Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 31, 2014

Robert Schumann: Le Sinfonie

Robert Schumann (1810-1856)
Nel 1832 Schumann si era accostato alla forma sinfonica completando i primi due tempi di una Sinfonia in sol minore, di chiaro stampo beethoveniano, il primo dei quali ebbe scarso successo: si trattava essenzialmente di musica per piano cui Schumann aveva fornito una veste orchestrale di routine. Quest'esperienza scoraggiò il giovane compositore, il quale capì di non essere ancora in grado di affrontare le grandi forme e soprattutto di scrivere per orchestra. La sua difficoltà di pensare direttamente per orchestra spiega solo in parte il motivo per cui si accostò alla Sinfonia solo dopo nove anni dal prima fallimentare tentativo: il confronto con il corpus beethoveniano era infatti inevitabile e non poteva che creare un forte disagio nei compositori della sua generazione. Le Nove Sinfonie rappresentavano un modello di perfezione ineguagliabile, che cercare di imitare sarebbe stato vano, e superare, impossibile. Fino al 1841, l'anno della Prima Sinfonia e della prima versione della Quarta, Schumann non era evidentemente riuscito a trovare una soluzione al problema. Si trattava infatti di utilizzare una forma precostituita evitando di esserne limitati, creando anzi un prodotto nuovo, e ciò non era affatto semplice.
“Per i talenti di second'ordine - scrisse Schumann - è sufficiente che essi padroneggino la forma tradizionale: a quelli di prim'ordine consentiamo che la allarghino. Solo il genio può muoversi liberamente”.
Che Schumann si ritenesse un genio è difficile dire, certo è che non si accontentò di ciò che aveva ereditato da Beethoven. Alla grande forma sinfonica si accostò con maggiore coscienza critica rispetto ai compositori della sua stessa generazione, opponendo alla concezione dialettica beethoveniana un tipo di sinfonismo basato sulla continua trasformazione della medesima idea, che in tal modo acquista significati sempre diversi.
E' noto che Schumann si dedicò ai diversi generi musicali seguendo un ordine sistematico che non si ritrova nella biografia di nessun altro compositore: il 1840 è l'anno dei lieder, il 1842 della musica da camera, il 1843 dell'oratorio profano. Nel 1841 Schumann decise di confrontarsi nuovamente col genere sinfonico senza peraltro che ciò fosse motivato da commissioni o da circostanze esterne. Appartengono a questo "anno dell'orchestra" la Prima Sinfonia, l’Ouvertüre, Scherzo und Finale op. 52 e la prima versione di quella che dieci anni dopo diverrà la Quarta Sinfonia. La Prima Sinfonia in si bemolle maggiore Op. 23 "La primavera" fu composta in soli quattro giorni, dal 23 al 26 gennaio 1841; l'orchestrazione venne completata il 20 febbraio seguente e il 31 marzo Mendelssohn la diresse per la prima volta al Gewandhaus di Lipsia. L'esecuzione fu uno dei pochi successi pubblici del compositore. Lo stesso Schumann disse di essersi ispirato ai versi sulla primavera di Adolph Böttger, poeta minore contemporaneo, i quali tuttavia diedero probabilmente solo il prima impulso ad una creazione musicale per il resto del tutto autonoma. I titoli originalmente preposti ai singoli tempi, ossia “L'inizio della primavera", “Sera“, “Lieti compagni di giochi" e “Apogeo della primavera” ovvero “L'addio alla