Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, settembre 30, 2012

Monteverdi: "Il Settimo Libro de' Madrigali" (1619)

Annibale Carracci
A Bacchante (dettaglio)
Pubblicato a Venezia nel 1619, dopo cinque anni dalla stampa del Sesto Libro, il "CONCERTO” (come Claudio Monteverdi intitola il suo Settimo Libro de’ Madrigali) venne edito a Venezia dallo stampatore Bartolomeo Magni. Aprendo il libro, accanto ad un sonetto d’un anonimo ammiratore del musicista (Sul MONTE, che da terra al cielo asceso), Monteverdi pone un’interessante dedica a Caterina de’ Medici (1593- 1629), figlia di una delle più importanti famiglie italiane che regnavano su Firenze e nipote della ben più famosa e controversa Caterina de’ Medici, regina di Francia. Con uno stile da devoto cortigiano, dedicando il libro alla sposa di Ferdinando Gonzaga principe del ducato di Mantova (città italiana che così spesso abbiamo nominato nelle precedenti pubblicazioni monteverdiane), egli tenta di tenere i rapporti con quel capoluogo che tanto aveva amato e contemporaneamente odiato, perchè mai gli aveva riconosciuto quegli onori di musicista già famoso in tutta Europa. Nel 1614, Monteverdi aveva abbandonato Mantova per Venezia (dove rimarrà fino alla morte): non è casuale che proprio in quell’anno ci offra il Sesto Libro, quello dedicato al tema dell’addio, della separazione. Sia che si tratti d’abbandono narrato (quello provato dai personaggi narranti), che di doloroso commiato fisico, in quella stampa il divino Claudio ci ha offerto un ultimo, definitivo, sofferente e sublime tributo a quel modo di comporre Madrigali che fu fonte di tante sue precedenti opere d’arte. Monteverdi non dimenticherà mai Mantova e i Gonzaga, come mai dimenticherà il Madrigale in quella forma a cinque voci che lo rese unico nel panorama della storia della musica. A quel tempo Venezia era la città dell’innovazione, centro d’una nuova concezione del potere politico, la Repubblica: La Serenissima (com’era definita la città lagunare e il suo potere territoriale) non si assoggettava ad un duca o un principe, ma viveva in piena libertà e autonomia sia politica che religiosa. La Basilica di San Marco, per esempio, aveva un’indipendenza liturgica da Roma e il Patriarca (la figura religiosa più importante della città, più del vescovo nominato da Roma) non era nominato dal papa ma direttamente dal Doge e dal Maggior Consiglio. Abbracciando questa città, Monteverdi abbraccia una diversa concezione culturale, in una direzione di totale rinnovamento compositivo, lontano dalla corte, dal giogo cortigiano e dalla sudditanza al principe.
Il duca Ferdinando Gonzaga appare solo di sfuggita nella dedica del Settimo Libro: tutta l’attenzione è rivolta alla moglie Caterina. Il duca era presumibilmente in collera per la decisione del compositore di lasciare la città (ricordiamo che significativamente il Sesto Libro è l’unico che fu pubblicato senza dedica: come accettare una pubblicazione d’addio?) ma, in quel momento, Monteverdi non era certamente una priorità per lui. Ferdinando ereditava, infatti, una fragile situazione finanziaria che egli stesso aggravò con vita e scelte politiche sbagliate: fu questa circostanza a costringerlo a svendere una delle più sfarzose collezioni d’opere d’arte (la celeberrima Celeste Galeria che compendeva opere di Bruegel, Cranach, Dürer, Mantegna,Tiziano, Rubens, Giulio Romano, Tintoretto, Reni, Correggio, Veronese, oggi sparse nei più importanti musei del mondo). Monteverdi spera di mantenere i rapporti con Mantova attraverso la dedica del Settimo Libro: “questi miei componimenti saranno pubblico et autentico testimonio del mio devoto affetto verso la casa Gonzaga, da me servita con ogni fedeltà per decine d’anni”. La decisione di volgere al nuovo e alla Serenissima Repubblica di Venezia, è però irrevocabile: morto, nel 1619, il musicista ufficiale della corte dei Gonzaga (ricordiamo che mai Monteverdi ebbe questa carica ufficiosa), il compositore fu richiamato al servizio del duca, ma egli eluse l'invito con alte richieste economiche. La considerazione in cui era tenuto il suo lavoro, il buon stipendio percepito (“non vivo ricco no, ma non vivo neanche povero” scriverà a Striggio nel 1627), il fatto di trovarsi alle dipendenze d’una istituzione solida e non soggetta agli umori volubili d’un duca, lo portarono a rifiutare quel passato a corte, conservando il nuovo “servitio dolcissimo” e la carica di Maestro di Cappella della Serenissima Repubblica (così si definisce nel frontespizio del libro) nella Basilica Palatina di San Marco di Venezia (che, ricordiamo, non era un duomo ubbidiente a Roma, ma la chiesa di palazzo, la cappella ufficiale delle liturgie religiose della Repubblica).
Questa nuova condizione, unitamente alla sua naturale propensione per ricercare e sperimentare nuovi percorsi compositivi, lo porta a pubblicare un libro in netta rottura con le precedenti pubblicazioni: qui il madrigale è trasformato o, forse, sarebbe meglio dire totalmente scomparso nella forma alla quale siamo stati abituati a riconoscerlo fino a questo punto. In trentadue composizioni (anche questa una novità in quanto tradizionalmente i libri precedenti raccoglievano dai diciotto ai ventun brani al massimo) non viene incluso nemmeno un madrigale a cinque voci, ma solo brani da una a quattro voci (ben quindici sono “a due”) tutti con basso continuo, alcuni concertati con violini, unitamente a brani che potremmo dire “sperimentali” perchè non assimilabili alla forma tradizionale del madrigale. Proprio per quest’eterogenea varietà d’opere Monteverdi impone il titolo di “CONCERTO”, termine ricco di qualità, programma stilistico che addita maniere di contrasti entro l’andare concorde delle parti e confronti fra voci e strumenti. Non ancora l’esecuzione dinnanzi a un’adunanza. Eppure v’è un’interna disposizione dei pezzi calcolata nel libro, bilanciata (Claudio Gallico: Monteverdi, 1979).
