Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

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venerdì, gennaio 13, 2012

Roberto Cognazzo: Pickwick

L'allegro jukebox del Novecento
Se arrivavi nello studio in cui si registrava Pickwick vedevi un sacco di gente parlare, urlare, lavorare, ridere, leggere, sacramentare. Poi vedevi Cognazzo. Per lo più già vestito in frack, spesso immobile, impermeabile a tutto nel suo contegno superiore da maggiordomo inglese, e calmo. Di uno calma biblica. Come una bolla sospesa in un temporale.

Poi, a un certo punto, arrivava il suo turno, e si sedeva al pianoforte. Aspettondo che le luci e le scene e la regia e tutto il resto fossero pronti, lo vedevi che si metteva a suonare qualcosa, ma così per tradire l'attesa, mica per fare sul serio, così per muovere le dita. Iniziava sottovoce e a poco a poco decollava, deambulando per una geografia musicale dove ci stava di tutto, dall'idiozia di un galop pescato chissà dove alla Quarta di Cajkovskij, da Reginella al Trovatore. Vagava, lui, e la gente incominciava ad andargli dietro. Ci sono telecameramen, alla RAI, che ne hanno ormai viste di tutte, e non gli strappi un commento o un sorriso neanche a pagarli: perfino loro li vedevi drizzare le orecchie, conticchiare quaicosa, togliersi le cuffie e godersi quel maggiordomo inglese che intanto stava facendo l'inno alla Gioia truccato da fox-trot.

Potrò vedere mille volte Cognazzo suonare in concerto cose serissime e con grande serietà: ma per me resterà sempre quel maggiordomo che, così, senza parere, prendeva tutti in vettura e li portava a correre un po' per l'universo sonoro, scalando Rossini e planando su Torna a Surriento, come se non avesse fatto altro tutto la vita Lo fa anche in questo disco, che però ha un difetto imperdonabile: è un disco.

Perché il bello di Cognazzo è anche vederlo, le facce che fa, il suo modo di stare davanti alla tastiera, come muove le mani. Soprattutto, da un disco non si può vedere quella mezza risata con cui di solito sigilla le sue fantasie pianistiche: ti guarda e ammicca, come dire sono tutti matti, i musicisti, non lui, e questo è il bello, sono tutti motti, dei lestofanti dell'emozione, dei maghi del trucco, dei professionisti dell'effetto. Una mezza risata che non capirò mai se è di ammirazione o di disapprovazione, e che probabilmente è fatto di tutt'e due.

di Alessandro Baricco (prefazione al CD "Pickwick", DDT, 1994)

sabato, luglio 17, 2010

David Ojstrach: il prodigio di Odessa

Nell'ultimo periodo della sua carriera si avvicinò anche alla direzione d'orchestra, sognando prima o poi di dirigere la Pikovaja Dama di Ciakowsky, progetto che non vedrà la luce per la morte improvvisa, nel 1974

Vi è persino l'asteroide 42516 Ojstrach a ricordare il prodigioso violinista ucraino nato nel 1908 a Odessa sul Mar Nero, come segno della notorietà internazionale e delle prodigiose qualità musicali e artistiche. David è ebreo e cresce nella città di origine, in una famiglia, dove il padre, un ufficiale che vende semi di girasole per sbarcare il lunario, è musicista dilettante e la madre una cantante nel coro del teatro d'opera locale. Il bambino viene condotto all'opera quando la madre lavora e assiste così alle prove dell'orchestra rimanendone affascinato. Egli stesso racconta del primo violino - un giocattolo - che riceve a tre anni e mezzo. «Era un giocattolo. E io mi immaginavo di essere un suonatore di strada. Non mi sentivo mai così felice come quando andavo in cortile con il mio violino». Le lezioni vere e proprie hanno inizio quando il bambino ha cinque anni, nonostante il parere contrario del primo flautista dell'Opera di Odessa che aveva sconsigliato la madre: «Non insistete, Isabella Stapanova, il piccolo non ha alcun dono.... e non sarà mai un solista!».
Mai previsione fu meno azzeccata. Con Petr Stoljarskij che rimarrà il suo primo e unico insegnante (ma non solo suo, tra gli altri Stoljarskij formò Nathan Milstein che fu poi amico di Ojstrach) David cresce a, tal punto, da essere pronto al suo primo debutto a sei anni e mezzo, ancor prima di entrare al Conservatorio di Odessa, ingresso che avviene nel 1923, quando il ragazzo è quindicenne. Tre anni dopo, all'esame di diploma esegue la Ciaccona di Bach, la sonata Il trillo del diavolo di Tartini, la Sonata per viola di Rubinstein e il Concerto in re maggiore di Prokof'ev, composizione difficilissima e fresca di stampa, un rischio. Quando Prokof'ev durante la fortunata tournée del 1927 si reca a Odessa per un concerto, nascosto tra il pubblico vi è anche questo giovane diplomato seduto vicino ad altre due giovani leve che lasceranno il segno nella storia della musica: Emil Gilels e Svjatoslav Richter: quest'ultimo ha dodici anni.
Ma è nel 1928, con il suo trasferimento a Mosca, che si aprono le porte a una carriera brillante che non conosce battute d'arresto, se non negli anni tremendi della Seconda Guerra Mondiale, dove va a suonare al fronte per tenere alto il morale delle truppe, in mezzo a privazioni inimmaginabili. Le tappe della vita moscovita sono, segnate dall'incontro, durante il suo primo recital, con la pianista Tamara Rotareva, che sposa nel 1930, dalla quale avrà l'unico figlio - Igor - anche'egli destinato a seguire le orme paterne. Nel 1934 comincia a insegnare presso il Conservatorio della capitale, dove nel 1938 diviene professore ordinario formando una rosa di allievi, di grande talento, basti ricordare Oleg Kagan, Gidon Kremer, Stefan Georghiu, tra gli altri. Sono gli anni bui del terrore staliniano, cui Ojstrach farà cenno molti anni dopo a Galina Vignevskaja, a proposito dell'ospitalità che insieme a Rostropovic i coniugi offrirono a Solzenicyn, quando lo scrittore era divenuto bersaglio della dittatura: «Non farò l'ipocrita: io non l'avrei mai ospitato. A dire il vero, ho paura. Mia moglie ed io siamo sopravvissuti al '37, quando notte dopo notte ogni moscovita si aspettava l'arresto. Nel nostro edificio, solo il nostro appartamento e quello di fronte al nostro sullo stesso piano evitarono gli arresti. Tutti gli altri inquilini furono portati Dio sa dove. Ogni notte aspettavo il peggio e avevo preparato biancheria e un po' di cibo per il momento inevitabile. Non può immaginare che cosa abbiamo passato, attendendo in ascolto dei colpi fatali alla porta o del rumore di un'auto che si avvicinava. Una notte una Marusija (auto nere usate dai servizi segreti per eseguire gli arresti notturni) si fermò di fronte. Per chi era venuta? Per noi o per i nostri, vicini? La porta di sotto sbatté e l'ascensore cominciò a salire. Alla fine si fermò sul nostro pianerottolo. Sentimmo i passi e le forze ci abbandonarono. A quale porta si dirigevano? Passò un'eternità. Poi li sentimmo suonare all'appartamento di fronte al nostro. Da quel momento ho capito che non sono un lottatore...».
A Mosca le frequentazioni di Ojstrach si ampliano fino, a includere i due pilastri della musica sovietica: Sergej Prokof'ev e Dmitrij Sostakovic, con i quali negli anni costruisce non soltanto un proficuo rapporto di collaborazione, ma soprattutto, di amicizia. Entrambi gli dedicheranno alcune composizioni per lo strumento: il primo scrive proprio dietro sollecitazione del violinista e insieme a lui la Seconda Sonata per violino e pianoforte e in seguito una Prima Sonata, sempre per violino e pianoforte e il secondo due concerti per violino e una Sonata. «Per ciò che riguarda la Sonata per flauto - ricorderà Prokof'ev in seguito questa suscitò interesse nei violinisti e non molto tempo fa insieme a David Ojstrach, uno dei nostri violinisti migliori, ne ho realizzato una variante per violino». Ojstrach esegue la Sonata (che nel catalogo del compositore risulta come Seconda) accompagnato dal pianista Lev Oborin il 17 giugno 1944 a Mosca.
Ma è la Prima Sonata, composta nel 1938-1946, che sconvolge del tutto il violinista, il quale in seguito ricorderà: «L'impressione suscitata dalla musica fu enorme: la sensazione di essere di fronte a qualcosa di grandioso e significativo, e davvero, per bellezza e profondità della musica qualcosa che nella letteratura cameristica mondiale per violino non era mai apparso in decenni... Più tardi, mentre studiavamo la Sonata io e il mio partner Lev Oborin, ci recammo spesso da Sergej Prokof'ev per far e tesoro dei suoi consigli eccezionalmente preziosi». L'esecuzione ebbe luogo a Mosca nel 1946. Fu proprio Ojstrach che ne eseguì due movimenti al funerale del compositore - non avendo trovato niente di altrettanto cupo e doloroso - quei movimenti che Prokof'ev aveva definito «vento che soffia su un sepolcro». Sostakovic, invece, non si cimentò nel genere del concerto se non dopo la guerra. E' proprio dietro insistenza del violinista e per l'ammirazione che il compositore provava per Ojstrach (che lo sostenne sempre anche negli anni della censura della Lady Macbeth e del decreto Zdanov che nel 1948 colpì anche Prokof'ev, Mjaskovskij, Kachaturjan) che nacquero il Primo Concerto per violino, eseguito per la prima volta nel 1955 a Leningrado, sotto la bacchetta di Mravisnkij e il Secondo Concerto, che vede la luce nel 1967.
E risaputo che le autorità sovietiche non amavano far uscire dai confini del Paese i propri cervelli migliori e comunque quando essi si trovavano all'estero li sottoponevano a strettissimi controlli. E' solo negli anni '50 che Ojstrach riceve il premesso per effettuare numerose tournée in Europa e in America che lo consacrano come "Re David" del violino. Nell'ultimo periodo della sua carriera si avvicina anche alla direzione d'orchestra, sognando prima o poi di dirigere Pikovaja Dama di Cajkovskij, progetto che non vedrà la luce per la morte improvvisa del musicista.
Si è scritto di tutto su Ojstrach. Sulle sue caratteristiche tecnico-musicali, sui suoi successi, sull'uomo Ojstrach. Ma forse la più bella definizione la si deve al violinista ceco Aleksandr Plocek, il quale ha scritto che «con il violino in mano egli era assolutamente infaticabile, traendo la propria forza dal proprio strumento come Anteo un giorno fece dalla Madre Terra». David Ojstrach muore ad Amsterdam il 24 ottobre 1974 per un attacco di cuore.

Maria Rosaria Boccuni ("ilgiornaledellamusica", Anno XXIV, n.251, settembre 2008)

sabato, agosto 29, 2009

Giancarlo Menotti in un profilo di Enzo Dara

“Nel 1969 conoscevo tutto di Menotti: le sue composizioni, i suoi successi, i suoi problemi con la critica italiana...”.

