Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 31, 2008

Rousseau: la condanna della musica francese

Quando, nel 1753, appare la Lettera sulla musica francese del filosofo ginevrino, la polemica sull'opera francese e sulla concezione armonica di Rameau sale bruscamente di tono. Cosa che sicuramente getta anche qualche raggio di luce in più sulle posizioni dei vari enciclopedisti, soprattutto d'Alembert, che da ora potranno apparire più differenziate. Nella Lettera Rousseau usa un tono così intransigente e violento, da non essere del tutto pacificamente archiviato in Francia neppure oggi. Secondo lui, la musica francese in pratica non esiste, a causa della lingua, del tutto antimusicale. Questa posizione, qui esacerbata dai furori caotici della polemica sui Bouffons, sarà sottoposta a una più matura riflessione nel più tardo Saggio sull'origine delle lingue (pubblicato postumo, ma scritto probabilmente fra il 1756 e il 1762), dove sotto processo rispetto alla "musicalità" non è solo la lingua francese, ma le lingue nordiche, dotate di "articolazioni forti che le rendono dure e rumorose", e dove si dice, con molto meno idealismo e più empirismo, che "ognuno, è colpito solo dagli accenti che gli sono familiari", e che "per l'italiano ci vogliono arie italiane, per il turco arie turche" (anche se conclude, con esilarante ferocia, che le cantate di un certo compositore francese "si dice, hanno guarito un musicista francese dalla febbre, ma a un musicista di una qualsiasi altra nazione gliel'avrebbero fatta venire"). E proprio nel capitolo finale del bellissimo saggio, quello intitolato "Rapporto tra le lingue e i governi", la differenza di pensiero con d'Alembert e il suo possibilismo nei confronti della musica francese è piuttosto netta. Ed è soprattutto segnata da un argomentare ideologico e politico al quale d'Alembert non pensa nemmeno. Rousseau sostiene che "vi sono lingue che s'accordano con la libertà: sono le lingue sonore, prosodiche, armoniose, il cui suono si percepisce molto da lontano. Le nostre sono fatte per il brusio dei salotti". A quale utopistica lingua si può riferire? Al greco antico, ma a quello della Grecia non ancora caduta preda dei romani, la lingua dei quali "più sorda e meno musicale" contaminò poi irrimediabilmente la melodiosa parlata del già libero popolo greco, facendo scomparire la musicalità naturale degli accenti, la quantità delle vocali, la sottigliezza delle inflessioni. E comunque, già lo studio della filosofia o il progresso del ragionamento avevano tolto alla lingua greca "quel tono vivo e appassionato che l'aveva resa agli inizi tanto canora". E qui la musica si era aperta un varco, ma fatale a lei stessa: "i musicisti che in precedenza erano al servizio dei poeti e non eseguivano musica che sotto il loro controllo e quasi ai loro ordini, divennero indipendenti. In una commedia di Ferecrate, di cui Plutarco ci ha conservato un passo, la musica piange amaramente questa libertà. La melodia incominciò a non aderire più al discorso, assunse a poco a poco un'esistenza a parte, e la musica divenne più indipendente dalle parole. Allora cessarono quei prodigi che aveva prodotto, quando rappresentava solamente l'accento e l'armonia della poesia ed esercitava quel potere sulle passioni che la parola non esercitò più in seguito che sulla ragione. Da quando la Grecia fu piena di sofisti e di filosofi, scomparvero i poeti e i musicisti celebri. Coltivando l'arte di convincere si perdette quella di commuovere".
Fra le moderne lingue meridionali, solamente l'italiano possiede un'anima musicale e può quindi cantare: è l'unica lingua dolce, sonora, armoniosa e dotata di accento. Il molto più scettico d'Alembert rifuggiva non solo dai toni profetici e rapsodici, ma anche dalle illazioni, quando scriveva che "quasi tutte le questioni che si sono avanzate sulla musica antica hanno diviso gli studiosi, e verosimilmente li divideranno ancora a lungo, in mancanza di documenti sufficienti e incontestabili, la testimonianza dei quali possa sostituire supposizioni e congetture".

da "La libertà della musica" (a cura di Ugo Fragapane, Signorinelli Editore, Roma 1993)

sabato, maggio 24, 2008

Ugo Duse: la "trilogia" mahleriana di Dobbiaco

Quando fu costretto a dare le dimissioni dall'Imperial-Regio Teatro dell'Opera di Vienna, Mahler concluse con Heinrich Conried un contratto di quattro mesi quale direttore ospite per il Metropolitan di New York. Erano i primi giorni del giugno 1907 e si chiudeva uno dei più grandi periodi vissuti dal Teatro viennese. In quei giorni si ammalò la sua prima bambina, e il 5 luglio moriva. Il 6 luglio la moglie ebbe un collasso e fu chiamato un medico del posto dove stavano trascorrendo le vacanze, anzi il loro luogo di villeggiatura ormai da molti anni, Maiernigg, in Carinzia. Il dottor Blumenthal non riscontrò nulla di grave alla signora; invitato per scherzo da Mahler a sottoporlo ad una visita, lo trovò affetto da un vizio valvolare bilaterale congenito. I malati di cuore nella sua famiglia erano stati molti e quindi probabilmente c'era di mezzo un fattore di ereditarietà. Quantunque il vizio valvolare fosse compensato, è chiaro che si imponeva un cambiamento di vita, specialmente per quanto concerneva le attività sportive cui il compositore si dedicava: nuoto e alpinismo. Fu giudicato necessario invece che si abituasse a camminare su sempre più lunghe distanze, ma con passo uguale.
La sua superstizione nevrotica, la morte della figlia e la cardiopatia riscontratagli convinsero Mahler a fuggire da Maiernigg. Fu così che giunse ad Altschluderbach, a poco meno di un paio di chilometri dal centro di Toblach in Val Pusteria. Si stabilì in casa Trenker, una grande casa isolata al di là della ferrovia Franzensfeste - Lienz - Wien. Evidentemente la sua malattia non era molto grave, se poteva sopportare gli oltre 1200 metri (morirà sì infatti di mal di cuore, ma per una endocardite lenta da streptococcus viridians, indipendente dal vizio valvolare congenito). Ma l'ipocondria lo aveva sempre posseduto; la morte della figlia riaccese complessi di colpa di carattere familiare ed egli si dovette sentire come l'albero abbattuto dal terzo colpo di scure dell'ultimo tempo della sua Sesta. Eroe vinto e rassegnato. Questa sua rassegnazione compare in Das Lied von der Erde, uno dei capolavori composti tra casa Trenker e la piccola "Hütte" di legno, distante dalla casa duecento metri, proprio in mezzo al bosco. Ancor oggi, ogni tanto, sfiora questa capanna lo sguardo triste dei caprioli che si spingono nelle vicinanze.
Nella tarda estate del 1907 cominciò a musicare i testi dei poeti cinesi, regalatigli un giorno dall'amico Theobald Pollack; continuò in USA il lavoro, senza tener conto dell'ordine in cui furono poi definitivamente collocati, e la successiva estate portava a compimento gli interludi che costellano qua e là i sei Lieder e che non poca parte giocano nella grandezza di quest'opera, specialmente quello che introduce alla ripresa di Der Abschied.
Contemporaneamente inizia la composizione della Nona Sinfonia. Tornato nell'estate del 1909 in quello che considera ormai il suo ultimo rifugio, pose termine a questa che fu la sua ultima sinfonia compiuta e completò l'orchestrazione lì e durante l'ultimo viaggio nella sua terra natia, la Moravia, di Das Lied von der Erde.
I testi di questo ciclo, che non soltanto in ossequio alla sua volontà, ma anche per ragioni strutturali sono una vera "sinfonia di Lieder", sono tratti da una antologia di liriche cinesi compilata da Hans Bethge e spaziano per più secoli di letteratura cinese. Del Die chinesische Flöte lo colpì soprattutto la lirica dell'epoca T'ang, come dimostra la circostanza che musicò poesie esclusivamente scritte sotto quella dinastia; quattro di Li-Tai-Po, e cioè Das Trinklied vom Jammer der Erde, Von der Jugend, Von der Schönheit, Der Trunkene Frühling; una di Tschang-Tsi, Der Einsame im Herbst; una di Mong-Kao-Jen, In Erwartung des Freundes, ed una di Wang-Wei, Der Abschied des Freundes. Le ultime due furono fuse in una.
Mahler tornò, con quest'opera, alla sua tecnica di manipolazione dei testi dopo la parentesi di Rückert e vi tornò con lo stesso spirito che aveva informato i suoi spesso drastici interventi sulle canzoni da Des Knaben Wunderhorn. Può esser opportuno, a comprovare quest'asserzione, mettere in evidenza il triplice intervento su Der Abschied, il Lied che risulta dalla fusione delle due poesie di Mong-Kao-Jen e di Wang-Wei. Non è infatti la fusione il dato più interessante dell'elaborazione del musicista: in quest'ultimo Lied i cambiamenti sono di una profondità e di un radicalismo senza precedenti. Ecco come vengono trasformati i sei versi della poesia di Mong-Kao-Jen:

Versione originale
O sieh, wie eine Silberbarke schwebt
Der Mond herauf hinter den dunklen Fichten,
Ich spüre eines feinen Windes Wehn.
Der Bach singt voller Wohllaut durch das Dunkel
Von Ruh und Schlaf. Die arbeitsamen Menschen
Gehen heimwärts, voller Sehnsucht nach dem Schlaf.