Proprio la disposizione dei brani, in questo libro, ha creato molte contraddittorietà tra gli studiosi ed esecutori, offrendone diverse soluzioni: alcuni esecutori sconvolgono quest’ordine (Cavina); altri musicologi (tra cui Malipiero e tutti quelli che lavorano sulla sua trascrizione) rispettano la stampa del basso continuo che (per ragioni di mera grafica editoriale) pone il brano Non è di gentil core come secondo anzichè terzo (come è invece segnato in tutte le altre parti vocali e strumentali). Non ritengo sia solo una pura discussione accademica rispettare il pensiero monteverdiano, in quanto ritengo che l’ordinamento voluto dall’autore sia fondamentale per comprenderne questa “disposizione calcolata e bilanciata”. Come avevamo già riscontrato in tutti i libri precedenti, i brani si susseguono con una precisa razionalità tutta da osservare e rispettare, perchè oltre ad aderire ad un criterio di crescente compagine vocale (ordinata secondo precise estensioni vocali), il libro si presenta come una specie d’opera lirica, unitaria, che dal prologo iniziale (colpo di genio dell’autore) seguito dal “coro” d’apertura, va man mano dipanandosi in scene a duetto e terzetto che dipingono situazioni con diverso carattere amoroso fino all’esodo gioioso e “corale” del ballo finale. Tradire questa sequenza di brani (recuperati grazie ad una nuova edizione critica completa, espressamente edita per questa incisione discografica) sarebbe assimilabile ad un arbitrario smarrimento della concatenazione narrativa d’un dramma lirico, ben studiato a tavolino dall’autore, che alterna momenti di fasto sonoro a momenti di solitario ripensamento, dalla gioia al dramma, dall’erotismo alla preghiera.
L’apertura del libro è affidata ad una Simphonia strumentale (assimilabile ad una “Sinfonia avanti il levar de la tela”) che ingloba i bellissimi versi di Giambattista Marino, Tempro la cetra tratti da La Lira, una raccolta di componimenti delle Rime, pubblicate tra il 1602 e il 1614. Oltre ad una mera introduzione, quest’apertura è assimilabile ad un vero prologo di un’opera secentesca, affidata alla voce sola, che spiega al pubblico lo spirito e l’argomento del libro (come, ad esempio, avviene nel prologo affidato alla Musica nel precedente Orfeo, 1607). Come in un madrigale (e forse proprio per questo possiamo definirlo ancora un madrigale) le note si assoggettano al significato delle parole, abbandonandosi a madrigalismi che lanciano in note acute le parole alzo talor lo stil, fiorendo di semicrome e abbellimenti le parole e pur tra’ fiori, rallentando fingendo d’addormentarsi nei versi conclusivi in grembo a Citerea, dorma al tuo canto. Il risveglio (prima della conclusione finale che ci riporta alla sinfonia iniziale variata) è una gioiosa danza che sembra riservata ad un abile gruppo di danzatori. Nell’edizione di Malipiero del 1932 (unica trascrizione per ora in commercio) troviamo in questo brano alcuni errori che sono stati corretti nella nostra edizione: oltre all’omissione d’alcuni abbellimenti originali, menzioniamo il testo erroneo de la lira sublime (l’originale è: de la tromba sublime), le diverse legature di valore sparite nell’edizione del ’32 (la più percepibile, anche ad un ascolto distratto, è l’ultima nota finale del violino secondo), errori di note nelle parti interne strumentali. Esattamente come avviene per la prima composizione, anche tutti gli altri brani del libro hanno subìto una totale revisione critica che confronta la prima edizione del 1619 con le successive ristampe (del 1622, 1623, 1628, 1641) e successivamente confronta i testi con quelli delle pubblicazioni letterarie originali: molto spesso accade di notare delle discresie tra le versioni che a volte ne alterano la musica, a volte il significato testuale. Nel finale del brano successivo abbiamo una di queste distorsioni. Operando una collazione dei testi, notiamo che le parole assegnate alle parti vocali terminano con due diverse versioni: de l’antiche dolcezze ancor gli honori oppure ...ancor gli humori mentre il testo originale di Marino è ...ancor gli odori. Quest’ultima probabilmente è la versione corretta (le altre hanno solo un’assonanza musicale ma non semantica): una dell’essenziali tematiche del Settimo Libro è proprio quella del “profumo”. Questo tema lo troviamo anche nei brani Vaga su spina ascosa (dove si invocano le primaverili Ninfe de gli odori e in Con che soavità (12 del 2° cd) in cui Guarini cita le amate labbra odorate. Quest’ultimo brano, insieme al secondo, meritano la nostra attenzione: sono due brani in cui gli strumenti concertano, dialogando, con le voci. A quest’olmo è un madrigale a sei voci, con basso continuo, due violini e due flauti obbligati (cioè Monteverdi stesso scrive che desidera questi strumenti segnandoli sulla parte, cosa abbastanza rara in un epoca in cui si scrivevano linee melodiche che venivano poi assegnate agli strumenti che erano reperibili per una specifica esecuzione). Deducendo che il compositore avesse a disposizione due bravi flautisti, abbiamo ampliato l’organico strumentale del libro anche a questi due strumenti, alternandosi ai violini (come in questo secondo madrigale), nel primo brano e nel Ballo finale, ottenendo quella varietà timbrica desiderata da Monteverdi nel secondo brano.
Con che soavità, contrariamente a quanto si possa pensare, non è un madrigale a voce sola accompagnata da strumenti ma un brano a dieci voci, divise in tre cori, di cui una sola linea è cantata, mentre le altre voci sono affidate a strumenti anzichè a cantanti. Questa idea policorale, omaggio ad una concezione tutta veneziana di comporre (ricordiamo i brani di Gabrieli), sottintende un testo che è rivelatore d’un importante svolta concettuale e musicale. I versi di Marino, infatti, antepongono le parole ai baci, in quanto escludono l’uno irrimediabilmente l’altro (s’ancidono fra lor): è l’eterno conflitto fra la razionalità e la passione. Sarebbe bello che queste due parti dell’animo umano si unissero e creassero armonia nel rapporto amoroso come nel nostro vivere quotidiano; purtroppo questo non può avvenire. Monteverdi materializza musicalmente questo pensiero ponendo la voce sola (non polifonia, ma voce sola accompagnata solo dal suo basso continuo) in mezzo ai due concetti (la razionalità e la passione) materializzati dai due cori di strumenti asemantici, senza testo. I due cori sono oltremodo antitetici perchè l’autore scrive che devono essere composti da un gruppo di viole da gamba (con organo come basso) e un gruppo di strumenti da braccio ossia un quartetto d’archi “moderno” (con il clavicembalo). L’uomo sogna l’armonia ma nella realtà deve scegliere fra baci e parole, fra istinto e lucidità, sperando d’unirli ma sapendo già che la vittoria d’uno conduce alla morte dell’altro (Che soave armonia fareste, o dolci baci, o cari detti, se foste unitamente d’ambedue le dolcezze ambo capaci). Sotto le righe, in questo preciso momento storico, Monteverdi ci sta dicendo che sarebbe bello che il mondo antico (il coro di viole da gamba e tutto ciò ad esso congiunto) vivesse in armonia con il nuovo (il quartetto d’archi), ma la risposta è fatale: da questo madrigale in poi “l’antico” sparirà e il “nuovo” procederà irrimediabilmente. Mai più, da questo momento, troveremo le viole da gamba (ricordiamo che Monteverdi era entrato in contatto con la corte dei Gonzaga presentandosi come violista) che cederanno il passo ai violini (e il violoncello, considerato un violino da braccio bassa); mai più Monteverdi ritornerà a comporre il madrigale a cinque voci; mai più egli ritornerà a Mantova. Sarebbe bello che tutto si conciliasse, ma il cammino verso l’epoca moderna travolge il mondo antico: questo brano segna concettualmente il preciso punto di cambiamento storico.