«Nel corso della mia carriera ho frequentato Giancarlo Menotti solamente in tre occasioni e ogni volta mi sono arricchito di qualcosa sia sul piano artistico sia su quello umano.
Il primo incontro risale al 1969 (mamma mia quanto tempo fa!) scritturato dal Festival di Spoleto per il ruolo di Mustafà nell’Italiana in Algeri di Rossini. La cittadina umbra era regno incontrastato del compositore italo-americano, da quando, nel 1958, egli aveva ideato il Festival dei Due Mondi, manifestazione che ha dato a Spoleto lavoro, ricchezza e fama. Senza il Festival e ovviamente senza Menotti, Spoleto sarebbe come tanti altri piccoli centri della nostra Italia, belli e preda del turismo “mordi e fuggi”. Anzi oggi, in piena crisi turistica, più “fuggi” che “mordi”. Non so che cosa Menotti abbia individuato in Spoleto e nelle antiche bellezze dei luoghi; di sicuro lo stimolò l’idea di un’affascinante avventura: far restaurare dei teatri, scovare, tra tante testimonianze, luoghi in cui fare musica e teatro.
Durante i giorni dedicati alle prove, accanto a colleghi quali Patricia Kern, Isabella, Piero Bottazzo, Lindoro, Alberto Rinaldi, Taddeo, incontro due o tre volte per le strade e le piazze di Spoleto Menotti girovagante in maniche di camicia con le spalle, il nasone aristocratico fendente l’aria quell’anno, a dire il vero, assai scarsa ché il caldo era soffocante. Naturalmente non ho il coraggio di avvicinarlo, anche perché il compositore era attorniato da anziane signore, certamente straniere le quali, al piacere di incontrarlo e all’onore di parlargli, emettevano acuti gridolini che l’accento americano rendeva più striduli. Il baritono Rinaldi mi traduceva quello che le dame (Spoleto allora ne aveva tante e con tanti dollari) dicevano a Menotti: “Caro Maestro, ricorda due anni fa a New York?” oppure: “Maestro Giancarlo ricorda cinque anni fa proprio qui a Spoleto?” e il Maestro, grande attore: “Yes... yes...” con tutta l’apparenza della sincerità.
Un altro giorno incontro il Maestro nel suo meditabondo girovagare che guarda con fissità un mattone spostato, un balcone fiorito, un negozio chiuso, proprio nel momento in cui è fermato da un allampanato signore di mezza età che, ancor prima di incrociarlo, gli rivolge il solito “Si ricorda di me?” Rimango esterrefatto dalla risposta secca del Maestro: “No, non mi ricordo di lei!” Menotti prosegue lasciando di stucco il malcapitato. Poiché un attimo prima dell’incontro stava canticchiando sottovoce presumo che lo sconosciuto signore gli abbia disturbato la scoperta di un motivo, di una bella melodia per una composizione. Seppi poi che l”’allampanato” altri non era che un famoso critico poco gradito al Duca.
Nel 1969 conoscevo tutto di Menotti (o quasi): le sue composizioni operistiche, i suoi successi, i suoi problemi con la critica, soprattutto quella italiana che non l’apprezzava molto. Per di più non è che i nostri teatri facessero a botte per allestire le sue opere. E queste forme di ostilità sono sempre state la sua spina nel cuore. Sapevo anche dei suoi capricci che sfogava soprattutto a Spoleto, come la pretesa che le campane del Duomo tacessero perché disturbavano la sua pace domestica. Le campane tacquero. Durante le prove si lavorava come matti con quel pazzo di Patrice Chéreau, rampante regista sessantottino che a me pareva un genio, un vero fiume di idee. Ed ecco Menotti arrivare in teatro, insieme a un giovane assistente segretario, l’immancabile golf a dargli l’aria di finto casual, la solita aria stralunata. Ha in mano un libro troppo piccolo perché possa leggerne il titolo senza farmi notare. Infatti, dopo alcuni inutili tentativi, il Maestro.con fare allegro mi sbatte sul muso la copertina: “Ecco, leggi - mi dice – visto che sei così curioso”. Consigli per vivere felici di... non ricordo più chi (forse Seneca?). Bel titolo, anche utile, penso, ma sono convinto che Menotti, in fatto di vita felice, potrebbe dare lui stesso consigli all’autore. “Vedo che ti piacciono i libri - dice - toh, te lo regalo”. E mi allunga il voIumetto finemente rilegato “Ma guarda - continua - non prenderlo molto alla lettera. Per essere felici non si ha bisogno di consigli. Si nasce felici, e basta…”. A questa gentilezza scorgo negli occhi del supposto segretario (più avanti saprò trattarsi di un laureando che vuole fare la tesi sul Maestro) una punta di gelosia subito dissolta non appena resosi conto che non potevo rientrare nei gusti estetici del Maestro. Notai anche che il ragazzo, alquanto belloccio, gli ricordava date, fatti, impegni, nomi mentre, a ogni frase del compositore, prendeva appunti.
Così le voci su un Menotti distratto e smemorato prendevano corpo. Le sue ruffianate alle signore sui selciati di Spoleto erano veramente false. Una piccola parentesi: sono anni che cerco disperatamente negli angoli più nascosti della mia biblioteca il volumetto menottiano senza trovarlo. La stessa sera il Maestro invita tutta la compagnia di canto e Chéreau a Palazzo Campello dimostrandosi un perfetto anfitrione: simpatico, loquace quanto basta, spiritoso, ride spesso di se stesso, soprattutto della sua memoria. E sentendolo parlare e raccontare molti aneddoti della sua vita, mi viene da pensare: “Ma come fa quest’uomo a vivere in Scozia, al freddo in un castello dove dicono ci sia anche un fantasma se ama tanto stare al sole come una lucertola?” Mah! A tavola tratta tutti con affabilità mantenendo la conversazione a un notevole livello di ironia sull’Arte e sulla Vita come sulla Morte. Alla signora Morte accenna spesso, certo per scaramanzia.
Appena viene a sapere che sono di Mantova mi racconta che con la mia città aveva preso contatti per un festival, prima di giungere a Spoleto. Ma i mantovani, sempre maestri nel dire di “no” e nel farsi sfuggire le occasioni, sempre colpiti da pigrizia cronica avevano tergiversato e perso, come si suol dire, il treno. Non chiesi con chi avesse avuto i contatti, tanto non l’avrebbe ricordato, mentre chiudeva il discorso: “Meglio così, troppo caldo umido, troppe zanzare”. Poi, vedendomi unpo’ mortificato, cercò di rimediare alla gaffe continuando: “Ma Mantova è così bella che non ha bisogno di un Festival per farsi ammirare”. “Sì - pensai tra me - Mantova è così bella ma anche tanto vuota”.
Nel 1969 il Festival dei Due Mondi di Spoleto compiva il suo undicesimo anno di vita con Verdi e Daudet, De Falla e Berio, Prokofiev e Rossini, Donizetti e Henze. In tutti questi anni grandi nomi alla ribalta: Visconti e Jerome Robbins, Rossellini e Carla Fracci, Paolo Stoppa e Zeffirelli, Patroni Griffi e Richter, De Lullo e Romolo Valli, scusate se è poco, oltre a tanti, tantissimi giovani talenti molti dei quali spariranno in seguito nell’inesorabile setaccio del teatro ma altri, quali ad esempio Thomas Schippers, Patrice Chéreau, Luca Ronconi e Bruno Campanella diventeranno qualcuno. Nei primi anni del Festival il suo creatore stette un po’ in disparte come compositore poi, piano piano, le sue creature ebbero peso crescente nel programma musicale. Proprio nell’anno del mio debutto a Spoleto ascoltai rapito la sua Medium, regia dell’autore, scene e costumi di Samaritani. direzione di Campanella che già si capiva sarebbe diventato un grande ed estroso direttore. L’opera di Menotti, abbinata a El retablo de maese Pedro di De Falla, mi piacque molto perché se anche la musica poteva suscitare dubbi e sospetti la resa teatrale era perfetta. Secondo il mio modesto parere la musica di Menotti non ha nulla da spartire con quella di Puccini, come imputatogli da molti: è invece la toccante drammaturgia che più si avvicina all’autore di Tosca. Inutile dire che la serata De Falla-Menotti fu un vero trionfo per tutti e il Duca di Spoleto, all’apparire al proscenio, fu salutato da un frenetico applauso di entusiasmo. Gli strilli delle solite dame furono coperti dagli applausi del pubblico.
L’infittirsi di allestimenti menottiani a Spoleto si pensa sia stato voluto dal compositore per compensare l’immotivata esclusione delle sue opere dai teatri italiani. Erano gli anni nei quali i suoi melodrammi avevano un enorme successo di pubblico mentre le composizioni della cosiddetta avanguardia (molte di queste opere poi, improvvisamente invecchiate e ora improponibili) erano sistematicamente fischiate. “Ah, voi bandite dai vostri teatri le mie creature? – avrà pensato Menotti - e io le faccio eseguire al “mio” Festival”. Detto fatto».

di Enzo Dara ("Personaggi in chiave", Azzali, 2004)

venerdì, luglio 03, 2009

Keith Jarrett: "Liberate i pianisti classici!"

Alla vigilia del concerto di Napoli, parla dello «scandalo» di Umbria Jazz 2007. Il jazzista americano: la fedeltà allo spartito li porta alla pazzia.

Keith Jarrett il bambino prodigio che disse no a Nadia Boulanger, una delle più grandi insegnanti di musica del Novecento, che lo voleva come allievo. Keith Jarrett il pianista che da un quarantennio gira il mondo improvvisando tra jazz, classica e blues, agitandosi, canticchiando la musica che sente nascere nella sua testa, litigando con il pubblico (celebri gli insulti lanciati dal palco di Umbria Jazz 2007, immortalati su YouTube, che provocarono boicottaggi di molti fan). Keith Jarrett che pretende di avere delle stufe sul palco se l’aria condizionata è troppo potente. Keith Jarrett l’americano di Allentown, Pennsylvania, 64 anni domani, che lunedì 18 maggio sarà per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli, data unica, in quello che è già uno degli eventi musicali dell’anno, ha fama di personaggio difficile, schivo, poco o nulla «mediatico».
Ma Jarrett ha parlato a lungo con il Corriere al telefono dalla sua casa-fattoria di Union, New Jersey, per spiegare che il pubblico scambia la sua concentrazione per arroganza, che ascoltare i più grandi pianisti classici non lo stimola, che Herbie Hancock non capisce il pianoforte, e molto altro. Jarrett parla come suona: non per frasi o paragrafi ma per lunghi movimenti, e non ama essere interrotto. Ecco dunque, senza interruzioni, quello che ha detto al Corriere. «I pianisti classici non hanno uno sfogo per tutta quella musica che hanno dentro. E allora cercano di mettere qualcosa di personale dentro Mozart, o Beethoven, uno sforzo terribile. Io suono Bach o Händel alla lettera, la 'mia visione' non esiste. Ma quando improvviso sono completamente libero. I più grandi pianisti del mondo tengono la loro immaginazione al guinzaglio perché hanno sempre davanti quello spartito. Allora io dico: liberateli. Il mio amico Vladimir Ashkenazy mi ha raccontato che suo padre suonava il piano nei cinema ai tempi del muto: improvvisava sempre. 'Io non sarei capace', mi ha detto. Dovrebbe ritirarsi per mesi e entrare in una forma mentis completamente diversa. Ecco perché i grandi pianisti rischiano la schizofrenia. Lo stress produce un modo di suonare meccanico, la fedeltà è una trappola: io cerco di non essere fedele nemmeno a me stesso — il cervello è ingannatore, le dita gli dicono cose che, da solo, non immaginerebbe mai».
«Dicono che maltratto il pubblico ma non hanno capito che tocca a loro chiudere il cerchio disegnato da me: ho bisogno del pubblico al punto che in sala d’incisione mi manca. Suono la musica che nasce nella mia testa e se c’è troppo rumore, non parliamo dei flash dei videofonini, non riesco più a sentirla, quella musica. Il mio pubblico ideale è 'succoso'. Ha ragione Emmanuel Ax, altro grande pianista classico, quando dice che il pubblico della classica è troppo silenzioso. Sono più ordinati, ma non migliori del pubblico jazz. Non ho un pubblico ideale, ma in Giappone c’è rispetto e partecipazione sincera. Tre mesi fa a New York, alla Carnegie Hall, silenzio totale nei pianissimo, fruscii e colpi di tosse e altri 'segni di vita' quando le dinamiche diventavano più intense, era come respirare all’unisono. Alla Scala nel ’95 fu un’altra bella serata: spero che a Napoli, nel teatro dove da Rossini in poi sono passati tutti i più grandi, potremo vivere tutti insieme un’altra notte da ricordare. Arriverò almeno tre giorni prima, come faccio sempre, perché non ho bisogno di provare ma di camminare per le strade, ascoltare i rumori. La musica di una città è nella sua aria: basta saperla ascoltare. Ecco perché la globalizzazione è così terribile: un solo mondo, una sola lingua? Una noia inimmaginabile. Un’altra cosa incredibilmente vacua sono gli anniversari dei compositori, una fissazione della musica classica».
«Non si può capire Bach senza una conoscenza profonda del clavicembalo, ma l’evoluzione è nemica della padronanza tecnica. Il pianoforte non è cambiato dal diciannovesimo secolo a oggi, e questo è un bene. Herbie Hancock pensa che l’elettronica aiuti la musica, ma il suo pianoforte elettrico non sarà mai paragonabile a uno Steinway, mai. Sostenere che il pianoforte è obsoleto è la negazione della mia visione della musica. Suonare è un atto estremo, voglio trascendere le possibilità fisiche del mio piano, voglio che suoni come una voce umana, come una chitarra, come un uccellino. Per questo amo tanto la musica del vostro Ferruccio Busoni e soprattutto il secondo concerto per pianoforte di Béla Bartók: perché chiedono al piano più di quanto possa fisicamente dare, quando finisci sei sudato come una bestia. Tento sempre di andare oltre. Le note mi arrivano come un vapore sottile, come vapore acqueo. E io cerco di coglierne la forma prima che svaniscano nell’aria».

Matteo Persivale (Corriere della Sera, 7 maggio 2009)

mercoledì, dicembre 24, 2008

Heinrich Schütz: Italia-Germania 4 a 3

"Non arrivava da solo: l'organista del duomo di Könisgberg, Heinrich Albert, che si era fatto un nome oltre i confini prussiani come compositore ed editore di raccolte di Lieder, portava con sè suo cugino: il maestro di cappella di corte Heinrich Schütz della Sassonia Elettorale che voleva comunque recarsi ad Amburgo e proseguire per Gluckstadt dove sperava di trovare l'agognato invito alla corte danese: nulla lo tratteneva più in Sassonia. Sull'inizio dei sessanta, quindi nell'età di Weckherlin, ma più energico dello svevo, consunto dal servizio di Stato, Schütz era un uomo di distante autorità e di severa grandezza che nessuno (anche Albert solo approssimativamente) riusciva ad afferrare. La sua comparsa tutt'altro che arrogante, semmai preoccupata per il presunto disturbo che arrecava, sublimò l'assemblea dei poeti di Telgte e d'altro canto ridimensionò l'incontro. Era venuto a loro qualcuno che nessun gruppo poteva sopportare. Non voglio farmi più furbo di allora, ma questo lo sapevano tutti, per quanto incontestata fosse la sua concezione di Dio e per quanto devoto, nonstante le ripetute offerte danesi, si fosse dimostrato al suo Principe, Schütz era tuttavia rimasto suddito solo delle proprie aspirazioni."