Versione di Mahler
O sieh! Wie eine Silberbarke schwebt der Mond
am blauen Himmelssee herauf.
Ich spüre eines feinen Windes Weh’n
Hinter den dunklen Fichten!
Der Bach singt voller Wohllaut durch das Dunkel.
Die Blummen blassen im Dämmerschein.
Die Erde atmet voll von Ruh‘ und Schlaf.
Alle Sehnsucht will nun träumen,
die müden Menschen geh’n heimwärts,
um im Schlaf vergess’nes Glück
und Jugend neu zu lernen!

L'allargamento di queste due strofe è stato operato da Mahler utilizzando dei versi ch'egli aveva composto a Kassel nel 1884. In modo particolare gli ultimi tre versi sono quasi riprodotti intergralmente.
Ancora, egli varia la chiusura del primo testo trasformando l'ultima terzina in questa maniera:

Versione originale
Ich wandle auf und nieder mit der Laute
Auf Wegen, die von weichem Grase schwellen,
O kämst du, kämst du, ungetreuer Freund!

Versione di Mahler
Ich wandle auf und nieder mit meiner Laute
auf Wegen, die von weichem Grase schwellen.
O Schönheit, o ewigen Liebens, Lebens trunk’ne Welt!

È evidente che l'abolizione dell'ultimo verso della terzina originale altera tutto il significato della poesia. Sparito l'ungetreuer è scomparsa anche l'ultima possibilità di autodeterminazione. Ed ecco allo Mahler sostituire all'Ich della prima strofa dell'altra poesia - quella di Wang-Wei, Er, e senza soluzione di continuità, trasformare in tal modo l'attesa nell'attesa di un commiato. E il senso profondo di questo commiato va ricercato nella finale trasformazione che Mahler operò in chiusura della poesia di Wang-Wei, e che fu l'ultima della sua vita:

Versione originale
Wohin ich geh? Ich wandre in die Berge,
Ich suche Ruhe für mein einsam Herz.
Ich werde nie mehr in die Ferne schweifen-
Müd ist mein Fuß, und müd ist meine Seele,
Die Erde ist die gleiche überall,
Und ewig, ewig sind die weißen Wolken...

Versione di Mahler
Wohin ich geh‘? Ich geh‘, ich wandre in die Berge.
Ich suche Ruhe, Ruhe für mein einsam Herz!
Ich wandle nach der Heimat, meiner Stätte!
Ich werde niemals in die Ferne schweifen.
Still ist mein Herz und harret seiner Stunde!
Die liebe Erde allüberall
Blüht auf im Lenz und grünt aufs neu!
Allüberall und ewig,
ewig blauen licht die Fernen,
ewig, ewig...

Come si addice ad una sinfonia di stampo ciclico, e pur tanto rivoluzionaria, il primo Lied è una forma sonata, come pure il quinto, anche se qui è più esatto parlare di Lied-sonata. Von der Jugend e Von der Schönheit sono concepiti nella forma del rondò. Der Einsame im Herbst e Der Abschied appartengono a quel regno particolare del Lied più intellettualmente romantico ove la forma ha ormai un’ importanza molto relativa e l'equilibrio dei rapporti tra voce e strumenti s'imposta su nuovi criteri estetici, più chiaramente extramusicali, ma non in senso letterario, quanto filosofico, considerando alle volte possibile, per esigenze espressive interiori, un sovvertimento delle parti, affidando alla voce una funzione complementare di valorizzazione dello strumentale, se non conferendole addirittura un carattere timbrico. Qui il durchkomponiert spadroneggia ormai libero anche da quelle poche norme che lo facevano considerare una forma.
Nell'estate del 1910 Mahler tornò per l'ultima volta in quella valle dove i suoi amati "suoni di natura" già si stemperavano nelle luci dei tramonti stravolte dai colori delle altissime rocce, soffocate dal cupo verde dei boschi circostanti. E iniziò la sua Decima Sinfonia, il cui unico tempo completato, l'Adagio, testimonia, a mio avviso, il consolidarsi della nuova maniera contrappuntistica mahleriana.
H. F. Redlich chiamò Das Lied von der Erde, La Nona, e i frammenti della Decima "la triologia della morte". Egli spiegò cioè l'enorme salto qualitativo rappresentato da queste opere, prese nel loro complesso, e contemporaneamente l'accentuarsi di certi difetti già emersi nella Settima, con la circostanza che alla stesura di queste tre composizioni l'autore pose mano dopo aver preso coscienza della sua malattia cardiaca.
Quasi seguendone il fatale decorso, egli avrebbe musicalmente incontrato i fantasmi che sempre più gli si stringevano da presso, sino all'ultima annotazione in margine allo Scherzo della Decima: "il diavolo lo balla con me", in questo senso della perdizione e sotto questo segno la sua ispirazione e la sua vita si sarebbero concluse.
La tesi di Redlich si basa sul dato inconfutabile della diagnosi, anche se questa, posta nell'estate del 1907, non era di effettiva gravità. Ma, come abbiamo detto, l'innata morbosa sensibilità spingeva subito Mahler sulle desolate strade dell'ipocondria più dolorosa. Essa si basa inoltre su accostamenti tematici che starebbero a dimostrare la continuità del discorso, il suo progressivo approfondirsi e simultaneamente sfaldarsi, in analogia o meglio in sintonia con il succedersi degli accadimenti psichici e biologici del malato, del concentrarsi e del disperdersi, in inevitabile alternanza, delle sue situazioni cenestesiche. La tesi è suggestiva nella sua disarmante ovvietà; essa cerca di porre su un terreno diciamo pure concreto ciò che Bekker prima aveva pensato di cogliere su di un piano ideale e ciò che Adorno e gli adorniani avrebbero trasferito in seguito su di un piano decisamente idealistico. Perché in definitiva Redlich ha il merito di essersi fermato ai fatti nel proporre la tesi della "trilogia", e il coraggio di aver elevato al rango di fatti alcuni elementi di natura musicale, alcune costanti stilistiche reperite ma anche enfatizzate, nelle tre composizioni. Egli raccolse per sempre nella sua "trilogia", reinterpretandola, la tesi di Bekker, cui del resto si rifà anche Adorno.
Parlare di una "trilogia" è giustificato da circostanze obiettive: la frattura tra queste composizioni e il retorico annaspare dell'Ottava, degna del suo autore solo per il primo tempo, è grande almeno quanto quella che separa l'Ottava dal gruppo delle sinfonie centrali; in un analisi delle ultime opere a maggior ragione essa finisce con il distinguere nettamente ciò che è stato composto prima dell'Ottava da ciò che è stato composto dopo. Ciò che è stato composto dopo sono due sinfonie - una sinfonia di Lieder, Das Lied von der Erde, una sinfonia in re maggiore, la Nona - e due tempi di un'altra sinfonia che doveva richiamarsi in qualche modo all'assunto della Divina Commedia: tre opere quindi, la terza delle quali incompiuta. Chiunque vuol vederci una "trilogia" ha tutti gli elementi in mano. Dal momento che si è fatto anche per il Trovatore, la Traviata e il Rigoletto una trilogia, nulla impedisce un simile modo di vedere le cose. Ma a scanso di equivoci occorre mettere bene in chiaro che ragionando in tal modo non si deve poi parlare di tetralogia a proposito dell'Anello del Nibelungo, dove la continuità poetica, drammatica, tematico-musicale è esplicitata in maniera tutt'affatto unitaria. Se invece è l'unità, ai suoi vari parametri e nelle sue varie manifestazioni, a determinare la forma triplice o quadruplice del discorso, allora è tanto improprio parlare di trilogia verdiana quanto lo è di quella mahleriana.
Ciò naturalmente non disconosce un dato di fatto comune ad entrambi i casi e di una certa importanza: quello di un ciclo cronologico ben preciso con i suoi ben precisi contorni; mette solo in evidenza che la stessa massima pregnanza biografica o autobiografica di un determinato ciclo compositivo o comunque artistico non può assumersi il ruolo di discorso con una sua ben definita unità formale, ma venire al più legittimamente presentato come insieme di particolari, plurime esperienze personali non riconducibili, in quanto esperienze, ad una unitarietà che escluderebbe proprio la loro molteplicità.
Das Lied von der Erde e la Nona furono composte nel pieno di una attività febbrile che portava Mahler a spostarsi frequentemente dall'Europa agli Stati Uniti e viceversa con fugaci riposi nel Sud Tirolo; anche la Decima fu incominciata in quell'atmosfera esagitata e in parte di routine. Ora, dal momento che la prima composizione di questo che si vuol vedere come un ciclo, cioè Das Lied von der Erde, fu iniziata dopo la rescissione del suo rapporto con l'Opera di Vienna, perché non parlare di "trilogia dal nuovo mondo" alla maniera di Dvorák? Perché non parlare addirittura della "trilogia di Dobbiaco", alla maniera delle London Symphonies di Haydn? Non avrebbe minor senso di "trilogia della morte", né minore obiettività.
Qual è allora la ragione principale che la morte, e nient’altro che la morte, conferisca alle opere oggettivamente diverse quest’unità? Perché uomini come Bekker, Redlich, Adorno, esegeti acuti ed appassionati dell'opera mahleriana, si trovano accomunati in questa valutazione? È forse vera del tutto o in parte, o non si cammina piuttosto in equilibrio instabile sul filo dell'equivoco?
Precisiamo intanto che il discorso sulla Decima va sospeso, e che l'Adagio rimastoci conferma tutt'al più una linea di tendenza, ma è pur sempre un frammento che sul piano del linguaggio, della tecnica compositiva, non va oltre la Nona. Il problema dunque si restringe a Das Lied von der Erde e a quest'ultima. In secondo luogo, cerchiamo di rintracciare e di vedere come si sviluppa il discorso sulla morte. Bekker espone esplicitamente la tesi che la Nona continui idealmente la Terza nel senso che dopo Quel che mi raccontano i fiori di campo, Quel che mi raccontano gli animali del bosco, Quel che mi racconta la notte, Quel che mi raccontano le campane del mattino, e quel che mi racconta l'amore - la tematica cioè appiccicata sopra la seconda parte della Terza sinfonia rispettivamente al secondo, terzo, quarto, quinto e sesto movimento - Mahler con la sua ultima sinfonia compiuta ha voluto dirci "quel che gli raccontò la morte". L'idea poetica quindi della Nona è per Bekker l'idea della morte. C'è un’ ispirazione extra-musicale, la morte, che trascina con sé idee secondarie ma necessarie: la reminiscenza, il rimpianto, la rassegnazione, l'annotazione di Mahler sul tema principale del primo tempo allorché viene ripreso dal primo corno "o giorni che dileguano, o perduto amore...", una figura di Das Lied von der Erde, altre autocitazioni sostanzierebbero le idee della reminiscenza e del rimpianto, mentre l'Adagio finale esprimerebbe compiutamente la rassegnazione.
Senza approfondire oltre vediamo come l'idea poetica di Bekker, ancora in fondo legata ad un’ispirazione venuta dal di fuori - la morte è in noi, ma noi siamo quasi sempre incapaci di viverla, per cui essa arriva, ci viene incontro, ci ghermisce, e così via - si trasforma in fredda constatazione cronachistica nella prosa, di Redlich, per divenire in Adorno rispecchiamento della morte di un'epoca o addirittura sua anticipazione, morte di un mondo, di una visione del mondo, accompagnata da idee secondarie ma necessarie quali quelle di decadenza, distruzione, autoannientamento. Queste idee, per Adorno, si incarnano in definitiva hegelianamente in Das Lied von der Erde e sopratutto nella Nona.
Lo sforzo adorniano, meritevole di ogni rispetto, corre il rischio pur nelle sue inopinabili conclusioni, d'esser del tutto vanificato da maldestri discepoli. Elevata a principio l'estensione, creata la categoria dell'estensionalità, essi iperdialettizzano, nuovi Adamo da Piccolo Ponte, le contraddizioni, per cui essenzialmente dalla Nona, in quanto negazione assoluta, nascono per la positività che si cela proprio in quella assolutezza le condizioni di tutta la musica che è venuta dopo, dagli sberleffi e le urla dell'Espressionismo al costruttivismo dei seriali, dai seriali pluriparametrici, all'estetica musicale dell'aleatorietà. Con furore analitico che maschera un'iconoclastia di fondo essi vanno a reperire tre note qui, dieci note là, parafrasi della Vedova allegra, della Radetzky-Marsch, di frammenti del Vascello Fantasma, mettendoli sullo stesso piano dei riferimenti a Beethoven, a Bruckner e a certe autocitazioni. Tutto questo, mescolato a forzature cronologiche inammissibili come ad esempio quella di mettere insieme la Nona sinfonia con il Pierrot Lunaire unicamente perché entrambe furono per la prima volta eseguite nel 1912 (il che ha lo stesso valore di mettere sullo stesso piano l'Adagio della Decima con le composizioni dodecafoniche del 1924, dal momento che esso fu eseguito per la prima volta allora), oltre che creare confusione è segno di profonda malafede. È forse ancor più segreto dell'aspetto equivoco della rivalutazione di Nietzsche come filosofo della decadenza.
Il tema della morte è senz'altro dominante nelle ultime composizioni, ma in fasi diverse e con valutazioni diverse. Schematizzando si potrebbe dire che con Das Lied von der Erde compare l'inevitabilità della morte e che la categoria fondamentale della Nona è quella dell'attesa.
Das Lied von der Erde segna la pace riconquistata. Pace o rassegnazione? Per colui che è in vita questa distinzione non ha importanza. Pace è rassegnazione e questa sintesi si pone al di fuori dei nessi di causa ed effetto che semplificano ormai troppo, negando, per convenienza, l'esistenza di processi statici avvertiti solo dal senso e sui quali, ammettendo la possibilità in una brutta descrizione fenomenica, deve essere iniziato il discorso. Questa sinfonia di Lieder di fronte alla certezza della speranza mortale rende la perduta serenità dell'uomo. Con questo canto della terra Mahler sublima anche la sua negativa esperienza attraverso il grande ritorno a casa, ad una terra dove tutto è già spiegato da sempre perché non c'è nulla da spiegare. L'infinito è un limite se ci si pone il problema del finito ma se questo problema non ha più senso alcuno, il limite è solo nel rapporto che l'uomo ha con gli altri uomini. Se questo rapporto lo commisura nella sua costante mutabilità e pur tuttavia nella possibilità obiettiva di ridurlo ad un insieme di fatti, sempre quelli, sempre, in fondo, riti di uno stesso vivere, allora l'infinito è colto subito e placa e prepara a morire. Il senso della vita è qui: saper morire tranquilli.
