Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

Visualizzazione post con etichetta Longhini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Longhini. Mostra tutti i post

domenica, agosto 22, 2021

Claudio Monteverdi & Marco Longhini

Frai
Claudio MONTEVERDI
(1567-1643)

Musicista (Cremona 1567 - Venezia 1643), figlio del medico Baldassarre. Studiò contrappunto e viola con M. A. Ingegneri. Passò poi, ventiduenne, alla corte di Mantova quale violista e, dal 1603, maestro di cappella. Dal 1613 alla morte ebbe tale titolo a S. Marco a Venezia. Compì viaggi in Ungheria, nelle Fiandre (importante quest'ultimo per le sue esperienze artistiche) oltre che a Roma, Milano, Bologna, ecc. Dalla moglie Claudia Cattaneo, morta nel 1607, ebbe due figli: Francesco, che fu musicista, e Massimiliano. Carattere dell'arte monteverdiana è l'estrema, quasi ostentata (ma non mai fine a sé stessa) libertà da ogni teoria, in vista della massima intensità espressiva nella più ridotta semplicità dei mezzi. Servire l'espressione del testo (dell'"oratione" com'egli diceva), valendosi per questo della melodia e del ritmo e, in modo ancora inusitato, dell'armonia, fu il suo segreto. Il quale determinò contro di lui le più acri animosità da parte dei tradizionalisti e, in particolare, del canonico G. M. Artusi. Pure richiamandosi ai modi tonali medievali. M. contribuiva con le sue dissonanze non "preparate" a sviluppare il senso delle funzioni che si congegnano nella tecnica tonale moderna. Sempre in regime di polifonica compattezza, già il I libro dei Madrigali a 5 voci (pubbl. 1587) mostra audacia armonica (quinte e ottave parallele, dissonanze, ecc.) e melodica (salti di nona e undecima) che serve però all'espressione musicale delle parole più importanti. Nel II libro (1590) compaiono musiche mai più superate da altri compositori per la immateriale loro perfezione, e stilisticamente interessanti per la frequente adozione della struttura ternaria in seguito tanto fortunata. Un primo saggio di rottura della compattezza polifonica mediante ricorso a passi in stile recitativo, il rilevarsi di una sulle altre voci e l'annuncio della tonalità moderna si notano nel III libro (1592) e ancor più nel IV (1604) e nel V (1605). Le "false relazioni", gli accordi di 5ª, di 9ª, gli intervalli di tritono, di 5ª minore, di 7ª diminuita, non preparati, si risolvono in cadenze tonali moderne. Recitativi e "concertati" (dialoghi o monologhi commentati da voci e da strumenti) si aprono spesso qua e là. Novità di grandissimo rilievo, anche per la disposizione delle parti in concorso, conducono dal VI (1614) al VII (1619) e all'VIII libro (Madrigali guerrieri ed amorosi, 1638) a suprema varietà e libertà di atteggiamenti, ove il contrappunto è spesso ridotto per favorire il coro ad accordi verticali tra i quali si inquadrano passi monodici o dialoghi a 2 o a 3 voci. Nascono in tale ambiente composizioni come il dialogo concertato a 7 Presso un fiume tranquillo, libro VI (ove il coro racconta la vicenda e i solisti rappresentano i personaggi, come accadrà nel corso del Seicento con la cantata) o alcuni concertati che saggiano vari strumenti (VII, VIII), balletti melodrammatici in stile rappresentativo quali Il Ballo delle ingrate e Il combattimento di Tancredi e Clorinda, il secondo con una voce (quasi di Storico da oratorio) per narrare la vicenda e una per ciascuno degli attori. Qui M., per completare l'effetto dell'"oratione", si giova anche di uno "stile concitato" a mo' del tempo pirrichio dei Greci, rendendovi il tremolo degli archi. Altri madrigali e arie in recitativo, canzonette e madrigali a 2 e a 3 voci apparvero poi sotto vari titoli nel 1632 e, postumi, nel 1651. Il genio di M., per eccellenza drammatico, aveva già nei madrigali e nelle diverse musiche sacre che veniva producendo affermazioni chiarissime. Anche più deciso il tratto drammatico, o comunque il rappresentativo (che è tratto barocco) nelle opere che M. scrisse per il teatro. Già nell'Orfeo (testo di A. Striggio junior, Mantova 1607) il melodramma raggiunge, pochi anni dopo la sua nascita, vette difficilmente superabili, specie per l'equilibrio tra i momenti esplicitamente narrativi (ossia d'azione) e lirici, risolti gli uni negli altri senza sensibile discontinuità. Ingagliardita l'espressione nei recitativi; rivolto il declamato più che alla singola parola all'empito affettivo dell'intera frase e situazione drammatica; ricchezza, sino allora inaudita, di moti musicali, dal canto a solo a quello a più voci, dal monologo ai cenni di dialogo, dalla strumentalità alla vocalità. Della seconda opera, Arianna (Rinuccini, Mantova 1608), rimane la musica del celebre Lamento scritta nell'impressione della morte della moglie Claudia; essa testimonia della purezza ellenica cui era giunta la pur intensa e fervidissima espressione dell'arioso monteverdiano; la fortuna che arrise a questo lamento indusse M. a comporne anche una versione polifonica. Dalle ricchezze dell'orchestra mantovana si passa, con Il ritorno di Ulisse in patria (G. Badoaro, Venezia 1642), a ridotte schiere strumentali e vocali. Dopo questa opera in parte affrettata si arriva all'ultima, L'incoronazione di Poppea del 1643 (perdute sono andate le musiche di La finta pazza Licori, Mercurio e Marte, Vittoria d'Amore, Adone, Le nozze di Enea e Lavinia e tutta l'Andromeda [in collaborazione] tranne un minuscolo frammento del prologo), nella quale M. seppe compensare le veneziane deficienze di mezzi vocali e strumentali sia con il geniale partito tratto dal materiale disponibile (per es., alla morte di Seneca, con l'ascendente implorazione dei discepoli, che supplisce a una massa corale) sia con una nuova varietà tra forme chiuse e recitativo, con un'audacissima intensificazione del linguaggio (specialmente in fatto di armonia) e soprattutto con la più ricca e intimamente drammatica invenzione melodica. Introduceva il maestro nella storia dell'arte musicale un capolavoro, specie per la complessità di vita nel personaggio, giustificante il raffronto, spesso proposto dagli studiosi, con il dramma shakespeariano. E l'Incoronazione può esser considerata una delle pietre miliari del dramma musicale attraverso i secoli. Molto ricca è anche la produzione monteverdiana di genere sacro e religioso, che dalle Sacrae Cantiunculae a 3 voci (1582), attraverso la raccolta del 1610 giunse a quella del 1651. La raccolta raduna musiche di diverso carattere: una Messa, per es., in onore della B. Vergine, a 6 voci, ultima riassunzione (con l'altra Messa del 1641) di stilistiche già dissuete, e i concerti sacri, ben più liberi nello slancio impetuoso del ritmo, nel sorprendente mutarsi delle disposizioni foniche, nel vivace gioco coloristico delle voci e degli strumenti: pagine ferventi d'un lirismo di tono barocco. Dopo una lunga parentesi d'oblio, M. è stato ripreso in considerazione (basti pensare alla riedizione di tutta la sua musica, a cura di G. F. Malipiero) quale uno dei più grandi maestri della civiltà musicale. (Treccani)