Heinrich Schütz appare all'improvviso nel mezzo di un romanzo dello scrittore tedesco Günther Grass. Non c'è da stupirsi: L'incontro di Telgte si svolge nel 1647 in una locanda tedesca durante la Guerra dei Trent'anni, affollato ritrovo di poeti ed artisti smarriti e divisi, ma tutti realmente esistiti e in cui Grass lasciava trapelare l'immagine contemporanea degli intellettuali appena usciti da una guerra ancora più terribile pur se molto più breve.
«Sì, è, un ritratto efficace del compositore tedesco» riconosce Matteo Messori, organista, clavicembalista e direttore, a cui Brilliant Classics ha affidato l'immane compito di incidere l'opera completo di Heinrich Schütz con il gruppo da lui fondato Cappella Augustana. I primi cinque dischi con le prime due parti delle Symphoniae Sacrae e la Weinachtshistorie sono usciti nel dicembre scorso; imminente la pubblicazione del secondo cofanetto con altri cinque dischi che includeranno la raccolta dei madrigali italiani, le Contiones Socrae e la prima parte dei Kleine geistliche Concerte. «Per arrivare alla fine di tutta l'opera di Schütz ci vorranno un'altra ventina di dischi. E' un'impresa considerevole - ammette Messori - e ci impegnerà per i prossimi anni con un ritmo di lavoro abbastanza serrato». Impresa che sembra un'occasione preziosa per riaprire la discussione su un musicista rimasto defilato perfino nella storia della musica tedesca. Eppure Schütz è un'infinita sorpresa. Già dal suo primo apprendistato musicale che, nonostante le resistenze della sua famiglia, lo conduce a Venezia nel 1609, si trova a vivere in una capitale musicale capace di sorprendere per la sontuosità sonora, come quella che era dispiegata per la celebrazione dei vespri. «A Venezia Schütz avrà per maestro Giovanni Gabrieli - racconta Messori - e qui nel 1611, a ventisei anni pubblicherà il suo opus primum, i Madrigali italiani. Sono composizioni finora non del tutto valorizzate dalla critica ed invece, a studiarle ed eseguirle, si sono rivelate come pagine assolutamente straordinarie. Dal punto di vista formale sono madrigali abbastanza lunghi, dieci su testo di Giambattista Marino, sei tratti dal Pastor Fido di Guarino, altri due su testi di poeti di scuola marinista e l'ultimo, un Dialogo a due cori, su testo probabilmente dello stesso compositore. Sono pagine in cui Schütz si impossessa dei tesori della scuola italiana fino in fondo. Con questo bagaglio musicale torna arricchito, pronto ad un lavoro di rinnovamento nello stile e nelle forme praticate in Germania».
Perché non riaprire ancora il romanzo di Grass? «Nessuno più di lui puntava sulla parola e che la sua musica doveva servire esclusivamente alla parola, voleva chiarirla, animarla, sottolinearne i gesti e sprofondarla, dilatarla, innalzarla in ogni abisso, vastità ed altezza. Schütz era severo con le parole e si atteneva alla tradizionale liturgia latina o alla lettera della bibbia di Lutero. All'offerta dei poeti contemporanei si era finora rifiutato nella sua opera principale, la musica sacra, salve le eccezioni del Salterio di Becker e di alcuni testi del giovane Opitz; i poeti tedeschi non avevano avuto niente da dirgli per quanto ardentemente egli ci avesse palesato i suoi desideri di testi...».
Messori dà ragione a Grass e anzi si spinge oltre: «Schütz è il grande musicus poeticus del XVII secolo. Lui cerca di dipingere musicalmente la parola in tutti i suoi affetti e con risultati che possiamo riscontrare solo nell'opera teatrale e madrigalistica di Monteverdi. Schütz è altrettanto grande nella musica sacra. Basterebbe ascoltare le sue Cantiones Sacrae che abbiamo registrato per il prossimo cofanetto della nostra Schütz-Edition. Qui c'è una vena intimistica che si rivela quando la musica viene a contatto con questi testi latini che ai tempi si credevano di San Agostino, ma che in realtà sono opera di mistici medievali. Erano diffusi anche in ambito luterano e hanno ispirato una devozione molto personale, domestica.»
Perché contare aiutava contro la fame, dice uno dei personaggi dei romanzo di Grass. Eppure persino contare divenne ad un certo punto difficile. A Dresda nel 1636 la Cappella dell'Elettore è in rovina, dimezzato, a causa della guerra e diventa difficile eseguire il canto a più parti. A questo periodo così critico appartengono i Piccoli Concerti Spirituali che Schütz compone su testi scritturali (Salmi in maggior parte) e sui versi di alcuni inni luterani. E' musica scritta per le poche forze rimaste. «Mai strumenti oltre a quelli di continuo, eppure in questa semplicità vi è una forza espressiva impressionante.»
Le future tappe del progetto discografico si profilano già all'orizzonte: «Stiamo pianificando la prossima stazione che prevede la registrazione delle Historiae, quella della Resurrezione Op.3 (1623), e le tre Historiae della Passione rimaste manoscritte, che appartengono all'ultimissimo periodo di vita di Schütz, opere molto intense, oltre a Le sette Parole di Cristo in Croce. Ci aspetta poi il secondo libro dei Piccoli Concerti Spirituali. Dopo affronteremo la terza parte delle Symphoniae Sacrae, che è del 1651, impressionanti pagine concertanti a più voci soliste, violini e altri strumenti e diversi cori di complemento».
E per l'edizione a quale attenersi? «Continuo a tenere presente, oltre alle fonti originali, l'edizione delle opere complete curata da Philipp Spitta a partire dal 1885 (in occasione del terzo centenario della nascita del Sagittario). A tutt'oggi resta un'edizione esemplare non solo per la sua importanza nella storia della fortuna di questo compositore ma perché è condotta con criteri filologici inattaccabili nell'epoca attuale dove trionfa la filologia musicale. C'è una precisione negli apparati critici che testimonia il riscontro puntuale delle edizioni a stampa e dei vari manoscritti. A malapena ho trovato un errore in ogni volume studiato. Ed è l'edizione che ha avuto per le mani Johannes Brahms che da direttore di coro e da compositore di polifonia ha sempre dimostrato di conoscere molto bene l'opera di Schütz. E' un'edizione che fa ancora testo se si pensa che la Neue Schütz Ausgabe uscita a partire dalla metà degli anni Cinquanta per Bärenreiter tra i molti discutibili criteri diplomatici (chiavi modernizzate, spesso valori originali alterati, realizzazione del basso continuo ecc.) trasporta un numero esorbitante di brani, facilitando le parti, per consentirne insomma l'esecuzione da parte dei cori di dilettanti diffusi in Germania. E ci sono registrazioni discografiche che se ne conformano come nulla fosse, tradendo così la variegata paletta tonale e coloristica insita nella musica di Schütz».
Nessun timore ad affrontare da musicista italiano gli opera omnia di uno dei massimi maestri della musica tedesca? «Schütz si lamentava che i cantanti e gli strumentisti tedeschi non erano abituati allo stile italiano e non smetteva di guardare all'Italia - che definisce «retta e vera scuola di ogni musica» - come punto di riferimento. Di fatti ci ritornerà una seconda volta nel 1628 e si accorgerà che a Venezia qualcosa era cambiato. Erano gli anni in cui si diffondeva l'opera in musica. Per questo credo interessante la prospettiva italiana sottesa a questo grande progetto discografico. Prospettiva che si arricchisce tramite l'importanza che abbiamo dato, di nuovo in questo secondo cofanetto, all'organo: le Cantiones sono state accompagnate da un antico strumento veneziano del 1730,effettuando la registrazione in cantoria, e un altro organo in stile emiliano scicentesco (assieme a violone e spinetta) ha sostenuto il basso continuo dei Piccoli Concerti del 1636.» Nei dischi sarà ridotta al minimo la presenza di contraltisti e Matteo Messori spiega perché: «C'è da intendere quali fossero i tipi di voce che cantavano le parti di alto al tempo di Schütz. La tessitura evidentemente non è quella del falsettista a cui siamo abituati oggi. Erano sicuramente voci di tenori acuti, che all'occorenza falsettavano nelle note più alte: di norma le linee del Sagittario non oltrepassavano il la. Nelle Cantiones e nei Piccoli Concerti Spirituali appena incisi le parti di contralto sono perciò sostenute da tenori mentre il trio di voci acute dei Madrigali è tutto femminile, sul modello allora molto seguito del Concerto delle Dame ferraresi. Sì, il legame con l'Italia per Schütz è sempre rimasto molto forte. E si può ripetere quel che ha scritto il musicologo Wolfgang Osthoff: la musica tedesca con Schütz ha imparato dall'Italia un proprio linguaggio, quella tensione alla parola, che era tipicamente italiana».

di Alessandro Taverna (Falstaff, n.3/2004)

venerdì, luglio 18, 2008

Giovanni Sollima: sporcarsi le mani

L’aspetto che mi ha affascinato fin dal nostro primo incontro nell’attitudine musicale di Giovanni Sollima è l’assoluta naturalezza del suo rapporto con la musica. Non sembri un fatto scontato. Né lo si attribuisca automaticamente al suo essere figlio d’arte (il padre Eliodoro, lo ricordiamo, è stato compositore affermato ed ottimo musicista). La fluida spontaneità con la quale Giovanni Sollima parla di musica, scrive musica e la suona, l’immediata semplicità con la quale passa da un ruolo all’altro (dal compositore all’interprete, al commentatore) è qualcosa che appartiene alla sfera del talento. Ovvero a quella sfera nella quale, nonostante gli sforzi di schiere di studiosi, facciamo davvero fatica ad entrare per spiegare i segreti dell’artista, o dello scienziato, dell’inventore, o del genio. Peraltro, essendo ancora noi nipoti del romanticismo, talento e genio sono parole che usiamo con singolare casualità. Sono, nella maggior parte dei casi, parole frutto della meraviglia, di quello stupore infantile, per dirla con Mircea Elide, che ci prende dinanzi alla semplicità. Non dunque una forma di sindrome di Stendhal. Questa ha a che fare col ‘grandioso’, col ‘sublime’, con l’incommensurabile e l’ineffabile. Il talento, e la sua forma suprema, il genio, ha a che vedere con la natura nella sua forma più ‘naturale’. Ed è questo che stupisce in Giovanni Sollima: la facilità di comunicare in primo luogo la sua passione per l’arte in cui eccelle, e di trasformare tale comunicazione in un’emozione.
Questo accade anche nelle situazioni più improbabili. Per esempio parlando al telefono, nella pausa fra due prove; oppure salendo le scale del Conservatorio tra una chiacchiera e l’altra; o semplicemente facendo due passi per strada: quando la conversazione cade sul tema “musica”, quel fluire naturale coinvolge chi ascolta. Ovviamente, non fanno eccezione neppure le interviste, nelle quali Giovanni Sollima racconta con organica schiettezza dei suoi progetti, del suo lavoro, del come nascono i programmi. Programmi che, come quello che presenterà a Musica Insieme con l’ensemble dei Violoncellisti della Scala, spesso sono frutto – e a questo punto possiamo dire non per caso – di una sorta di sperimentazione sul campo, dove l’esperienza del violoncellista (e dei violoncellisti) si somma con quella del compositore. Ed infatti: “Abbiamo affrontato Biber non come se volessimo farne una trascrizione. Quello che ci ha guidato era un principio diverso: lavorare un po’ come si faceva in epoca rinascimentale e barocca. Ovvero adattando la musica agli ensemble che si avevano a disposizione, e quindi ridistribuendo le parti di conseguenza. Quindi, il gruppo di violoncelli trattato come se fosse una sorta di insieme di viole da gamba, o di quei gruppi di archi dove si trovavano strumenti ibridi, oggi non più in uso. Peraltro, la musica di Biber, ed in particolare questa sua Battàlia, mi ha sempre affascinato. L’ascoltavo già da bambino, e quello che mi colpiva e mi colpisce tuttora è la straordinaria inventiva contenuta in quel brano. È una pagina musicale immediatamente descrittiva, ma lo è in maniera non banale, sfruttando poliritmie a volte anche molto complesse, o sovrapposizioni di tonalità che farebbero persino pensare ad una specie di politonalismo ante litteram. È stato, perciò, quasi ovvio adottare certe soluzioni, come dividere i violoncelli in due cori, imitando in questo l’originale che prevede due gruppi contrapposti, mentre la mia parte l’ho posizionata al centro, cercando anche di creare una sorta di distribuzione spaziale dei suoni, una stereofonia da palcoscenico”.
Come volevasi dimostrare: il violoncellista esperto, l’interprete navigato, applica la sua esperienza al servizio del risultato compositivo. Analogo, del resto, il caso del brano che segue: Flagellazione, tratto da un balletto ispirato ad alcuni dei capolavori di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio. “È ancora un brano per ensemble di violoncelli caratterizzato da una componente sonora non dissimile da quella di Biber. Peraltro, tutto il balletto ha una genesi particolare. In alcuni quadri Caravaggio, con la consueta meticolosità, ha inserito partiture. Naturalmente, si tratta di brani autentici, ed io sono riuscito a ritrovarne tre. Si tratta di madrigali composti da Jacques Arcadelt”. Arcadelt, rammentiamolo, è compositore francese (forse fiammingo), che fu allievo, proprio in terra di Francia, del grande Josquin Desprès. Lo ritroviamo poi a Firenze – dove studiò con Verdelot – ed infine eccolo a Venezia, inserito in quel gruppo di musicisti che ruotava intorno a Willaert. È proprio a Venezia che, tra il 1539 ed il 1544, Arcadelt pubblica le sue raccolte di madrigali, raccolte grazie alle quali ha conquistato un suo posto nella storia della musica. Dalla città lagunare si trasferì poi a Roma ed infine tornò a Parigi, dove morì nel 1568. “Nel caso di Flagellazione – torniamo a Sollima – il madrigale che ho utilizzato aveva un andamento mediamente lento. Nel trasporlo per l’ensemble di violoncelli ho in primo luogo cambiato proprio la velocità metronomica. Poi, ho infittito le articolazioni, e sono intervenuto ovviamente sulle singole parti, adattandole agli strumenti. In ogni caso, uso quel madrigale di Arcadelt nella sua struttura quasi integrale sia all’inizio sia alla fine della mia composizione. Nel centro, invece, pur partendo sempre da un frammento che deriva da quella partitura, costruisco una struttura completamente diversa. In certo senso, colloco quel frammento in un altro contesto, un contesto che ha una forte connotazione pittorica, l’ensemble utilizzato, per così dire, in maniera oceanica. Per contrasto, al tutti si contrappongono tre solisti, che suonano la medesima parte, ma sfalsati nel tempo, quasi si trattasse di una sorta di delay (ossia un ritardo, ndr) naturale. Il risultato è sonoramente lacerante, come del resto sono laceranti certa figuratività e certa pittura barocche, che sono cupe e dolenti, quasi anticipassero il romanticismo. Insomma, come per il brano di Biber, la componente strumentale e quella compositiva s’intrecciano. Il comune denominatore dell’intero programma del concerto è proprio questo: lo sporcarsi le mani tra la composizione e lo strumento. Il brano di Domenico Gabrielli, invece, è un omaggio alla tradizione violoncellistica emiliana, ed in particolare bolognese”. Gabrielli, infatti, a Bologna è nato (nel 1659) e a Bologna si è spento (nel 1690). Anche lui ha un posto di rilievo nella storia della musica, in particolare perché è stato tra i primi (se non il primo) a comporre pagine per il solo violoncello, alle quali si sono ispirati tutti i compositori a lui successivi, Bach compreso. “Dal punto di vista violoncellistico, quella di Gabrielli è un’opera fondamentale – precisa Sollima – tant’è che sto pensando di realizzare molto presto un progetto discografico tutto dedicato a lui. Gabrielli potremmo dire ha inventato il violoncello, estendendone le possibilità in maniera straordinaria. Da strumento limitato ad eseguire linee di basso, a strumento virtuosistico, che suona parti ricche di fioriture e di diminuzioni. È Gabrielli il primo a spingere lo strumento in quel registro tenorile, quello che lo fa cantare, in seguito divenuto d’uso comune. Proprio le innovazioni di Gabrielli stabiliscono, in certo senso, la differenza tra il gruppo di viole da gamba ed il gruppo di violoncelli: questi ultimi possiedono, per così dire, una sonorità più carnale, più corposa”.
Di questo sporcarsi le mani è, infine, esempio preclaro proprio il brano che segue, e lo è fin dall’attribuzione autoriale: Vival-Drix, ovvero l’incontro fra Antonio Vivaldi e Jimi Hendrix. “Tutto nasce ovviamente dal celebre Concerto per due violoncelli di Vivaldi, e dal fatto che, nel
trascriverlo per i soli celli, ho incontrato qualche difficoltà, sia per la complessità di certi passaggi nel basso, sia ovviamente per i problemi legati all’estensione della parte dei violini. Così ho ridistribuito tutte le parti tra i celli cercando di mantenere quella ricchezza, al punto che due li ho utilizzati solo in pizzicato, quasi fossero dei chitarroni. La scrittura vivaldiana, poi, ha un certo sapore rock: sincopata, ritmicamente molto incalzante, vitale nel suo scorrere. Ed ecco che, in prova, giocando con le note, mi sono accorto di una certa vicinanza tra Vivaldi ed Hendrix. È stato allora quasi automatico creare una sorta di dissolvenza incrociata nel finale e passare fluidamente dall’uno all’altro
”.
Il concerto si concluderà sulle note del più celebre fra i lavori di Sollima, "Violoncelles, vibrez!": “L’ho composto molti anni fa, e quando ho finito di scriverlo per la verità non mi sembrava granché. Evidentemente mi sbagliavo, tant’è che sono tornato ad inciderlo anche ora, nel mio nuovo cd per la Sony”.

