedi che contiene". Congedo implica fine, morte, ritrovamento, riassemblamento di relitti; una metafora che è chiarissima nel teatro musicale virtuale da camera di Opera (un tenore, una corsia d'ospedale, il naufragio del Titanic) su testo di Umberto Eco (1970), e in Un re in ascolto su testo di Italo Calvino (1984), che incrocia suggestioni diverse, da Barthes a Shakespeare. Come Stravinskij, non a caso, Berio ha quasi sempre cercato collaborazioni forti (Sanguineti, Eco, Calvino) in tutto ciò che ha scritto per la musica che si suona con (su) una voce, un testo, una scena, una storia da raccontare, inseguendo l'idea stravinskijana del progetto a più mani: scantonando dal mito dell'organicità della "opera d'arte totale", ma anzi cercando ciò che prende vita nel cortocircuito di idee, discipline, sensibilità diverse, nuovi nessi di significato scaturenti dall'incrocio fra gesti, materiali, spunti diversi: la musica colta e quella popolare, la vocalità lirica e no, i burattini, i cantastorie, le tracce del rock.

di Elisabetta Torselli (www.drammaturgia.it)

sabato, novembre 07, 2009

Monteverdi: Trionfi d'amore

Il trattatista secentesco G.B. Doni intitola l'XI capitolo del suo Trattato della Musica scenica in questo modo: "Si risponde al alcune obiezioni e si dimostra in che differisca lo stile recitativo dal rappresentativo ed espressivo». Nel corso del capitolo. tra l'altro, dice:

PER STILE DUNQUE RECITATIVO S'INTENDE OGGI QUELLA SORTA DI MELODIA CHE PUO' ACCONCIAMENTE E CON GARBO RECITARSI, CIOE' CANTARSI DA UNO SOLO IN GUISA TALE CHE LE PAROLE S'INTENDANO, O FACCIASI CIO' SUL PALCO DELLE SCENE, O NELLE CHIESE O ORATORI A FOGGIA DI DIALOGHI, O PURE NELLE CAMERE PRIVATE, O ALTROVE. E FINALMENTE CON QUESTO NOME S'INTENDE OGNI SORTA DI MUSICA CHE SI CANTI DA UNO SOLO AL SUONO DI QUALCHE INSTRUMENTO, CON POCO ALLUNGAMENTO DELLE NOTE E IN MODO TALE CHE SI AVVICINI AL PARLARE COMUNE, MA PERO' AFFETTUOSO. ( ... ) CI SI AMMETTONO PARIMENTI MOLTE RIPETIZIONI PER LA PROPRIETA DELLA NOSTRA LINGUA, MA PERO' MOLTO PIU PARCAMENTE E CON DECORO CHE NELLO STILE DE' MADRIGALI E MOTTETTI. ( ... ) PER RAPPRESENTATIVA INTENDERE DOBBIAMO QUELLA SORTE DI MELODIA CHE E' VERAMENTE PROPORZIONATA ALLA SCENA. ( ... ) PIU' DUNQUE MI PIACE DI CIIIAMARE QUESTO STILE ( ... ) RAPPRESENTATIVO O SCENICO, CHE RECITATIVO, SI' PERCHE' GLI ATTORI NON RECITANO, MA RAPPRESENTANO IMITANDO LE AZIONI E I COSTUMI UMANI.

