Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 11, 2012

Monteverdi: il "Secondo Libro de' Madrigali" (1590)

Tre anni dopo il suo precedente lavoro dedicato alla più alta forma di sperimentazione linguistica e musicale del rinascimento, Claudio Monteverdi pubblica a Venezia il suo Secondo Libro de’ Madrigali nel 1590 dall’editore Angelo Gardano. A ventidue anni, dalla sua città natale di Cremona, dichiarandosi ancora discepolo di M.A. Ingenieri, offre il lavoro ad un importante personaggio milanese: il senatore G.Ricardi. Non è chiaro se il musicista tenta di ottenere servizio in questa città, che l’aveva apprezzato per le doti di violista, o se offre il proprio lavoro quale ringraziamento di una plausibile raccomandazione alla rinomata corte mantovana dei Gonzaga che, proprio in quel momento (1589/90), lo assume proprio come strumentista di “vihuola”. Probabilmente Monteverdi aveva tentato più volte di entrare in contatto con la vicina e prestigiosa Mantova: la massiccia presenza in questo Secondo Libro di opere di Torquato Tasso, quel “poeta maledetto” tanto amato dagli Estensi di Ferrara come dai vicini Gonzaga, può essere testimonianza di un lento lavoro di avvicinamento a quella corte che più coltivava e apprezzava il madrigale quale il simbolo della sintesi tra arti e frutto della raffinata cultura aristocratica.
Rispetto al Primo Libro i brani abbandonano quasi totalmente quella tipica costruzione ripetitiva tipica della seconda parte della composizione, ricorrendo sempre più a quella “forma senza forma” che si forgia sulla lirica testuale da cui prende ispirazione e sostegno. Le scelte poetiche e le immagini privilegiano qui i due temi cari alla cultura di corte: l’amore e la natura. Se il primo argomento era già stato ampiamente accolto dal compositore e dalla cultura musicale del tempo, notiamo viceversa che la natura nel suo apparire alternativamente vivida, dolce ma anche prorompente e accesa, offre all’autore ampi spazi a descrizioni musicali e alla pittura sonora tipici di quest’opera. Nel momento estatico di contemplazione della natura fatta d’eventi visivi, suoni e di rumori, si colloca il sentimento dei protagonisti che, alternativamente, si accosta in similitudine o si contrappone in contrasto alla serenità offerta da tale spettacolo.
Esemplare è Non si levav’ancor, composto in due parti, sicuramente uno dei brani più celebri e studiati non solo di questo libro ma del repertorio madrigalistico in genere. La musica parte sommessa descrivendo una natura ancora addormentata, ove le immagini imminenti ma non ancora avvenute (anzi negate: non si levava - né spiegavanma fiammeggiava) dell’alba, degli uccelli ancora rintanati nei nidi e la presenza della luce ancora sfavillante della stella di Venere, celano i protagonisti ai quali lentamente (come uno zoom cinematografico) dedichiamo la nostra attenzione: due amanti devono separarsi, dopo una lieta notte trascorsa insieme. Questo sprigiona in loro mille contrastanti slanci: baci, pianti e sospiri. Questi sentimenti nella seconda parte si trasformano sempre più in vive sofferenze: la natura effettivamente si sveglia, condannando la loro separazione. La musica segue questo divenire con il madrigalismo, cioè con l’utilizzo di quei procedimenti visivi nella scrittura musicale che disegna la parola testuale con immagini sullo spartito e nella musica: i duo vaghi amanti divengono due sole voci, il fiammeggiare di Venere un tema brillante e fugace seguito da quello dolce amoroso, il librarsi degli uccelli in volo una voluta di note, la felice notte un tema danzante, i sospiri un tema interrotto, i pianti e la sofferenza della partita (cioè quella separazione che per i due amanti è simile alla morte) armonie dissonanti durissime e salti melodici che ancor oggi colpiscono per la loro ardita efficacia. Soprattutto qui colpiscono i silenzi, tradotti in pause musicali che Monteverdi desidera elevare d’ora in poi a momenti di massima espressività. Geniale, inoltre, la presenza del tema iniziale che, stemperando ad arcata verso l’alto le note a similitudine dell’alba, ritorna come un refrain al termine della prima parte del brano e anche nella seconda, quando l’apparire del sole tanto previsto quanto indesiderato, condanna i due amanti alla dolorosa successiva separazione.
La natura con i suoi movimenti, rumori, colori, è ancora protagonista (ma questa volta assoluta, senza personaggi) in Ecco mormorar l’onde, capolavoro di grande freschezza e maestria: la natura assonnata si risveglia all’alba, percorsa da un fremito di vita che, partendo dalle voci più scure in tessitura grave, si dipana lentamente verso zone acute ad imitazione del cinguettio degli uccelli. Questi, dal buio iniziale, annunciano la trionfante entrata del sole (ad imitazione d’una fanfara) che illumina il mare e le montagne, percorrendole con leggere vampate di vento (suggerite in musica da folate di note che si rincorrono nelle varie voci). Raramente troveremo in altri madrigali una simile capacità evocativa di situazioni scenico-visive così puntuale, raffinata ed efficace.
Insieme a quest’ultimo madrigale, altri due costituiscono un prezioso trittico sulle Rime che Tasso pubblica tra il 1586 e 1587: Dolcemente dormiva e Mentr’io mirava fiso. Le tre composizioni, non casualmente poste dall’autore al centro del Libro, iniziano con una specie di recitativo, una nota ribattuta a voce sola poi ripresa a tre voci, sfociando in una meravigliosa fusione tra contrappunti e armonie, in variati impasti timbrici, in una sapiente ispirazione musicale che sottolinea ed esplica perfettamente il testo scherzoso e spesso malizioso. Nel primo le fermate riflessive e le rapide melodie che segnano il turbinoso apparire degli amorini, sottolineano i sentimenti contrastanti di desiderio e timidezza d’un amante verso la propria amata. Un meraviglioso episodio centrale, che è sicuramente qualcosa di più di un semplice madrigalismo, descrive musicalmente il suo lento e pavido chinarsi sulla bocca: al progressivo scendere della melodia in zona grave (come una pittura in movimento), contrasterà la successiva scala ascendente verso la sensazione di paradiso che offrono il contatto sensuale delle loro labbra.