di Fabrizio Festa

sabato, febbraio 23, 2008

Ricordo di Carlos Kleiber

La scomparsa di Carlos Kleiber, lo scorso 13 luglio all’età di settantaquattro anni, ha lasciato un vuoto incolmabile nel mondo della musica. Di lui si era cominciato a parlare nel 1973 all’epoca della prima delle sue scarse incisioni discografiche, un Freischütz per molti aspetti inarrivabile, più che una sorpresa un’autentica rivelazione. Fino ad allora la carriera del direttore berlinese, dal debutto a Potsdam nel 1954, si era svolta prevalentemente in teatri di secondo piano, fra la Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf e il Landestheater di Salisburgo, fra Zurigo e Stoccarda. Solo dal 1968 la nomina a “direttore ospite principale” dell’Opera di Stato Bavarese, ottenuta grazie all’intervento del sovrintendente Günther Rennert impose Kleiber all’attenzione del mondo musicale. Ma il vero lancio internazionale si ebbe solo nel ’73 appunto con quel sorprendente Freischütz. Il resto venne di seguito: nel ’74 il debutto a Bayreuth con il Tristano e al Covent Garden in sostituzione di James Levine, nel ’75 alla Scala con il Rosenkavalier, nel ’78 il primo invito americano a Chicago. In pochi anni fu chiaro in tutto il modo che si aveva a che fare con uno dei talenti musicali più straordinari del nostro tempo.
Da allora i grandi teatri cominciarono a contenderselo e in molti casi non tardarono a conoscere altri aspetti del personaggio Kleiber, la sua natura scontrosa e la sue bizzarrie, il rifiuto di concedere interviste, le sfuriate con gli orchestrali e con i cantanti, le frequenti rinunce e le defezioni all’ultimo momento. Kleiber era insomma un direttore affascinante ma terribilmente “difficile”, per certi aspetti perfino inaffidabile. Quasi tutti i maggiori teatri del mondo hanno avuto almeno una volta grane con lui per impegni annullati in extremis. Era intransigente, prima di tutti con se stesso, e difendeva con ogni mezzo la sua indipendenza di nemico giurato della routine, di artista poco interessato alle tentazioni della carriera. In questo ricordava altri grandi musicisti come Benedetti Michelangeli e Celibidache. Non a caso con entrambi ha avuto scontri memorabili, col primo durante quelle famose sedute di registrazione dei Concerti di Beethoven che si risolsero in un tempestoso nulla di fatto e col secondo attraverso un suo bizzarro articolo satirico pubblicato da vari giornali in risposta a certi giudizi aggressivi espressi dal direttore rumeno su alcuni interpreti del passato. Oltre al vezzo di negarsi, Carlos Kleiber aveva in comune con Celibidache e con Michelangeli la scarsa simpatia per gli studi di registrazione e l’apparente limitatezza del repertorio. Negli ultimi anni accettava di dirigere solo una diecina di opere e un numero ancor più ristretto di capolavori sinfonici, cioè solo le cose a lungo maturate e delle quali si sentiva perfettamente sicuro. Era però un’esiguità solo apparente se si considerano i lavori affrontati prima del lancio internazionale e presto abbandonati, dalla Madama Butterfly ai Due Foscari, dalla Sposa venduta all’Edipo re di Leoncavallo, dal Lago dei cigni a Coppelia, da Daphne a L’Heure espagnole, da Rigoletto alla Vedova allegra.
Per spiegare gli aspetti meno accattivanti del personaggio sono state fatte molte congetture richiamandosi soprattutto agli inizi della sua carriera, frustrati e intralciati più che agevolati dal rapporto col padre Erich Kleiber, il leggendario primo interprete del Wozzeck. Kleiber è stato l’unico grande direttore figlio di un grande direttore, che per di più agli inizi non aveva mosso un dito per instradarlo sulla via della musica, anzi spingendolo a studiare chimica. Nonostante la venerazione dimostrata per l’attività del padre, Carlos Kleiber aveva saputo ritagliarsi un proprio spazio interpretativo, talvolta perfino in netto contrasto con le scelte paterne. A dimostrarlo basta confrontare le registrazioni delle Sinfonie di Beethoven, del Tristano, del Freischütz o del Rosenkavalier lasciate da Erich Kleiber con quelle diversissime del figlio: un confronto quasi sempre destinato a risolversi a vantaggio delle seconde. In realtà se Erich Kleiber era un solido custode della tradizione tedesca, in qualche modo vicino a Furtwängler e a Walter, Carlos Kleiber appariva invece come un geniale “guastatore” di quegli stessi canoni interpretativi. La frenesia ritmica, la trasparenza dei timbri, il fraseggiare con imprevedibile elasticità e morbidezza facevano piuttosto pensare ad altri modelli, a De Sabata, al primo Karajan, per certi aspetti anche a Bernstein, che fu suo amico sincero.
Vedere Kleiber sul podio era uno spettacolo senza confronti. Il suo gesto costituiva uno di quei fenomeni che rendono inspiegabile il mistero di un’arte come la direzione d’orchestra e che, osservati al dettaglio, vanificano ogni possibilità di teorizzazione scolastica sul rapporto causa-effetto che si viene a instaurare fra movimento e risposta sonora. Raramente scandiva il tempo nel senso tradizionale. La correttezza impeccabile della tenuta ritmica e la realizzazione delle sottilissime fluttuazioni agogiche del “rubato” sembravano derivare piuttosto da certi atteggiamenti del corpo e del volto: un fluido misterioso che si trasmetteva agli strumentisti. I movimenti di Kleiber sul podio contravvenivano a tutte le buone regole della tecnica direttoriale: quasi impercettibili nello scatenamento vorticoso dei tempi rapidi si facevano invece più ampi ed eloquenti nella cura del fraseggio dei tempi lenti. Una specie di danza meravigliosa, quale nessun coreografo saprebbe inventare, l’esatta rappresentazione visiva di ciò che un attimo dopo si traduceva in effetto sonoro. E il risultato era una sorta di ebbrezza dionisiaca, di estasi e di abbandono totale al piacere della musica.
Kleiber è stato soprattutto un formidabile direttore d’opera. Lo stanno a dimostrare la maggiore frequenza dei suoi impegni con il repertorio lirico e quel pizzico di eccitazione teatrale che sempre si sprigionava dalle sue interpretazioni sinfoniche, dal suo Beethoven translucido e spiritato, dalle dolcissime inquietudini del suo Schubert, perfino da quella Quarta di Brahms variegatissima, continuamente animata da un soffio di tragedia. Ma in un certo senso è sostenibile anche il contrario. Tutte le esecuzioni operistiche di Kleiber possedevano una ricercatezza di dettagli, uno spolvero virtuosistico, uno spessore orchestrale, una perentoria unità di concezione di gusto sinfonico. Ciò rendeva per molti aspetti unici i suoi confronti con il grande repertorio tedesco da Weber a Wagner, da Strauss a Berg, contraddistinti da esiti di novità perfino sconcertante. Il suo Freischütz rinuncia all’enfasi retorica di quelle esecuzioni che, alla maniera di Furtwängler, puntano a evidenziare le premesse del wagnerismo. E’ un Freischütz fiabesco e luminoso, restituito al primo romanticismo e all’estetica disimpegnata del Singspiel, centrato tanto negli aspetti di demonismo visionario come in quelli bonari e quotidiani di commedia. Allo stesso modo il discusso e ammiratissimo Tristano si allontana dall’eroismo teutonico del Ring per raccogliersi in atmosfere lunari e oniriche o per tendersi in frenetiche eccitazioni sensuali. Un Tristano perfino pericolosamente affascinante, già in odore di Strauss e di decadentismo. E proprio con lo Strauss del Rosenkavalier Kleiber ha rivelato i tratti più seducenti della sua personalità di interprete per quell’inscindibile connubio di eleganza settecentesca e di malinconia crepuscolare, di leggerezza da commedia viennese e di sfida virtuosistica. Qualità perfettamente comuni all’opera e al direttore. Di qui anche il logico approccio agli Strauss viennesi, mediato dalla confidenza con il mondo del balletto e dell’operetta a lungo frequentati durante gli anni di oscuro apprendistato. Dopo il suo primo, indimenticabile “Concerto di Capodanno” perfino Willi Boskowsky dichiarò di non aver mai ascoltato esecuzioni così trascinanti e autentiche delle musiche che aveva diretto per tutta la vita. Né meno elettrizzante è stato il confronto di Kleiber con la Fledermaus, capace di esprimervi una spiritualità e una leggerezza fatata senza possibili riscontri. L’opera italiana fu presente nel repertorio battuto da Kleiber negli ultimi anni con un po’ di Verdi e di Puccini. Del primo una Traviata decisamente poco italiana ma fascinosissima, filtrata per l’appunto attraverso il mondo del valzer e il tardo romanticismo, fra insistiti preziosismi timbrici e slanci travolgenti, ma anche un Otello analizzato con minuziosa fedeltà alle indicazioni della partitura e inscritto senza remore nella stagione del grande decadentismo europeo. La stessa prospettiva che consentì a Kleiber di essere interprete senza rivali della Bohème, come hanno dimostrato ripetute esecuzioni in teatro fra le più struggenti e poetiche. Scarsissime sono state le incursioni di Kleiber in altri settori della storia dell’opera. Ricordiamo per esempio una sconcertante Carmen viennese del ‘78, incredibilmente pasticciata dal punto di vista testuale in accordo con le idee registiche di Zeffirelli, ma anche punteggiata di momenti prodigiosi nel suo particolare taglio allo stesso tempo spumeggiante e drammaticissimo.
Negli ultimi anni, libero da qualsiasi impegno stabile con un’orchestra sinfonica o con un teatro altrnava lunghi periodi di assenza a rarissimi, folgoranti ritorni. Ogni sua apparizione sul podio era seguita con l’interesse un po’ morboso degli “eventi” (forse l’ultima nel febbraio del 1999 a Cagliari). Certo avrebbe potuto dare molto di più alla storia dell’interpretazione e contendere il primato a colleghi assai più impegnati di lui eppure tanto meno geniali e interessanti. E’ invece rimasto fino all’ultimo fedele all’immagine di outsider capriccioso e affascinante, rifiutando di scendere a patti con le regole di una professione, perfino a quel livello, fatta di compromessi e burocratica ripetitività. Ora che ci ha lasciati il fascino della sua testimonianza risiede anche in questo, nel rifiuto di intendere la direzione d’orchestra come una professione e nel caparbio impegno a difenderne gli aspetti misteriosi di magica possessione, di ispirato incantamento, di totale abbandono agli dei della musica.

di Giuseppe Rossi (Musicaaa!, Anno X - Numero 29, Maggio-Settembre 2004)

sabato, febbraio 09, 2008

Johannes Brahms: vecchiaia da genio

I grandi maestri nella loro quotidianità: scopriamo gli ultimi anni di Brahms, fra amici e péchés de vieillesse, sullo sfondo di Vienna come delle villeggiature fra boschi e laghi austriaci.

Lo scapolo Brahms era uomo di poche ma profonde amicizie.
Tra il febbraio e l’aprile del 1894 la morte gliele rubò quasi tutte: prima Theodor Billroth, luminare della chirurgia e suo mecenate, poi Hans von Bülow e Philipp Spitta, apostoli del suo verbo musicale. Due anni dopo spirava a Bonn la sua musa Clara Wieck, ed egli correva a Bonn per ricongiungerla nella tomba al marito Robert Schumann. Dal triste viaggio tornò dimagrito e itterico in volto. Era l’esordio di un carcinoma al fegato (o forse al pancreas) che lo ucciderà alle 8.30 del 3 aprile 1897. Riposa ai piedi di una stele liberty nel Zentralfriedhof, il cimitero centrale di Vienna, nel settore che ospita anche Beethoven, Schubert, Johann Strauss jr. e Schönberg. Il palazzotto di Karlsgasse 4, dove dal 1887 subaffittava un appartamento dalla vedova Celestine Truxa, fu demolito nel 1907, ma parte del suo mobilio convive in strani connubi nella casa che fu l’ultima di Haydn (Haydngasse 19). Pure scomparsa la trattoria “Zum roten Igel” (Al Riccio rosso) in Tuchlauben 12, dove Brahms era titolare di un barilotto personale di Tokay cui attingeva per innaffiare larghe fette d’arrosto con cipolle.
Una foto del 1892 ci trasmette l’immagine del Maestro nel suo alloggio (stanza da letto, studio e sala da musica) circondato da un pittoresco bric-àbrac. Frau Truxa, spentasi nel 1935 alla bella età di 77 anni, tollerò con indulgenza il bizzarro stile di vita del suo inquilino e forse aggiunse un po’ di suo ai racconti che circolavano nella pettegola metropoli. Pare che Brahms ricevesse gli ospiti mattutini in pigiama, accappatoio e pantofole, fumando sigari e bevendo caffè nero in quantità. Non era certo povero, ma spendeva in libri la maggior parte dei suoi introiti e odiava perder tempo dal sarto. Spesso usciva di casa spettinato, la lunga barba incolta, indossando pantaloni rappezzati e troppo corti, drappeggiato a mo’ di poncho in una coperta assicurata con una spilla da balia. Si metteva in ghingheri solo per le occasioni mondane, nel corso delle quali si divertiva a modo suo. Lasciando una festa, pare dichiarasse con aria compunta: “Se ho trascurato d’insultare qualcuno, me ne scuso”. Più che nell’alta società si trovava a proprio agio nei caffè di dubbia reputazione o nei veri e propri postriboli fra il Graben, la Singerstraße e l’Opernring, dove sedeva al pianoforte per strimpellare canzonette e ballabili, così come aveva fatto per bisogno nei primi anni di Amburgo.
Di Vienna il nordico Brahms detestava anzitutto l’afa estiva. Per questo nel catalogo delle sue composizioni ricorrono i nomi dei luoghi di villeggiatura dove ancor oggi si venera la memoria dell’ospite illustre con musei e festival a lui dedicati. A Pressbaum, nel Wienerwald di straussiana memoria, Brahms occupò nell’estate del 1881 una villa in località Brentenmais, componendovi il Concerto per pianoforte op. 85. A Pörtschach i giardini in fiore sulle rive del Wörthersee s’alternano alle ville e ai ritrovi eleganti. Qui, tra 1877 e 1879, nacquero la Seconda sinfonia e il Concerto per violino. Mürzzuschlag in Stiria, fra i boschi ai piedi del Semmering, è la culla della Quarta sinfonia e di parecchi lavori vocali. Grazie al lascito dell’industriale Victor von Miller, Gmunden sul Traunsee (Alta Austria) ha anch’essa il suo museo brahmsiano in Kammerhofgasse 8. Dal 1880 Brahms soleva villeggiare a Bad Ischl nella Gruber-Haus di Salzburgerstraße 51.
Aveva come vicini di casa il Kaiser Francesco Giuseppe e il collega Johann Strauss; inoltre gli era facile raggiungere gli amici: von Miller ad Aicholz e Billroth a St. Gilgen, sul Wolfgangsee. Proprio a Bad Ischl, su richiesta di Richard Mühlfeld, compose nell’estate del 1894 le due sonate dell’op. 120. Mühlfeld era primo clarinetto dell’orchestra di corte di Meiningen, dove lo stesso Brahms aveva operato come direttore. Provate insieme le due sonate, partirono per Berchtesgaden; la prima audizione ebbe luogo il 23 settembre nella Villa Felicitas, edificata in località Stangaß dalla principessa Marie di Sassonia-Meiningen. Lo storico edificio sopravvisse fino al 1974 come ospedale pediatrico. Ne ha ereditato il nome l’Altenheim St. Felicitas, casa di riposo gestita dalla Caritas bavarese; ma dell’antico splendore sopravvive solo il parco dagli alberi secolari.