Delitiae Musicae
voci: Costa, Carmignani, Fanciulacci, Fùrnari, Scavazza, Testolin
strumenti: Piantelli, Leoni, Contadin, Colonna
Marco Longhini
Chiesa di Novaglie (VR) - 6-10 giugno 2001
Naxos Early Music 8.555307 DDD 1 CD (63:47) | (p) 2002
Delitiae Musicae
voci: Costa, Carmignani, Fùrnari, Fanciulacci, Scavazza, Vargetto
strumenti: Eguez, Gato, Leoni, Colonna
Marco Longhini
Chiesa di San Briccio, Verona - 27-31 luglio 2001
Naxos Early Music 8.555308 DDD 1 CD (62:24) | (p) 2003
Delitiae Musicae
voci: Carmignani, Schofrin, Ghiringhelli, Fùrnari, Fanciulacci, Scavazza, Testolin
strumenti: Piantelli, Leoni
Marco Longhini
Chiesa di San Pietro in Vincoli, Azzago (VR) - 26-31 maggio 2002
Naxos Early Music 8.572136 DDD 1 CD (69:06) | (p) 2004

Delitiae Musicae
voci: Carmignani, Costa, Fùrnari, Fanciulacci, Scavazza, Testolin
strumenti: Piantelli, Leoni
Marco Longhini
Chiesa di San Pietro in Vincoli, Azzago (VR) - 28 luglio / 2 agosto 2002
Naxos Early Music 8.555310 DDD 1 CD (73:46) | (p) 2005

Delitiae Musicae
voci: Carmignani, Costa, Fùrnari, Fanciulacci, Scavazza, Testolin, Arrivabene, Allegrezza, Benetti
strumenti: Piantelli, Leoni, Bonetti, Contadin, Prada, Angilella Dell'Agnello, Colonna
Marco Longhini
Chiesa di San Pietro in Vincoli, Azzago (VR) - 5-10 aprile 2003
Naxos Early Music 8.555311 DDD 1 CD (78:34) | (p) 2006

Delitiae Musicae
voci: Carmignani, Costa, Arrivabene, Fùrnari, Fanciulacci, Scavazza, Testolin
strumenti: Bonetti, Piantelli, Leoni, Zanon, Mares, Cagnetta, Contadin, Bovo, Colonna
Marco Longhini
Chiesa di San Pietro in Vincoli, Azzago (VR) - 21-25 luglio 2003 (Sesto Libro)
Chiesa di San Pietro in Vincoli, Azzago (VR) - 14-18 maggio 2006 (altro)
Naxos Early Music 8.555312-13 DDD 2 CD's (68:48 & 76:32) | (p) 2007

Delitiae Musicae
voci: Carmignani, Costa, Fùrnari, Fanciulacci, Scavazza, Radaelli, Testolin
strumenti: Bonetti, Piantelli, Leoni, Gugole, Mares, Cabrio, Pedronetto, Contadin, Pasetto, Prada, Galligioni, Sbrogiò, Rosasalva, Favaro, Dellisanti
Marco Longhini
Chiesa di San Briccio, Verona - 29 aprile / 5 maggio 2004
Naxos Early Music 8.555314-16 DDD 3 CD's (58:14, 61:20 & 43:11) | (p) 2008

Delitiae Musicae
voci: Carmignani, Costa, Fùrnari, Fanciulacci, Scavazza, Longo, Testolin, Benetti, Borciani
basso continuo: Graziolino, Prosser, Piantelli Contadin, Leoni, Zanon, Rossi, Prada, Yacus
viole da gamba: Contadin, Prada, Croce, Cernuto
archi barocchi: Mares, Baldan, Pedronetto di Vincenzo, Bovo,Sbrogiò Rosasalva, de Ziller, Dellisanti 
Marco Longhini
Chiesa di San Briccio, Verona - 3-10 giugno & 11-20 luglio 2005
Naxos Early Music 8.573755-58 DDD 4 CD's (55:57, 58:37, 59:12 & 47:55) | (p) 2017

"Scherzi musicali" (1632)
Delitiae Musicae
voci: Carmignani, Costa, Fùrnari, Fanciulacci, Scavazza, Testolin
strumenti: Mares, Baldan, Bovo, Piantelli, Prosser, Leoni, Zanon
Marco Longhini
Chiesa di San Pietro in Vincoli, Azzago (VR) - 14-18 maggio 2006
Naxos Early Music 8.555318 DDD 1 CD (74:37) | (p) 2019

Marco Longhini
Si diploma in Direzione d’orchestra al Conservatorio di Milano e si laurea in Architettura a Venezia (con una tesi dedicata al rapporto fra spazio urbano e spettacolo), dopo o diplomi in Composizione, Canto, Musica Corale e Direzione di Coro al Conservatorio di Padova
Ha diretto orchestre italiane (Pomeriggi Musicale, Angelicum, Milano Classica, Orchestra da Camera di Mantova) e straniere (Enschede Opera House Netherland, Orquesta Ciudad de Granada).
Un lungo itinerario culturale nella musica antica italiana del XVI e del XVII secolo, insieme alla passione verso la ricerca musicologica, lo porta a fondare nel 1992 Delitiæ Musicæ, per l'esecuzione di capolavori del passato, spesso inediti. Vent'anni in questo repertorio, presentandosi in tutta Europa, ne fanno uno dei direttori più seguiti ed amati per il repertorio vocale, l'opera e l'oratorio. Con ricercata tecnica gestuale, a disposizione della sua innata espressività tutta italiana, indaga quell'antica possibilità di una certa musica barocca d'essere emotivamente coinvolgente.
A causa del suo naturale istinto verso la teatralità, Marco Longhini è un direttore molto ricercato nel repertorio operistico pre-Romantico e nella direzione di lavori scenico-rappresentativi: ricordiamo la rappresentazione dell'Orfeo di Monteverdi registrato per la RAI, la Rappresentatione di anima et corpo di Emilio de’ Cavalieri e una produzione, accolta da grande successo, dell'Orfeo di Antonio Sartorio con la regia di Pierluigi Pizzi.
Vanta una vasta discografia (che attualmente raggiunge 25 cd) fra cui spicca l'imponente integrale dei Madrigali di Monteverdi (15 cd) e l'integrale delle Opere profane di Gesualdo da Venosa (5 cd) prodotta dalla casa discografica multinazionale Naxos.
Le sue registrazioni includono inoltre Rappresentatione di anima et corpo di Emilio de' Cavalieri, premiata nel 1999 dalla critica francese con "5 Diapason" e "10 de Répertoire", i Madrigali Pazzia senile e Saviezza giovenile di Adriano Banchieri scelti dalla rivista "CD Classica" quale miglior disco nell'aprile 1999; la Messa e Litanie della Beata Vergine di Claudio Monteverdi, la Cantata e Messa Sciolto havean dell'alte sponde di Giacomo Carissimi che ha ricevuto il Premio italiano "Musica" Cinque Stelle.
Nel 2010 ha aperto il Fribourg Festival registrato dalla Radio Switzerland, eseguendo l'edizione "romana" del Vespro di Claudio Monteverdi, 1610.
Marco Longhini è docente di ruolo al Conservatorio "Luca Marenzio" di Brescia dal 1992 e insegna Direzione di Coro alla Scuola Diocesana Santa Cecilia, di Brescia.
Nel 2010 e nel 2016 è stato invitato in Russia, al Conservatorio di Mosca per tenere una serie di lezioni su Claudio Monteverdi e l'interpretazione della Musica Italiana.