Dalla prosa alquanto involuta dei Doni si può intendere come, nei primi decenni del XVII secolo, i due termini recitativo e rappresentativo potevano essere confusi; da cui la necessità di un distinguo che ne chiarisse, la portata: il recitativo è uno Stile, caratterizzato dal prevalere della declamazione sul canto spiegato, dall'assenza di lunghi passaggi e di ripetizioni di parole e di frasi, e dall'estrema flessibilità ritmica. talvolta espressamente richiesta all'esecutore, che supera la divisiorie metronomica della battuta; mentre il rappresentativo è un Genere a voce sola, non necessariamente destinato alle scene, che trae il nome dal fatto che il cantore deve, all'atto dell'esecuzione, rappresentare degli affetti, dei sentimenti.
Delle quattro pagine monteverdiane incluse in questa registrazione, solo due sono in Stile recitativo (come si desume dall'indicazione si canta senza battuta); tutte invece hanno in comune l'appartenenza al Genere rappresentativo: possono cioè avere o non avere una precisa destinazione scenica, ma sono caratterizzate da quella che si potrebbe definire un'osservazione psicologica, che scruta i più intimi moti dell'animo, conseguendo talora dei risultati sconcertanti di approfondimento che, nell'ambito del canto da camera, si possono per certi aspetti ritrovare nella liederistica romantica (basti pensare all'analisi della psiche femminile presente nell'opera di Franz Schubert o di Robert Schumann). Insieme al Combattimento di Tancredi e Clorinda, esse sono quanto il Monteverde ha prodotto nel Genere rappresentativo; ad esse si deve aggiungere il Lamento di Arianna, sopravvissuto al naufragio dell'opera teatrale di cui faceva parte probabilmente in merito all'alta espressività che ne è il carattere principale e che lo rese famoso negli ambienti musicali dell'epoca.
Nell'accostarsi al Genere rappresentativo, a parte il Combattimento che sviluppa un esperimento musicale e drammatico a se stante, il Monteverde ha operato la sua scelta poetica su dei testi di argomento amoroso, tali da presentare situazioni di profondo pathos: momenti di rimpianto, di lontananza, di mancata corrispondenza: un eros in negativo che vive in funzione del contrasto di sentimenti che esso suscita e che, in ciascuna di queste quattro pagine, consente all'occhio indagatore del Musicista di esplorare, si direbbe con rigore scientifico, l'universo immenso e imprevedibile degli affetti.
Primo fra esse in ordine cronologico, ed unico espressamente destinato alla scena, il Ballo delle Ingrate fu composto per i festeggiamenti organizzati a Mantova nel 1608 in occasione del matrimonio del Principe Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia: ad essi il Monteverde aveva contribuito anche con l'opera Arianna e con il Prologo degli Intermezzi per la commedia L'Idropica di G.B. Guarini: composizioni entrambe perdute, con l'eccezione del già citato Lamento d'Arianna.
Il Ballo delle Ingrate, su testo di Ottavio Rinuccini (1562-1621) è un"allegorica esortazione rivolta alle nobildonne della corte a non respingere le profferte dei loro innamorati; a tal fine, sollecitato da Venere., Plutone conduce dinnanzi al pubblico le anime delle donne che scontano in eterno la colpa di «ingratitudine» nei confronti d'Amore, affinché la loro vista serva d'esempio alle spettatrici.
Dal punto di vista letterario, questo motivo, già presente nella tradizione più antica (si ricordi la novella di Nastagio degli Onesti della V giornata del Decameron), si inserisce in un filone edonistico e paganeggiante di origine umanistica, che ha illustri esempi nelle Stanze del Poliziano e nell'Aminta del Tasso: una tematica che ben si adattava all'atomosfera libertina della corte mantovana (non è superfluo ricordare la figura del verdiano Duca di Mantova, probabilmente ricalcata su personaggi storici come Vincenzo Gonzaga o lo stesso Francesco).
Dal punto di vista musicale, l'opera presenta una frattura stilistica: all'inizio risente di una concezione più formale, legata all'esperienza del canto a solo di tipo fiorentino, con in più una caratterizzazione dei personaggi, riscontrabile, ad esempio, nella scena in cui Amore tenta ingenuamente di convincere, Plutone a condurre dall'inferno le Ingrate: dapprima il dio reagisce con fare burbero e paternalistico; ma si fa avanti Venere che dà prova della sua esperienza di seduttrice, costringendo Plutone a cedere. A mano a mano che l'opera procede, si assiste ad un processo di «umanizzazione», dapprima con il duetto fra Amore e Venere, poi con l'allocuzione di Plutone che, rivolgendosi al pubblico in modo cortese e bonario, cambia genere espressivo, passando dal recitativo alla forma musicalmente più intensa dell'Aria con ritornelli. Quando poi, alla fine, una delle Anime Ingrate approfitta dell'inatteso momento di libertà per lanciare un disperato grido di doloroso rimpianto, l'ethos stilistico s'innalza ulteriormente, assumendo, con la forma del lamento connotazioni del tutto umane: il canto dell'Ingrata, con i suoi contrasti espressivi tra l'impeto di dolore per il "sempiterno affanno" infernale ed il rimpianto per l'«aer sereno e puro», realizza pienamente l'intento patetico insito nel Genere rappresentativo, rivelandosi come il punto locale di tutta l'opera.