Nella Nona sinfonia ciò che Das Lied von der Erde ha raggiunto è assolutizzato in un suono che, come dirà poi Alban Berg, è "puro come l'aria del Semmering". Tutto il simbolismo di quest'opera è meraviglioso pur non avendo nulla a che vedere con la volontà di parlare per simboli. Si avvicina piuttosto ai linguaggi della morte che da Die Kunst der Fuge all'op. 135 di Beethoven e alla Nona di Bruckner hanno caratterizzato le ultime composizioni di questi maestri. Il tentativo compiuto da Alban Berg di penetrare come criptico il linguaggio della Nona è un tentativo poetico, non di un musicista. Ciò fu possibile perché questa sinfonia di Mahler scarica una violenta ondata di poesia su coloro che l'ascoltano, e questa poesia è l'inevitabile scotto alla ambiguità di ogni linguaggio musicale. Mal al di là dell'indagine tematica, che pur quest'ambiguità rafforza, non è lecito andare; al più può essere studiata formalmente per rendersi conto della meravigliosa tecnica compositiva cui era pervenuto l'artista attraverso l'incessante lotta per la chiarezza, attraverso l'incessante autocritica che sempre dovette sostenere contro la patente d'inattualità conferita alla sua musica. Ma ad essere inattuale finalmente giunse, proiettando nel futuro la sua Nona sinfonia.
Una corretta comprensione della Nona è possibile solo alla condizione di rinunciare, malgrado le tentazioni dei suoi simbolismi, all'idea che essa sia "musica pura", perché l'autore, anche quando ha abbandonato l'uso della parola chiarificatrice ovvero è giunto a condannare un qualsiasi programma per le sue sinfonie, non fa musica assoluta con il proposito di conquistare quella bellezza cui fatalmente dovrebbe tendere la vera musica secondo il credo hanslickiano, ma mette in suoni il contenuto della sua stessa vita, esperienze, sofferenze, verità e poesia. Neppure i maggiori periodi di crisi d'ispirazione lo indussero ad abbandonare i criteri del "programma interno"; se mai fu proprio esso a venire distorto, a consigliare soluzioni formalistiche. L'invito antico del compositore ad ascoltare la sua musica come "una sua esperienza che non può essere raccolta in parole" non fornisce tuttavia ancora la chiave adatta a decifrare simboli e allusioni di cui si cementa questa complessa struttura. Ma è poi possibile definire con chiarezza che cosa si debba intendere per comprensione profonda di un fatto artistico qualsiasi, quando i contenuti di questo fatto sono stati simbolizzati all'estremo attraverso un processo discontinuo? Qui le difficoltà sembrano essere davvero insormontabili e l'unico aiuto ci viene forse dato da quelle poche parole rintracciabili nella lettera scritta nel lontano 1896 a Max Marschalk. "La mia esigenza di esprimermi musicalmente nella forma sinfonica inizia solo quando dominano le oscure sensazioni, e dominano sulla soglia che conduce all'altro mondo; il mondo in cui le cose non si scompongono più nel tempo e nello spazio."
Se noi quindi appoggiamo le nostre speranze di comprensione della musica di Mahler su queste dichiarazioni, dovremmo di fronte alla sua Nona chiederci innanzi tutto quali possibili esperienze e sofferenze abbia vissuto il suo autore e quali oscure sensazioni le abbiano accompagnate come cause o conseguenze: ciò in pratica significa avventurarsi in una ricerca ai limiti della psicologia del profondo del Maestro. Ciò non può non scandalizzare la critica forte di formulari estetici, ma di questo avventurarsi sulle soglie dell'altro mondo, quel mondo che non si lascia storicizzare se non come oggetto di scoperta, costituisce a nostro avviso la sola via non sicura ma meno insicura per cercare di sintonizzare gli sparsi frammenti di esperienze individuali con le esigenze di espressione dell'artista. Naturalmente ogni modo di esprimersi tende, anche a livello patologico, a un duplice obiettivo: comunicare con altri e chiarire meglio a se stessi ciò che si dice e nel contempo il perché si senta l'esigenza di esprimersi. Questa duplice obiettiva condizione dell'esprimersi comporta la necessità di ricorrere alla forma come forma di inquadramento, successione, concatenazione e presentazione dei contenuti, una forma peculiare a quei dati contenuti ma che non potrà mai essere evitata pena la gestualità di un soliloquio. Anche la forma con cui l'esprimersi si realizza aiuta perciò a penetrare meglio il senso di quanto viene comunicato.
A nostro avviso però non si tratta di una riflessione sublimata sulla morte risolta nel fatto artistico o di una riflessione sull'inevitabilità della morte, vuoi vista come abbandono della dolce vita, vuoi sentita come liberatrice delle sofferenze; in tal caso ci verremmo a trovare in presenza di letteratura messa in musica, sia essa l'accettata letteratura di Tod und Verklärung di Strauss o la non accettata letteratura dell'op. 29 di Rachmaninov o dell'op. 128 di Reger.
La riflessione letteraria sulla morte, poetica o filosofica che sia, quasi mai implica nel riflettente una condizione fisica di precarietà; ma il malato che è vicino a morire sente la morte, si vede morire, prende coscienza fisica e psichica del suo morire e, nei momenti di più grande familiarizzazione col suo prossimo nuovo stato, vive continuamente la propria morte. La Nona sinfonia è l'esperienza di morte vissuta razionalmente, della morte certezza conquistata, un'esperienza a guardar bene spiegabilissima dopo Das Lied von der Erde che abbiamo visto costituire il primo appressamento al distacco dalle miserie della vita nella panica prospettiva di un ritorno alla terra che sempre rifiorisce. Come Das Lied von der Erde, come poi avrebbe dovuto essere per la Decima, anche la sinfonia in re maggiore ha i due tempi estremi lenti, l'Andante comodo in re maggiore, il primo, l'Adagio in re bemolle maggiore, l'ultimo, che costituiscono l'essenza della particolare forma ritenuta dall'artista idonea a chiarire appunto agli altri e a sé le esperienze dominate dalle oscure sensazioni in quelle particolari circostanze date nell'uomo comune dall'accumularsi dei fattori di crisi, dal drammatico loro esplodere, dal loro esaurirsi in una prolungata sospensione dell'angoscia. Questa sinfonia è appunto, come Das Lied von der Erde, e come poi avrebbe dovuto essere per la Decima, divisa in tre parti, cui non corrispondono i vari movimenti. Mahler divise sempre d'altronde, dalla Quinta sinfonia in poi, fatta eccezione per l'Ottava, le sue opere in tre parti. La caratteristica delle tre ultime composizioni rispetto alle altre sta nel fatto che le parti estreme sono costituite da movimenti lenti, le parti centrali da movimenti mossi, come, nel caso della Nona il Ländler e il Rondó-Burleska; anche la durata del primo movimento è pressoché uguale a quella dell'Adagio, mentre lo Scherzo e il Rondò hanno insieme la durata di ciascuno degli altri due.
Das Lied von der Erde ci ha lasciati con uno splendido congedo, Der Abschied, pieno di rassegnazione e di fiducia nel grande ritorno alla terra e le oscure sensazioni che dominavano quell'esperienza di morte erano tutte tese a placare le inutili ribellioni dell'uomo orientandolo alla demistificazione del tragico, all'assunzione di quei valori che si credono posti al di là della storia e che soli sembrano fare della morte una non privata vicenda, ma un accadimento necessario. Il primo tempo della Nona sinfonia vive l'esperienza del distacco nel passaggio dal collettivo all'individuale, dalla partecipazione al rito della rinuncia alla ritualità. Non più l'addio alla terra per il ritorno alla terra, ma l'addio ai giorni passati, ai bei sogni della gioventù. È stato osservato come abbiamo già detto che in questo primo movimento abbondano le citazioni: il tema della morte dell'Ottava sinfonia di Bruckner, una reminiscenza del "Lebewohl" della Sonata Les Adieux di Beethoven cui possono aggiungersi due autocitazioni, la prima Das klagende Lied, la seconda da Das Lied von der Erde. Queste citazioni esistono e fanno parte del discorso sulla riflessione letteraria a proposito della morte, propria degli anni giovanili di Mahler, e sull'esperienza della morte come eterno ritorno od eterno presente e nel grande tutto recentemente vissuta, o che ora viene a trovarsi in posizione conflittuale con la nuova esperienza interiore. E non è forse senza importanza mettere in evidenza un frequente richiamo al primo movimento della sinfonia in si minore di Caikovskij, una citazione volutamente distorta che sospinge verso l'alto, ai registri acuti, ciò che nell'originale curvava a un dato momento ineluttabilmente verso il grave, quasi un'estrema ribellione al processo autodistruttivo che l'ultima sinfonia del musicista russo dolorosamente celebra.
I due movimenti centrali esplicano la drammatica crisi. Elementi vitalistici, disordinati, in un discorso spesso incoerente, caratterizzano il Ländler, un goffo muoversi nel passato, nelle sue ingenuità come nelle sue rivalità; ed elementi di lucida ossessione connessi alla propria recente vita di artista, alla musica stessa, magari ai suoi vicini destini, sono sin troppo chiari nel Rondò-Burleska, dedicato ai suoi "fratelli in Apollo": qui volontà di conservazione e di rottura cozzano continuamente in un equilibrio che blocca ogni via d'uscita in un'organizzazione del disordine che fa dell'iterazione coatta la sola possibilità di sviluppo non tanto dell'individuo quanto dell'intera società. L'ironia, e forse stavolta "im Sinne des Plato eironeia", è l'apice della crisi perché è un aspetto della regressione verso il sentimento del tragico: l'animalità del Wunderhorn nella sua cattiva infinità malgrado le prediche di Sant'Antonio; a temperarla sopravviene un episodio corale dal quale si sviluppa in seguito il tema principale dall'Adagio finale, quasi che l'uomo abbia capito alla fine di non essere altra cosa rispetto alla foresta e che dietro quei neri abeti lui pure, animale pieno di terrore, attende l'alba perché solo nell'azzurro risente la vita. L'ultimo movimento che senza alcun dubbio contende a Der Abschied, al primo tempo della Nona e all'Adagio della Decima, il Primato tra le pagine più ispirate di Mahler, dissolve nelle ragioni del dolore, liberato dalla disperazione ma reso più acuto dal ricordo, l'addio alla vita agognato in quella pace bruckneriana depurata con gli anni delle sue ambiguità mistiche e richiama a tratti le terse, rarefatte atmosfere dell'ultimo Lied della "sinfonia di Lieder".
Mahler sapeva ormai di dover morire, il suo cuore malato glielo ricordava ad ogni battito. Con la sua Nona che ha trasmesso qualcosa di più alto che un ideale di bellezza o di perfezione musicale pura. Ha cercato di rivelarci un lungo momento in cui gli si è chiarito il senso della morte. Questo sentimento spinto al limite va al di là della musica che non può essere quindi né impura, come non può essere né puro né impuro un sentimento che supera le anguste categorie della terminologia terrena. Quel sentimento può essere sentito come concordanza o sensazione, sensazione o empatia, come del resto la Nona sinfonia, un mistero dei nostri tempi alla penetrazione del quale necessità in ultima analisi il goethiano "affaticarsi al rombante telaio del tempo per tessere la vivente veste della divinità" dello Spirito della terra; così il musicista stesso indicò un giorno in calce a un questionario, inviatogli da un anonimo, per rispondere di che cosa vivesse e che cosa lavorasse quando creava.
E in questo mistero sta l'ultima consequenzialità terrena di Mahler; poiché anche nella sua speranza, anche nella sua certezza, la morte è pur sempre assai più misteriosa della vita, dovevano essere resi, per chi ha sempre inteso copiare dalla natura, solo esclusivamente ricordi passati ed oscure sensazioni.