Delitiae Musicae
Si presenta come una plausibile ricostruzione di una cappella musicale del Rinascimento italiano. Fondato nel 1992 da Marco Longhini, l’ensemble si è fatto rapidamente apprezzare dal pubblico internazionale come uno dei più interessanti e innovativi gruppi vocali maschili di musica antica italiana.
Richiesti da alcuni dei più importanti Festival di musica antica fra cui San Maurizio di Milano, Festival Monteverdi di Cremona, Oude Musik di Utrecht Delitiae Musicae è sempre stato accolto con entusiasmo sia dal pubblico che dalla critica.
Particolare successo hanno riscosso Il Pastor fido di Gianbattista Guarini al “Festival Claudio Monteverdi” di Cremona e al Festival “Oude Musik” di Utrecht, oltre a all’oratorio Jephte di Giacomo Carissimi in varie città spagnole.
Il percorso artistico e musicologico dell’ensemble è testimoniato da un gran numero di registrazioni discografiche che includono opere di Philippe Verdelot, Adrian Willaert, Adriano Banchieri e quattro volumi dedicati alle Messe di Pierluigi da Palestrina.
Delitiae Musicae è ora in contratto esclusivo con la casa discografica Naxos, per la quale ha registrato l’integrale dei Madrigali di Claudio Monteverdi e di Gesualdo da Venosa.
Molti i premi discografici ricevuti dall’ensemble: “Choc-Le monde de la Musique”, “9 de Répertoire” e il Premio 5 stelle della critica spagnola per il disco “Palestrina Jacquet de Mantua” Delitiae Musica. Il Vespro di Natale di Adrian Willaert e i Madrigali La Pazzia senile e la Saviezza giovenile di Adriano Banchieri sono stati scelti quali migliore produzione discografica dalla rivista “CD Classica” nel mese di aprile 1999. 

domenica, gennaio 10, 2021

Monteverdi: "Il Nono Libro" (1651) & "Scherzi Musicali" (1632)

Le ultime opere raccolte: gli Scherzi musicali e l'opera postuma
In quest'ultima registrazione delle opere complete profane, desideriamo accostare due lavori di Claudio Monteverdi, che non furono editi personalmente dall'autore, ma che vennero “raccolti” da altri promotori. La pratica di pubblicare una scelta di opere di varia estrazione, offriva la possibilità a musicisti "minori" di completare le proprie composizioni musicali con altre di autori celebri. In questi due casi monteverdiani, invece, un editore offre le composizioni di un celebre autore a un nobile dedicatario: lo stampatore quindi "raccoglie", come fossero fogli sparsi miracolosamente sopravvissuti all'ingiuria del tempo, quelle composizioni che un musicista non aveva stampato durante la sua vita. Monteverdi probabilmente le aveva ritenute meno urgenti o, relativamente, meno importanti per essere inserite in un libro proprio.
Nel doppio CD dedicato al Sesto Libro (Naxos 8.555312-13), abbiamo già proposto alcuni dei lavori che furono inseriti in pubblicazioni "miscellanee", ossia non dedicate a un unico compositore. In quella pubblicazione abbiamo raccolto opere caratterizzate dalla compresenza di diversi “eccellenti musici” o “eccellentissimi spiriti”; al contrario, in questo disco proponiamo due raccolte esclusivamente dedicate a opere monteverdiane, ma curate da altri autori. L'Ottavo, il Nono libro e gli Scherzi musicali sono accomunati da madrigali che si ripropongono e dal ricorrente tema della guerra per amore. Ricordiamo che, nonostante l'importanza dell'Ottavo libro nella cultura del tempo e nella nostra epoca, l'opera non fu mai ristampata a causa della sua monumentalità e della difficoltà oggettiva di reperire organici così vasti come quelli desiderati da Monteverdi. Nei due volumi presentati in questo CD, al contrario, sono presenti e si riespongono alcuni dei madrigali che limitano gli organici a due voci con l'accompagnamento dell'ormai onnipresente basso continuo. Sono comuni a queste due pubblicazioni, rispettivamente del 1632 e del 1651, alcuni lavori appartenenti all'Ottavo libro: non appartenenti a quest'ultima opera, ma ricorrenti nei due volumi, segnaliamo i brani "Zefiro torna" e "Armato il cor". Quest'ultimo madrigale è presente nell'Ottavo Libro "Madrigali guerrieri e amorosi" insieme ad "Ardo, e scoprir, ahi lasso" e "O sia tranquill’il mare". Sono quindi quattro i madrigali presenti nell'Ottavo libro ed esibiti anche nel Nono. Un filo sottile lega dunque queste tre pubblicazioni dell'ultimo Monteverdi.
Come abbiamo già sottolineato nella corposa prefazione al precedente box in quattro CD, l'Ottavo libro non fu mai più ripubblicato, ma a distanza di diversi anni si ritenne di rinnovare la memoria di alcuni lavori giustamente famosi anche nel libro postumo. Quest'ultimo raccoglie poi quanto di più variegato poteva offrire il mercato dei manoscritti monteverdiani ancora inediti.
Abbiamo scelto di evitare al nostro ascoltatore di ripresentare quei madrigali che sono già stati da noi eseguiti in precedenza: questa decisione permette di ascoltare tutti i nuovi brani di queste due raccolte (completando i madrigali del nostro musicista) e offre nuove versioni dei brani che vengono così cantati integralmente. Evitando le melodie da noi già pubblicate, abbiamo ritenuto prioritario eseguire tali brani nella completezza originale, con tutti i ritornelli e tutte le strofe, così come desiderato dall'autore (vedi l'ultimo madrigale "Ed è pur dunque vero" degli Scherzi, che è sempre eseguito senza considerare i ritornelli scritti in partitura).
In quest'ultimo volume dell'opera profana di Monteverdi vogliamo dunque riunire le opere "tarde", sperando di offrire l'opportunità di ascoltare l'ultima produzione del "divino Claudio" nella sua integralità.

