Viene da chiedersi, a questo punto, se il vissuto musicale dei fisici teorici - pratica tanto intensa quanto diffusa, affettuosamente celebrata da Philip Glass nel suo Einstein on the Beach (1976, su libretto e con la messa in scena di Bob Wilson) - non sia da leggersi come segnale di un'affinità elettiva - se non proprio di un'oggettiva identità - tra stato della musica e stato della materia: realtà, entrambe, da indagare quindi congiuntamente, quasi in osmosi, definendo così strumenti critici e di pensiero ulteriormente raffinati ad arricchire, ciascuno, la percezione della vita e del significato dell'altro. Molta ricerca opera da tempo in questo senso e i contributi sono davvero assai suggestivi. Da ritenersi - e solo a titolo di campionatura - sono due casi particolarmente interessanti: l'astrofisico vietnamita Trinh Xuan Thuan che assume la musica a massimo criterio di lettura dell'Universo; il pensiero del fisico e matematico americano Brian Greene intorno alle "superstringhe, dimensioni nascoste" e alla "ricerca della teoria ultima" di cui tratta nel suo splendido saggio intitolato L'universo elegante ove la musica irrompe drammaficamente:
La musica è da sempre una ricca fonte di metafore per chi medita sui misteri del mondo. Dalla "musica delle sfere" dei pitagorici all'"armonia della natura", spesso invocata nei secoli, l'uomo ha continuato a cercare la melodia del mondo nei moti regolari dei corpi celesti come nelle violente manifestazioni del mondo subatomico. Con le superstringhe la metafora diventa straordinariamente vera: secondo questa teoria, il mondo microscopico è pieno di piccole corde di violino, i cui modi di vibrazione orchestrano l'evoluzione del cosmo. I venti del cambiamento in questo scenario spirano in un mondo soffuso di melodie.
D'altronde, lo scienziato vietnamita, nel saggio intitolato Le chaos et l'harmonie, ci ricorda che
per fabbricare la complessità la Natura scommette sul non-equilibrio, nella misura in cui le strutture nascono solo a partire da situazioni fuori equilibrio. La simmetria è interessante solo a partire dal momento in cui viene infranta. La materia genera l'inedito lontana dall'equilibrio. L'ordine perfetto è sterile, mentre il disordine controllato è creativo, il caos determinista portatore di novità. La natura innova; crea forme belle e variate che non possono più essere rappresentate da linee rette o da semplici figure geometriche, ma da curve più complesse che Benoit Mandelbrot ha definito "frattali".
Va tuttavia notato quanto, curiosamente dal nostro punto di vista, nel succitato testo di riferimento, Benoit Mandelbrot e i numerosi scienziati (in maggior parte astrofisici) che egli vi nomina, non parlano mai di musica. D'altronde gli stessi musicisti interessati alla teoria dei frattali invertono sempre l'ordine dei fattori pensando a composizioni specificamente modellate su singoli oggetti frattali e non mai all'insito carattere frattale - insomma alla "frattalità" - di qualsivoglia musica, di per sé...
Ciò detto è comunque indiscutibile il fatto che nessun passo innovatore potrà più farsi in musica se non la si concepisca come incarnazione di infinite sequenze di frattali autonomi, oggettivi, pur polifonicamente coesistenti e per ciò stesso iscritti d'ufficio nel novero universale di quanto sbrigativamente denominiamo "Natura".