La Lettera amorosa e la Partenza amorosa sono due monologhi dedicati rispettivamente ad una voce acuta e ad una voce media (tenore o baritono): entrambi, dopo il titolo originale apposto dal compositore, recano la dicitura a voce sola in genere rappresentativo et si canta senza battuta. Come scrivevo nella pubblicazione del Sesto Libro riguardo al solistico Lamento d’Arianna, il significato della dicitura apposta da Monteverdi pone al cantante il problema interpretativo della rappresentazione del brano che non significa indossare costumi per divenire il personaggio, ma quanto “essere” quel personaggio: in quel momento (e per momentanea finzione teatrale) egli vive tangibilmente quelle situazioni coinvolgendone il pubblico. La seconda indicazione cantar senza battuta, “non presenta particolari problemi, riferendosi trasparentemente alla necessità di una declamazione che fuggisse agni rigidità ritmica in favore di una scioltezza recitativa governata dai soli metri dell’ “oratione” e dell’ “affetto” (P. Fabbri: Monteverdi, 1985).
Per favorire tale scioltezza, parte del basso continuo è scritta (per la prima volta nelle edizioni di Monteverdi) “in partitura” cioè sovrapponendo la linea del cantante a quella dello strumento che la accompagna favorendone la coordinazione e la libertà interpretativa. Molti musicologi ed interpreti giustificavano la scelta monteverdiana della voce acuta per la Lettera amorosa, immaginando fosse letta dall’amata che riceve lo scritto. Siamo d’opinione contraria proprio perchè il titolo del poeta Claudio Achillini non lascia dubbi: Cavaliere impaziente delle tardate nozze, scrive alla sua bellissima sposa questa lettera. Ancora una volta, abbiamo un argomento a difesa della nostra ponderata scelta d’utilizzo delle voci maschili nelle tessiture acute, già difesa nelle precedenti pubblicazioni.
I duetti che compongono questo Libro mostrano la grande novità: scene teatrali amorose, dolci o buffe (Io son pur vezzosetta o Dice la mia bellissima Licori, si alternano a momenti di disperata espressività ed intensità. Fra questi S’el vostro cor, madonna e Interrotte speranze traducono l’intensità che riesce ad irrompere da un organico così ristretto. Dramma privato e cuore sofferente del libro, i due madrigali mostrano quella sapienza monteverdiana (frutto della Seconda prattica) di creare pathos, emozione, turbamento, commozione. L’unisono iniziale di Interrotte speranze che sfocia in dissonanza è un’elaborazione degli esperimenti ascoltati nel Quarto Libro nel madrigale Ah, dolente partita; il cromatismo di S’el vostro cor, madonna condurrà ad esiti fonici inaspettati.
Nel “Concerto” una particolare attenzione, anche numerica, è rivolta ai componimenti poetici dedicati al tema erotico del “bacio” scritti da Giambattista Marino nelle Rime amorose: Vorrei baciarti, o Filli (con il titolo originale letterario: Bacio in dubbio), Perchè fuggi (Bacio involato), Tornate, o cari baci (Baci cari) e il geniale e malizioso terzetto Eccomi pronta ai baci (Bacio mordace). L’estremismo, invece, è testato in Parlo, miser, o taccio, a tre voci, dove le possibilità vocali dei cantanti sono messe a dura prova da tessiture dilatate sia nell’acuto che nel grave (più di due ottave d’estensione sono vocalmente necessarie al basso per l’esecuzione di questo brano: forse un omaggio al celebre cantante estense Giulio Cesare Brancaccio) che rendono musicalmente le estremismi concettuali e i contrasti delle parole.
Conclude il libro il Ballo Tirsi e Clori che, conformandosi al Libro che ha in maggioranza madrigali a due voci, inizia proprio con un dolcissimo duetto tra due pastori. Caratteri diversissimi si avvicendano solisticamente concludendo con un duetto: in un ritmo ternario, di danza, Tirsi vorrebbe trascinare l’amata Clori alla gioia e ai piaceri della danza, ma timidezza e ritrosia femminile (musicalmente visualizzata da una libertà recitativa offerta dal tempo binario) frenano lo slancio passionale del pastore. Il duetto finale è simbolo dell’unione fra i due amanti che, placata ogni renitenza, sfocia poi nella gioia corale della danza trascinando altre voci e strumenti in una profusione d’alternanze ritmiche d’eterogenee atmosfere. Molte testimonianze, attestano che il Ballo fu composto da Monteverdi e da Striggio (stilisticamente l’autore del testo) per l’incoronazione del Duca Ferdinando Gonzaga nel febbraio 1616. Una lettera autografa ci offre una bella testimonianza di quello che Monteverdi stesso desiderava in quell’occasione: giudicherei per bene che fosse concertato in mezza luna, su li angoli della quale fosse posto un chitarrone et un clavicembalo per banda, sonando il basso l’uno a Clori et l’altro a Tirsi, et che anch’essi avessero un chitarrone in mano sonandolo et cantando loro medesimi nel suo et li detti duoi ustrimenti. Se vi fosse un arpa in loco del chitarrone a Clori sarebbe anco meglio, et gionti al tempo del ballo dopo dialogati che averanno insieme, giongere al ballo sei altre voci per essere ad otto voci, otto viole da braccio, un contrabasso, una spineta a spata. Se vi fossero anco duoi leuttini piccioli sarebbe bene. La volontà di differenziare i due protagonisti è chiarissima sia nella disposizione scenica (devono stare ai due lati opposti della scena) che nella caratterizzazione timbrica degli strumenti che li accompagnano (Tirsi, clavicembalo e chitarrone in mano; Clori, chitarrone o meglio l’arpa). E’ facile notare come il brano descritto ha alcune differenze sostanziali nell’organico (nel ballo finale cita otto voci accompagnate da otto archi e contrabbasso e bc, rispetto alle sole cinque voci del Settimo Libro), ma sappiamo come Monteverdi adattasse le proprie musiche alle varie occasioni e ai vari organici disponibili. Per ricordare questa bramata opulenza strumentale, nella nostra versione, raddoppiamo le cinque linee vocali del finale con violini, viole (da gamba e da braccio), violoncello, contrabbasso, flauti, percussioni e tutti gli strumenti di continuo usati nei precedenti madrigali: questo contrasta felicemente con l’arpa sola che accompagna Clori e il clavicembalo, la viola da gamba e la chitarra barocca che immaginiamo suonata dalle stesse mani da Tirsi.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.555314-16)

sabato, settembre 22, 2012

Nina Berberova: Borodin e Liszt

Aleksandr Borodin (1833-1887)
Attraverso la tranquilla Weimar, attraverso la verde Weilandplatz, accanto al piede destro del monumento di bronzo di Weíland, giù per Marienstrasse.