Gli Scherzi musicali, 1632
Pubblicata a Venezia nel 1632 (quando Claudio Monteverdi era a Venezia e non aveva ancora pubblicato il suo testamento musicale profano, l'Ottavo libro, del 1637) questa raccolta di Bartolomeo Magni sopravvive solo grazie all'unica copia conservata in Polonia. Magni ebbe una grande ammirazione per Monteverdi e, dopo aver ereditato la stamperia di Angelo Gardano, ripubblicò i primi sette libri, la Lettera amorosa e il Lamento d'Arianna. Infine ecco questo piccolo volume di sole 52 pagine (quindi poco costoso e alla portata di tutti): “Da preghiere de virtuosi son stato necessitato dar alle stampe queste poche Ariette”. In effetti, confrontato con i "Madrigali guerrieri e amorosi”, è sicuramente un “picciol libretto, grande però rispetto all'animo mio et di molta stima, essendo compositioni del Signor Claudio Monteverde Maestro di cappella di questa Serenissima Repubblica”. Magni definisce “ariette” queste composizioni, non tanto per la loro forma, ma per la mancanza “di complessità o di impegno compositivo dei brani radunativi (...) Tutto concorre a mettere in evidenza la 'minorità' di questa raccolta: le dimensioni tutt'altro che rilevanti, la leggerezza del genere prescelto 'lo scherzo' ” (Paolo Fabbri, Monteverdi, 1985). Tranne i due brani per due tenori (veri e propri madrigali), cinque brani sono a voce sola con accompagnamento di basso continuo; unica anomalia all'uso del solo basso continuo come accompagnamento è il madrigale "Ed è pur dunque vero" che necessita anche della partecipazione di un violino al quale affidare alcuni ritornelli strumentali.
Le “ariette”, forma musicale che evolve la “canzonetta”, vennero di moda all'inizio del Seicento e furono assai amate dai cantanti, sia professionisti sia dagli amatori, per la loro facilità di ascolto (che ricorda la nostra cosiddetta “musica leggera”). Molte le pubblicazioni che si offrivano sul mercato con questa forma: da Cifra a Kapsberger, da Stefani a Milanuzzi, erano molti i libri che contenevano “ariette”.
Storicamente, in quel 1632, Venezia usciva dall'epidemia di peste che aveva mietuto moltissime vittime. Ammirevole, ed economicamente mirato da parte di Bartolomeo Magni, aver pensato di offrire qualcosa di “leggero”; il fatto che le opere contenute fossero firmate dal più celebre e ammirato musicista ormai naturalizzato veneziano, avrebbe potuto tradursi in un successo editoriale.
Come abbiamo già evidenziato, queste ariette non sono veri e propri “madrigali”, in quanto la presenza di ritornelli strofici non permette tale definizione: il madrigale musicale (quale “forma senza forma”) esige che la musica sgorghi dal testo che lo genera e dalla parola che lo ispira.
"Ecco di dolci raggi il sol armato", in questa stampa del 1632, è disgiunto dal successivo "Io che ho armato sin hor di duro gelo": Bartolomeo Magni intercala questi due brani con "Ed è pur dunque vero" probabilmente per ragioni editoriali. L'identità fra i due frammenti è offerta dal medesimo metro usato e dal refrain che conclude allo stesso modo i due brani, “arda dunque d'amor, arda ogni core”. Abbiamo ritenuto di unire i due brani gemelli anche perché, nel successivo “Madrigali e arie” di Giovan Battista Camarella pubblicato nel 1633, furono pubblicati accoppiati. “Quel sguardo sdegnosetto” è particolarmente affascinante: gli ostinati che vengono proposti al basso si fondono mirabilmente con l'espressività del canto, che esplode in vorticose note sulle parole “nembi” e “ardo”, per acquietarsi su “ma'l labbro non sia tardo”: ultimi madrigalismi più che mai presenti in questa raccolta.
Prima della ciaccona “Zefiro torna”, troviamo “Ed è pur dunque vero” che si basa anch'esso su un basso ostinato (alla maniera della ciaccona). Questo madrigale, nel quale il pastore Fileno lamenta l'abbandono dell'amata ninfa Lidia (ancora una volta un personaggio maschile che ha la voce di soprano: controtenore o castrato), è solitamente eseguito senza i necessari ritornelli. Nell'edizione della Fondazione Claudio Monteverdi che pubblicò gli “Scherzi musicali” nel 2002, il revisore Frank Dobbins (ricercando storicamente alcune soluzioni) si arrampica sugli specchi, inseguendo soluzioni improbabili per tali ritornelli. Probabilmente tali ripetizioni non sono chiare nella partitura di Monteverdi-Magni, ma in accordo con la linea sostenuta dal citato Paolo Fabbri, abbiamo ritenuto di eseguire il brano come se fosse di destinazione teatrale (con le ripetizioni collocate dove sono inserite nell'edizione del 1632), cioè come se tali ritornelli strumentali fossero quei “passeggi” scenici necessari al cantante per cambiare posizione sul palcoscenico. Questa soluzione dissente totalmente dall'edizione di Dobbins, e rende il brano molto più lungo delle interpretazioni proposte fino a oggi, ma offre una completezza esecutiva che non è stata mai considerata nelle esecuzioni moderne. Tale completezza è sempre stata per noi un imperativo, un modus operandi, al quale crediamo sia corretto adeguarsi al fine di offrire un'esecuzione coerente ai moderni criteri della cosiddetta ”autenticity music”, secondo gli studi della prassi esecutiva oggi consolidata.

Un libro postumo: il Nono Libro, 1651
Claudio Monteverdi morì nel 1643 a 76 anni. Venezia gli offrì una sepoltura da uomo illustre: fu tumulato nella Chiesa dei Frari in una cappella laterale del transetto, a fianco della celeberrima e ammirata "Assunta" di Tiziano, capolavoro indiscusso della pittura Rinascimentale.
Alessandro Vincenzi aveva già pubblicato l'Ottavo libro e, nella dedica del 27 giugno 1651 a Gerolamo Orologio, scrisse “il Signor Claudio Monteverde, uno dei primi lumi del nostro secolo della musica, m'onorò mentre visse, d'alcuni suoi musicali concerti”. Le musiche quindi sembrerebbero essere già state consegnate a Vincenzi in precedenza (forse all'epoca dell'Ottavo libro), ma probabilmente non avevano avuto spazio sufficiente in quell'edizione già corposa. Nei madrigali riproposti dal precedente volume, notiamo pure una assomiglianza tipografica: in pratica, in tali madrigali, la matrice generante è sempre la stessa. Tale caratteristica avvalora la tesi, anteriormente esposta, che questo libro sia uscito per conferire una maggiore snellezza all'Ottavo. Al termine dei libri-parte (ogni esecutore aveva il proprio volume per cantare o suonare), l'editore scriverà anche: "cortese lettore, non vi maravigliate se in questa opera vi trovarete alcuni madrigali già stampati nel Libro ottavo solo li ho stampati in quest'opera per più comodità de vertuosi".
Le sedici composizioni sono suddivise in base alla diversa struttura testuale: le prime sei sono a due voci e sono madrigali veri e propri, mentre le altre dieci sono canzonette in quanto utilizzano un testo strofico.
La nostra scelta di preannunciare l'iniziale scena amorosa "Bel pastor" con una sinfonia avanti la scena di Biagio Marini (1594-1663), la Sinfonia I a tre, op.8, 1629, potrebbe risultare arbitraria. La decisione è però in linea con le precedenti conclusioni operate nei libri monteverdiani che abbiamo pubblicato. Il "Bel pastor" è un soggetto intimamente legato al teatro e, come tale, sembra realmente una scena estratta da un'opera: infatti, più che essere un madrigale, sembra un vero e proprio duetto in cui interagiscono due personaggi. Nel precedente libro monteverdiano, abbiamo imparato quanto labile sia il terreno del madrigale: basta la rappresentazione perché un'ansiosa pastorella con voce di soprano e un puntiglioso pastore (tenore o baritono) possano trasformare il madrigale in un duetto scenico amoroso che ancora oggi fa commuovere, sorridere e intenerire. Il loro idillio amoroso “muove agli affetti” come il grande maestro sa sempre fare, ma questi sono sdrammatizzati da refrain ricorrenti: come che? come te, pastorella tutta bella” e dalla facile cantabilità interna. Anche in questo caso, la frase iniziale che deve essere ripetuta nell'originale (e non si sa mai come eseguire perché meramente ripetitiva) entra in contatto con la sinfonia iniziale che giustifica la funzione scenica di tale replica.
Fra i brani più celebri di Monteverdi, di questo Nono libro e degli Scherzi, “Zefiro torna” è incontestabilmente un vero capolavoro che, giustamente, conquista una sua collocazione nella storia della musica. Rifiutando le varie fantasiose e inverosimili esecuzioni a cui è spesso soggetto questo brano, vittima della propria notorietà, abbiamo scelto di offrire l'essenzialità con il sicuro effetto di proporre un brano che, a nostro parere, non necessita di orpelli esecutivi e fantasiose addizioni. Due tenori scorrono le loro melodie su un basso ostinato a forma di ciaccona, che si ripete per ben sessanta volte.
La ciaccona è una forma di danza in tempo ternario su un basso sincopato ostinato, con un carattere vivace e scherzoso. Nell'ambiente italiano romano e meridionale, la ciaccona aveva affascinato autori come Girolamo Frescobaldi e Andrea Falconieri, ma poi era stata esportata al nord e successivamente anche in Francia, dove divenne forma protagonista in alcuni balletti, suite e opere. Più tardi questa forma conquistò anche Heinrich Schütz e Johan Sebastian Bach (celebre la ciaccona nella Seconda Partita per violino solo). Il testo di Rinuccini, che riecheggia il testo di Petrarca "Zefiro torna e'l bel tempo rimena" (già musicato da Monteverdi nel Sesto Libro: Naxos 8.555312-13, CD 1, Track 5), ripercorre alcune sensazioni liete del risveglio della natura e della primavera imminente, in contrasto con la desolazione dell'animo del poeta.
L'editore Vincenzi, che probabilmente aveva nel suo cassetto altri manoscritti del maestro scomparso, termina la dedica affermando: "presto se piace a Dio avrete altre (sue) opere nove". Purtroppo la promessa non fu mantenuta e quindi completiamo questa integrale monteverdiana con un velo di tristezza, ma appagati per l'onore di essere gli esecutori di questo grande progetto della Naxos e nella speranza di avervi regalato ore di musica, tanto affascinanti quanto indimenticabili.
Marco Longhini
(note al cd Naxos 8.555318)