primavera", furono in un secondo tempo soppressi per evitare forse che l'ascoltatore ne potesse essere influenzato. Fin dalla Prima Sinfonia risulta evidente che Schumann si sforza di collegare tutti i movimenti tra loro riproponendo in ciascuno di essi gli stessi incisi ritmico-melodici, evitando al tempo stesso, secondo le sue stesse dichiarazioni, le citazioni letterali, Secondo diversi studiosi la sovrapposizione della triade di si bemolle maggiore e di quella del relativo minore, sol, genera il tetracordo sol-si bemolle-re-fa che è alla base dei primi temi di tutti i movimenti della Sinfonia, e ciò darebbe alla composizione un carattere fortemente unitario. L'unità tematica, sia interna a ciascun movimento che dell’intera composizione, sembra essere stato il principale obiettivo di Schumann. Essa si realizza nella forma più compiuta nel finale, che per la ricchezza di relazioni ritmico-melodiche con i tempi precedenti si deve certamente considerare quale il movimento più importante della Sinfonia: qui viene infatti ripreso il ritmo principale del prima tempo e ciò crea un senso di circolarità assai marcato. Una struttura circolare si ritrova nello “Scherzo”: la presenza di due trii dà al movimento la forma di un rondò (ABACA).
Nel 1845, anno che il compositore dedicò prevalentemente alla musica per tastiera, nonostante il cattivo stato di salute Schumann iniziò a lavorare a quella che sarebbe poi divenuta la Seconda Sinfonia (la seconda in ordine di tempo divenne come si è visto la Quarta. La Sinfonia in do minore Op. 61 fu portata a termine il 19 ottobre del 1846 e il 5 novembre successivo fu diretta da Mendelssohn al Gewandhaus di Lipsia, senza il successo che il compositore si aspettava. Indiscutibilmente beethoveniana è la tecnica dell'elaborazione motivica basata sull'opposizione di forti contrasti ritmici. La Seconda è, fra le Sinfonie di Schumann, quella di proporzioni più ampie, nonché la più unitaria sia sul piano tecnico che su quello espressivo.
La Terza Sinfonia, in mi bemolle maggiore, Op. 97 nota come "La Renana" fu composta nel 1850 (la partitura fu completata il 9 dicembre) ed eseguita sono la direzione dello stesso compositore il 6 febbraio 1851 a Düsseldorf, dove Schumann si era trasferito nel settembre dell’anno precedente. A chiamarla per la prima volta “Sinfonia Renana” fu Wilhelm Joseph von Wasielewski nella sua biografia di Schumann del 1858: “Secondo le sue stesse dichiarazioni - scrisse - il compositore ne ebbe la prima ispirazione dalla vista del duomo di Colonia". In realtà il viaggio a Colonia, che Schumann e la moglie compirono nel settembre del 1850, fu probabilmente solo uno stimolo, e sarebbe comunque sbagliato intendere la Sinfonia come la traduzione musicale di realtà paesaggistiche o extramusicali. Non si tratta di musica a programma, e del resto Schumann aveva idee molto precise al riguardo: "Si sbaglia di certo - scrisse nel 1835 nella recensione della Symphonie fantastique di Berlioz - se si crede che i compositori prendano in mano carta e penna col misero proposito di esprimere, descrivere, dipingere questo o quello. Non vanno però sottovalutate le casuali influenze e impressioni provenienti dall'esterno. Inconsciamente, accanto alla fantasia musicale agisce spesso un’idea, accanto all'orecchio l’occhio“. Nella Terza Sinfonia è particolarmente evidente il tentativo di Schumann di svincolarsi dal modello beethoveniano, sebbene siano ancora presenti elementi riconducibili ad esso (una certa affinità stilistica con l'Eroica è evidente, ad esempio, nel primo movi