di Carlo Vitali

sabato, gennaio 12, 2008

Gavazzeni: l'ultimo Grande Vecchio

Con Gianandrea Gavazzeni scompare il decano dei direttori d'orchestra di casa nostra ma soprattutto l’ultima, importante, curiosissima bacchetta che conoscesse e tenesse vivi i segreti della musica e del melodramma italiano a cavallo fra Otto e Novecento. Segreti che sapeva ad uno ad uno, appresi direttamente ossia dai compositori o rivelati da fonti di prima mano, vissuti accanto ad Arturo Toscanini o Victor De Sabata e che ora il Grande Vecchio porta via con sé non potendoli più tramandare a nessuno. Di tutto ciò era ignaro il Tg2 delle 20.30 che il 5 febbraio scorso, lunedì, a poche ore dalla morte di Gavazzeni nella sua Bergamo, a 87 anni, ha liquidato la notizia in dieci parole e cinque secondi senza immagini (seguiva ampio servizio su non so quale rochettaro) mentre nei telegiornali di mezzasera Rai Uno è stata più dignitosa ancorché sparagnina e Rai Tre ha realizzato il migliore e meno asettico dei tre servizi (immagini, le stesse per le due reti: una conferenza stampa col direttore dietro ad un tavolo e i mirallegro al proscenio della Scala il 16 febbraio 1994 per La Rondine di Puccini). Commosso e accurato, a completare la rassegna, Enrico Mentana sul Tg 5, però, nuovamente, senza immagini.
Amante delle rarità, delle opere dimenticate cui lo spingeva anche un desiderio di giustizia, Gavazzeni si è congedato dal palcoscenico, lo scorso gennaio, nel piccolo teatro di Lugo di Romagna, col futurismo di Balilla Pratella ne L’aviatore Dro. Possedeva pure la chiave degli oratori di don Lorenzo Perosi, come il Transitus animae che con lui ritrovava la freschezza melodica catturante e l’inventiva armonica per cui il pretino di Tortona si ebbe una breve ma intensa stagione di gloria internazionale, o Il Natale del Redentore (al Carlo Felice di Genova, nel dicembre 1995, quando ebbe la bontà di accettare la mia dedica in testa ad uno scrittarello perosiano sui filtrati echi wagneriani di questa fine partitura). Conosceva pure, da Loreley alla Wally, il modo d’approccio verso il teatro di Alfredo Catalani: la sua squisita malinconia, la cifra colta e romantica di musicista civilissimo, certi echi dell’uomo sfortunato, tanto caro a Toscanini. Non temeva il cimento con Cherubini o Bruckner in anni di pollice verso per i due autori. Negli oltre sessant’anni di podio, da quando, non ancora ventiquattrenne, il 23 giugno 1933, aveva esordito a Torino con l’orchestra dell’Eiar, si era fatto paladino della “Giovine Scuola”. Di Leoncavallo e Mascagni, di Cilea e Giordano (alla Scala, nel ’93, la Fedora che avrebbe dovuto riprendere quest’anno), da grande maestro, con la bacchetta e la penna del saggista, di Decadentismo e Verismo. Naturalmente di Puccini, “quel lucchese astutissimo”, come lo definì una volta indicando strategie drammaturgiche calcolatissime e infallibili, il quale Puccini però dista anni luce dai Leoncavallo per statura creativa, dimensione europea e appartenenza al XX secolo. Proprio come ogni interpretazione di Gavazzeni, specie negli ultimi, straordinari anni, lasciava intendere: ora col tranquillo lasciar scorrere il Tabarro, per quanto di pièce noire si tratti (come a dire: il sor Giacomo, “astutissimo”, non ha bisogno di sottolineature a lapis rosso), ora, come in una non dimenticata riproposta di Bohème alla Scala con una sempreverde Mirella Freni (e Roberto Alagna: settembre ’94), immettendo canto e vicenda in fluviali ondate sinfoniche degne di Wagner.
Così, ripescasse Parisina dal limbo, come aveva fatto all’Opera di Roma, o mettesse in cantiere più usuali Pagliacci - la prima volta, curiosamente, nel ’95: al Carlo Felice da “deb” ottuagenario - ogni “accelerando” e “rallentando” erano un dato di natura (quei misteri di cui si diceva) per la loro esattissima funzione strutturale ed espressiva mentre la partecipazione di Gavazzeni interprete suonava forte ma naturale proprio come l’aveva pensata l’autore. A volte persino più naturale, data la capacità - quei Pagliacci genovesi - di trasparenza, levità ed asciuttezza, con l’Intermezzo sinfonico ridotto all’osso, tali da situare un’opera tutta ammazzamenti e sfoghi canori in una luce completamente nuova. Da decano e innamorato di Verdi, secondo la lezione del suo maestro Pizzetti, Gavazzeni aveva diretto una montagna di opere (concerti, meno, purtroppo; e dischi troppo pochi). Aveva lavorato assieme a cantanti come Magda Olivero, Giulietta Simionato e Maria Callas in spettacoli memorabili, anche come direttore principale della Scala (fino al ’68, quando vi fu un brusco divorzio) e con la Scala in tournée (in Russia nell’ultimo mese del Governo di Krusciov come nell’Era Gorbaciov).
Il suo cruccio, però, accantonata definitivamente la composizione (influsso di Pizzetti, elementi popolareschi, lavori sinfonici, da camera e teatrali), era la montagna di libri, in aggiunta a quelli divorati nei decenni, che si sognava di notte: la paura di non fare a tempo a leggerli tutti, di raggiungere impreparato gli amici poeti, romanzieri e critici letterari d’una vita: da Montale a Sereni a Bacchelli e Giuseppe De Robertis. Perché lui era fatto così: di due anime. La prima svelava il musicista concreto, solido, di prove su prove tanto che la Simionato, volitiva come sempre, aveva coniato l’affettuoso soprannome di “pignolone d’oro”; l’artigiano e l’uomo di ruvida schiettezza bergamasca che tirava corto in tivù (“la preparazione di un’opera non deve interessare il pubblico: sono faccende nostre”) o in conferenza stampa come per la menzionata Rondine scaligera: “Della mia interpretazione non vi dico niente. Se sono riuscito a tradurla nell’esecuzione, lo capirete da soli, sennò a che serve parlarne?”. L’altra anima era quella del lettore onnivoro e dello scrittore di razza: attento alle voci che ascoltava dalla Città Alta (le campane, la natura, gli artisti: non solo Donizetti che pure prediligeva), l’autore di decine e decine di saggi raccolti in volume sino al recente Scena e controscena (Rizzoli) e di centinaia di pagine di diario: le quasi novecento dell’arco 1950-1976 pubblicate da Einaudi nel ’92 come Il sipario rosso: un diario pubblico e non intimo con supremo modello il Journal di André Gide; “diario scritto su quaderni giallini o color avorio scuro nelle amate case di Bergamo e Baveno, ma anche, durante le tournée, negli alberghi dove il maestro ha passato una vita [...] ogni volta nella stessa stanza perché il maestro è consuetudinario e vuole ritrovare, con quel letto, quel tavolo, quella specchiera, l’atmosfera, la luce e i colori lasciati negli ultimi soggiorni” come esordisce lo scritto introduttivo di Corrado Stajano.
Una vita disciplinatissima. “Al mattino, sveglia presto. Acquisto e lettura della stampa quotidiana, perché alle otto voglio essere già imbottito d’amarezza. Poi, pulizia della mente con una sosta alla lettura di Bach al pianoforte”: il Clavicembalo ben temperato revisione Busoni. Questa immersione nel sociale - “ho sempre voluto stare dentro la vita del nostro tempo” - e rigenerazione attraverso la pratica musicale, pianoforte o orchestra, Gavazzeni la maturò col padre, celebre penalista, deputato per il Partito Popolare dal ’19 sino all’Aventino, la cui casa era frequentata da De Gasperi, Gronchi e anche don Sturzo e dove si parlava di politica ma anche di letteratura e di musica coinvolgendo Gianandrea ragazzino anziché spedirlo a letto. Più che Verdi e Mascagni, a Gavazzeni diede una pubblicità tanto indesiderata quanto tenuta a bada con energia - “sono fatti nostri” - il matrimonio che contrasse nel ’91, a 82 anni, rimasto vedovo il gennaio dell’anno prima, col trentottenne soprano Denia Mazzola da Bottanuco, una piccola borgata della cosiddetta isola bergamasca. Galeotta fu la Scala e una Bohème, guarda caso. Da queste nozze Gavazzeni si ebbe una seconda giovinezza, umana e artistica, con tante avventure, musicali e no, stimolate dalla moglie. Che definì il suo legame col maestro “il più grosso regalo che il Padreterno poteva farmi” mentre i pettegoli, lentamente, furono costretti a farsi i fatti propri e rispettare le scelte altrui.
Un ricordo nel ricordo che riguarda anche Puccini e La bohème. L’incontro con Arturo Toscanini ottantasettenne, di cui riferisce una pagina di diario de Il sipario rosso datata Baveno, 26 agosto 1954. Eccolo:
Visita ad Arturo Toscanini, a tre anni dall’altra. Ancora gagliardo il viso, senza traccia di decadimento. Si lagna per la diminuita capacità visiva che gli impedisce la lettura. La conversazione è vivissima, infuocata nel ricordo musicale. Soltanto qualche sforzo nella citazione d’alcuni nomi. Per il resto, la stessa lucidità intorno ai problemi interpretativi. E ancora il maggior calore che si accende nel riferimento operistico. Di nuovo la scarsa simpatia per Puccini, a insistere. Non ammette che in una forma operistica come la sua, il compositore si valesse di materiali sonori annotati o composti in brani antecedenti. La sorpresa sgradita, per Toscanini, di sapere che la musica accompagnante le parole di Mimì: “Addio dolce svegliare alla mattina”, non era nata per quel momento teatrale, per quelle stesse parole del testo. Gli osservo che, ciò nonostante, tutto è valido e vivente nella Bohème. Sorvola. Ribadisce l’inadeguatezza di melodie come “Nei cieli bigi...” e “Talor dal mio forziere”.

di Alberto Cantù (Musicaaa!, Anno II - Numero 4, Gennaio-Aprile 1996)

venerdì, novembre 30, 2007

Ingmar Bergman e la gioia di bach

Il 30 luglio 2007 è morto a Farö il regista svedese Ingmar Bergman, aveva 89 anni. Sul rapporto tra Bergman e la musica pubblichiamo un articolo che Sergio Sablich scrisse il il "gdm" nel 1987, quando uscì la traduzione italiana della sua biografia, Lanterna Magica.

Una volta Ingmar Bergman mi disse che se fosse tornato a vivere avrebbe voluto essere un musicista. Nel suo lavoro in teatro gli era parso sovente di assolvere alla stessa funzione di un direttore d'orchestra e, come autore di film, di concepire le sue sceneggiature secondo temi, ritmi, timbri e persino forme musicali. Nella sua autobiografia, Lanterna Magica, tradotta in italiano dalla Garzanti, Bergman fa riferimento spesso alla musica: non solo per rievocare aneddoti ed esperienze professionali della sua vita, ma anche per attribuire alla musica un ruolo decisivo nella propria formazione umana e artistica. Lo stesso volume, del resto, contiene lo schema di una forma musicale organica, quasi classica. I primi capitoli, dedicati ai ricordi dell'infanzia, fissano i temi principali, come nell'esposizione di una forma-sonata; lo sviluppo centrale, ampio, travolgente, ricco di contrasti drammatici e di sospensioni liriche, di digressioni e ciclici ritorni, converge alla fine in una sorta di ripresa nella quale quei temi, attraverso il colloquio col fantasma della madre e la lettura del suo diario, acquistano tutt'intero il loro significato: rivelano cioè il senso di un'esistenza, e la trasfigurano. Non si tratta però di un apparato esterno. Guardando all'interno, ogni volta che Bergman ci parla di musica lo fa per segnare tappe fondamentali di una presa di coscienza. Sono illuminazioni, pensieri, momenti che restano, incidendo profondamente la loro orma in una personalità inquieta e sfuggente. Si direbbe anzi che in questo libro aspro, crudele, talvolta persino brutale per accanimento e sincerità, dove l'attività cinematografica e teatrale di un genio sembra aver lasciato soprattutto impressioni di pena e di inadeguatezza, la musica sia l'unico punto di riferimento luminoso: un conforto, un invito alla pace e alla concentrazione creativa. Musica come gioia, musica come silenzio.
Bergman racconta che fu un musicista che suonava dietro le quinte nel Sogno di Strindberg a introdurlo per la prima volta nella magia del teatro. Aveva dodici anni, e fu la rivelazione. Molti anni dopo, mentre cura lui stesso la regia del Sogno al Dramaten, Bergman è turbato, angosciato. Il pensiero va a Sebastian Bach: «Il maestro era tornato da un viaggio, durante la sua assenza erano morti la moglie e due figli. Egli scrisse sul diario: "buon Dio, fa' che non perda la mia gioia". Per tutta la mia vita cosciente ho vissuto con quella che Bach chiamava la sua gioia. Mi ha salvato durante crisi e periodi di infelicità, è stata efficace e fedele come il mio cuore. A volte soggiogante e difficile da governare, mai però ostile o distruttiva. Bach chiamava gioia questa condizione». Nell'ultimo capitolo è la musica di Bach, quella dell'Oratorio di Natale, ad avviare la trasfigurazione nel ricordo della madre, in un corso di pensieri e sentimenti più disteso, decantato. La luce: «I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia».
Anche nel silenzio di Dio, durante notti insonni popolate di dèmoni, la musica parla e conforta, dà un senso misterioso e aperto alle cose. Ecco Mozart, il Flauto magico filmato per la televisione, risultato di un lungo amore e di citazioni criptiche disseminate lungo il cinema di Bergman. Se Bach è l'assoluto dello spirito che dà voce all'indicibile - come in una scena capitale di Sussurri e grida -, Mozart è il compagno di strada che non si limita a interrogare. La scena in cui Tamino, solo di fronte al triplice tempio, invoca la notte e interroga gli spiriti sul destino di Pamina contiene «due domande ai limiti estremi della vita, ma anche due risposte»: la seconda è che «l'amore esiste, l'amore è reale nel mondo degli, uomini». Oscuro nei labirinti dell'esistenza, ma reale. A ventun anni, rifiutato dal Dramaten, Bergman viene assunto all'Opera di Stoccolma come assistente alla regia. Ha modo di familiarizzarsi con la grigia routine di un solido teatro borghese, ma anche di incontrare personalità eccezionali, come Issay Dobrowen. E lui a svelargli che il mondo dell'interpretazione musicale è pauroso e semplice nello stesso tempo: fuoco, passione, ma anche autodisciplina, discernimento, rispetto. Le follie dei registi, «la libertà totale, la totale problematicità portate al culmine della disperazione professionale» appaiono al «barbaro del Nord, che ha assorbito la fedeltà al testo insieme al latte materno», qualcosa di «spaventoso», confessa Bergman di sé. A Monaco, durante l'esilio, gli capita di assistere alla prova generale del Fidelio diretto da Karl Böhm. «Ricordo vagamente che la regia era orribile e la scenografia paradossalmente moderna, non c'entrava niente. Karl Böhm dirigeva i suoi bavaresi viziati ma virtuosi con piccoli movimenti delle mani - come facessero coro e solisti a comprendere quei segni era un mistero - [...] Quest'opera-mostro, verbosa e mal riuscita, s'era improvvisamente trasformata in un'esperienza limpida come acqua di fonte. Compresi che stavo sentendo il Fidelio per la prima volta, che - per dirla in parole povere - non l'avevo mai capito, compreso, inteso. Un'esperienza decisiva, turbamento interiore, euforia, gratitudine, tutta una serie di reazioni inattese. La cosa appariva semplice: le note al loro posto, nessun trucco strano, mai tempi sorprendenti, non uditi prima. L'interpretazione fu - come dicono i tedeschi con leggera ironia - werktreu. Eppure il miracolo era un fatto». Tutt'altro l'incontro con lo stregone Karajan, a Salisburgo durante Il cavaliere della rosa. Benché la proposta gli appaia ridicola (un film su Turandot), Bergman rimane «irrimediabilmente affascinato». Il maestro parla e straparla di sé: «Improvvisamente s'interruppe: "ho visto la Sua messinscena del Sogno. Lei dirige come un musicista, ha senso del ritmo, della musicalità, del tono. Lo si vedeva anche nel Flauto magico. Ogni pezzo preso a sé era affascinante, ma non mi è piaciuto. Lei ha cambiato l'ordine di alcune scene, verso la fine. Questo con Mozart non lo si può fare, è un tutto organico"». La lezione è finita, Karajan si avvia alla prova, scortato dal suo seguito: «un corteo imperiale di assistenti, collaboratori, cantanti d'opera d'ogni sesso, critici ossequiosi, giornalisti deferenti e una figlia [ ... ] Quando l'esile figura comparve trascinando la gamba, tutti si alzarono e rimasero in piedi finché il Maestro fu portato a braccia al di là dell'orchestra e giunse al suo posto. Il lavoro ebbe inizio immediatamente. Affogammo in un'ondata di devastante, rivoltante bellezza». Nella sua vita professionale, Bergman non ha realizzato molte opere: se si eccettua il film del Flauto magico, solo una Vedova allegra in anni lontani. Perché mai? «L'imparare a memoria un pezzo musicale per me è faticoso come scalare una montagna. Per giorni me ne sto seduto con registratore e partitura, a volte questa incapacità è paralizzante, a volte ridicola. Forse questa lotta incarognita ha un aspetto positivo: sono costretto a darmi da fare con quel pezzo all'infinito. Ho modo di ascoltare attentamente ogni battuta, ogni pulsazione, ogni attimo. La mia rappresentazione sorge dalla musica. Non posso seguire un'altra via. La mia invalidità me lo impedisce».
Film come sogno, come musica: è la conclusione cui Bergman aspira, che gli sembra di non aver mai raggiunto. Si sbaglia, naturalmente, o finge. Ma nel suo maniacale perfezionismo egli sa di non poter andare oltre quel limite. Non si cambia il proprio destino. Anche per questo, se tornasse a vivere, Bergman vorrebbe essere un musicista.