«Vive qui Liszt?».
La piccola casa a due piani con il giardinetto curato apparteneva al giardiniere del granduca di Weimar.
«Herr doktor Líszt? E' qui, entrate». E Borodin consegna il proprio biglietto.
L'andito stretto, la scala verso l'alto, dipinta con la tinta a olio. I gradini scricchiolanti sembrano emettere spari sotto il largo e pesante piede di Borodín.
Poco tempo prima avevano ricevuto la prima notizia sull'atteggiamento di Liszt verso la loro piccola cerchia: Liszt ammirava la musica del 'gruppetto'. Come sempre, non per questioni personali, ma per iscrivere all'uníversítà di Jena due gíovani studenti di chimica, il figlio di pope Díanin e l'odessíta Goldsteín, Aleksandr Porfir'evíc era venuto all'estero. Alla mattina era arrivato in treno da Jena a Weímar, aveva visitato la casa di Goethe, la casa di Schíller, la casa di Herder, si era ínchinato alle amate tombe nel cimitero di Weimar. (Mentre Aleksandruska Dianin e Misa Goldstein, rimasti a Jena, impazienti, non sapevano cosa fare).
«Vous avaít fait une belle symphonie!», dice una voce alta e veloce sopra Borodín, e, con i lunghi capelli grigi e il naso affilato, con la prefettizia nera a lunghe falde, la cravatta nera, compare sopra di lui Liszt. Le sue lunghe dita raffigurano nell'aría quei tempi dello scherzo, che Musorgskíj definisce «colpi di becco». «C'est ravissant, c'est ingéníeux! », dice, stringendo forte con la mano sottile quella robusta di Borodín, e lo conduce nel proprio studio.
Aleksandr Porfir'evíc tace e ascolta il torrente veloce dell'eccellente e precisa parlata francotedesca; davanti a lui la figura del vecchio abate, che ora si siede sul divano, ora si muove tra il piano e l'étagère, davanti a tre finestre che danno sul giardino di rose.
«Síe sind wohl weít gegangen, sie haben aber nie verfehelt!», grida Liszt. «Non date retta a nessuno, andate per la vostra strada, siate originale ...».
Alla fine, si siede; il servitore montenegríno porta delle bottiglie e dei piccoli bicchieri. Adesso il discorso verte su Korsakov e Musorgskij. Sul leggío del Bechstein aperto c'è l'Islamej di Balakírev e l'opera di Anton Rubinstejn Nerone si trova sul tavolínetto a fianco dei bicchierini.
«Grazie a Dio - dice -, non avete studiato al conservatorio. Il futuro appartiene alla musica russa, alla vostra musica... Monsíeur Borodin, io sono troppo vecchio per fare complimenti ... ».
Agitando l'occhialíno appeso a un piccolo cordone, gettando indietro i capelli, con quel rigido alto colletto inamidato che portava per dovere, si muoveva con semplicità e leggerezza per la stanza, trovava degli accordi, si fermava, si sedeva di nuovo, parlava scandendo le parole; la bocca spalancata e chiusa con forza, gli occhi fissi sull'interlocutore. E la sua parlata si riversava su tutto: la musica, la Russia, Sadko, le romanze di Kjuí, il trio di Napravník, e ritornava alla prima sinfonia di Borodin.
«Dobbiamo suonarla assieme», ripeté diverse volte, e Borodín, intimidito, smarrito, assicurava di non saper suonare, di non potere, di non osare...
Se ne andò verso sera, con inviti per colazione, pranzo, matinées, a lezione con i discepoli, ad una serata con il granduca. Tutti gli inviti gli si erano confusi nella mente. Tornò a Jena ed era soltanto in grado di dire ai propri ragazzi:
«Domani lo vedrete voi stessi. Domani verrà qui, ha un concerto nella cattedrale».
Nella cattedrale di Jena i concerti venivano dati una volta all'anno, per questo il nome di Liszt non compariva sulla locandina. Si era riunito un numeroso pubblico di aristocratici e di gente semplíce, poiché già tutta la città sapeva che avrebbe suonato Líszt. Aleksandruska e Mísa si erano introdotti nella cattedrale sin dal mattino, avevano ascoltato tutte le prove, avevano visto Líszt arrívare e, come inebetiti, inciampando e correndo, gli erano corsi dietro, senza vedere e senza ricordare nulla. Borodin di tanto in tanto vedeva i loro volti beati, istupídití dall'entusiasmo, che ora balenavano in lontananza, ora incalzavano il 'maestro' all'uscíta dalla cattedrale, ora pallidi e tesi mentre lui suonava, ora sudati e rossi sotto il sole per la strada, mentre Liszt con il suo seguito e i suoi allievi se ne andava all'albergo «Zum schwarzen Bären ».
Camminava a testa alta, tenendo sottobraccio la baronessa Meyendorf, nata principessa Gorcakova, a lui vicina già da alcuni anni, amica del granduca e di tutti i notabili di Weimar. Alla sinistra di Líszt c'era l'amata allieva del maestro, Vera Tímanova, minuta, elegante, vivace, vestita alla moda di Parigi, con piedini e manine piccolissimi (non era in grado di prendere un accordo di sesta in fa minore). Dietro loro tre, cinguettando, stríllando, ridacchiando, camminava un'intera nidíata di fanciulle, volate da Liszt dall'Irlanda, l'Unghería, la Svezia, l'Italia, l'America, senza cappelli, senza guanti, che raccoglievano ciliegie per la strada, che si incipriavano davanti a tutti, che spaventavano le tedesche con il loro aspetto sconveniente. Tra di loro c'erano due o tre allievi, con i capelli lunghi, con dei lunghi colletti ripiegati.
«Salve... Non restate distante. Liszt vi ama molto», sussurrò velocemente la Timanova a Aleksandr Porfir'evic, ed egli, corpulento, calvo, semiingrigito, vestito in tussor di seta, presa sottobraccio una allegra e abbronzata danese, si mise a camminare assieme agli altri (mentre a Aleksandruska e Misa, che balenavano da lontano, cadevano lacrime di invidia, ma Borodín non vacíllò).
«Zum schwarzen Bären»... La gentilezza della baronessa Meyendorf, gli sguardi amichevoli della piccola Timanova, i discorsi, le risate, il silenzio improvviso alla prima parola di Liszt, di nuovo domande e inviti, e infine il ritorno generale a casa, a Weimar. Il capostazione comunica che per il maestro e le signore hanno attaccato un vagone speciale; Liszt, emaciato, stanco, se ne va nel proprio scompartimento. Il treno si muove, qualcuno butta delle ciliegie a Borodin, che è in piedi sulla píattaforma; egli agita il cappello: a domani! (Ma gli balena il pensiero che, eccetto quello da viaggio, non ha altro vestito. Ah! Dío mio, che scalogna!).