La Lettera amorosa e la Partenza amorosa sono due pagine appartenenti al VII Libro dei Madrigali («Concerto», 1619), in genere rappresentativo e in stile recitativo (come si desume dall'indicazione si canta senza battuta); identiche come tipologia, in realta esse sono, come si vedrà, di segno opposto, o meglio complementare. Nella Partenza, il testo di autore anonimo esprime, in rapidi (e alquanto sciatti) settenari a rima baciata, il dolore di un amante che si congeda dalla sua donna, consolandosi alfine al pensiero che, ovunque egli vada, la sua anima resterà indissolubilunente unita all'anima di lei.
La Lettera, un testo di Claudio Achillini (autore che solitamente le antologie scolastiche presentano a paradigma dei barocchismo più kitsch a causa del famigerato sonetto «Sudate, o fochi ... », e che, invece, necessiterebbe di una attenta rilettura, non foss'altro in merito della spericolatezza delle sue metafore e della lussureggiante decoratività dei concetti) è in realtà un ardito poemetto in cui un amante, in termini inequivocabilmente feticistici, sofferma la sua fantasia sui capelli biondi della sua donna.
Nega realizzazione del Monteverde, mentre la Partenza è scritta in chiave di tenore, la Lettera è destinata alla voce di soprano: cosa che suscitò la perplessità di critici attenti come il Doni. Ma talvolta, nell'opera di un grande artista, certe apparenti incongruenze si spiegano con una logica di sconcertante chiarezza: in questo caso, col fatto che, se nella Partenza l'amante stesso (tenore) si rivolge direttamente all'amata, nella Lettera è quest'ultima (soprano) che, tra le pareti della sua camera, si pone alla lettura del messaggio epistolare testé ricevuto. Si viene così a creare una situazione analoga a quella di due eroine verdiane (Violetta Valery: «Teneste la promessa ... »; Lady Macbeth: «Nel dì della vittoria ... »), esasperata dal fatto che, in questo caso, l'interprete ha il compito di esprimere dei turbamenti suscitati dalla lettura di espressioni dettate dalla malcelata sensualità del mittente; ne consegue la necessità di un'interpretazione interiorizzata, introspettiva e priva di enfasi.
In confronto alla Lettera, la Partenza è stata, ed è ancora, considerata una pagina retorica, un'esercizio di scrittura interessante ma prolisso; è solo in seguito ad un approccio molto libero nella parte musicale e più strettamente legato alla recitazione (recitar cantando) che si scopre il fascino di un'irruenza declamatoria che, in un crescendo di intensità, si placa soltanto alla cadenza conclusiva dove il canto sillabico lascia lo spazio ad un'ampia, arieggiante fioritura: la voce dell'innamorato ormai lontana, quasi disumanizzata nell'intima, consapevolezza di un affetto inestinguibile.
All'VIII Libro dei Madrigali («Madrigali Guerrieri et Amorosi», 1638) appartiene il Lamento della Ninfa, su testo ancora di Ottavio Rinuccini. Si tratta di una tenue canzonetta in quartine di settenari, di argomento pastorale: fra le mani dei Monteverde essa si trasforma in un toccante poema di dolore e di sdegno. Nella sua realizzazione musicale, il brano risulta tripartito; nella prima e nella terza parte, le tre voci «che cantano fuori del pianto della Ninfa» forniscono rispettivaniente un'ambientazione ed una morale conclusiva; nella parte centrale su di un basso di Ciaccona il soprano intona un lamento che stravolge completamente la metrica originale del Rinuccini, disperdendone e riaccostandone i frammenti in una metrica nuova di inaudita libertà espressiva. mentre le altre voci. divenute di partecipi spettatori. intervengono con due versi interpolati (ottonari contro i settenari della Ninfa) ora insieme, ora ad entrate successive. Il risultato è il contrasto tra le categorie dell'Oggettivo e del Soggettivo: la ripetitività della Ciaccona e il canto, libero e struggente, degli affetti turbati. Nel tentativo di rispettare l'idea del Monteverde è stata scelta, in accordo tra direzione musicale e direzione artistica, una presa di suono che pone su due differenti piani sonori la voce della Ninfa e le altre tre voci: speriamo di essere riusciti nel nostro intento.
Dalle quattro pagine incluse in questa registrazione, appare un'immagine di Claudio Monteverde che integra e completa quella tramandata dalle testimonianze e dai ritratti: la figura dell'uomo severo, del maestro inflessibile e un po' pedante, del sacerdote, ne viene illuminata da una nuova luce che rivela un aspetto umano dotato di una profonda e delicata sensibilità, non dissimile da quella di un Tasso. E ciò, si badi bene. al di là dei moduli espressivi e stilistici insiti nel Genere rappresentativo: quante altre volte, nella storia della Musica, troviamo un'atmosfera inquieta e lievemente dissociata come quella della Lettera amorosa? o un rimpianto struggente come quello dell'Ingrata? o un prorompere di sentimento altrettanto «romantico» che il Lamento della Ninfa? o ancora un fluire di oratoria gonfio di lacrime come quello della Partenza amorosa? Appare chiaro che il Musicista conosceva questi affetti, come non gli sfuggiva la potenza dell'Amore in tutte le sue manifestazioni. Per questo ci è piaciuto, quasi a commento, riprodurre in copertina l'immagine caravaggesca di Amor vincit omnia: come se, in questi brani, Amore assistesse per quattro volte al suo trionfo.
Confidiamo che anche questa seconda registrazione dedicata a Claudio Monteverde contribuisca a porre definitivamente, ed in modo non soltanto teorico, l'Opera del Musicista tra le vette più alte raggiunte nell'espressione musicale di tutti i tempi.

di Cristiano Gianese (note di copertine al CD TACTUS TC56031102, (p) 1989)