Sergio Sablich ("il giornale della musica", n.23, dicembre 1987)

domenica, novembre 11, 2007

Hugo Wolf: L'estro e la follia

Quando ci si accosta a una personalità bizzarra, per certi certi versi «romanzesca» come quella di Hugo Wolf è difficile riuscire a prescindere dall'aneddotica e tracciare un profilo rigorosamente artistico: complice, in questo caso, persino Thomas Mann, che nel Doktor Faustus riuscì a sovrapporre alla figura umana di Wolf il credo estetico di Schönberg, ricavandone il personaggio di Adrian Leverkühn. E come mai la figura umana di Wolf si prestava così bene a ospitare la crisi creativa che indirizzerà prima verso il ripudio del sistema tonale, poi verso le geometrie dodecafoniche? Proprio per via del tracollo intellettuale che segna il cammino terreno di Wolf, consegnato già nel 1897, appena trentasettenne, alla notte della follia e rimasto ancora per sei anni a vegetare, come Schumann, in una clinica psichiatrica. Il temperamento lunatico e imprevedibile, l'ipersensibiltà estrema, l'altemanza incontrollabile di fasi creative rigogliose e fasi di totale aridità, infine la fisionomia di «vagabondo» alla ricerca di qualcosa che gli sfuggì evidentemente per tutta la vita: viene spontaneo cercare di scoprire nelle sue composizioni una traccia di questi drammi personali. Nella realtà storica, però, e nella concretezza del suo messaggio artistico, Wolf non è affatto Schönberg e soprattutto non è il Leverkühn del romanzo di Thomas Mann. E piuttosto un poeta dell'intimità, un cesellatore di piccole forme la cui genialità è consegnata per intero (tolte piccole eccezioni) a un solo genere musicale, quello del Lied, a cui consacrò tutta la vita. Dopo Wolf, che ne pubblicò oltre duecento, il Lied per voce e pianoforte tacerà, cedendo il passo alla fioritura del Lied per voce e orchestra. A testimonianza, se ce ne fosse bisogno, dello sviluppo a cui era approdato l'accompagnamento pianistico, ormai maturo per riversarsi in sontuosi organici orchestrali. L'impressione generale data dalla lirica wolfiana è quella di un desiderio di canto che non riesce a trovare il suo sbocco e a dirsi per intero. Questa non è impotenza di epigono, quanto piuttosto estremo autocontrollo, pudore del sentimento. Schumann, tanto venerato da Wolf, aveva l'abitudine di sdoppiare le linee tematiche creando echi nascosti, «voci segrete», che sfuggono al profano frettoloso e si rivelano solo a chi decifri la pagina in umiltà e comunione di spirito, sapendo scavare nei sottintesi. La scrittura di Wolf è tutta intessuta di riverberi segreti: una scrittura senza dubbio elusiva e poco accattivante, ma di una precisione ed essenzialità estreme. Viene in mente la narrativa di Schnitzler, scrittore della Vienna fine secolo di cui Wolf era cittadino adottivo. Fra giri di valzer, frivolezze e bon ton l'Impero imbocca il sentiero del tramonto, dissimulando la rovina sotto l'insegna del Prater. E con l'Impero se ne va alla deriva l'individuo, disancorato dalla realtà, lento all'azione e incapace di decifrare i suoi stessi sentimenti. In Wolf (come in Schnitzler, come in Hofmannsthal) la crisi dell'io e l'insufficienza del linguaggio sono ormai dati di fatto incontrovertibili; lo si capisce dalla tortuosità delle armonie, dalla ricerca inesausta di soluzioni timbriche nuove, dal mutuo intrecciarsi di canto e strumento (mai così interdipendenti prima d'ora).
Si parla spesso di Wolf come di un post-wagneriano, anzi come di un operista mancato che ripiegò sul Lied per consolarsi come meglio sapeva della sua scarsa attitudine a maneggiare l'orchestra. Ascoltando i suoi Lieder, però, non si percepiscono quasi mai echi wagneriani. Certo, fra i Goethe-Lieder ce n'è almeno uno, Mignon (Kennst du das Land), che raccoglie in tutta evidenza l'eredità, se non del Tristano, almeno dei Wesendonck-Lieder. Ma sono casi sporadici, da non scegliere come pietre di paragone. Le strategie tonali dei due compositori sono molto diverse, il fatto che entrambe facciano ampiamente ricorso al cromatismo non è garanzia di identità né di dipendenza, conferma l'assimilazione dei canoni wagneriani, ma anche l'indipendenza e l'originalità con cui vennero rielaborati. Ecco i tranelli della biografia: ricollegare Wolf a Wagner viene spontaneo, perché si sa che il nostro compositore trascorreva pomeriggi e notti a ripassare al pianoforte i drammi wagneriani; perché si sa che stravedeva per Wagner al punto da convertirsi, come lui, alla dieta vegetariana e alla fobia per Mendelssohn; perché si sa che, alla notizia della sua morte, scappò ad appollaiarsi su un albero, per leggere il Parsifal in solitudine e raccoglimento. Queste stravaganze sono ciò che più falsa l'immagine di Wolf e che rischia di consegnarla ad alcuni luoghi comuni. Prendiamo un esempio di natura biografica: Wolf ebbe numerosi amori, veri e propri incendi affettivi che poi dileguavano all'improvviso, senza un perché. O meglio, un perché ci sarà ben stato, ma per noi è sepolto nella nebbia più fitta. Wolf l'emotivo, Wolf l'irruente era in realtà segretissimo riguardo alla sua sfera privata, o quantomeno era così accorto e sensibile nello scegliersi i confidenti che nulla mai ne trapelò. Al biografo non resta che attribuire certe metamorfosi inattese alla pazzia infieri. Oppure rassegnarsi a riportare i fatti, ammettendo di non poter fornire spiegazioni che vadano al di là dell'ipotesi.
Restiamo quindi anche noi ai fatti e atteniamoci all'unico «fatto» che un artista possa produrre, vale a dire le sue manifestazioni creative. Tralasciamo anche le critiche, tra incensi (per Wagner, per Bruckner) e fiele (per Brahms, per gli italiani, per Mendelssohn), scritte da Wolf negli anni della gavetta per un pettegolo giornale viennese, il Salonblatt.
Non c'è niente di più semplice da riassumere e memorizzare del catalogo wolfiano: a parte il Poema Sinfonico Penthesilea, la Serenata Italiana e l'opera Il Corregidor, è costituito unicamente da Lieder. Non Lieder sparsi, però, tratti volta per volta da autori diversi, ma quaderni «monografici» costituiti quasi tutti da una cinquantina di pagine tutte dello stesso poeta. Il quaderno più breve, l'unico a comprendere «soltanto» una ventina di Lieder, è quello su testi di Eichendorff. Seguono i Mörike-Lieder, i Goethe-Lieder, e infine i due «canzonieri» su poesie popolari rispettivamente spagnole e italiane. Non si tratta di «cicli» nel senso schubertiano o schumanniano, con un filo conduttore interno, una sorta di trama che lega i diversi testi. Questi sono piuttosto «ritratti» di poeti, simbiosi artistiche, oggi con Mörike, domani con Goethe. Questo è già un fatto significativo: pur mantenendo inalterate certe caratteristiche di scrittura, i vari fascicoli acquistano ciascuno un'identità propria, in relazione al contesto poetico. Beninteso, non attribuiamo queste capacità mimetiche a un presunto eclettismo, la scrittura di Wolf è sempre, troppo densa e scavata per poter venir accostata anche lontanamente all'eclettismo. Però senza dubbio l'autocontrollo di stile, la bravura e l'acume con cui la pagina musicale è modellata su quella poetica pur senza esserne succube sfatano l'idea del compositore impulsivo. Wolf sa fare appello all'estrosità nel quaderno eichendorffiano, allo spleen in quello mörikiano, a un classicismo mai calligrafico quando affronta Goethe. E poi ci sorprende ancora con le due ultime raccolte, il Canzoniere spagnolo e il Canzoniere italiano, dove tutti questi ingredienti ritornano, irrorati da un umorismo delicato e amaro nello stesso tempo.
Nei Canzonieri si dipanano battibecchi immaginari fra innamorati, simulando dialoghi costellati di alti e bassi: ecco perchè la tradizione sia concertistica sia discografica ne affida sempre l'esecuzione a una coppia di interpreti. «L'artista è colui nella cui anima è passata una vita», diceva Busoni. E la vita inquieta, ardente, delusa di Wolf palpita in queste pagine meglio che in tante «esternazioni» provvisorie. La fantasmagoria di affetti, reazioni e situazioni che sboccia da queste vignette alla Callot sembra improvvisata, ma non lo è affatto: Wolf è scrupolosissimo nelle annotazioni espressive e ricorre sistematicamente all'uso della didascalia per mettere l'interprete sulla strada giusta. La matrice di queste indicazioni («selvaggio», «affettuoso», «sfacciato», «teneramente», il tutto rigorosamente in tedesco) è nella Ballata, il filone più colloquiale e pittoresco della liederistica, quello più consanguineo al dramma, quello più incline a evocare sfondi «scenografici» e non solo emozioni spirituali, e che pertanto attinge alla pratica tutta teatrale delle didascalie. In conclusione, Wolf mostra davvero di raccogliere per intero l'eredità storica del Lied, dal versante più lirico e schubertiano fino a quello più oggettivo e loewiano, cosi, se da un lato risulta difficilmente classificabile in questa o in quella tendenza, dall'altro offre all'interprete la responsabilità e la gioia di intuire questo patrimonio di sfumature e addentellati, trasmettendoli al pubblico. Fondamentale sarà in primo luogo la chiarezza della dizione, su cui aveva già insistito Loewe (autore soprattutto di Ballate) in alcuni appunti conservati dalla figlia Julie e su cui tornò a più riprese Strauss, invitando i cantanti a esercitarsi preventivamente nella declamazione, in modo tale che all'atto del canto niente del testo risultasse incomprensibile, neanche nel fassaggi vocalmente più ostici. A Wolf sembrava tanto preziosa la conoscenza del testo da premurarsi personalmente di darne lettura prima dell'esecuzione del Lied, e guai al distratto che non se ne desse per inteso e continuasse a chiacchierare col vicino! Il punto di vista di Wolf è comprensibile; la musica non è affatto una tautologia della parola, si capisce. Però in un Lied ben scritto entrambe le componenti partecipano della stessa ispirazione e non possono essere scollegate. Quindi il decorso musicale è in parte sorretto da leggi proprie, in parte veicolato dal contenuto poetico. Se il contenuto
poetico è sconosciuto o risulta poco intellegibile all'atto dell'esecuzione, a essere compromesso è il significato stesso del Lied. L'interprete dovrà quindi essere un cantante-attore: non conta solo la bellezza della voce, ma la sua duttilità, la sua abilità nell'inflettersi anche a toni parlati, la sua forza di penetrazione psicologica nel portare allo scoperto ombreggiature minime, variazioni impercettibili nel ritmo o nell'armonia, particolari che non vanno appiattiti, ma nemmeno enfatizzati. E poi c'è la difficoltà dell'apporto pianistico: nei Lieder di Wolf non è quasi mai pensabile una scissione fra canto e accompagnamento strumentale, perchè l'uno completa l'altro sia armonicamente sia come senso melodico. L'affiatamento fra i due interpreti è fondamentale. Sembra un'osservazione scontata, ma in questo caso rispecchia una necessità imprescindibile. Senza quest'intesa assoluta il Lied wolfiano rischia in genere di perdere la sua coerenza e di apparire come un coacervo di dissonanze. Ormai il pubblico moderno è ben lontano dalla severità di giudizio del secolo scorso, quando il brahmsiano Max Kalbeck accusava il linguaggio di Wolf di patire le «convulsioni armoniche». Ma dal momento che la scrittura di Wolf non è in ogni caso fra le più accessibili (e la lingua complica ancor più le cose, per l'ascoltatore non germanofilo) è articolarmente preziosa un'interpretazione che metta in luce la policromia interna, il superbo incastonarsi di frammenti pianistici e frammenti vocali, l'unitarietà complessiva e insieme la varietà. Sarà per questi motivi che, nonostante trascorrano gli anni, certe incisioni non appaiono mai invecchiate e non si avverte il desiderio di sostituirle con edizioni più recenti, anche se in realtà resta probabilmente ancora molto da aggiungere e una nuova «versione» ben condotta delle miscellanee più celebri (Mörike-Lieder, Italienisches e Spanisches Liederbuch) potrebbe persino consacrare una carriera, per l'importanza e la difficoltà dell'impresa. Solo il grande «interprete» (qualcosa di riù del bravo cantante, quindi) azzarda l'approccio con Wolf . La melodia è spesso (a dir poco) disadorna e per far apprezzare il Lied bisogna di conseguenza intervenire con la fantasia e le doti colloquiali. In una parola, sono necessari i «cantanti-attori», che riescono a fondere parola e canto, lirismo e oggettività, tragedia e commedia aiutando anche chi ascolta a entrare nell'universo in miniatura del Lied. In un momento che sembra assistere a una crisi della figura carismatica dell'interprete, che qualche volta pare voler omologare le esecuzioni secondo un cliché comune di esattezza un po' anodina, l'opera liederistica di Wolf è ancora una sfida aperta all'originalità. Questo un po' perché bisogna misurarsi con le incisioni strepitose dei cantanti-attori, per l'appunto, da Fischer-Dieskau a Elisabeth Schwarzkopf e Irmgard Seefried. E un po' perché in Wolf l'esattezza esecutiva non potrà mai essere soddisfacente e non riuscirà mai a soppiantare il contributo personale e l'estro dell'interprete, che ritorna a essere un vero medium tra compositore e pubblico.
di Elisabetta Fava ("MUSICA" n.111, aprile-maggio 1999)

domenica, novembre 04, 2007

Michel Glotz: l'Arte di assecondare i Grandi

Nell'arco degli ultimi cent'anni il disco ha condizionato sempre di più la vita musicale, dall'atto creativo alle scelte interpretative, dallo studio musicologico all'ascolto più casuale. E a far sì che una semplice documentazione sonora diventasse strumento musicale e modello estetico a tutti gli effetti sono stati soprattutto i record producers. Pionieri coraggiosi come Fred Gasiberg, visionari dispotici come Walter Legge e collaboratori esperti che si mettono al servizio dell'interprete come Michel Glotz, il quale firmò le ultime incisioni autorizzate di due mostri sacri come Maria Callas e Herbert von Karajan.