Si volta: quattro occhi seguono il treno che si allontana, Aleksandruska e Mísa con speranza e disperazione accompagnano a Weimar il grande ospite.
La città di Goethe e Schíller nei mesi estivi diventava la città di Liszt. Viveva qui, e la folla multilingue delle sue giovani allieve per tutto il giorno faceva risuonare il pianoforte attraverso le finestre aperte. Le lezioni, a una delle quali era stato invitato Borodín e per le quali Líszt non esigeva alcun pagamento dagli allievi, si svolgevano nel suo studio, dove tutti sedevano assieme, chi sul davanzale, chi sul divano, e ascoltavano assieme al maestro l'allievo di turno. Erano tutti riuniti, quando Aleksandr Porfir'evic entrò nella stanza e si rallegrarono rumorosamente con lui.
Vera soprintendeva a tutto. Era evidente che Líszt adorava la sua piccola Tímanova. La abbraciava, le carezzava la guancia, la portava a tutti come esempio, faceva tutto quello che lei voleva, e lei di tanto in tanto gli baciava la mano e civettava con lui, con Borodín, con gli allievi, sapendo che tutti la ammiravano e ammirandosi essa stessa. Suonava in modo tale che Borodin rimase tutt'orecchi. Amava i virtuosismi al pianoforte, una volta in una grande compagnia aveva esclamato a proposito di Nikolaj Rubinstejn: «Suona come un figlio di cane!».. E il modo di suonare della Timanova lo faceva tremare; nel profondo dell'animo invidiava Líszt.
Ma ecco che lo stesso Liszt si è seduto al piano. Si fece silenzio. Le tre finestre sul giardino erano spalancate, era una calda giornata estiva. Stava suonando una sonata di Chopín. Ogni volta suonava la marcia funebre in modo diverso e la Timanova sussurrò a Borodin: «Ríesce ogni volta a sbagliare in modo nuovo, che orígínale!».
Nessuno volle ascoltare le giustificazioni di Aleksandr Porfir'evic, perché non aveva l'abito di gala; con quello da viaggio, le scarpe impolverate, alla sera venne obbligato a presentarsi all'albergo della baronessa Meyendorf. La Timanova gli augurò buon viaggio, mentre egli chiamava in aiuto tutto il proprio coraggio: doveva suonare a quattro mani con Liszt.
«Liszt non mi permetteva di fermarmi - scriveva in Russía -; al termine di una parte, cambiava e diceva: 'Allez toujours'. Quando sbagliavo o non arrivavo alla fine, mi faceva notare: 'perché vi fermate, va così bene!'. Poi lui e la baronessa si sono messi a pregare con insistenza che io cantassi le mie romanze e gli mostrassi qualcosa dell'opera. Mi sono decisamente rifiutato di cantare, ma ho suonato il piccolo coro delle donne dall'Igor',.. Ero come ebbro e a lungo non sono riuscito a prendere sonno».
Anche la notte seguente non aveva potuto prendere sonno: di nuovo suonare, di nuovo tutti in quell'albergo sontuoso, e i candelabri, che i servitori in polpe portavano davanti agli ospiti, che entravano a due a due nella sala da pranzo, e i complimenti enfatici che gli prodigava il granduca, e Líszt, questa volta tirato a lucido e cerimonioso, tutto rafforzava la solennità e la pompa della serata. Nella sala enorme, tra i quadri, i bronzí e le reliquie, aveva ascoltato le proprie cose, suonate da Líszt, e non credeva che potessero essere quegli stessi suoni che un tempo egli stesso aveva timidamente accennato nel salotto di Balakírev.
Quindi, aveva suonato e cantato per loro il Mare.
«Ma dove, dove mai sono queste composízíoni? gridava Líszt - Chi è il loro editore? Perché io non le ho?».
«Ecco il tentativo di una nuova sinfonia», disse Borodin...
(Stasov la chiamava la 'leonessa', ma Borodin sapeva che non tutto era buono, che bisognava semplificarla, erano resti dell'entusiasmo per gli strumenti a fiato).
Líszt acoltava. Ascoltava anche il granduca, un uomo alto con un gilet bianco, guanti lilla e una croce sul petto, se per volontà del destino era diventato padrone di questa città, come avrebbe potuto esserlo di un altro ducato o contea tedesca. Sapeva come comportarsi con i geni, era tradizione della sua stirpe, che seppelliva i poeti nella stessa cripta delle teste coronate.
Anche Borodin si ascoltava, non gli era mai capitato prima di suonare in una situazione così solenne, assieme a un semidio. Faceva del suo meglio, come un allievo, maledicendo in quegli istanti e l'insufficienza della propria tecnica di pianista, e tutto quanto nella vita gli aveva impedito di essere un vero musicista.
«Che bello», disse Líszt, quando ebbe finito, «che meraviglioso musicista russo mi sta davanti».
... Il treno lo portava lentamente a casa, attraverso Jena, Berlino, Eydtkuhnen, ma il pensiero correva sempre indietro, sforzandosi di completare, di correggere quello che gli era successo, ma, come un sogno, queste due settimane restavano immutabili, írrípetíbili; esse diventavano solamente sempre più díafane, illusorie; lentamente, pesantemente Píetroburgo gli si avvicinava con gli affari, le preoccupazioni, le avversità e sapeva di già che non avrebbe potuto trattenere per intero in sé il ricordo di quest'uníca festa nella sua vita. Ecco, come accade sulla banchina (mentre il vapore già se ne va, se ne va, e non c'è ritorno!), erano balenate le mani della Tímanova, con le quali aveva suonato per lui l'Islamej; ecco che era risuonata la voce chiara e allegra del vecchio canuto, con il colletto da ecclesiastico, e quegli occhi unici al mondo lo avevano passato da parte a parte ...
E tutto era scomparso nella nebbia di Pietroburgo.

Nina Berberova (tratto da "Genio e regolatezza", Passigli Editori, 1993)

sabato, settembre 08, 2012

Manuel de Falla: ¡Ay Amor!, il lato oscuro dei gitani

La chiquita piconera
Scene andaluse musicate da un andaluso. Un’opera nazionale creata per ansia di autenticità. Manuel de Falla, che non a caso aveva intenzione di rifare Carmen e Il barbiere di Siviglia, ha sempre insistito sul carattere evocativo delle sue composizioni, che sottraggono il folklore spagnolo alla superficialità dei luoghi comuni, autoctoni e stranieri. Contro ogni manierismo pittoresco, egli cercava nelle tradizioni popolari della sua terra ciò che resiste al tempo, quei nuclei culturali che, anche senza documenti, passano di generazione in generazione come irrinunciabile memoria di sé. Non stupisce che la minoranza etnica gitana gli offrisse la straordinaria occasione di valorizzare, dai margini, le tracce di un’identità iberica tanto evidente quanto inafferrabile. I requisiti per una mitologia delle origini non mancano. Arrivati dall’India molti secoli prima, i gitani non si sono mai integrati e tuttavia rappresentano un elemento tipico dell’Andalusia a causa di quello speciale fenomeno del cante jondo che non si è sviluppato in nessun’altra parte dell’Europa e nemmeno del resto della Spagna: uno strano incrocio locale con tradizioni asiatiche e africane che si contagiano ma non si omologano. La frontiera che unisce e separa è ancora là: familiare ed esotica, la modulazione convulsa del cante jondo conserva il mistero di tutto ciò che sfugge ai computi rassicuranti della nostra storia.