domenica, maggio 28, 2017

Monteverdi: "Ottavo Libro de' Madrigali" (1638)

Pietro della Vecchia
('Muttoni') - (1605-1678)
La ricerca de “l’affetto dell’animo”.
 
Stampato a Venezia nella tipografia di Alessandro Vincenti nel 1638, questo voluminoso libro raduna molte opere emblematiche del Monteverdi maturo, nonché alcuni fra i più importanti capolavori della storia della musica. Malgrado la considerevole notorietà delle opere incluse, che rese celebre il nome di Claudio Monteverdi, questo libro non fu mai più ristampato e oggi sopravvive solo grazie a tre esemplari completi conservati a Bologna, Parigi e Washington.
Inseguendo un ordine cronologico nella collocazione di questo libro, annotiamo che diciannove anni lo separano dal precedente Settimo Libro di madrigali “Concerto”; venne pubblicato cinque anni prima della morte dell’autore; il volume è stato preceduto da gli “Scherzi musicali” del 1632, mentre il successivo Nono Libro fu stampato postumo, nel 1651; pochi altri brani vengono editi in varie raccolte.
La dedica celebra Ferdinando III d’Asburgo, da poco divenuto imperatore nel 1637. Monteverdi probabilmente pensò di ossequiare il genitore del dedicatario, Ferdinando II e sua moglie Eleonora Gonzaga, principessa di Mantova, che sposò nel 1622 in seconde nozze. Ferdinando morì nel 1636, probabilmente proprio quando il libro doveva essere pronto. Se questa pubblicazione rivolge lo sguardo a nord, al sacro romano impero, è sempre evidente il legame affettivo con la città di Mantova e con la famiglia Gonzaga che per tanti anni il musicista aveva servito. Monteverdi, oramai felicemente e orgogliosamente veneziano perché Maestro di Cappella della Serenissima Repubblica (come riporta il frontespizio), dopo tanti anni di silenzio editoriale, raduna le opere che ritiene più importanti della sua produzione e le raggruppa in questo corposo volume. Come accadrà per la solenne pubblicazione veneziana di musica sacra, la Selva morale e spirituale del 1640, Monteverdi costruisce un libro che è il più composito, il più frazionato, invero il più differenziato, almeno riguardo ai fini, alle funzioni; nella fastosa galleria esplode quell’universo di suoni variegato e multiforme che annunziavano i libri del 1605 e 1614: l’iniziale sfaldatura dell’assetto polifonico, l’alone strumentale evocato dal continuo, sfatta la compagine madrigalesca convenzionale, cercata ogni nuova virtù sonora (Claudio Gallico, Monteverdi, 1979).
Numerosi madrigali, qui contenuti, furono composti ed eseguiti molti anni prima: è lo stesso autore ad ammetterlo nella dedica che precede le note musicali. L’ampio brano di chiusura, il Ballo delle ingrate, ad esempio, è mantovano a tutti gli effetti in quanto fu eseguito nel 1608 (lo collochiamo dopo pubblicazione del Quinto Libro e un anno dopo la rappresentazione dell’Orfeo del 1607), sette giorni dopo la prima rappresentazione dell’Arianna (purtroppo perduta tranne il famoso Lamento), in quei sontuosi festeggiamenti per le nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia. Monteverdi riprende questo brano inedito (al quale evidentemente teneva particolarmente) adattandone il testo per un’occasione “imperiale”. Diverse possono essere le ipotesi per la ripresa dell’opera: ipotizziamo la festa d’incoronazione di Ferdinando III, oppure l’incoronazione del padre Ferdinando II, ma potrebbe essere avvenuta anche per una delle due nomine ad imperatore.
Il Combattimento di Tancredi e Clorinda venne pure eseguito nel 1624 in un Palazzo veneziano, molti anni prima del 1638. Persino il duetto Armato il cor fu pubblicato precedentemente, negli Scherzi Musicali del 1632.
Riorganizzare il madrigale
In questo Ottavo libro, Monteverdi desidera proseguire la tipologia di pubblicazioni inaugurata con il Settimo libro “Concerto”, proponendoci alcuni “madrigali” di varia estrazione. Egli però non raduna casualmente i suoi brani ma desidera ordinare e giustificare tutto il materiale sonoro per categorie, secondo una rigorosa e ragionata tripartizione. Il numero tre ha un ruolo fondamentale e compare già nell’intestazione: Madrigali guerrieri - Madrigali amorosi - Madrigali rappresentativi.
Frequentemente ci si dimentica di inserire quest’ultima categoria, limitandosi alle prime due. Tale errore è causato dalla grafia del frontespizio che attribuisce alla terza un carattere più minuto, tanto da sembrare solo una categoria esplicativa: con alcuni opuscoli in genere rappresentativo, che faranno per brevi episodij fra i canti senza gesto. In realtà quest’ultima tipologia, insieme al numero tre, risuonano troppo spesso per essere fortuiti. Studiando la prefazione, rivolta agli intenditori, noi comprendiamo il senso del progetto monteverdiano:
 