Molte altre le scene amorose (o anche erotiche) presenti nel libro: a cominciare da Quell’ombra fino a Intorno a due vermiglie, da Non son in queste rive fino a Tutte le bocche belle. Tali cospicue presenze ci incoraggiano ad insistere nell’ipotesi che Monteverdi ambisse a quella corte del Duca Gonzaga di Mantova che amava così tanto tale argomento da far costruire un Palazzo dedicato all’ozio e al piacere ricco d’affreschi a tema: il Palazzo Te. Sempre in ambito amoroso e ironico, troviamo Mentr’io mirava fiso, capolavoro assoluto di contrappunto: un velocissimo turbinio di testi e melodie sovrapposte, ma anche contrapposte, che ben dipinge la confusione e stordimento provocato da Amore. All’uomo colpito dalle frecce di Cupido (in questo caso dai due vaghi spiritelli) non resta altro che arrendersi ed abbandonarsi alle grida disperate d’aiuto che, nella seconda parte del madrigale, si concretizzano in melodie a valori lenti sovrapposte, costruttive d’armonie verticali dissonanti (a contrasto con la prima parte viceversa molto orizzontale) di grande efficacia sonora. Tale procedimento si ritrova anche in Non m’è grave‘l morire, dove la seconda parte colpisce per il lento procedere di affascinanti armonie sulle parole lagrimar per pietà, dopo una prima parte orizzontale (con inizio in stile recitativo su una sola nota) e una seconda riflessiva dove grappoli di voci si muovono verticalmente con lo stesso ritmo e testo. S’andasse Amor a caccia è un bell’affresco che ci coinvolge nella descrizione dell’avventuroso cavalcare della caccia , dei richiami e dei suoni tipici di quest’avvenimento della corte rinascimentale.
Conclude il Libro, Cantai un tempo un madrigale “antico” sia per il procedimento compositivo molto arcaico che per l’autore del testo. Un intero brano dedicato al madrigalismo visto che “il deliberato stile arcaizzante d’imitazione mottettistica, i melismi lussureggianti e il flusso non interrotto delle cinque voci, quasi alla maniera di C.de Rore del 1542 o di Willaert” (A.Einstein: The Italian Madrigal, 1949) ci mostra come il compositore conosca e parta dal passato per costruire, già in questo Libro, qualcosa di assolutamente nuovo. Tanto più questo madrigale, non casualmente posto in posizione privilegiata al termine del Libro, canterà come un tempo passato oramai trascorso, lontano, perduto, tanto più appariranno assolutamente innovativi i procedimenti compositivi che Claudio Monteverdi da questo momento in poi amerà sperimentare conducendo la musica verso una nuova epoca, quella moderna.
Scelte esecutive e interpretative
La prima stampa del Secondo Libro ci rimane purtroppo in una versione incompleta che solo grazie alle due successive ristampe del 1607 e del 1621, riusciamo fortunatamente a completare. La prima edizione si differenzia però per la diversa successione dei brani che, per ragioni tipografiche, scambia quattro dei madrigali centrali: fedeli all’intenzione e alla stampa curata dall’autore, abbiamo preferito ripristinare l’ordine originale (riproposta modernamente solo nell’edizione della Fondazione C. Monteverdi, Cremona 1979).
Coerentemente alle scelte interpretative già enunciate e giustificate nel precedente disco (Naxos 8.555307), continuamo a prediligere l’esecuzione con basso seguente, temperamento mesotonico e voci maschili: dai controtenori nelle linee acute di cantus, scendendo gradualmente ai tenori, baritono e basso si ha un amalgama timbrico molto affascinante, del tutto inedito per i madrigali monteverdiani. Sappiamo che le voci femminili cantavano la musica profana (e solo quella) nelle corti italiane, ma riteniamo che tale testimonianza possa essere intesa più come eccezione che come regola: comunque, con fedeltà filologica, desideriamo offrire un’interessante alternativa alle esecuzioni registrate in passato. In omaggio agli apprezzamenti offerti a Monteverdi quale violista proprio nell’anno della pubblicazione di questo libro, inseriamo nell’organico tale strumento: recenti studi di James Bates Italian Viola da Gamba (Solignac-Torino 2002), confermano la maestria e il costante uso di tale strumento da parte del compositore.
Rispetto al Primo, il Secondo Libro offre meno alternative interpretative riguardo le cadenze e la cosiddetta musica ficta, per la maggior chiarezza di scrittura ricercata dall’autore, ma offre sempre più problematiche riguardo l’espressività vocale. Sfruttando l’approfondimento testuale e la nostra naturale sensibilità “tutta italiana”, tentiamo di attuare i precetti interpretativi suggeriti da Nicola Vicentino, già noti nel 1555: “si dè cantare le parole conformi all’oppinione del compositore, et con la voce esprimere quelle intonazioni accompagnate dalle parole con quelle passioni ora allegre ora meste et quando soavi, et quando crudeli, et con gli accenti aderire alla pronunzia delle parole et delle note (…) Si usa un certo ordine di procedere, nelle composizioni che non si può scrivere, come sono il dir piano et forte, et il dir presto e tardo, et secondo le parole muovere la misura per dimostrare gli effetti delle passioni delle parole et dell’armonia”.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.555308)

Nessun commento: