Quando, nel 1753, appare la Lettera sulla musica francese del filosofo ginevrino, la polemica sull'opera francese e sulla concezione armonica di Rameau sale bruscamente di tono. Cosa che sicuramente getta anche qualche raggio di luce in più sulle posizioni dei vari enciclopedisti, soprattutto d'Alembert, che da ora potranno apparire più differenziate. Nella Lettera Rousseau usa un tono così intransigente e violento, da non essere del tutto pacificamente archiviato in Francia neppure oggi. Secondo lui, la musica francese in pratica non esiste, a causa della lingua, del tutto antimusicale. Questa posizione, qui esacerbata dai furori caotici della polemica sui Bouffons, sarà sottoposta a una più matura riflessione nel più tardo Saggio sull'origine delle lingue (pubblicato postumo, ma scritto probabilmente fra il 1756 e il 1762), dove sotto processo rispetto alla "musicalità" non è solo la lingua francese, ma le lingue nordiche, dotate di "articolazioni forti che le rendono dure e rumorose", e dove si dice, con molto meno idealismo e più empirismo, che "ognuno, è colpito solo dagli accenti che gli sono familiari", e che "per l'italiano ci vogliono arie italiane, per il turco arie turche" (anche se conclude, con esilarante ferocia, che le cantate di un certo compositore francese "si dice, hanno guarito un musicista francese dalla febbre, ma a un musicista di una qualsiasi altra nazione gliel'avrebbero fatta venire"). E proprio nel capitolo finale del bellissimo saggio, quello intitolato "Rapporto tra le lingue e i governi", la differenza di pensiero con d'Alembert e il suo possibilismo nei confronti della musica francese è piuttosto netta. Ed è soprattutto segnata da un argomentare ideologico e politico al quale d'Alembert non pensa nemmeno. Rousseau sostiene che "vi sono lingue che s'accordano con la libertà: sono le lingue sonore, prosodiche, armoniose, il cui suono si percepisce molto da lontano. Le nostre sono fatte per il brusio dei salotti". A quale utopistica lingua si può riferire? Al greco antico, ma a quello della Grecia non ancora caduta preda dei romani, la lingua dei quali "più sorda e meno musicale" contaminò poi irrimediabilmente la melodiosa parlata del già libero popolo greco, facendo scomparire la musicalità naturale degli accenti, la quantità delle vocali, la sottigliezza delle inflessioni. E comunque, già lo studio della filosofia o il progresso del ragionamento avevano tolto alla lingua greca "quel tono vivo e appassionato che l'aveva resa agli inizi tanto canora". E qui la musica si era aperta un varco, ma fatale a lei stessa: "i musicisti che in precedenza erano al servizio dei poeti e non eseguivano musica che sotto il loro controllo e quasi ai loro ordini, divennero indipendenti. In una commedia di Ferecrate, di cui Plutarco ci ha conservato un passo, la musica piange amaramente questa libertà. La melodia incominciò a non aderire più al discorso, assunse a poco a poco un'esistenza a parte, e la musica divenne più indipendente dalle parole. Allora cessarono quei prodigi che aveva prodotto, quando rappresentava solamente l'accento e l'armonia della poesia ed esercitava quel potere sulle passioni che la parola non esercitò più in seguito che sulla ragione. Da quando la Grecia fu piena di sofisti e di filosofi, scomparvero i poeti e i musicisti celebri. Coltivando l'arte di convincere si perdette quella di commuovere".
Fra le moderne lingue meridionali, solamente l'italiano possiede un'anima musicale e può quindi cantare: è l'unica lingua dolce, sonora, armoniosa e dotata di accento. Il molto più scettico d'Alembert rifuggiva non solo dai toni profetici e rapsodici, ma anche dalle illazioni, quando scriveva che "quasi tutte le questioni che si sono avanzate sulla musica antica hanno diviso gli studiosi, e verosimilmente li divideranno ancora a lungo, in mancanza di documenti sufficienti e incontestabili, la testimonianza dei quali possa sostituire supposizioni e congetture".
Fra le moderne lingue meridionali, solamente l'italiano possiede un'anima musicale e può quindi cantare: è l'unica lingua dolce, sonora, armoniosa e dotata di accento. Il molto più scettico d'Alembert rifuggiva non solo dai toni profetici e rapsodici, ma anche dalle illazioni, quando scriveva che "quasi tutte le questioni che si sono avanzate sulla musica antica hanno diviso gli studiosi, e verosimilmente li divideranno ancora a lungo, in mancanza di documenti sufficienti e incontestabili, la testimonianza dei quali possa sostituire supposizioni e congetture".
da "La libertà della musica" (a cura di Ugo Fragapane, Signorinelli Editore, Roma 1993)
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