Disse Federico García Lorca, in una conferenza degli anni Venti, che questo innesto fra i primitivi sistemi musicali d’Oriente e le remote melodie andaluse era «semplice a forza di vecchiaia e di stilizzazione». Certamente si perde nella notte dei tempi il dolore tema fisso della siguiriya gitana e di tutte le canzoni che ne derivano, come per esempio il martinete e la soleá. Quanto allo stile, l’intensità dello strazio è inversamente proporzionale alla brevità delle strofe e alla sobrietà delle situazioni. Il resto lo dice l’esecuzione singhiozzata, gutturale, melismatica. Si tratta di pochi versi essenziali per un pathos che si esprime soprattutto con il corpo, perché il sentimento in gioco è sempre estremo: un pericolo per la vita, un’anticipazione della morte. Questa infelicità agonica non si racconta con ordine e armonia. Anzi disgrega il linguaggio, estingue il senso, fa ammutolire, finché un grido aspro non rompe il silenzio e ricorda che la creatura ha voce e suo malgrado esiste. Il cante jondo, che è invariabilmente percorso dal lamento, non celebra momenti di festa. Piuttosto ritualizza una disperazione che fa rivivere l’enigma della Sibilla, «vera sfinge dell’Andalusia». È di nuovo Lorca che lo afferma. Da poeta egli preferiva parlarne solo in modo obliquo, figurato. Ogni definizione era per lui troppo povera e inadeguata, perché favoriva il distacco razionale anziché la partecipazione emotiva. E invece il pubblico degli scettici, o semplicemente dei disinformati, andava coinvolto in questa sorta di liturgia musicale con qualche immagine concreta, di folgorante densità metaforica. Tale è, per esempio, quella che dice del cante jondo che «canta come un’usignolo senza occhi. Canta cieco e per questo nasce sempre di notte».
Difficile rendere in modo più efficace la bellezza paradossale di una tradizione che per Manuel de Falla sfiorava i confini del sacro, l’orizzonte indifferenziato da cui l’uomo ha preso le distanze con la ragione.
Il libretto, o meglio, le varie composizioni che contiene El amor brujo si riallacciano credibilmente alla componente grave della cultura gitana. Il prologo mette subito in scena un contrasto, dando anche le istruzioni per interpretarlo: il dolore si canta e la gioia si balla. E infatti la Canción del amor dolido è inaugurata, canonicamente, da un lamento enfatico. È notte e il primo suono che esce dalle labbra della gitana è «¡Ay¡», una interiezione che è anche un sospiro. La donna non sa che cosa le stia succedendo. È lacerata dalla nostalgia per un uomo che disprezza. La prima quartina è già conclusa: l’antefatto è tutto qui. E di nuovo il lamento – che significativamente occupa da solo il primo verso di tutte le strofe – fluisce al posto del discorso, lo spezza, lo accerchia. Al suo male d’amore la gitana allude verbalmente solo attraverso immagini iperboliche che eccedono ogni misura o ragione. Dentro, la gelosia le brucia nelle vene come il fuoco dell’inferno. Ma quale antidoto potrebbe offrirle l’acqua del fiume che ermeticamente scroscia di fuori? Non c’è risposta né sollievo. Alla gitana bastano questi due elementi cosmogonici incompatibili per esprimere l’insostenibile esperienza del tradimento. Sulla prefigurazione della morte come unica via d’uscita, la canzone si chiude con lo stesso lamento dell’inizio. Non è dunque una conclusione, ma una replica indefinita che la seducente Danza del fin del día interrompe.
Il dionisiaco di un ballo intensamente erotico si dispiega a lungo, sempre in assenza di luce. Fra le sue molte accezioni mitologiche, la notte è matrice caotica di turbamenti amorosi e rituali demoniaci.
Il Romance del pescador, recitato, mostra come la mancanza possa anche capovolgersi in aspettativa, progetto, azione. A differenza del cante jondo, quest’altra antica forma poetica spagnola ha un andamento più narrativo e dinamico. La parola riprende la sua fondamentale funzione memorialistica e comunica fatti già accaduti in una cornice da favola, dominata ancora dall’oscurità. La gitana racconta di quando vagava inutilmente alla ricerca del suo amore finché un giorno, all’imbrunire, la sua strada si restringe e incontra un fiume. Questa puntuale configurazione dello spazio rappresenta una doppia scansione del tempo: mentre il viaggio della gitana finisce, il corso del fiume continua. Tuttavia lo sfasamento della durata non è ancora avvertito.
In riva al fiume, simbolico limite dell’aldilà, la donna incontra un pescatore che non vuole prendere pesci, ma un cuore perduto. Pur con opposte strategie, la gitana errante e il pescatore sedentario inseguono lo stesso obiettivo, che però la loro volontà non basta a realizzare. Interviene invece la natura, che di notte è più matrigna che madre, con la lusinga di un rimedio efficace. L’acqua rumorosa che nella Canción del amor dolido era rimasta impassibile, cioè non aveva purificato la gitana dal fuoco maligno della gelosia, adesso fa sentire la sua voce e incammina i due amanti infelici verso la grotta di una strega.
È uno snodo decisivo. In quel metaforico grembo della terra, leggendariamente associato al lato negativo della sessualità femminile, la gitana cercherà le cure infernali che potranno salvarla dalla morte.
La Canción del fuego fatuo, che succede alla danza intitolata allo stesso modo, mostra che la contaminazione con il mondo ctonio è già avvenuta. Torna l’immagine del fuoco, possente simbolo maschile che consuma e rigenera tutte le forme. Infatti, al posto delle calde vampate della Canción del amor dolido ora ci sono le tenui fiammelle che si sprigionano nei cimiteri. L’amore succede ai viventi e ne segue il destino: si decompone come i corpi sepolti nella terra.
Lo sfondo tragico è ormai delineato. Il contrasto ineluttabile fra la vita e la morte è da sempre radicato nella physis che incessantemente crea distruggendo. In questa prospettiva trascendentale, ogni intento umano di sostituire il dolore con la gioia è fatica sprecata, anche se la magia nera rovescia la sorte e dissolve il contrasto d’apertura. Il lieto fine che segue al rabbioso Conjuro para reconquistar el amor perdido e all’onnipotente Canción de la bruja fingida non inganni. Spunta il giorno, le campane suonano a festa e la gitana è appagata. Fino a quando?