CLAUDIO MONTEVERDE A CHI LEGGE
Avendo io considerato le nostre passioni (o affezioni dell’animo) essere tre le principali cioè Ira, Temperanza e Umiltà (o supplicazione) come bene i migliori filosofi affermano (...) e come l’arte della musica lo notifica chiaramente in questi tre termini di concitato, molle e temperato, né avendo in tutte le composizioni dei passati compositori potuto ritrovare esempio del concitato genere, ma bensì del molle e temperato (genere però descritto da Platone nel terzo [libro] della Retorica con queste parole: «Suscipe harmoniam illa quae ut decet imitatur fortiter euntis in proelium, voces, atque accentus» [esegui quell’armonia che, come conviene, imita con forza le voci e i ritmi di chi va in battaglia] (...), mi posi con non poco mio studio e fatica per ritrovarlo (...) E’ tempo veloce (...) usato l’esaltazioni belliche, concitate, e nel tempo spondeo, tempo tardo (...) udii in questo poco esempio la similitudine dell’affetto che ricercavo (...) Diedi di piglio al divin Tasso, come poeta che esprime (con ogni proprietà e naturalezza) con la sua orazione, quelle passioni che tende a voler descrivere; ritrovai la descrizione che fa del combattimento di Tancredi e Clorinda, per aver io le due passioni contrarie da mettere in canto: guerra, cioè preghiera, e morte. L’anno 1624, fattolo poscia udire ai migliori della nobile città di Venezia, in una nobile stanza dell’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Girolamo Mozzenigo (Cavalier principale e nei comandi della Serenissima Repubblica) di primi e mio particolar padrone e parzial protettore, fu con molto applauso ascoltato e lodato. Il qual principio, avendolo veduto a riuscire alla imitazione dell’ira, seguitai a investigarlo maggiormente con maggiori studi; e ne feci diverse composizioni altre, così ecclesiastiche come da camera; e fu così grato tal genere anche ai compositori di musica, che non solamente l’hanno lodato in voce, ma anche in penna, a l’imitazione mia l’hanno in opera mostrato a molto mio gusto e onore. Mi è parso bene perciò il far sapere che da me è nata l’investigazione e la prova prima di tal genere, tanto necessario all’arte musica, senza il quale è stata si può dire con ragione fino a ora imperfetta, non avendo avuto che due generi: molle e temperato (...) Le maniere di suonare devono essere di tre sorte: oratoria, armonica e ritmica. La ritrovata da me del qual genere da guerra mi ha dato occasione di scrivere alcuni madrigali da me intitolati guerrieri, perché la musica dei gran principi viene adoperata nelle loro regie camere in tre modi per loro delicati gusti: da teatro, da camera e da ballo. Perciò nella mia presente opera ho accennato i detti tre generi con l’intitolazione guerriera, amorosa e rappresentativa. So che sarà imperfetta, perché poco vaglio in tutto, in particolare nel genere guerriero per essere nuovo e perché «omne principium est debile» [ogni inizio è fragile/precario]. Prego perciò il benigno lettore aggradire la mia buona volontà, la quale starà attendendo dalla sua dotta penna maggior perfezione in natura del detto genere, perché «inventis facile est adere» [in ciò che si inventa, risulta facile aggiungere] e viva felice.
Il numero tre risuona per i “caratteri” dei madrigali contenuti (Amorosi – Guerrieri – Rappresentativi), si coglie per i “sentimenti” insiti nel nostro animo umano che la musica può e deve esplicitare (Ira – Temperanza – Umiltà), viene ricercato da Monteverdi per il “genere” con cui comporre ed eseguire tale musica (Concitato – Molle – Temperato), suddivide le “classi” nelle quali potrebbero essere raggruppati gli stili (Oratoria – Armonica – Ritmica) e infine ritorna ancora per comprendere in quali “generi” di rappresentazione potrebbe essere suddivisa (Teatro – Camera – Ballo) Monteverdi si pone il significato di “madrigale”. Egli desidera fare ordine, tentando di organizzare le diverse tipologie dei vari brani che produce. Nella definizione che abbiamo offerto nel libretto che accompagna il CD del nostro Primo Libro (Naxos 8.555307), abbiamo presentato il madrigale come la composizione profana per eccellenza di tutto il Rinascimento: è “forma senza forma” in quanto si forgia sulla lirica testuale da cui prende ispirazione e sostegno. Quale banco di sperimentazione stilistica e linguistica, il madrigale è il simbolo della sintesi tra arti e il più alto frutto della raffinata cultura aristocratica.
La nostra mentalità moderna (che nei secoli ha acquisito e codificato le forme musicali) vorrebbe convincerci che questi brani dell’Ottavo libro non hanno più niente in comune con il madrigale. Credo che questo non sia corretto. Proviamo a comprendere quali possano essere le principali differenze tra il madrigale “antico” e questa “nuova prattica”. In questi ultimi libri, la durata e gli organici aumentano a dismisura. Il madrigale, piccolo e raffinato gioiello che solitamente non superava i quattro minuti, ora si amplia per gemmazione suddividendosi in numerose parti, arrivando ad oltrepassare i venti minuti. I cinque cantanti che per magia creavano raffinate armonie, con la sola addizione delle loro linee vocali in contrappunto, non bastano più: si richiedono organici molto vasti che si antepongono a momenti più intimi affidati a duetti o terzetti. La responsabilità del cantante aumenta, a discapito delle linee melodiche in polifonia, trasformandolo in vero solista al quale sono offerti vasti spazi. La funzione del basso continuo strumentale diventa indispensabile per creare diverse atmosfere timbriche e a delineare i diversi caratteri dei personaggi. Gli strumenti melodici come i violini divengono essenziali all’esecuzione e, talvolta, veri protagonisti di momenti esclusivamente affidati a loro.
Esponendo tali ragioni, modernamente ci permettiamo di affermare che il Ballo delle ingrate o anche il Combattimento siano vere e proprie opere liriche (o proto-opere) con tanto di balletti (come avverrà nel grand opéra dell’ottocento). Questo è storicamente errato. Monteverdi afferma (al contrario delle nostre errate deduzioni) che rimangono sempre “madrigali”. Appartengono solamente ad un’evoluzione di questa forma musicale e letteraria. Come tutte le arti figurative, in questo momento storico anche la musica vuole sperimentare. Non ci si accontenta più della definizione di equilibrio rinascimentale. Quella descrizione del “bello” (offerta dall’architetto Leon Battista Alberti come quel “prodotto” che aggiungendo o togliendo non potrà che peggiorare) non accontenta più l’artista del Seicento.
La sperimentazione di Monteverdi