di Ugo Duse ( www.gustav-mahler.it)

sabato, maggio 17, 2008

Nikolaus Harnoncourt: la mano dell'autore guida le nostre

Nikolaus Harnoncourt suonava in orchestra ma la memoria delle partiture autografe continuava a dettargli altra musica

(Il polso sinistro di Nikolaus Harnoncourt porta il segno d'una cicatrice, di tempi lontani)
Da ragazzo scolpivo il legno.
(Dice. Mostra il braccio, stringe un poco le mani, come volesse chiudervi un suono o un pensiero. Ride)
Sono entrato in orchestra, non ho più scolpito. Non si possono fare le due cose. La scultura era troppo vulnerante.
(Vulnerante l'ha detto in italiano, non nel suo rapido tedesco; io non ho idea di come fossero le figure che tentava di sbozzare il ragazzetto Nikolaus con lo scalpello; ma per parecchie ore avevo cercato la giusta parola per scrivere com'era la sua Incompiuta, che continuava a ferirmi, e la sentivo pronunciare da lui. Vulnerante.)
Suonavo dunque il violoncello, nell'orchestra. Mi piaceva, era esaltante a volte. Ho conosciuto grandi direttori, li ho ammirati. La grandezza ha un suo segno, è assurdo e inutile discutere. Ma sono arrivato a un punto in cui non riuscivo più a farcela. Mi dicevo: divento matto. Suono una musica sul violoncello e ne sento un'altra. Eran due cose totalmente diverse. In questi casi non c'è altra alternativa che provare a fare venire fuori la musica da solo. Il suono, il pensiero. Ho cominciato a cercare, e a dirigere.