La vida breve è presentata, nel sottotitolo, come un dramma lirico, ma ha in realtà una struttura tragica, cosa che potrebbe pacificare quanti hanno trovato da ridire sulla presunta rozzezza della trama. L’evento tragico si abbatte sugli umani senza motivo e non prevede alcuna psicologia delle azioni, come mostrano i disadorni contesti delle dolenti canzoni gitane. L’opera, che è il risultato di un’affiatata collaborazione fra Carlos Fernández Shaw e Manuel de Falla, si apre con con una situazione tipica del martinete: il lamento della fucina. Il mestiere del fabbro, molto diffuso fra i gitani, rientra fra i temi classici del cante jondo ed esprime un travaglio tanto opprimente da accompagnarsi al solo suono del martello che batte l’incudine. Anche in questo caso la sofferenza si manifesta per contrasti simbolici. Mentre all’aperto i venditori spensierati offrono i fiori e i frutti della natura, nel chiuso della fucina i gitani sono condannati a modellare il ferro con il fuoco, un metallo e un elemento dal cui rapporto discendono parecchie superstizioni e vari miti. Solo per citarne uno di orientale, nei Rigveda il creatore del mondo è un fabbro. Ci sono perciò anche le condizioni della caduta da uno stato di felicità, altro elemento costitutivo del tragico. Ma non è dato di sapere quale sia stata la colpa che ha trasformato la libertà in giogo. Facendo giungere, di tanto in tanto, l’eco del loro lamento, i gitani incarnano un caso del sacrificio che accomuna tutte le vittime di ingiustizie insensate.
Pochi versi bastano per evocare il cupo destino di una stirpe enigmatica che pena da tempo immemorabile. Chi vi appartiene è già segnato. Così la giovane protagonista dell’opera, che porta iscritto nel nome il paradosso del tragico: soffre molto per amore, ma si chiama Salud. La lontananza anche momentanea dall’essere amato è per lei una mutilazione incurabile. La passione erotica la rende bisognosa dell’altro in maniera assoluta. Ma l’uomo, che è di condizione sociale più elevata, vive fuori dall’Albaicín, il quartiere gitano di Granada. In questa marcata disparità si fonda l’implicita catena di errori che mette i personaggi in contraddizione con sé stessi. E il male, pre sagio di catastrofe, colpisce a fondo prima ancora che si manifesti la causa. L’origine è sempre ambigua. Per questo Salud non capisce e non è capita in quel suo patire e in quel suo agire sempre fuori dalla norma. La passione la acceca e le toglie il giudizio. È estremamente infelice quando le manca il suo Paco ed è estremamente felice quando si ricongiunge a lui. Tutta l’opera avanza fra violente antinomie, in un crescendo di tensioni.
I parenti di Salud (e il pubblico) sanno già la verità, mentre i due amanti si scambiano promesse di fedeltà eterna. È una illusoria prospettiva di salvezza che rende più crudele la rovina, anticipata dal tristissimo cante jondo del XIX secolo con cui si chiude il primo atto. La domenica, come previsto, Paco sposa Carmela, una donna della sua stessa classe sociale. L’avvenimento è celebrato con musiche e balli chiassosi. Ma questa espressione del dionisiaco è tuttavia incrinata dalle soleares (letteralmente: «solitudini»), canzoni piene di dolore come le siguiriyas. È un segnale inavvertito di ciò che sta per succedere. La sciagura arriva puntuale e improvvisa nel pieno della festa, quando Salud si presenta agli sposi e denuncia in pubblico l’inganno del suo innamorato, che la rinnega con i fatti e con le parole, la espone all’annientamento. Di fronte a quest’ultimo sfregio la gitana sprofonda nella follia che la ricongiunge al sacro. Le opposizioni si dissolvono. Arriva ta al limite del dolore che rivela schiantando, solo in quel momento vede e capisce e muore.
Il frammento di ninna nanna popolare che conclude La vida breve sembra addolcire un finale tanto brusco e crudele. Ma racconta di un bambino abbandonato dalla madre e buttato per strada. Il dolore fa parte della vita e il tragico ha un’altra occasione per manifestarsi. Come scopre Salud, nel suo accelerato incontro con la morte, la colpa è nella nascita.

Elide Pittarello

sabato, settembre 01, 2012

Yes: Tales from Topographic Oceans

"Tales from Topographic Oceans" - Yes (1973)
Scrivere un concept album è una sfida ambiziosa. La sfida si complica quando si sente che per portare a termine il proprio progetto è necessario estendere la propria creatività in un doppio album. Considerate la portata del progetto quando la modalità espressiva del progetto stesso è la musica progressive. Infine considerate le complicazioni che derivano dall’affrontare l’ipercomplessità degli aspetti della vita attraverso un’ottica mistica, sfuggente ed estranea alla cultura occidentale quale quella proposta da Paramhansa Yoganada nel suo libro “Autobiografia di uno Yogi” (libro a cui si ispira il presente album).
Per fare tutto questo non basta un’ambizione enorme ma anche è necessario un talento fuori dal comune. Gli Yes, dopo aver creato lo splendido “Close To The Edge”, sentirono di poter portare ai limiti estremi le loro capacità e decisero di comporre il mastodontico “Tales From Topograhic Oceans”.
La scintilla per la creazione di questo album scaturì dalla lettura che fece Jon Anderson, cantante della band, del già citato “Autobiografia di uno Yogi”: una parte di questo libro descrive le quattro scritture shastriche che coprono i più svariati aspetti della vita umana fungebndo da spunto per altrettanti movimenti musicali, di circa venti minuti ciascuno, che delineano lo scorrere maestoso di questo album.
Le note dell’album gettano ulteriore luce sulla creazione dell’album descrivendo un iniziale incontro creativo di circa sei ore fra Jon Anderson e Steve Howe, chitarrista della band, i quali posero le basi concettuali, liriche e melodiche del futuro album in una stanza d’albergo, durante la notte rischiarati dal lume di una candela. Dopo una notte creativa così esaltante coinvolsero il resto della band per sviluppare ulteriormente il materiale scaturito dalla jam iniziale e definire gli arrangiamenti della musica durante i cinque mesi successivi.
Parlare delle quattro suite che formano l’album con delle note generiche è estremamente riduttivo soprattutto perché ognuna di essa è estremamente eterogenea al proprio interno: ritengo necessario arrivare ad una descrizione dell’album attraverso i momenti diversi delle varie suite.