«Sarà un viaggio agitato, ma mai noioso»: così disse Herbert von Karajan a Michel Glotz durante una cena newyorchese del 1965 che cambiò la vita di entrambi. Al produttore discografico francese, fino a quel momento dipendente della EMI e noto soprattutto come stretto collaboratore di Maria Callas, veniva offerta la possibilità di coordinare gran parte delle attività artistiche - tra incisioni, film, festival e tournée del maestro austriaco, senza rinunciare a quell'agenzia musicale parigina, Musicaglotz, che stava per fondare e che ormai è attiva da oltre quarant'anni.
E' stato protagonista o soprattutto un testimone d'eccezione, il signore parigino dai tratti dolcemente malinconici che mi accoglie nel suo ufficio a due passi dal Jardin du Luxembourg? Entrambe le cose, sicuramente. I suoi scritti autobiografici (l'ultimo volume, pubblicato da JC Lattès a Parigi nel 2002, è intitolato La note bleue) ci offrono squarci rivelatori «dietro le quinte» di cinquant'anni di vita musicale ai più alti livelli. Fu Glotz ad accompagnare la Callas al pianoforte in concerti privati sul panfilo Cristina, ad assistere a «jam sessions di musica da camera tra Heifetz, Piatigorski e Weissenberg» negli stessi anni sessanta, a seguire da vicino i rapporti tra Karajan e i Berliner Philliannoniker nei momenti esaltanti come in quelli di crisi. E fu lo stesso Glotz a firmare come record producer non solo buona parte delle incisioni di Karajan a partire dal 1968, ma anche gli ultimi dischi di Carlo Maria Giulini, una fetta sostanziosa della produzione discografica dell'amico di sempre Alexis Weissenberg, alcune opere verdiane
incise da James Levine nei primi anni novanta (cito, tra gli esiti più alti, Luisa Miller e Don Carlo) e le opere russe realizzate in Bulgaria da un talento intrigante troncato dall'Aids, Emil Tchakarov. A differenza dei suoi predecessori Walter Legge (EMI) e John Culshaw (Decca), Glotz ricorda con sincero affetto molti degli artisti con cui ha lavorato e non cercò mai, in sala d'incisione, di imporre una propria visione estetica che andasse al di là di un indubbio culto del bel suono. Ma nonostante il carattere amabile, il suo legame prolungato con il più potente maestro del secondo Novecento gli ha attirato non poche critiche sul piano professionale, talvolta «per errori che in realtà erano di Karajan o dell'equipe tecnico», come precisa l'autorevole biografo del direttore, Richard Osborne, che sottolinea pure l'affidabilità e la coerenza dei ricordi di Glotz. Del resto nessuno ha definito meglio dell'amico e «factotum» parigino l'essenza dell'uomo Karajan, a metà «tra un bambino e un vecchio saggio cinese».
Per un professionista di tale esperienza, una certa nostalgia è inevitabile («a Berlino Karajan non è mai stato sostituito»), ma nel corso della nostra conversazione (troppo lunga per essere riportata integralmente) l'attenzione di Glotz si sposta volentieri dal passato al presente, per comunicare tutta la sua ammirazione per certi artisti con cui collabora tuttora. Ne La note bleue viene dedicato un intero capitolo al grande basso italiano Ferruccio Furlanetto, e simili peani sono rivolti al Trio Wanderer e al violoncellista francese Xavier Phillips: entusiasmi di oggi che reggono benissimo i confronti coll'ingombrante passato.