Partendo da che cosa?
Ah, dalle note. Restando nelle note. La mia interpretazione è tutta dentro le note. Le note come sono scritte dal compositore. La mia interpretazione credo sia nelle note: cosa dice la scrittura delle note. Il punto di partenza è questo. Leggere quello che il compositore ha scritto. L'autografo, naturalmente, non le edizioni. Ogni edizione è un'interpretazione dell'editore. Noi siamo qui a Feldkirch per suonare Schubert, e cerchiamo le note scritte dalla mano di Schubert. Penso all'edizione corrente, rivista da Brahms. E' piena di Brahms, di bellissimo Brahms. Ha tolto, ha allungato, è intervenuto dove Schubert ha sbagliato, cioè dove Schubert era troppo poco Brahms. Non c'è da scandalizzarsi, però è un'interpretazione da cui non si può partire, altrimenti si resta già spostati in partenza dall'idea creatrice.
Lei tiene un corso a Salzburg sulla lettura delle partiture autografe. Penso ai problemi di filologia e d'interpretazione che nasceranno continuamente.
No. (Si concentra, guarda avanti, come avesse un foglio su un tavolino immaginario. Siamo seduti nella saletta d'un albergo, in tutta semplicità. Fuori c'è la lucida chiarità un po' pallida dell'umida estate austriaca, da una finestra dietro a lui si avverte l'inizio d'un paesaggio. E' la sua luce, i testi dicono che è nato a Berlino, ma lo si sente un uomo moderatamente nordico).
No. E' un corso che riguarda una cosa precisa: la lettura dei segni. Ha un titolo: "Istruzioni per l'uso".
Come nelle medicine, come negli elettrodomestici?
Sì, bisogna sapere come si leggono i segni. I segni scritti dai compositori. Ho studiato tutta la vita questo problema. Ho scoperto che cambiano ad ogni generazione. Noi diciamo Mozart, e la sua è una vita breve; ma anche i suoi segni, ad esempio, non sono gli stessi e non vogliono dire le stesse cose nel Mozart giovane e nel Mozart maturo. Occorre un lungo lavoro di decodificazione, di confronti, di conoscenza della prassi di quei giorni, delle lettere e delle dichiarazioni dell'autore. Molto complesso, ma alla fine spesso tutto diventa semplice, si risolvono problemi che sembravano distrazioni o contraddizioni, perché si era partiti da un equivoco. Con gli allievi ci fermiamo proprio su questa piccola cosa che è il segno, ma concretamente, con l'idea di capire come usarlo, volta per volta.
La scrittura è affascinante.
La scrittura è magica. Meravigliosa. Io sono sopraffatto ogni volta al pensiero di come possa essere espressa una melodia da una serie di punti. E sappiamo che c'è un complesso di regole per saperne il tracciato. Anche queste leggi non esauriscono l'idea musicale, cioè non permettono di scriverla compiutamente, a parte in ogni caso gli infiniti modi di eseguirla. Ma leggendo le pagine scritte di pugno dell'autore, si capisce subito che nessuna edizione a stampa può sostituirla. L'edizione a stampa deve partire dal fatto che ci sia una realtà scientifica trasportabile con altre cifre. Ad esempio, l'edizione moderna sposta le posizioni delle parti per un criterio di leggibilità pratico, comune anche fra epoche diverse; e scioglie le incertezze con precise decisioni. Ma la scrittura non è scientifica, deve invece essere magica. Nessun fisico potrebbe risponderci su quanto sia alto un diesis o un bemolle, quanto lunga una pausa. I parametri non stanno tutti scritti. La convenzione di un insieme di regole tramandate, ed interpretate anche storicamente momento per momento, permette al compositore di esprimersi per iscritto, ma lo scritto è più di quanto sia l'ordine dei segni nelle regole. Lo scritto è il segno, concreto, irreperibile. I vecchi copisti lo sapevano: non che il loro lavoro ci ripeta l'autografo, perché la mano è un'altra; ma ci offrono una lettura molto più vicina a quella dell'autografo che non le edizioni a stampa. Ci possono essere più errori, e si tratterà di capirli. Ma sono mani che scrivono, non lastre che stampano. La scrittura è meravigliosa.
E adesso, col computer?
Disastro, disastro.
O forse si troverà il modo, senza volere, di lasciare anche qui un'impronta.
Disastro, disastro.
L'autore pero si esprime naturalmente con i mezzi che ha, secondo il suo tempo.
Ma l'interprete davanti alla scrittura dell'autore non prende nota che c'è un crescendo, lo sente quel crescendo. E' riportato al gesto diretto.
Come la scultura?
(Stringe la mano sinistra. Sorride, come si fa quando gli intervistatori dicono una frase giusta da intervistatori, che collegano. Ma negli occhi chiari c'è il lampo del dubbio: avrà capito, chi gli parla, che la scrittura è magica, che il segno è importante, che la libertà dell'interpretesta tutta nella fedeltà con cui si rende responsabile di ciò che ha letto nella scrittura?)
E dopo la scultura ha lasciato anche il violoncello?
Ormai sì. Non si possono fare troppe cose, quando richiedono ciascuna troppo. Mi sono concentrato nel lavoro dell'interpretazione da direttore.
E ha cominciato la rivoluzione. Prima, gli autori classici. Poi la "musica antica". Lo scandalo dell'eloquenza romantica e postromantica tolta al Settecento, la fine dell'assimilazione delle partiture barocche all'epoca successiva: quei suoi duri e freddi, in confronto al ricco e tondo sound berlinese, al luccicante appagamento americano. Quei lenti, quegli allegri precipitati. Le peripezie dell'arco corto che insegue la linea melodica, anziché il legato che la domina. E, dietro allo scavo nell'epoca lontana, la celebrazione dei linguaggio, nel tempo dello strutturalismo e delle grandi verifiche linguistiche sui meccanismi del parlare e dell'agire degli uomini e della società. Rivoluzione sessantottina nella musica, sempre che il Sessantotto non fosse il momento politico d'una revisione generale della storia umana. Insomma, un rovesciamento definitivo dell'interpretazione, l'apertura d'una costante alternativa e dell'esigenza che l'interprete cerchi e si faccia responsabile.
Io non ho mai voluto fare la rivoluzione. Io sentivo che Bach era diverso da come lo dovevo suonare. E ho cominciato a cercare perché. Le cose si sono sovrapposte. Altri, intanto, cominciavano lo stesso percorso.
Noi ci siamo molto occupati, dall'inizio, su Musica Viva, di questa riscoperta. Ma c'è fra voi una colleganza, il senso di condividere questa grande avventura?
Ognuno ha un percorso suo. Ci sono incontri. A Ferrara, ho diretto Mendelssohn e Mozart. C'era Gardiner, ad ascoltare. E' venuto da me, entusiasta: "Mendelssohn fan-ta-stico!" Un'altra volta, ha ascoltato un mio concerto di Mozart e Schubert. E' arrivato in camerino: "Schubert magnifico!". Si vede che non gli piace proprio come faccio Mozart.
E' un Mozart meno "cantato", e forse anche meno rigoroso nei tempi, di quanto uno non si aspetti.
Non canto, io? Non canto in Mozart? Sì, che canto. Ma è un canto nato da piccoli elementi. Non la grande melodia, come sarà poi nella storia la lunga linea di Wagner, di Mahler anche con le sue contrapposizioni e rotture, di Brahms. E' un (pausa, poi lento, in italiano) tetto di tante tegole piccole (guarda in che scioglilingua è andato ad imbarcarsi, forse sta studiando l'opera buffa italiana); è una (in italiano, ma deciso) frase di cui devo sentire ogni parola. Sì, il tempo non è rigoroso. Non so che cosa volesse dire dentro la sua battuta Mozart nella Jupiter. "Do, sol-la-si-do, sol-la-si-do" (sta cantando, con una certa agiata libera scorrevolezza, poi nella pausa si ferma ma muovendo istintivamente il corpo tanto da suggerire la perdita del tempo di metronomo), "do-do, si-re do-sol, fa".
Sol, re-mi-fa-sol, re-mi-fa-sol.
Re re, do sol, fa la, sol. Anche Mendelssohn è ancora nella linea grande, ma costruita con piccoli frammenti: come Schubert, naturalmente. Ma Mendelssohn è già verso un'altra cosa. Parla, più che non con parole, con colori.
Schubert...
Schubert. Non è paragonabile a nessuno. Non si può prendere per lui nessun punto di riferimento nella grande tradizione. Non Mozart, non Beethoven. Parla un dialetto come i grandi isolati. Mi viene in mente John Dowland, o Johann Strauss. Schubert in musica parla in dialetto viennese. Non si riesce a trovare alcun parametro storico per afferrarlo. E' musica che trascina nota per nota. Bisogna lasciarsi prendere dal flusso dell'esecuzione.
E qui, con il Concertgebouw, accadeva, trascinando anche noi. Quante prove avete avuto per arrivare ad un accordo così straordinario?
Non moltissime. Un numero normale. Però con questa orchestra ho lavorato recentemente per sei settimane; ed è maturata una grandissima intesa. Io non sono (si mette ben diritto, trincia l'aria con gesto molto secco, bene a tempo) un direttore militare. Mi piace ricordare semplicemente quello che abbiamo vissuto e stabilito durante le prove. Per Schubert, poi, c'è bisogno che tutti pensino ed inventino in armonia. La difficoltà è che Schubert non ci arriva per vie storiche, ma direttamente per quelle dell'immaginazione. Ed è un'immaginazione sottile, sfumata, intensa... C'è in tutte le sue opere una tristezza con un piccolo sorriso. (Aggrotta le ciglia, cerca una frase italiana espressiva, la trova nel repertorio, in Monteverdi): un mare di pianti. Non si può dirigere una partitura di Schubert, bisogna guidare il flusso dell'interpretazione di tutti. C'è bisogno di una grande fantasia collettiva. (In italiano) Insieme.
Sempre partendo dalle note autografe...
Sì, e anche partendo da un'altra cosa, che c'è sempre in Schubert, si sente. Un testo. Io sento Schubert (mostra un foglio immaginario, poi parla in italiano) e io ascolto un poesia (Poesia maschile, con bel senso di attesa fra l'articolo e il sostantivo. Poi riprende nella sua lingua, ma non più rapido, adesso è preso dalla necessità d'essere chiaro, come deve succedergli quando ha qualcosa di lirico e segreto da comunicare). Sento un forte che non si oppone al pianissimo, ma parte dal pianissimo. Sento una canzone, di linee brevi, intonata dall'uno e dall'altro, e gli altri che rispondono con altro canto, sempre di frasi precise. Ogni entrata è un'emozione, non bisogna accentuare, non bisogna organizzare, bisogna lasciare fluire. La complessità della forma, se c'è, si scioglie o si intrica da sola, non bisogna avere paura. Se la si è capita, si rivela.
Curiosamente questo è l'anno Schubert. Lo si ascolta un po' dappertutto. Eppure non è il suo anniversario. Invece tocca a Rossini, poi a Monteverdi...
Ah, Monteverdi, uno dei miei numi. A Salzburg dirigerò Poppea. Sono vent'anni che non la dirigo. Sarà un lavoro tutto diverso, ogni volta bisogna ricominciare da capo in ogni caso, in musica. Ho controllato i manoscritti in quel pasticcio di edizioni diverse per città diverse, uno dei nodi più intricati della musicologia; ho esaminato i libretti per venirne a capo; e poi ho venti anni di più! Non c'è più, purtroppo, Jean Pierre Ponnelle, e in ogni caso non si potrebbe ripetere quel lavoro eccitante che avevamo fatto allora. Ci sarà un regista che stimo molto, Flimm, con cui ho appena lavorato nel Fidelio a Zurigo. E' pieno d'una grande fantasia, sente per Monteverdi ed in particolare per L'incoronazione di Poppea, provo a dirlo in italiano che viene meglio: "il paesaggio mediterraneo cattolico". Ci sarà da cantare veramente. Non credo al canto senza fuoco, la voce umana è sempre la stessa, degli specialisti barocchi non mi fido, non ha senso cercare le stilizzazioni fredde dopo avere letto le lettere di Monteverdi, che cosa dice sul "recitar cantando" o sul "cantare recitando".
E Rossini?
Rossini no. Non m'appartiene. Un Verdi potrà accadere, sì, ne ho un grande rispetto, vorrei affrontar presto Otello, Falstaff, Don Carlo. Rossini non mi fa sentir qualcosa. Beethoven non capiva perché il pubblico andasse tanto a Rossini, neanche Schubert. Io capisco, ma dentro non mi accende. I direttori italiani a volte mi dicono: è il nostro Mozart. Ma mi sembra tutt'un'altra cosa. Anche le opere di Vivaldi non mi fanno cominciare a pensare di dirigerle. Neanche Wagner, nemmeno Mahler, dico per adesso, poi cambierò forse, non so. Ora mi premono altri. A Salzburg dirigerò la Missa solemnis di Beethoven, e quel pensiero mi prende molto.
Al Festspielhaus, dirigerà. Anche qui, non luoghi suggestivi, ma auditorium con acustica eccellente.
La musica va ascoltata, non si può solo immaginarla. Per le Messe, si può cercare un compromesso. Viene da piangere al pensiero della Messa nella gran sala, anziché in una chiesa. Ma a Salzburg non ci sono chiese disponibili con un'acustica sufficiente per garantire un livello buono. Ho un gran ricordo della Chiesa della Passione, da voi a Milano, con la Passione secondo Matteo, l'acustica era un po' irregolare, ma avevamo disposto le persone e gli strumenti al meglio, e il compromesso teneva. A Salzburg non s'è trovato. Salzburg è importante, però, anche per il suo futuro. Adesso con Mortier cambierà molto, cambierà anche il pubblico.
Anche in Italia ci sono molti dirigenti nuovi. Cambierà.
In Italia non mi chiamano molto; e quando mi chiamano lo fanno in tempi brevi, quando l'agenda è già tutta occupata. (Anche questa frase è vulnerante. Dal paese di Feldkirch, con un grande conservatorio, due auditorium perfetti ed il festival più intelligente dell'estate, parte un pensiero alla nostra cara terra di parole sulla musica, di riflettori accesi sussiegosamente su ciò che casualmente capita).
Cambierà.
(Ma siam passati dal forte al pianissimo. Da quel pianissimo che nasce dal forte, al contrario che in Schubert. Non lui, ma noi, siamo gli autori di innumerevoli Incompiute.)

Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XVI n.8/9, agosto/settembre 1992)

sabato, maggio 10, 2008

Il Fidelio di Abbado: intervista al regista Chris Kraus

Al Teatro "Valli" di Reggio Emilia con la prima regia lirica di Chris Kraus, il regista del film Quattro minuti.

Un altra avventura, voluta e desiderata a lungo, per Claudio Abbado. Lo sguardo è rivolto ancora una volta a Beethoven ma, dopo il memorabile ciclo sinfonico, in questa occasione si tratta di un Fidelio che prende forma grazie a una coproduzione internazionale, che coinvolge la Fondazione i Teatri di Reggio Emilia, Teatro Real di Madrid, Festspielhaus Baden Baden, Teatro Comunale di Ferrara e Teatro Comunale di Modena. Un nuovo allestimento per il quale sono coinvolte compagini quali la Mahler Chamber Orchestra, l'Arnold Schoenberg Chor e il Coro de la Comunidad de Madrid, con protagonisti, tra gli altri, Endrik Wottrich (Florestan) e Anja Kampe (Leonore). A curare la regia di questo spettacolo, che debutta i prossimi 6 e 8 aprile al Teatro Valli di Reggio Emilia, Abbado ha chiamato un "debuttante" come Chris Kraus, classe 1963, esponente del giovane cinema tedesco, al quale rivolgiamo alcune domande mentre sta lavorando a questo allestimento.
Quale ruolo ha avuto la musica nelle sue precedenti esperienze cinernatografiche (penso, per esempio, al recente film Quattro minuti)?
«In tutti i miei film la musica ha un ruolo fondamentale. Ho studiato musica fin da piccolo, avevo 5 anni: flauto, pianoforte, anche se non sono un professionista. E la musica mi ha sempre influenzato. E' stato in Quattro minuti che ho deciso di dare alla musica un ruolo da personaggio principale, ero stanco di vedere film in qualche modo rovinati dalla musica sbagliata. La musica ha il ruolo di tramite tra testa e cuore, entra direttamente nella teste e nei cuori ... ».
Tra il linguaggio cinematografico e quello operistico, quali differenze ritiene più significative?
«Le differenze sono, ovviamente, tantissime. Se cinema e opera hanno due linguaggi diversi, possiamo dire che le parole sono le stesse, ma la grammatica cambia. Nel cinema bisogna cercare di ricavare il meglio nel brevissimo, concentrando piuttosto che dilatando; nell'opera funziona il contrario e bisogna raggiungere il massimo nel medio e lungo termine, dilatando piuttosto che abbreviando. E' una questione di velocità diverse... In fin dei conti, però, tutto ha a che fare con le emozioni, l'obiettivo - nell'uno e nell'altro linguaggio - è quello di comunicare emozioni ... ».
Quali sono i caratteri principali della Sua regia per questo Fidelio?
«Non amo parlare - a questo punto del lavoro che è appena iniziato - della regia, preferisco mostrarla in scena. Posso dire che, siccome sono un narratore, mi sento di dovere raccontare delle storie e nel Fidelio ne ho individuate tre: la prima è una storia d'amore, la seconda è una vicenda di violenze, di sentimenti che provano gli esseri umani soggiogati e oppressi; infine, la terza storia è una vicenda di potere e, alla fine dei conti, di politica».
Come è stato lavorare su Beethoven con Abbado?
«Ero stato contattato da Claudio Abbado, al quale, avevo spiegato tutte le mie perplessità, dovute al fatto che non avevo mai fatto la regia di un'opera. Ma mi aveva detto che proprio era quel che cercava. Una persona che venisse da esperienze totalmente diverse. L'ho incontrato. Non l'avevo mai visto prima. Mi si è fatto avanti, sorridente e amichevole. Abbiamo cominciato a lavorare subito, ma non sembrava di lavorare, sembrava piuttosto un gioco. Non abbiamo parlato subito del Fidelio nello specifico, ma del "mondo del Fidelio", necessario per lavorare insieme in una tale avventura. Gli dissi cosa pensavo, soprattutto per il finale, fu d'accordo. Se devi raccontare una storia di prigioni, devi mostrarla, la prigione. Diedi un suggrimento. Non disse di no. E' stato l'inizio dell'avventura. Sono così felice che Claudio Abbado abbia avuto così tanto coraggio! E' un uomo che ama il rischio, che ama le sfide. Vedremo assieme quale sarà il risultato, adesso non lo possiamo sapere».
Ha altri progetti musicali?
«Questa per me è una grande avventura, la prima di questo genere. Vedremo solo alla fine quello che sarà, tutto dipende dal risultato. Per ora sono così felice di questa sfida e sono ottimista di natura... ma di altri progetti, in questa fase, non se ne parla nemmeno ... »

intervista di Alessandro Rigolli (Gdm, 04/08)

sabato, maggio 03, 2008

Giacinto Scelsi: una biografia

L’8 gennaio del 1905, esattamente alle ore 11, nasceva Giacinto Francesco Maria Scelsi, nel piccolo villaggio di Pitelli, territorio del comune di Arcola. Questa località fa parte della provincia di La Spezia. Il padre Guido, all’epoca Tenente di Vascello, proveniva da una famiglia di origine siciliana che aveva avuto un ruolo di spicco nelle vicende dell’Unità d’Italia; la famiglia della madre, Donna Giovanna d’Ayala Valva, era originaria di Taranto, ma risiedeva abitualmente nel castello di Valva in Irpinia.

Anche il piccolo Giacinto, con la sorellina Isabella, trascorse gran parte dell’infanzia in questo vetusto castello, dove ricevette le prime basi di un’istruzione alquanto singolare: un precettore gli dava lezioni di latino, di scacchi e di scherma. Per quanto riguarda l’educazione musicale, anche in tarda età amava ricordare le molte ore passate a 'improvvisare' su di un vecchio pianoforte. Non risulta abbia frequentato scuole superiori e studi musicali regolari di sorta. In seguito la famiglia si stabilì a Roma e le peculiarità musicali di Scelsi furono assecondate dalle lezioni impartite privatamente dal M° Giacinto Sallustio.

Negli anni ‘20, assieme all’ambiente aristocratico e mondano, incominciò a frequentare anche il mondo artistico, musicale e letterario dell’epoca; risale, infatti, a questo periodo l’inizio dell’amicizia con Jean Cocteau, Norman Douglas, Mimì Franchetti, Virginia Wolf, che dovevano iniziarlo ai movimenti culturali internazionali dell’epoca. Sono di questo periodo numerosi soggiorni all’estero, specialmente in Francia ed in Svizzera; fondamentale fu il viaggio compiuto nel 1927 in Egitto, dove la sorella risiedeva con il marito: può considerarsi questo il suo primo contatto con musiche di concezione non europea. Alcuni scritti impermeati di surrealismo nascono in quegli anni. La sua prima composizione, Chemin du coeur, è del 1929, e già dal 1930 inizia a lavorare a quella che diventerà Rotativa, l’opera che lo rivelerà al mondo musicale internazionale. Eseguita, infatti, il 20 dicembre 1931 in prima assoluta alla Salle Pleyel di Parigi, sotto la direzione di Pierre Monteux, non passò per nulla inosservata. Nonostante l’insoddisfazione del giovane compositore, molto rigoroso nei riguardi della propria opera, l’esecuzione di Rotativa attirò su di lui l’attenzione della critica e del mondo musicale.