Il primo movimento è “The revealing Science of God, Dance Of The Dawn”. Le note dell’album ci ricordano che “la conoscenza di Dio è ricerca costante e chiara”. La parte iniziale della suite è dominata dal crescendo vocale di Anderson che nella parte finale diventa maestoso anche grazie all’inserimento delle voci di Squire, bassista e fondatore della band, di Howe e delle tastiere di Wakeman. Siamo in presenza di un’introduzione in cui la presenza delle parole è estremamente serrata, sfociando in un eccesso di “verbosità” necessaria ad introdurre i temi mistici dell’album. La batteria di White introduce la successiva parte strumentale in cui, come d’abitudine per gli Yes, i diversi strumenti seguono linee melodiche e ritmiche che si intrecciano una sull’altra. Qui inizia quella che può essere definita come una classica canzone degli Yes, con dei pregevoli cambi di tempo e una buona varietà di melodie che si legano ed alternano (qualcuno con le melodie di questa parte potrebbe ricavarci almeno tre canzoni). La successiva parte inizia con la ritmica incalzante di Squire e White su cui si ergono la voce di Anderson e la chitarra di Howe. Ma è solo un breve sussulto perché le atmosfere si fanno ben presto più delicate ed eteree. Howe e Wakeman lasciano il segno con fraseggi delicati ed ispirati prima di lasciare spazio alla voce evocativa di Anderson. Ricomincia il fraseggio che però si evolve ancora verso passaggi forse un po’ meno ispirati. Le “acque” si placano nuovamente portando gli Yes verso uno dei momenti più ispirati dell’album. I suoni sono liquidi, la ritmica rarefatta e misurata, e le splendide melodie sono messe in risalto dalla voce intensa di Anderson. Improvvisamente si accendono i veloci contrappunti ritmici della band su cui si erge un feroce ed ispirato assolo di Wakeman. In questo punto si ripetono alcuni motivi già presentati per poi sfumare delicatamente e portare a conclusione la suite.
Il secondo movimento è “The Remembering, High The Memory”. “Tutti i nostri pensieri, le nostre impressioni, le nostre conoscenze e paure sono state sviluppate nell’arco di milioni di anni. Tutto ciò può essere legato al nostro passato, alla nostra vita, alla nostra storia… la profondità del nostro sguardo interiore”. Si ripercorre la “Topografia dell’oceano”. Gli arpeggi di Howe si uniscono alle melodie di Wakeman per poi accogliere gradualmente prima Anderson e poi Squire. E’ un inizio di grande atmosfera, col difetto però di essere un po’ monotono. La musica diventa più varia e, con l’entrata in scena della batteria di White, il ritmo si fa leggermente più sostenuto: è il primo gradino verso gli ulteriori cambi di ritmo successivi. Questo passaggio strumentale è uno dei più belli della suite ed è dominato costantemente dai dolci fraseggi di Howe e Wakeman. Il ritmo sale e in questo passaggio la suite è sostenuta principalmente da Howe che in alcuni passaggi fa risuonare in modo molto interessante gli armonici della sua chitarra acustica (ce da aspettarselo però dall’autore di “Clap” e di “Mood for a day”). Siamo in presenza di un breve ponte strumentale creato per portare al passaggio successivo. Qui la band accelera ulteriormente esaltando il fantasioso basso di Squire. Un ulteriore ponte strumentale, di buona fattura, ci riconduce ai temi musicali. Gli Yes qui raggiungono vette incredibili: uno dei passaggi strumentali più evocativi che abbia mai sentito in ambito progessive. La suite conduce verso la fine con una breve canzone, che rischia di sfigurare dopo la prestazione precedente, e si conclude con un passaggio strumentale.
Il terzo movimento è “The Ancient, Giants Under The Sun”. Questo brano ci porta a ripensare “alle bellezze e ai tesori delle antiche civiltà” … le quali “ci hanno lasciato un immenso tesoro di conoscenze”. La suite inizia con le percussioni di White a cui si aggiungono in un primo momento i riff di Wakeman e di Squire, e in un secondo momento, la chitarra slide di Howe. Non posso nascondere una certa antipatia per questo introduzione perché, a mio modesto avviso, sembra un riempitivo, frutto più del mestiere che dell’ispirazione. Il livello sale un po’ in questa fase, anche se siamo lontani ancora dai migliori Yes. Alternandosi a delle brevi parti strumentali si susseguono un accenno di canzone che prosegue con un ritmo che ricorda una marcia e una parte in cui Anderson, favorito dal ritmo molto squadrato del pezzo, “elenca” diversi modi di dire “sole” in diverse lingue. Da questo punto inizia una lunga parte strumentale in cui l’ispirazione della suite, già abbastanza debole fino ad ora, sembra tornare quasi ai livelli dei primi minuti: per carità, grandissimo mestiere, ma sembra che questa parte sia stata realizzata “raschiando il fondo del barile”. Fortunatamente da questo punto in poi la suite comincia a prendere quota vigorosamente: Steve Howe incanta con i suoi arpeggi e fraseggi suonati in polifonia, facendo tornare in mente una perla racchiusa nell’album “Fragile”, “Mood For A Day”. La voce di Anderson si adatta perfettamente a questa atmosfera “acustica”, con un’ interpretazione calda e romantica.
Il quarto movimento è ”Ritual, Nous Sommes Du Soleil”. “Sette note di libertà per imparare e conoscere il rituale della vita. La vita è una battaglia fra sorgenti maligne e di puro amore”. La quarta suite inizia con una parte strumentale che apre l’immaginazione verso grandi paesaggi, interrompendosi però a tratti con brevi ma belle accelerazioni. Questo punto si apre con un strumentale che lentamente tesse le basi per il canto di Anderson. Durante tutta questa parte notate il modo di rifinire e di abbellire con misura il brano da parte di Squire e Howe: questi musicisti sono davvero dei modelli a cui ispirarsi. Da questo punto comincia una strumentale che si apre su atmosfere eteree per poi cambiare decisamente registro e lasciare spazio a uno splendido assolo di basso di Squire seguito da uno dei più aggressivi e feroci assoli mai eseguiti da Howe. Segue un’altra parte strumentale dominata dalle percussioni di White, che richiama alla mente la “battaglia fra sorgenti maligne e di puro amore” di cui si parla nelle note. La chitarra di Howe ci riporta ai motivi già presentati per poi terminare in un emozionante assolo finale.
Il viaggio è finito, ed è stato un percorso lungo e intenso a cui sono molto legato. Per concludere, siamo in presenza di un album non esente da difetti, ferocemente criticato da alcuni (amanti del punk in testa), spesso definito “elefante privo di vitalità” e “degenerazione della musica progressive” (anche di “The Lamb Lies Down On Broadway” dei Genesis alcuni continuano a parlarne in questi termini) altri invece lo amano incondizionatamente.
Secondo me è un album che ha bisogno di molti ascolti e di molto tempo per poterne apprezzare la complessità e la bellezza: non so se tutti siano disponibili a dedicare tanto tempo ad un album, ma vi assicuro che ne vale la pena. Inoltre se fosse stato “asciugato” di circa 15 minuti sarebbe stato l’album più bello degli Yes.
Nel 1973 ardeva un fuoco creativo incredibile…

shine (www.debaser.it)