Come nasce in Lei l'amore per i dischi?
I primi ascolti che ricordo risalgono all'età di quattro anni. I miei genitori avevano un'ottima collezione di 78 giri e presto divenni anch'io collezionista. Loro scoprirono in seguito che il modo migliore per potermi incoraggiare negli studi per il baccalauréat era darmi soldi con cui comperare dischi. Mi piacevano tanti generi e le mie orecchie erano particolarmente sensibile alla melodia. Quand'ero bambino odiavo la Sagra della primavera: per fortuna si cambia con la maturazione e negli anni a venire avrei inciso il capolavoro di Stravinski diverse volte.
Nel secondo dopoguerra Lei frequentò assiduamente i corsi pianistici di Marguerite Long. Ha mai rimpianto il fatto dí non essere diventato concertista?
In realtà no. Fu la guerra ad impedirmelo, negli anni formativi per le dita, per la mente, per quella disciplina quotidiana che è indispensabile al solista. Ma quell'educazione musicale che comunque ho avuto è stata la preparazione ideale per ciò che ho fatto nella mia vita. Seguivo i corsi della Long a Parigi come uditore. Mi dedicavo anche agli studi letterari allora e avevo già rinunciato all'idea di diventare concertista. Talvolta però accompagnavo gli allievi sul secondo pianoforte quando si trattava di studiare i Concerti con orchestra, e col tempo divenni un amico stretto della Long. Appresi moltissimo da lei sulla musica in generale e in particolare sulle composizioni di Debussy, Fauré, Ravel, Albéniz, Granados e De Falla, con i quali era stata in rapporti amichevoli. Si aveva veramente l'impressione con lei di poter raccogliere i frutti di una grande tradizione musicale. Fu attraverso la Long poi che conobbi personaggi come Poulenc e Milhaud e Georges Auric.
Naturalmente conobbe anche il violinista Jacques Thibaud, l'altro fondatore dell'Ecole Long-Thibaud...
Sì, e nell'ultima estate della sua vita - era il 1953 - trascorsi le vacanze con lui e sua moglie nella sua casa a Saint-Pée-sur-Nivelle, vicino a Saint-Jean-de-Luz. Poco dopo egli partì per quel viaggio in Oriente - doveva andare prima a Saigon, per suonare per le truppe francesi, e poi fare una tournée in Giappone - che gli sarebbe stato fatale. Morì in un incidente aereo orribile, e con lui furono distrutti i due violini che portava con sé. Uno Stradivari e un Vuillaume, che era meno vulnerabile dello strumento italiano ai cambiamenti di clima. Thibaud aveva un carattere molto diverso da quello della Long: estroverso e spontaneo, tipicamente meridionale. E il suo modo di suonare rispecchiava il carattere dell'uomo: un bon vivant, pieno di charme e fantasia, gentile e generoso.
Come si diventa un produttore discografico?
Ho avuto un ottimo apprendistato, assistendo alle sedute di registrazione di diversi amici musicisti: specialmente quei pianisti - come Aldo Ciccolini e Philippe Entremont - che entrarono in carriera dopo aver seguito i corsi della Long, ma anche direttori come André Chiytens. Trascorrendo tante ore in sala d'incisione mi resi conto che il lavoro di record producer era quello più adatto a me. Ero capace di distinguere una ripresa ottima da una semplicemente buona e ero convinto di poter creare un clima di entusiasmo che avrebbe aiutato i musicisti psicologicamente. Ero disposto nello stesso tempo a dire loro la verità. Si tratta di una regola inderogabile in questa professione. Se dici delle bugie a un interprete lo rimpiangerei per il resto della vita e perderai la fiducia dello stesso artista. Perché quando il disco uscirà lui si renderà perfettamente conto che l'incisione che avevi descritta come ottima in realtà è mediocre. Questa regola valeva pure per Karajan, anche se non sempre era facile essere franchi in determinate situazioni. Durante l'incisione la partitura diventa veramente la bibbia del produttore. In quel momento non vedi nessuno quando iniziavo negli anni cinquanta non c'era una vetrata che ti permetteva di osservare chi incideva e devi dimenticare qualunque sentimento di affetto o di ammirazione nei confronti degli artisti. Il suono giunge attraverso le casse e devi semplicemente giudicarlo in base a quanto è scritto dal compositore. Se occorre correggere qualcosa bisogna farlo senza compromettere l'atmosfera di amicizia rilassata. Se si avverte però qualche difetto nella resa sonora, si deve intervenire subito: altrimenti l'orecchio si abituerà all'elemento di fastidio ci si renderà conto della gravità dell'errore soltanto dopo l'uscita del disco.
Le Sue prime incisioni furono realizzata alla Salle Wagram a Parigi? Come si trovava lì?
Era, ed è, una sala eccezionale. Usata normalmente per gli incontri di pugilato, è relativamente silenziosa e ha un'acustica eccellente grazie al rivestimento in legno. Questa sala fu amata da tanti artisti, tra cui Beecham, che vi incise la sua Carmen nel 1959 con l'Orchestre National de France.
Cosa ricorda di quelle sedute d'incisione?
Posso raccontare un aneddoto curioso. Un giorno si doveva provare le arie di Carmen alle dieci del mattino e Victoria de los Angeles era un po' in ritardo. Alle dieci in punto Beecham si rivolge a me dicendo: «Il tuo soprano spagnolo non è arrivato» e poi insiste perché io la sostituisca. Così mi trovo a cantare in falsetto praticamente tutta la parte del mezzosoprano! Si trattava soltanto di una prova, ma Paul Levasseur, l'ingegnere del suono, registrò tutto, compresi i commenti di Beecham che approvò la mia interpretazione della «Seguidille» ma mi chiese di ripetere una parte del duetto con Don José per un errore di solfeggio! L'orchestra naturalmente si sbellicava dalle risa.
In Inghilterra Beecham è considerato un grande interprete della musica francese: questo parere è condiviso in Francia?
Assolutamente sì. Nell'opera francese colpiva per la fantasia e la sensibilità del fraseggio, per la bellezza delle sonorità. Ed era senza rivali per esempio nella Sinfonia in Do di Bizet. Mi ricordo che insistetti tante volte con Karajan perché incidesse quella sinfonia, ma lui rispondeva sempre: «Il disco di Beecham è così bello che non posso superarlo».
Negli ultimi anni cinquanta arrivai a conoscere Beecham molto bene. Negli ultimi giorni della sua vita mi chiese di diventare direttore musicale di un Festival Berlioz che lui voleva organizzare a Londra con la Royal Philharmonic Orchestra. Andai a trovarlo alla sua casa di campagna in Inghilterra per pianificare il lavoro, ma lui era ormai molto stanco. A un certo punto tornai a Parigi e mi telefonarono la mattina dopo per dirmi che era morto durante la notte. Volai subito di nuovo in Inghilterra per il funerale, dove Lady Beecham che vive ancora oggi - insistette perché salisse in macchina con lei e con il figlio per accompagnare Sir Thomas al luogo di sepoltura nella bellissima campagna inglese.
Quella di Beecham fu solo la prima di molte incisioni di Carmen realizzate de Lei. In effetti l'opera di Bizet è diventata una mia specialità. Dopo quella di Beecham, in cui affiancavo il produttore discografico Victor Olof, ebbi piena responsabilità per l'incisione con Maria Callas diretta da Georges Prétre, per le colonne sonore del film di Karajan con Grace Bumbry e di quello con Julia Migenes e regia di Rosi e per l'ultima incisione in studio di Karajan con Agnes Baltsa.
Preferisce i recitativi cantati oppure i parlati della versione originale?
Trovo che i recitativi di Guiraud si sposano benissimo con la musica di Bizet. I dialoghi originali mi piacciono solo quando gli artisti hanno una vera padronanza del francese.
Personalmente - per limitarci alla protagonista - li ho sentiti dire bene soltanto da Regine Créspin, in una recita dal vivo dal Met.
In effetti la Crespin è stata una delle cantanti che ha saputo pronunciare il francese con la massima chiarezza. Un esempio di dizione anche tra gli interpreti di madre lingua francese. Basta sentire l'incisione dei Dialogues des Carmélites che realizzammo insieme nel 1958: una pronuncia assolutamente impeccabile. E' un peccato che non avesse un tipo di voce adatto alla parte di Mélisande, perché sarebbe stata una rivelazione sentirla in quella musica. Dopo il mio arrivo alla EMi nel 1957 ebbi diverse occasioni di lavorare con lei. Ricordo una selezione della Tosca in lingua francese diretta da Pretre. Fui io a presentarla poi a Rudolf Bing, il quale le offrì un contratto per il Metropolitan, e grazie al mio amico André Cluytens fu presentata a Wieland Wagner, che la scritturò per diverse opere a Bayreuth. Devo dire che anche l'idea di Karajan di scritturarla per Brünnhilde al Festival di Pasqua di Salisburgo nel 1967 ebbe origine da un mio suggerimento.
Incuriosisce il fatto che si incideva ancora una Tosca infrancese nel 1960.
Negli anni cinquanta la vita musicale francese era ancora molto provinciale. Al punto che quando Maria Callas debuttò all'Opéra nel 1958 le sue incisioni non venivano praticamente distribuite dalla Pathé-Marconi in Francia perché erano in lingua originale. Devo dire che odiavo questa tradizione di eseguire le opere in traduzione; una tradizione ancora viva allora anche in Italia e in molti altri paesi europei. Quando per esempio Karajan diresse Carmen alla Scala nel 1955 con la Simionato e Di Stefano, venne avvicinato da Toscanini che era alquanto contrariato dall'idea che il direttore austriaco volesse imporre quell'opera in lingua originale nel teatro milanese. Se avesse però sentito un Falstaff in francese, credo che si sarebbe indignato...
Prima ha parlato dei Dialogues des Carmélites di Poulenc, un compositore che ha conosciuto molto bene negli ultimi anni di vita.
Le case discografiche erano felicissimi di incidere la musica di Poulenc perché i suoi dischi vendevano: in un solo anno furono acquistati - e soltanto negli Stati Uniti - centocinquantamila copie dell'incisione del Concerto per organo con Maurice Duruflé, sotto la direzione di Prétre. Era uno dei pochi compositori del Novecento che godette di un'autentica popolarità quando era ancora in vita. Lui stesso era entusiasta dei progetti discografici, ma preferiva non assistere alle sedute di registrazione. Quando abbiamo inciso il Concerto per organo in una chiesa a meno di un chilometro di distanza dalla casa del compositore, mi disse: «Io ho detto tutto quello che avevo
da dire attraverso la musica e voi l'avete capito. Amo Georges Prétre. Lasciate che il disco mi giunga come un dono, una sorpresa. Stupitemi!». Ricordo soltanto due eccezioni a questa regola. Gli chiesi di venire alla Salle Wagram durante l'incisione di Gloria per offrire il suo appoggio morale al soprano Rosanna Carteri che era angosciata per una frase ostica per l'intonazione sul passaggio di registro. E la presenza del compositore la aiutò a superare il problema in modo superbo. L'altro esempio riguarda l'incisione della Voix Humaine con Denise Duval, che non fu prodotta da me ma che venne acquisita dalla EMI in un secondo momento. In quel caso fu lo stesso Poulenc a voler essere presente per assicurarsi che le pause di silenzio - così cruciali in quest'opera - fossero sufficientemente lunghi.
Nello stesso periodo Lei divenne amico di Maria Callas.
Avevo già visto la Callas in una Turandot al San Carlo di Napoli e poi in una Traviata alla Scala che lasciò l'uditorio in stato di choc. Ma cominciai a conoscerla bene nel 1957, quando fece scalo a Parigi durante un viaggio dall'Italia agli Stati Uniti e diventammo amici stretti - sentendoci spesso ogni giorno per telefono - a partire dal 1958, quando collaborai all'organizzazione della grande serata di beneficienza all'Opéra che segnò il debutto del soprano a Parigi. Una serata di tre ore che fu trasmessa in Eurovisione, e che ebbe un impatto tale che per la durata del programma si verificò una notevole diminuzione del traffico automobilistico in tutta Europa. La Callas conquistò in quell'occasione l'amore della città di Parigi e della Francia intera. Quel concerto segnò una svolta nella sua carriera e Parigi sarebbe diventata in seguito la sua città. Aveva una personalità fortissima, ma nello stesso tempo si adattava benissimo ai luoghi più diversi. Parlava un ottimo francese, con intonazioni dolci e gravi che rispecchiavano gli armonici bellissimi della voce cantata.
La Sua prima collaborazione discografica con la Callas riguardava i due album intitolati «Callas à Paris». Il produttore Ufficiale tuttavia fu Walter Legge...
Legge aveva la responsabilità globale per le incisioni, ma lui andava avanti e dietro tra Parigi e Londra lasciando il grosso del lavoro a me. Siccome però lui era Walter Legge ed io non ero nessuno, il suo nome figura come recording producer. A questo proposito la Callas mi disse: «Sarebbe una battaglia perduta in partenza tentare di ottenere un pieno riconoscimento del tuo ruolo, ma voglio almeno che sulla copertina dei dischi ci sia un articolo scritto e firmato da te»: e così si fece. La Callas ebbe in quel periodo dei dissapori con Legge a causa di un'edizione del Requiem di Verdi promessa prima a lei e poi affidata - per quanto riguarda la parte sopranile - alla moglie Elisabeth Schwarzkopf Si era un po' stufata del suo modo di fare, così come si era stufato Karajan, che era stato aiutato moltissimo da Legge nel primo dopo-guerra ma in seguito si sentì sfruttato da lui dal punto di vista contrattuale. Ora che la Schwarzkopf non c'è più posso dire che Walter Legge fu un maestro per tutti noi ma anche uomo sgradevole: e dire sgradevole è un understatement. Era una specie di genio per quanto riguardava la conoscenza della musica, la qualità del suono che otteneva e i suggerimenti che era capace di dare agli interpreti (con la Schwarzkopf agì da vero Pigmalione), ma aveva anche molti pregiudizi e nel dire la verità agli artisti spesso oltrepassava i confini della maleducazione, di endo le cose in maniera brutale e facendosi di conseguenza molti nemici. Tuttavia tra i produttori discografici solo Jack Pfeiffer della KCA poteva avvicinarlo per conoscenza della musica (non posso parlare però di John Culshaw perché non l'ho conosciuto a sufficienza per poterlo confrontare con Legge). Per anni, durante le mie trasferte londinesi, osservai Legge al lavoro negli studi di Abbey Road, assimilando come una spugna tutto quello che aveva da insegnare. Non l'ho mai imitato però nella rudezza di carattere, anche perché ero troppo giovane per impormi in quella maniera: lui era abrasivo e severo, io invece avevo un atteggiamento dolce ed amichevole nei confronti degli artisti.
Nei due album «Callas à Paris» si spazia dal repertorio per contralto a quello per soprano leggero: come vennero scelte le arie da incidere?
Molte delle arie erano già state studiate dalla Callas con Elvira de Hidalgo in Grecia. C'era un pianoforte all'Hotel Lancaster a Parigi dove il soprano alloggiava allora e ci incontravamo lì con il direttore Georges Pretre per decidere cosa inserire nel disco. La Callas poi ripassò il tutto con Janine Reiss, con la quale nacque un'intesa artistica specialissima. L'unico pezzo che non pubblicammo subito fu «Mori choeur s'ouvre à ta voix» da Samson et Dalila: ed è l'unica incisione la cui pubblicazione venne approvata da me dopo la morte di Maria. Prima di dare la mia approvazione l'ascoltai tante volte e mi sembrava veramente eccezionale: toccante come interpretazione, bellissima come linea. Sapevo bene naturalmente perché l'aveva bloccata: la melodia scendeva nel registro più grave della sua voce ed era stata costretta a una ripresa di fiato che lei riteneva fosse troppo lunga. Quando decidemmo di pubblicare l'aria tentai di accorciarla in sede di editing, ma si avvertiva troppo l'intervento tecnico e alla fine abbiamo lasciato l'esecuzione com'era. Mi opposi invece con forza alla pubblicazione del duetto dal terzo atto di Aida realizzato alla Salle Wagram nel 1964 con Franco Corelli. Quello che venne pubblicato, con l'autorizzazione non mia ma della sorella della Callas, Jackie, secondo me è un insulto alla memoria di Maria. Si tratta non di una registrazione definitiva ma di una semplice prova, durante la quale Corelli voleva a tutti a costi cantare a piena voce mentre la Callas si stava semplicemente scaldando. Poi, quando la prova era finita, Corelli si rifiutò di ricantare il duetto in voce perché diceva che l'aveva già fatto. Ci sono due cantanti con cui non sono mai riuscito a lavorare felicemente. Uno era Boris Christoff, a causa del suo carattere difficile (ma riconosco la grandezza dell'interprete). L'altro era Franco Corelli, a causa delle interferenze della moglie e di certi comportamenti stupidi. In quell'occasione Maria era arrabbiatissima con lui e mi disse: «Vai a trovare Franco. Digli che lo ammiro molto, che amo la sua voce, ma che non posso lavorare in queste condizioni».
Capitava alla Callas di innervosirsi a causa dei suoi problemi vocali?
Era quasi sempre tranquilla in sala d'incisione. Se la voce non rispondeva mi diceva: «Oggi non sono in forma. Cercherò di fare meglio, ma se non riesco lo ripeterò domani». Sapeva di poter lavorare con tranquillità perché i suoi dischi vendevano così bene che la EMI poteva ben permettersi di dedicarvi diverse sedute. La Callas non arrivò mai in ritardo per le incisioni, ma a volte stava in crociera con Aristotele Onassis sulla nave Cristina fino a pochi giorni prima dell'inizio del lavoro e non aveva trovato il tempo per mettere le arie totalmente in voce. In quei casi veniva chiamata Elvira de Hidalgo da Milano. Era spesso presente alle incisioni di Maria fino alle ultime sedute gestite da me nel 1965. E bastava un'ora al pianoforte per trasformare la voce della Callas. Frasi che erano sembrate tecnicamente ostiche improvvisamente diventavano facili. Spesso si dice che Onassis non apprezzava l'arte della Callas.
Io non ho mai detto cose del genere. In realtà Onassis amava il belcanto come amava Chopin. C'era un pianoforte su Cristina e quando ero ospite sulla nave suonavo i Notturni di Chopin per lui e accompagnavo Maria in arie di Bellini. Ma ho sentito la Callas cantare, come nessun altro al mondo, anche le tradizionali canzoni greche accompagnate dal bouzouki. Le ho chiesto di inciderle, ma lei non amava l'idea di fare un disco che potesse sembrare un tentativo di utilizzare il suo nome per fini puramente commerciali. Amava però quella musica e guardava con assoluto rispetto e umiltà agli interpreti di musica «leggera», come Melina Mercouri. Era in grado di impadronirsi di qualsiasi musica. L'ho sentita cantare il jazz da vera americana e interpretare meravigliosamente le mélodíes di Duparc. Registrò infatti la versione con orchestra dell'«Invitation au voyage» per la trasmissione televisiva «Les Grandes Interprètes» nel 1965, ma non c'era spazio per inserirla nel programma e in seguito il filmato sparì. Io ero presente durante la registrazione e fu un'interpretazione fantastica, ma lei rifiutò sempre le mie proposte di realizzare un disco dedicato a Duparc: diceva che non avrebbe mai potuto rivaleggiare con le migliori cantanti francesi.
La Callas cantò Norma per l'ultima volta all'Opéra di Parigi negli anni 1964-65, talvolta in precarie condizioni di salute e di voce. Ha un ricordo felice di quelle recite?
Assolutamente sì. Nonostante tutto, ebbe dei trionfi indescrivibili. Vorrei ricordare poi un episodio significativo riguardante il sindacato degli orchestrali, che allora come oggi era molto forte. Una mattina la Callas stava provando Norma all'Opéra con Prétre sul podio: c'era un'atmosfera particolarmente bella e armoniosa. Maria non si rendeva conto del passare del tempo e la prova - che avrebbe dovuto concludersi alle tredici - proseguì per altri sedici minuti. A un certo punto lei interruppe il lavoro perché voleva correggere qualcosa e Prétre le disse che purtroppo dovevano fermarsi perché la prova era finita. Neanche uno dei professori d'orchestra si era fermato, tuttavia. Lei si scusò con l'orchestra, ma io decisi di raccontare comunque quest'episodio a Georges Auric, direttore dell'Opéra, perché sapevo che i sindacati avrebbero potuto creare qualche problema. Ma quando lui telefonò ai rappresentanti sindacali, loro dissero: «No, non vogliamo dei soldi in più per quei sedici minuti perché si tratta di Madame Callas». Ciò fa capire la felicità che era in grado di trasmettere al mondo intero.
Un altro artista con cui ha avuto un sodalizio stretto, e per un periodo ancora più lungo, è Herbert von Karajan.
Lo conobbi Karajan già nel 1957 e dopo che avevo lasciato la EMi alla fine del 1965 per creare un ufficio di rappresentanza per artisti, divenni il suo collaboratore e factotum, con un ruolo molto attivo nella progettazione del Festival di Pasqua a Salisburgo, che si inaugurò nel 1967 con l'inizio di un Ring in cui si proponeva un approccio nuovo e diverso al canto wagneriano. In quel periodo lui aveva un contratto discografico esclusivo con la DG, firmato dopo la rottura con Legge. Ma quando quel contratto terminò, riuscii a convincerlo a non confermare quel rapporto di esclusività e di riprendere i rapporti con la EMI. Dal 1968 fino alla morte nel 1989 sono stato poi il produttore discografico di Karajan, collaborando non solo con la EMI ma anche con DG, mentre le incisioni Decca erano gestite da altri. Lui mi cercò anche nell'ultimo giorno della sua vita. Mi chiamò alle 11,30 di quel 16 luglio - un'ora prima della morte - ma purtroppo non riuscì a raggiungermi. Le mie prime incisioni con lui erano state le ultime sei sinfonie di Mozart con i Filarmonici di Berlino, seguite da Tristan und Isolde con Helga Dernesch e John Vickers e
Fidelio con gli stessi interpreti. A Berlino si incideva in quegli anni nella Jesus Christe Kirche, che era sulla strada per l'aeroporto di Tempelhof. Lavorarci era un'esperienza esasperante perché dovevamo interrompere le riprese ogni cinque minuti a causa degli aerei. In seguito abbiamo inciso sempre nella Philharmonie, mentre a Vienna, con i Wiener Philliannoniker, si utilizzava il Sofiensaal del Musikverein e a Parigi - per tre anni, dopo la morte di Charles Munch nel 1968, Karajan fu consigliere musicale dell'Orchestre de Paris - si incideva nella Salle Wagram.
Di quali incisioni con Karajan va più orgoglioso?
Un giorno che eravamo a tavola nel suo chalet di Anif in Austria, mi chiese lui stesso quale dei nostri dischi avrei portato su un'isola deserta. Risposi che avrei scelto le sinfonie di Brahms oppure qualcosa di Strauss, magari il Heldenleben. «Non ti piace allora il mio Beethoven?», mi rispose scherzosamente. Devo dire che ho un ricordo fantastico anche di molte altre incisioni straussiane - per esempio la Salome con la Belirens e i Vier Letze Lieder con la Janowitz - , dei Concerti di Beethoven con Alexis Weissenberg, del Don Carlo inciso nel 1978 con Carreras e la Freni e del Pelléas che incidemmo sempre nel 1978. Quest'ultima incisione fu curata al massimo: ventisette o ventotto sedute, con la presenza di Janine Reiss come coach musicale. Fu il risultato di una specie di baratto. Peter Andry della EMI voleva che si incidesse un'integrale delle sinfonie di Schubert, ma Karajan non era così entusiasta dell'idea: amava alcune delle sinfonie, ma non tutte. Alla fine lo convinse a inciderle in cambio della promessa di fare quel Pelléas, a cui teneva moltissimo. Per tornare al discorso di prima, Karajan mi chiese pure quale delle nostre incisioni mi piaceva meno di tutte. Non ebbi dubbi: Le Stagioni di Haydn incise a Berlino nel 1972. «Perché?». «Perché la Janowitz non stava bene e aveva problemi di intonazione, Walter Berry stava divorziando da Christa Ludwig ed era in cattiva forma anche lui. Il tenore era terribile: preferisco non nominarlo. E il coro - quello del Deutsche Oper Berlin - non ti piaceva». Lui mi guardò e disse: «Sono stupefatto. E' l'unico lavoro di Haydn che non mi piace per niente. Ma abbiamo fatto davvero quell'incisione?». « Sì, ed è il ricordo più infelice di tutto il nostro lavoro insieme. Te lo dissi allora. E ricordo bene che dicesti che non avresti più inciso un lavoro corale senza il Singverein di Vienna». In effetti lo impiegò sempre in seguito, tranne che nella Carmen, per la quale scelse il Coro dell'Opéra di Parigi.
Il legame di Karajan con Vienna, in effetti, fu molto forte.
Bisogna ricordare che era nato l'8 aprile del 1908. Come tanti austriaci della sua generazione provava una grande nostalgia per l'Impero Asburgico. Per lui il Trattato di Versailles del 1919 fu una catastrofe totale che distrusse un impero che, per quanto complicato e diversificato geograficamente, permetteva tuttavia una convivenza armoniosa. E ancora oggi stiamo pagando le conseguenze di quel catastrofe: basti pensare alle turbolenze nel Kosovo. Devo dire che Karajan mi trasmise quest'amore per Vienna e questa nostalgia per il passato, e ogni volta che vado nella città austriaca - l'ultima volta fu nel mese di giugno per vedere un grandissimo Ferruccio Furlanetto nel Don Carlo - visito l'Hofburg ed entro anche nella Cripta dove sono sepolti gli imperatori.

Stephen Hastings ("Musica", n.189 - settembre 2007)