Negli anni ‘30, si alternano per Scelsi periodi di vita mondana, frequenti viaggi all’estero, problemi di salute e una interessante attività creativa. Interpreti della sua musica saranno personalità di spicco del mondo musicale italiano, fra gli altri, Willy Ferrero, Carlo Maria Giulini, Ornella Puliti Santoliquido, ecc.. Nel 1937 il compositore organizzò a sue spese quattro concerti di musica contemporanea presso la Sala Capizucchi: farà eseguire opere di giovani compositori italiani e moltissimi stranieri, fra i quali Kodaly, Meyerowitz, Hindemith, Schoenberg, Stravinskij, Schostakovitch, Prokofief, Nielsen, Janàcek, Ibert, ecc., allora quasi tutti totalmente sconosciuti in Italia. Nell’organizzazione di tali concerti si avvarrà anche della collaborazione di Goffredo Petrassi, con cui inizia una lunga amicizia. Questi concerti ebbero però vita breve anche per l’entrata in vigore delle leggi razziali, che ostacolavano l’esecuzione di composizioni di autori ebrei, cosa che Scelsi non accettò e lo costrinse da allora a un graduale allontanamento dall’Italia. A questo periodo si possono far risalire i suoi interessi per altri linguaggi e tecniche compositive, per esempio la dodecafonia, della quale ebbe i primi rudimenti da un allievo di Schoenberg, il viennese Walter Klein. Contemporaneamente si interessa delle teorie di Scrjabin, di cui ebbe fonte di informazione diretta dal dott. Egon Köler, che lo ebbe in cura per un certo periodo e che con tutta probabilità lo iniziò alla cromoterapia. Non secondario è stato il suo interesse per le teorie musicali staineriane e per il curioso mondo ruotante attorno a Monte Verità.
All’entrata dell’Italia in guerra, nel 1940, si trovava in Svizzera, dove rimase per tutto il periodo del conflitto e dove si sposò con Dorothy-Kate Ramsden, cittadina inglese. Nonostante gli anni difficili, continuò una intensa attività culturale, sia poetica sia compositiva, e il compositore incominciò un lavoro di tipo teorico fondamentale per gli sviluppi futuri della propria musica.
In questi anni, non si negò, per quanto era nelle sue possibilità, ad aiutare membri perseguitati della comunità intellettuale internazionale, trovando loro rifugio in luoghi sicuri.
Durante questo forzato soggiorno in Svizzera vi furono esecuzioni di sue composizioni, come il Trio per archi, eseguito nel 1942 dal Trio di Losanna, diretto da Edmond Appia, e varie altre opere per pianoforte eseguite da Nikita Magaloff. Alla fine del secondo conflitto mondiale ritornò in Italia; si stabilì a Roma dove vivevano anche la madre adorata, il padre e la sorella Isabella. Dalla Svizzera Scelsi arrivava con una profonda crisi di tipo psichico che tuttavia non gli impedì di portare a compimento alcune opere già iniziate: il Quartetto per archi, eseguito dal Quatuor de Paris a Parigi nel 1949 e, la Nascita del Verbo, eseguita per la prima volta a Parigi sempre nello stesso anno, sotto la direzione di Roger Désormières. Vive anni molto travagliati, coincidenti con una irreversibile crisi di tipo creativo-musicale, che lo portarono a limiti molto pericolosi; trovò una via di scampo nella poesia, nelle arti visive e nei suoi interessi per il misticismo orientale e l’esoterismo. Presso lo straordinario editore Guy Levis Mano di Parigi uscirono i tre libretti Le poids net, L’archipel nocturne e La conscience aïgue, che per tanti anni rimasero le sole opere edite. Durante la permanenza in una clinica svizzera per malattie nervose, dove si ricoverò per un periodo, Scelsi diede una serie di conferenze sulla creatività, di un’apertura e di una lungimiranza, da potersi considerare documenti premonitori dei suoi successivi e futuri sviluppi creativi. I suoi interessi per le arti visive, in particolar modo per l’arte informale, troveranno degna cornice in quello che sarà l’attività della Rome-New York Art Foundation, diretta dalla sua compagna di vita di quegli anni, l’americana Frances Mc Cann. La profonda amicizia che lo legò a Henri Michaux, ebbe probabilmente anche funzione di stimolo nella ricerca di quell’arte che considerò sempre di vitale importanza: la musica. Questo coinciderà con la sua ormai accettazione attiva delle filosofie orientali, le dottrine Zen, lo Yoga e la problematica dell’Inconscio.
Anche nel campo musicale incominciano anni di ricerca e sperimentazione. La strumentazione di figure determinate dal caso, l’improvvisazione su strumenti tradizionali usati in maniera non ortodossa, l’uso di nuovi strumenti come l’ondiola, capace di riprodurre i quarti e gli ottavi di tono, ma soprattutto la maniera di improvvisare in uno stato privo di condizionamenti molto vicino al vuoto zen, ci hanno rivelato le sue opere più possenti. Il suo modo del tutto originale di procedere nella composizione dette adito a feroci critiche ed ostracismi, che non si acquietarono neppure alla sua scomparsa, momento in cui, al contrario, si manifestarono con nuovo vigore e livore.Impossibilitato psichicamente e fisicamente al lavoro minuzioso di trascrizione delle proprie improvvisazioni, regolarmente registrate su nastro magnetico, doveva avvalersi di traslatori che come prima peculiarità dovevano avere un orecchio assoluto, e che naturalmente operavano sotto la sua guida. (Scelsi applicò lo stesso procedimento anche nella creazione poetica: nacque così il visionario poema Il sogno 101. Il Ritorno).
Il lavoro non si esauriva con la traslazione delle musiche registrate; si aggiungevano, infatti, minuziose istruzioni per l’esecuzione, accorgimenti per donare al suono valori corrispondenti alla sua volontà, costruzione di sordine per gli archi fatte realizzare apposta su suo disegno, strumenti a corde trattati come percussioni, filtri sonori per deformare il suono negli strumenti a fiato, l’uso della voce quale elemento di rottura della struttura sonora, basi di registrazione preesistenti quale traccia all’esecuzione. Originalissimo era peraltro il suo metodo di orchestrazione, che consisteva nell’accoppiare strumenti simili sfasati fra loro di un quarto di tono (fatto che dà all’esecuzione una vibrazione misteriosa, e imprevedibili effetti di battimenti).
Altro aspetto non secondario del suo lavoro fu di finitura, portato avanti in collaborazione con gli interpreti. Le sue opere, infatti, date le difficoltà di esecuzione, trovarono il loro primo ostacolo proprio nell’interpretazione. Solo rari esecutori di altissima qualità si accinsero a studiare la sua musica e alcuni passarono dei lunghi periodi ospiti nella sua casa per tale scopo. Ecco solo alcuni nomi degli interpreti che hanno avuto la possibilità di fare questa straordinaria esperienza: Michiko Hirajama, Frances Marie Uitti, Enzo Porta, Joëlle Léandre, Geneviève Renon, Carol Robinson, Marianne Schroeder, Stefano Scodanibbio, ecc.. Proprio quando Scelsi aveva finalmente trovato un mondo di suoni per sé congeniale, incominciò quel processo di occultamento della propria produzione anteriore, da lui considerata ormai di tipo accademico. La rivelazione di questa nuova fase fu l’esecuzione dei Quattro pezzi su una nota, eseguiti al Theatre National Populaire di Parigi nel dicembre 1961, sotto la direzione di Maurice Le Roux.

Certamente tutti questi elementi dovevano disturbare il mondo accademico che si dimostrò sempre più ostile nei suoi confronti, accentuato dal sempre maggior successo all’estero delle sue opere. A dire il vero, anche in Italia, non mancarono i suoi sostenitori, primo fra tutti il compositore Franco Evangelisi: a lui si devono, infatti, le rare esecuzioni di opere scelsiane, realizzate nell’ambito dei festival di Nuova Consonanza. Scelsi passò gli ultimi anni in vita raccolta nella sua abitazione di Roma, in Via San Teodoro 8, divenuta ormai mèta di amici e ammiratori. A questo periodo risalgono le pubblicazioni della sua opera di tipo teorico e letterario, affidate alla Casa Editrice “Le parole gelate”; inizia anche la pubblicazione sistematica della sua imponente produzione musicale, ad opera della “Editions Salabert” di Parigi. Negli ultimi anni Scelsi viaggiò solo in occasione di concerti a lui dedicati, avendo così l’opportunità di ascoltare almeno una volta dal vivo quelle musiche che aveva portato per tanti anni dentro di sé. L’ultimo concerto di sue composizioni, da lui presenziato, fu il 1 aprile del 1988 a La Spezia, la sua città natale, dove non era mai ritornato dagli anni della sua infanzia. Cessò ogni comunicazione con il mondo esterno il giorno 8.8.88 e si spense nella mattina del giorno dopo.

Luciano Martinis (redazione a cura di Irmela Heimbächer Evangelisti)