La cultura e il mondo manieristico mettono in crisi il concetto di bellezza (musicalmente parlando, quello alla Marenzio o alla Palestrina): si vuole “sperimentare”. In tale ricerca «inventis facile est adere» [in ciò che s’inventa, risulta facile aggiungere]; in tale sperimentazione «omne principium est debile» [ogni inizio è fragile/precario]. Dunque, tutti questi nuovi e numerosi orizzonti offrono talmente tanta libertà e possibilità che è facile smarrirsi. Proprio per questo Platone (la referenza storica profana) e il numero tre (il misticismo e la sacralità della trinità, tre in uno) aiutano a ridefinire i perduti limiti, offrendo una plausibile giustificazione al proprio lavoro. Quella forma senza forma in continua gemmazione, che oramai non ha più confini, può condurre a orizzonti inesplorati, riuscendo talvolta a raggiungere il vero fine tanto ricercato: “muovere gli affetti” dell’ascoltatore. Solo i compositori dei secoli successivi riusciranno a ricompattare, in categorie e forme specifiche, le intuizioni che Monteverdi ha aperto in questo momento. Egli riassume e contemporaneamente amplia le possibilità offerte dal madrigale che diventa un “testo” da esplicare musicalmente. Per il “divino claudio” comporre su madrigali significa dipingere quel componimento, rendere comprensibile il senso e accentuare l’espressività di quel brano: qualsiasi mezzo può essere adottato a tal scopo. I compositori che verranno dopo di lui avranno più limiti: dal Settecento fino a oggi il musicista ha dovuto decidere a priori se scrivere un balletto, una sinfonia, un’opera lirica. Monteverdi (insieme a alcuni altri compositori di questo tempo) non hanno categorie alle quali attenersi ma solo la possibilità di scoprire nuovi mondi e maniere espressive per esplicitare il significato del testo. Egli è assolutamente consapevole di aver iniziato qualcosa di “precario”, qualcosa in piena evoluzione, qualcosa che porterà a nuove espressività musicali; ma se aggiungere è facile, difficile è comprenderne il limite. Tale confine, per Monteverdi è sempre, e ancora una volta, il testo; il fine è sempre quello di creare emozione. L’Ottavo Libro è l’esplicitazione di questi presupposti.
Come ci suggerisce Anna Maria Monterosso Vacchelli nella prefazione all’edizione musicale dell’Ottavo Libro della Fondazione Monteverdi di Cremona (2004), il platonico assioma di asservimento della musica nei contronti della parola, consiste in realtà nello stretto rapporto d’interdipendenza fra gli affetti espressi tramite il testo, che ne è il più diretto portatore, e la musica, a cui si richiede di vivificarli ed esaltarli mediante gli accorgimenti propri di questo stile sorretto da una tecnica compositiva svincolata da qualunque regola precostituita ma al contrario, caratterizzata da dissonanze, cromatismi, anticipazioni, procedimenti in sincope, bruschi e continui cambiamenti di tono, oltre, naturalmente allo stile concitato ‘tanto necessario all’arte della musica’ e indispensabile per mettere in canto le due passioni contrarie, guerra, cioè, preghiera e morte. Non solo sentimenti, dunque, ma passioni contrastanti.
Approfondire l’amore, quel sentimento che oggi (come allora) muove le nostre passioni interne più profonde e contrastanti, è il tema fondante del libro. La contraddizione bipolare fra amore e guerra non esiste. Esiste invece la continua lotta per raggiungere la felicità coniugale, la negazione della quale genera la disperazione della solitudine (voluta o rifiutata). In questa pubblicazione abbiamo diversi affreschi e scene di battaglie: per conquistare l’amore tanto desiderato, per non rimanerne vittima inconsapevole, per evitare le sofferenze che produce, per punire chi lo rifiuta, per conquistare o viceversa per tentare di difendersi (anche se, in realtà, si soccombe sempre).
L’Ottavo Libro, la strumentazione, il basso continuo
I madrigali dell’Ottavo Libro sono in totale ventidue: apparentemente non sembrano abbondare rispetto al numero consueto di madrigali presenti in ogni raccolta fino al Sesto libro compreso. La grandiosità della pubblicazione, invece, la rende una delle più corpose e vaste opere profane di Monteverdi. La macchinosità della pubblicazione (suddivisa in più parti staccate affidate separatamente alle voci, agli strumenti e al basso continuo), l’ampiezza dei testi musicati, la suddivisione fino a sei parti parti d’ogni madrigale e la ricca strumentazione, rendono quest’opera molto complessa.
Come spesso accade in questo genere di musiche, possiamo “arricchire” o “impoverire” la strumentazione cercando di esaltare lo spirito insito nel testo e di esplicarne il significato musicale. Secondo il nostro parere, abbiamo scelto una strumentazione ottimale, ricca ma allo stesso tempo non invadente. Aggiungendo arbitrariamente le percussioni, desideriamo colmare l’assenza di questi strumenti che non compaiono mai fino al Settecento (ma presenti nell’iconografia) perchè improvvisati nella loro realizzazione. Nel 1642, Johann Albert Ban, riferendosi a Monteverdi, scrive che questo grand’uomo ha utilizzato molti strumenti militari a suono fisso (tamburi, percussioni di legno e metallo, e simili). All’inizio del “Ballo delle ingrate” abbiamo proprio una testimonianza importante per tali strumenti: si cita proprio uno strepito spaventoso sotto il palco di tamburi discordati, che ovviamente desideriamo ricreare come effetto sonoro e scenico.
Abbiamo impiegato un buon numero di strumenti di basso continuo che caratterizzassero ogni personaggio e la relativa personalità. Chi ci ha potuto seguire dal Primo libro ha visto come tale basso continuo si arricchisse sempre di più. Passando da un basso seguente (un modesto contributo strumentale che raddoppiava meramente le voci), al vero basso continuo del Quinto libro (un sostanziale contributo sul quale le voci si adagiano non più in polifonia ma grazie a un tappeto sonoro che regge singolarmente le voci, in duetti, trii o anche solisticamente). Ora abbiamo l’esaltazione di questa linea musicale che spesso si divide accompagnando i solisti in cori contrapposti di grande effetto: le diverse sonorità di liuti, clavicembali, organo, arpa, trombone, violoncello, viola di bc, lirone e chitarra, offriranno all’ascoltatore un’estesa varietà. Abbiamo voluto che queste sonorità potessero contrapporsi anch’esse nella “battaglia” come le relative voci che accompagnano.
Anche qui, come in tutta la nostra esecuzione dell’opera monteverdiana, abbiamo sempre desiderato ordinare i madrigali di questo libro, rispettandone l’ordine dell’indice.
La completezza esecutiva ci ha fatto dimenticare i numerosi tagli subìti da queste opere: esse, finalmente, potranno vivere la loro completezza evitando d’essere censurate nella loro bellezza integrale. Monteverdi pretende e desidera un incremento musicale proprio per “gemmazione”, vivendo proprio di innesti voluti, desiderati e assolutamente richiesti: dagli abbellimenti alle inserzioni di brani composti da altri musicisti, tutto deve fare vivere la sua opera espressiva. Le musiche di Biagio Marini (1594-1663), violinista e compositore bresciano al quale dovremmo dedicare maggiore attenzione, sono proprio una plausibile esplicazione a completamento di quello che lo stesso Monteverdi voleva e ricercava. Tali interventi che possono sembrare arbitrari, ma che sono indispensabili per la chiarezza del disegno inventivo monteverdiano, sono sempre segnalati nell’indice di questo libretto e nei testi musicali. In quest’ultimi si sottolinea anche la volontà dell’autore di aggiungere balli, musiche e sinfonie. Tale completezza ha inevitabilmente portato ad ampliare in quattro CD quest’opera monumentale: solo il Ballo delle ingrate richiede circa venti minuti in più rispetto alle tradizionali esecuzioni. Queste, mortificando il fulcro centrale del balletto a favore del recitativo, privano l’opera della sua centrale bellezza. Il risultato sarà striminzito e rinsecchito nella sostanza, avvilito nel contenuto musicale e umiliato dalla poca spettacolarità che la musica invece desidera e richiede.
L’interpretazione
Realizzare un’incisione come questa è stato per noi tutti un sogno: un sogno che abbiamo realizzato con grande entusiasmo e impegno. Personalmente ringrazio tutti i cantanti, gli strumentisti, i supervisori musicali e l’ingegnere del suono che hanno contribuito a lavorare verso un’unica strada interpretativa. Il cammino che abbiamo dovuto affrontare si mostrava ricco d’insidie, di bivi ai quali non era possibile sottrarci, di difficoltà esecutive tecniche e, non ultime, di scelte di suono.