A questo punto prende "nuova forza" un'intuizione filosofico-musicale di grande attualità, pur praticamente dimenticata, esclusa com'è oggi - dalla vita delle idee correnti in questo ambito. A partire dalla seconda metà del Novecento una magnifica produzione parigina dell'opéra-ballet Les Indes galantes di Jean-Philippe Rameau (1735) - addirittura promossa dallo stesso général De Gaulle - ha segnato il ritorno, dopo due secoli di oblio, di un personaggio fondamentale nel panorama storico della musica europea, amatissimo da Johann Sebastian Bach e, come Bach, archiviato troppo rapidamente forse perché "tropp'alto" era il segno complessivo del suo pensiero musicale. E non si tratta solamente della sua figura di compositore, ormai ampiamente celebrata, ma dell'eminente suo ruolo filosofico e teorico. Ruolo che, pur doverosamente riconosciuto, non ha invece goduto di un processo comparabile di piena riabilitazione. Intanto, dei suoi principali testi teorici - il Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels (Trattato dell'armonia ricondotta ai suoi principi naturali, Paris, 1722) e le Observations sur notre instinct pour la musique (Osservazioni sul nostro istinto per la musica, Paris, 1754) - a meno di novità editoriali recentissime, non esistono ancora oggi edizioni moderne: per leggerli occorre infatti rifarsi a mere riproposte delle edizioni originali in forma di reprints e, oltre il carattere reverenziale del doveroso ricordo - e la premura di qualche isolato studioso, come Joseph François Kremer - le tesi di Rameau rimangono praticamente intonse: ammutolite dal flusso di una successiva trattatistica scolastica che nel prendere di petto in maniera alquanto restrittiva alcune delle tesi di Rameau (quali la cosiddetta teoria dei rivolti o quella degli armonici generatori), isolandole dal contesto - sembra solamente mirata (con le dovute, importanti, eccezioni!) al trasmutare un sistema filosofico incompreso - quindi rimosso - in amorfi manuali, mere sequenze di cospicui ricettari, onde poter codificare norme rigorosissime di cui non vengono mai legittimati l'eventuale senso profondo o, comunque, la ragion d'essere.
A osservare, ancora oggi, le faticose, penosissime, lezioni di solfeggio, di armonia e contrappunto nei conservatori, viene immediatamente da ascriverle alle pratiche ossessive, alle infinite melopee o iterazioni rituali delle madrasse coraniche o delle scuole rabbiniche, comunque ben altrimenti motivate!
Il richiamo di Rameau - variamente argomentato nelle sue opere - ai principes naturels costituisce un grido, ancora soffocato dai batisseurs, non di chissà quale sublime cathédrale (in questo caso davvero engloutie!), ma di quell'incongrua fortezza musicologica, plasmata da un pensiero sordo, inconsapevole del suo essere baluardo del nulla nel deserto dei tartari...
Certo, evocare la Natura sembra ingenuo e può essere dannosissimo: ne basterebbe il pretesto per far rientrare dalla porta chiari di luna, varia pastorizia e altre banali amenità giustamente messe a tacere da un diverso, più pertinente, approccio critico. Anche se non sia proprio da considerarsi solo "di maniera" il cospicuo, costante ricorso all'universo di pastori, ninfe e altre creature boschivé, forestali o di pianura in tutta la produzione musicale europea sin dagli albori e fino a oggi (e gronderà di uno splendido sense of bumour l'ammiccante, grottesca, aria di Polifemo in Acis and Galatea di Händel: "Oh! The pleasures of the plains, Happy nymphs and happy swains").
Ma nel suo Traité il riferirsi di Rameau ai principes naturels ha ben altro sapore in quanto esplicito richiamo - colto e aggiornato - al pensiero musicale dei greci, da Platone e Aristotele ai pitagorici, da Aristosseno di Taranto a sant'Agostino, pensiero a sua volta arricchito dal contributo di altri filosofi isolati, come il teorico musicale Gioseffo Zarlino, da Venezia.
E occorrerebbe comunque meglio integrare l'opera di Rameau, nel suo complesso, non solo all'universo del classicismo francese ma, soprattutto, di René Descartes: da Cartesio - che aveva notato il fenomeno musicale della risonanza - Rameau derivò infatti la possibilità di una serie di applicazioni nuove e complesse:
mi chiesi come si fosse giunti a ottenere del canto. Illuminato dal metodo di Cartesio che avevo felicemente letto e che mi aveva colpito, incominciai col scendere in me stesso; provai alcuni canti, più o meno come un bambino che dovesse provare a cantare.
Paolo Terni (da "Il respiro della musica", Bompiani, 2011)
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