mento). La Terza è forse la più originale fra le fatiche sinfoniche di Schumann, sebbene sia stata spesso criticata per via di un'orchestrazione ritenuta opaca e di routine (troppo frequente uso dei raddoppi, insistenza sui registri medi, scarsa puntualizzazione timbrica). Secondo Donald F. Tovey, fu per questi motivi che essa non incontrò mai il favore del pubblico, e inoltre la debolezza della scrittura Schumanniana sarebbe andata peggiorando quando egli iniziò a dirigere l'orchestra di Düsseldorf, proprio a causa delle sue difficoltà nel guidare la compagine affidatagli.
La prima Versione della Quarta Sinfonia, in re minore Op. 120, fu completata il 9 Settembre 1841 ed eseguita a Lipsia il 6 dicembre dello stesso anno. Dopo l'esecuzione, non soddisfatto dell'accoglienza del pubblico, Schumann ritirò il pezzo. Dieci anni dopo, tra il 3 e l'11 dicembre 1851, ne fece una trascrizione per pianoforte imroducendo alcune modifiche, talvolta non indifferenti, e la settimana successiva riorchestrò nuovamente il lutto - rispetto alla versione originale si preoccupò soprattutto di rafforzare le parti tematiche attraverso il raddoppio degli archi in ottava e dei fiati. Inizialmente Schumamn pensò di chiamarla "Symphonistische Phantasie". Il titolo originale sembra indicare che Schumann ritenesse il termine “sinfonia" inadeguato alle proprie composizioni: “Nulla produce tanto facilmente disappunto e opposizione - scrisse - quanto una nuova forma che porti un vecchio nome". Rispetto alla versione originale Schumann rafforza il carattere ciclico riproponendo ad esempio nell’ultimo tempo elementi tematici del primo. Viene inoltre abolita la separazione tradizionale tra i singoli movimenti, i quali sono collegati tra loro ed eseguiti di seguito senza interruzioni. Se si eccettua lo scherzo, Schumann mostra una evidente riluttanza per ogni genere di ripresa, un’insofferenza che lo porta molto vicino alla trasformazione ‘epica’ della sinfonia in dramma musicale compiuta da Wagner e al poema sinfonico di Liszt. Tovey osserva che la Quarta rappresentava certamente un esempio di forma libera e di continuità tematica altrettanto avanzato di qualsiasi poema sinfonico che si pretendesse in tal senso rivoluzionario. La prima esecuzione della seconda versione ebbe luogo a Düsseldorf il 30 dicembre 1852, e fu l'ultimo grande successo di pubblico di Schumann.
Le stesse critiche rivolte alle Sinfonie di Schumann (mancanza di costruzione melodica, incapacità di realizzare contrasti ritmici e dinamici, di creare proporzioni formali, e soprattutto debolezza della strumentazione) sono state rivolte anche a quelle di altri compositori romantici, quali Schubert e Weber. Ma considerare Schumann un sinfonista fallito è un grave sbaglio. Se infatti i termini di confronto non sono quelli della sinfonia classica, e se le Sinfonie di Schumann sono considerate piuttosto come punto di partenza per una nuova epoca post-beethoveniana, allora è chiaro come rappresentino un momento certamente fondamentale nella storia della musica.

Enrico Careri (c) 1995

venerdì, maggio 23, 2014

Elektra: «Questo deve essere un giardino zoologico»

Elektra (Frederic Leighton)
Richard Strauss giganteggia nel teatro musicale europeo della fin de siècle grazie a due fra i massimi capolavori di quegli anni, Salome (1905) e Elektra (1909), vere e proprie sfide al sistema produttivo per l’impegno ai limiti del possibile (e più spesso oltre) richiesto a tutti gli interpreti. Il lettore che voglia rendersene conto senza preamboli apra le rubriche dedicate all’orchestra e alle voci in questo volume, prima di scorrere la guida all’opera di Riccardo Pecci, che affronta la sterminata partitura (un tour de force per l’esegeta) con acume e passione.
La sfida a monte postulata dal progetto ambizioso di Strauss era quella di affrontare un soggetto imprescindibile del teatro occidentale, misurandosi con la fonte del mito, il dramma di Sofocle, tramite l’adattamento per le moderne scene tedesche che Hugo von Hofmannsthal aveva proposto con molto successo a Berlino nel 1903. Il rapporto incrostato di intertestualità fra la tragedia antica e quella moderna, che ne attualizza lo spirito, viene affrontato nelle pagine seguenti da Guido Paduano, grecista e filologo insigne, ma soprattutto studioso di drammaturgie comparate capace di svelarne le caratteristiche più profonde. Nel saggio d’apertura Jürgen Maehder, specialista della fin de siècle musicale, mette in rilievo le principali peculiarità drammaturgiche di Elektra partendo dal suo genere, la Literaturoper («il cui libretto coincide con una fonte letteraria preesistente, eventualmente un po’ abbreviata»), per addentrarsi nel laboratorio di Strauss, valutando l’importanza di schizzi e abbozzi nel processo compositivo, spesso confermato dalla partitura finita. Anche in questo saggio balza agli occhi il peso decisivo dell’orchestrazione, vero e proprio parametro dello spettacolo che fa assurgere istanze proprie della tecnica a specificità drammaturgiche.
Maehder mette in rilievo il ruolo per la nascita di Elektra di Gertrud Eysoldt (la si veda a p. 14 ritratta da Lovis Corinth), attrice fra le più talentose nel teatro tedesco tra Otto e Novecento, e del regista Max Reinhardt, determinante nel qualificare le nuove tendenze non solo del teatro di parola, ma anche di quello lirico. L’interpretazione della Eysoldt, prima Elettra nel dramma di Hoffmannsthal, fu tra i fattori che eccitarono maggiormente la fantasia creatrice di Strauss. Come non ricordare due muse ispiratrici come Eleonora Duse e Sarah Bernhardt, protagoniste riconosciute delle scene di quegli anni, e l’impulso creativo che la Bernhardt, in particolare, trasmise in occasione di Tosca a Giacomo Puccini, quando vide la pièce di Sardou nel 1889 e nel 1895?
Questo dato lega Strauss e Puccini a un evento performativo capace di mettere in movimento la loro ispirazione e sollecita una breve riflessione sulle relazioni fra i due artisti così come vengono alla luce osservando le protagoniste vocali del tempo. Gemma Bellincioni Stagno, acclamata interprete dei veristi, fu tramite decisivo, ad esempio, per la penetrazione del teatro di Strauss in Italia agendo come Salome per la prima volta al Regio di Torino il 23 dicembre 1906 sotto la bacchetta dell’autore, mentre la Scala produceva l’opera negli stessi giorni sotto la direzione di Arturo Toscanini, con Salomea Krusceniski (26 dicembre). Quest’ultima era stata Butterfly nella ripresa del maggio 1904 a Brescia, e avrebbe sostenuto la parte della protagonista anche nella prima italiana di Elektra a Milano, il 6 aprile 1909, appena tre mesi dopo la prima assoluta (la si veda in questo volume, statuaria e affascinante nel ruolo, a p. 126). Ebbe inizio allora una vera e propria osmosi fra interpreti pucciniane che ebbero poi a primeggiare nel teatro di Strauss e viceversa. Basti ricordare che Maria Jeritza, acclamata come Tosca (1921) Minnie (1913) e Giorgetta (1920), era stata protagonista delle prime assolute di Ariadne auf Naxos (1912 e 1916) e della Frau ohne Schatten (1919), e s’esibì con successo in Salome e Der Rosenkavalier (Octavian) al Metropolitan a partire dal 1921. Emmy Destinn, Minnie a New York nel 1910, era anch’essa una Salome di grido; Selma Kurz passò da Zerbinetta nella versione rifatta dell’Ariadne (1916) a Tosca (1923); e la grandissima Lotte Lehmann, Sophie nel Rosenkavalier ad Amburgo (1911) e poi memorabile Arabella (1933), fu negli anni Venti una stupenda Suor Angelica, non senza eccellere, con la piena approvazione dell’autore, anche come Manon a Vienna nel 1923, Tosca e Liù (in questo ruolo cantò assieme alla Jeritza/Turandot nel 1926).
Il mondo musicale tedesco aveva finalmente prodotto quell’operista in grado di primeggiare nei favori del pubblico internazionale, ed era naturale che Puccini avvertisse la rivalità. Ragion per cui l’ostilità che trapela in queste poche righe indirizzate a Giulio Ricordi da Napoli il 2 febbraio 1908 somiglia a quell’antipatia che Mahler ebbe più volte a dimostrargli:
 
Ieri capitai colla première di Salomé diretta da Strauss e cantata (?) dalla Bellincioni la quale danza a meraviglia. […] Strauss, alle prove, nell’incitare l’orchestra ad un’esecuzione rude e violenta disse «Miei signori, qui non si tratta di musica! Questo deve essere un giardino zoologico.Forte e soffiate negli strumenti!». Storico!

Fortunatamente Puccini non si limitò all’astio, e fino a che visse seguì sempre con attenzione Strauss, che fu per lui l’unico serio concorrente. Ad onta dell’obiettiva differenza nel linguaggio armonico e orchestrale, Strauss e Puccini ebbero in comune l’attenzione quasi esclusiva per le protagoniste femminili e lo scaltrito impiego del Leitmotiv, ma soprattutto il senso del dramma e l’istinto per il coup de théâtre (anche quando veniva applicato a soggetti di natura affatto diversa). E in fondo, insieme a Massenet, Janácek eBerg, Puccini e Strauss furono tra gli ultimi autori a possedere un autentico istinto per la narrazione in musica, tradotto in una serie di opere che rappresentarono l’estremo atto di fiducia nel genere tradizionale, condotto sino all’esaurimento delle proprie risorse.

Michele Girardi (2008, Teatro La Fenice)

domenica, maggio 11, 2014

Maurizio Pollini: Nono e Manzoni, reinventare il suono del pianoforte

Maurizio Pollini (5 gennaio 1942)
Maurizio Pollini ha sempre rifiutato le diffuse preclusioni contro la musica di oggi, sostenendo la necessità della massima apertura e di un ampliamento del repertorio corrente. I protagonisti della seconda metà del secolo XX che ha interpretato (e che non esauriscono ovviamente i suoi interessi in questo ambito) sono finora Pierre Boulez, Karlheinz Stockha usen, Salvatore Sciarrino, Luigi Nono e Giacomo Manzoni. Le musiche pianistiche degli ultimi due sono quasi tutte nate dalla collaborazione con lui.
Pollini conobbe Nono nel settembre 1966, ma solo qualche anno dopo il campositore ne accolse la proposta di scrivere musica per il pianoforte, di cui prima non si era mai interessato. Como una ola de fuerza y luz (1971-72) fu inizialmente pensato per Maurizio Pollini e Claudio Abbado (che ne furono i primi interpreti alla Scala di Milano il 18 giugno1972); ma la notizia della morte improvvisa a 27 anni, nel settembre 1971, di Luciano Cruz, un dirigente del MIR cileno di cui Nono era amico, fu determinante per l'ispirazione del pezzo, che divenne una sorta di epitaffio, con l'inserimento di un testo di Julio Huasi affidato a una voce di soprano.
Nel nastro rnagnetico sono registrate e rielaburate voci femminili e il pianoforte di Pollini, in modo da creare un gioco di echi, rimandi e prolungamenti tra gli interpreti dal vivo e il suono su nastro (sempre presente). La collocazione degli altoparlanti dietro l'orchestra consentì a Nono una ricerca sullo spazio. Egli parlò di una musica che “fosse come uno spazio che si apre e si chiude, qualcosa come una vita che si estende e si richiude, qualcosa come una metafora programmatica, ma libe
ra". Si ritrovano qui i suoi tipici contrasti tra scoppi e silenzi, tra violenze sonore e terso lirismo. Il pianoforte è usato soltanto dal registro medio al grave (con la trasformazione elettronica il suono pianistico su nastro è portato ancora più in basso). La scrittura orchestrale è prevalentemente concepita a blocchi. Il pianoforte dal vivo è presente a partire dalla seconda sezione del pezzo, dopo la lirica invocazione e il lamento iniziale del soprano; ma sonorità pianistiche elaborate su nastro sono presenti anche prima. Nella terza e quarta parte tace invece il soprano dal vivo. La terza parte si configura come un grande processo ascensionale, della massima tensione, verso l'estremo acuto. E nell'ultima parte si ha una sorta di esplosione collettiva, che si spegne lasciando la conclusione al solo nastro magnetico.
Luigi Nono ritornò per la seconda e ultima volta al pianoforte nel 1976 con ...sofferte onde serene..., un pezzo per pianoforte e nastro magnetico che fu presentato da Maurizio Pollini in prima esecuzione il 17 aprile 1977 nella sala del Conservatorio di Milano ed è dedicato “A Maurizio e Marilisa Pollini". Fu il primo lavoro composto dopo l’azione scenica Al gran sole carico d'amore (1972/74), e può essere considerato un pezzo di transizione, che muove in una direzione nuova; in una certa misura il carattere meditativo, di riflessiva introspezione, il rilievo determinante dell'attenzione al suono e anche la concezione formale per frammenti lo avvicinano alle opere dell’ultimo Nono.
...sofferte onde serene... è però l'ultimo suo pezzo con il nastro magnetico (prima del live electronics): nel nastro è elaborato e manipolato un materiale musicale registrato dallo stesso Pollini. Nono ebbe a dichiarare: "Mi sentivo molto attratto dalla tecnica di Maurizio Pollini, non solo dal suo straordinario modo di suonare, ma da certe sfumature del suo
tocco, che nelle sale da concerto non si riescono a percepire. Con l'ausilio dei microfoni questi dettagli inafferrabili e straordinari avrebbero potuto essere amplificati e diffusi in una dimensione assolutamente nuova, ottenendo fra l'altro, attraverso l'elaborazione elettronica una specie di risonanza senza tempo".
Nella scrittura del pezzo l'insistenza, che potrebbe apparire statica, sulle brevi ripetizioni e sulla scrittura pianistica "percussiva" per aggregati sonori corrisponde all'estrema mobilità delle sfaccettature, mentre l'attenzione al suono si manifesta nervosamente in un costante cangiare, che conosce trasparenze e momenti densi, tormentosamente aggrovigliati, stupefazioni contemplative e scatti di tensione. Nono volle poeticamente indagare e reinventare il suono del pianoforte nella sua specifica natura, appunto, di strumento a percussione, capace di addensare e sciogliere grumi di materia sonora. E' determinante l'idea di concepire il nastro come un "doppio" dello strumento dal vivo, in uno straordinario gioco di rifrazioni, rimandi, ambivalenti fusioni o dialoghi. La struttura del pezzo non presenta alcuna linearità, non si può riassumere in un “percorso" univoco. Si presenta, difatti,come un labirintico intrecciarsi di frammenti.
A Maurizio Pollini è dedicato anche Masse: Omaggio a Edgard Varése di Giacomo Manzoni, composto nel 1977 su commissione della Komische Oper di Berlino, dove è stato presentato in prima esecuzione il 6 ottobre 1977. Dopo le esperienze dodecafoniche e seriali degli esordi il percorso creativo di Giacomo Manzoni è proseguito sotto il segno di una costante tensione di ricerca, di un continuo interrogare la materia sonora da diverse angolature e prospettive. ln questo percorso Masse rappresenta un momento particolare: è l'unico pezzo per pianoforte e orchestra ed è uno dei pochi che approfondiscono la ricerca sui suoni multipli dei legni,
sulla tecnica cioè che consente di emettere due o più suoni insieme con questi strumenti di solito considerati monodici e di piegarli ad una vasta gamma di nuove trascolorazioni timbriche.
E' un “omaggio a Varése" in senso ideale, grazie ad una ricerca volta all'esplorazione di nuovi vocaboli sonori nella loro aspra, concreta oggettività. E si intitola Masse perché nella scrittura orchestrale predominano coaguli di materia sonora definiti nel loro effetto d'insieme, di massa appunto. Anche la scrittura dei suoni multipli dei legni è attenta agli effetti complessivi: troviamo suoni multipli omogenei e non omogenei, in registri più o meno deterrninati, e inoltre frullati tremoli, glissandi, intonazioni quartitonali, variazioni timbriche sulla stessa nota. Accanto a questa orchestra la presenza di un solista comporta di per sé l’instaurazione di un rapporto dialettico, di una antitesi drammatica. Il pianoforte è uno strumento temperato, ma Manzoni è riuscito a risolvere il problema dell'eterogeneità del solista rispetto alla massa orchestrale attraverso una scrittura pianistica fatta di densi aggregati, di accordi e blocchi, di sonorità scure e spesse, di masse che stabiliscono con quelle dell'orchestra un rapporto originale, Questo è uno dei caratteri decisivi del pezzo, posto sotto il segno di una tesa urgenza comunicativa, di una gestualità severa, ma dalla forte carica espressiva.

Paolo Petazzi (note al CD DGG 471 362-2)