Nel ringraziare la produzione di Naxos, che ha supportato la realizzare questo libro (insieme a tutta la produzione profana di Claudio Monteverdi e di Gesualdo da Venosa), ritengo che sia oggettivo affermare che un libro così complesso (e della durata totale di circa tre ore e cinquanta minuti) solo eccezionalmente può essere concretamente rappresentato. La lunghezza dell’opera, l’impegno produttivo, l’impegno artistico e magari l’impegno scenografico che richiederebbero tali musiche, sono notevoli. Realizzare concertisticamente questo meraviglioso libro, offrendone solo un estratto, diventa già più realizzabile: inevitabilmente comporta alcune scelte a favore dei brani più celebri della raccolta. L’esecuzione di tutto il libro avviene (in questo caso) grazie alla produzione discografica che, per realizzare l’opera in completezza, riesce a farci ascoltare i brani meno noti o quelli che solitamente crescono all’ombra dei più acclamati. Questi non sono né meno belli musicalmente né meno importanti nel pensiero monteverdiano. Già il primo brano della raccolta (sappiamo dai precedenti libri che il primo madrigale ha sempre un organico eccezionale o quantomeno un’anomalia fondante) sfodera un organico molto impegnativo che raramente può essere realizzato in sede concertistica per la sua vastità. Probabilmente questo fu anche il principale ostacolo che negò all’opera le successive ristampe.
Abbiamo desiderato fondare la nostra realizzazione su un’edizione urtext, cioè l’edizione critica Ut Orpheus di Andrea Bornstein, controllandola con le parti originali del 1638 (nel caso che ne evidenziassimo incongruenze o scelte sostanziali a carico dell’interprete). Sebbene pioneristica, abbiamo ritenuto sorpassata l’edizione di Malipiero (1927) mentre l’edizione della Fondazione Monteverdi di Cremona del 2004 (non ancora edita al tempo dell’esecuzione) ci lascia molto perplessi come edizione di riferimento.
Al fine di una più semplice fruizione d’ascolto si indicizzano le varie parti dei madrigali contenuti, evitando la lunghezza dei componimenti poetici in più parti: ogni singolo episodio potrà così essere facilmente apprezzato da ogni ascoltatore.
Nel presentare quest’interpretazione è obbligatorio essersi posti infinite domande, ma aver offerto loro un’unica risposta. Ogni interpretazione, cristallizzata su disco, ha sempre desiderato essere frutto di una scelta pensata e studiata: all’opposto di questo proposito, noi ne vorremmo evidenziare i limiti, in quanto (in questo tipo di musica) qualsiasi scelta operata sulle note originali diviene contemporaneamente assolutamente indispensabile ma anche totalmente arbitraria. Nell’operare tali imprescindibili scelte “si sbaglia sempre” (come affermo spesso), ma questo “sbagliare” è del tutto indispensabile alla realizzazione interpretativa. L’arbitrarietà nell’aggiungere strumenti, raddoppiare alcune linee melodiche nell’acuto come nel basso, operare scelte dinamiche, i cambi agogici, le scelte di realizzazione del basso continuo (che permettono di verticalizzare armonicamente questa linea), e soprattutto le scelte espressive e vocali, sono indispensabili per raggiungere l’emotività di questa musica, ma ne rivelano anche l’arbitrarietà esecutiva. La musica di Monteverdi vince e conquista per la sua forza. Accendere questa forza emotiva è stata la nostra preoccupazione principale. Esaltare questi affetti battaglieri, contrastanti, che movono grandemente l’animo nostro, fine del movere, che deve avere la bona Musica, è stata la nostra preoccupazione fondante. In ogni esecuzione, qualora venisse meno questo intendimento si creerà solo noia, monotonia ed esecuzioni prive di vita poiché il confine tra emozione e noia è estremamente sottile. Se questa musica di Monteverdi non ci conquisterà espressivamente significa che chi ha eseguito non ha centrato l’obbiettivo esecutivo: la bona Musica deve esistere sempre e a priori. Se questa scarseggerà potrà solo essere responsabilità di una cattiva esecuzione. Quello stile concitato “tanto necessario all’arte musica e indispensabile per mettere in canto le due passioni contrarie, guerra, cioè preghiera e morte”, deve essere canalizzato al fine di creare “emozione”. Se questa dovesse mancare ogni esecutore fallirà lo scopo dell’Ottavo Libro: dalle prime realizzazioni di Malipiero che ha riscoperto Monteverdi negli anni 40 fino ad oggi (sfruttando i tanti studi sulle prassi vocali e strumentali “autentiche”, dobbiamo cercare e vorrei dire “osare” di resuscitare questa pulsione emozionale. Qualora, al termine del Combattimento di Tancredi e Clorinda, non fossimo mossi dal’affetto di compassione in maniera che [il pubblico] quasi fu per gettar lacrime, se al termine del Ballo delle ingrate non sentissimo lo strazio di questa infelice obbligata a scendere nell’Ade, se nel lamento della ninfa non venissimo mossi dall’emozione e dalla sofferenza per amore, vorrebbe dire che si è fallito. Seguendo la musica, ogni ascoltatore potrebbe (e magari desidererebbe) fantasticare d’essere sul palcoscenico, gioire insieme alle ninfe, danzare o, con l’animo sofferente, tormentarsi e dolersi insieme agli interpreti. Se questo non si verificasse, significa che l’interpretazione è totalmente fallita e l’esecutore ne è pienamente responsabile.
Nel preciso intento di rendere fruibile tutte le possibili informazioni inerenti a ogni singolo brano, possiamo seguire le varie referenze storiche nella sezione dedicata ai testi poetici. In quest’ultima è possibile leggere qualsiasi informazione, musicale o scenica, offerta da Monteverdi o esplicata nelle cronache dell’epoca.
I madrigali guerrieri
Il Libro si apre con una sinfonia, com’era avvenuto per il Settimo libro “Concerto”. Al successivo ritmo ternario (un tempo unitario suddiviso in tre movimenti, uno e trino a simboleggiare la Santissima Trinità, l’equilibrio), un dolcissimo terzetto con tre violini (ancora una volta il numero tre) ci presenta l’andamento del tempo di pace, del tempo dell’amore. Poco prima del termine, le voci si coalizzano in un emblematico unisono. Segue l’episodio della guerra rappresentata dal dio Marte e dallo stile concitato che si presenta in tutta la sua potenza. A seguire, appare il dedicatario Ferdinando, in un episodio affidato alla voce solista; guidando una folta schiera di strumenti (quasi cavalli che nitriscono e scalpitano) nel proprio nome e nel canto, si assicura l’unità delle schiere dei fidati alleati insieme alla voce dei popoli, nell’episodio conclusivo. A Ferdinando viene dedicato anche il testo di Rinuccini Ogni amante è guerrier nel quale si cita quel gran Re ch’or su la sacra testa posa il splendor del diadema augusto. In una delle più geniali creazioni monteverdiane, su testo petrarchesco, la calma iniziale della natura regna immobile: Hor che’l ciel e la terra si apre nel contrasto tra natura e animo umano, come già era avvenuto nel primo madrigale del Secondo libro, Non si levav’ancor l’alba novella. Nei due brani sorprendono le diversità espressive fra prima e seconda prattica. A contrasto dell’immobilità in natura, si manifesta lo stato d’animo guerriero che esplode nell’episodio veglio, penso, ardo, piango. E’ la guerra di un introverso stato d’animo: qui non si parla di reali battaglie ma delle battaglie del cuore, al quale solo la figura dell’amata può dare sollievo e tranquillità. Il passaggio cromatico simboleggia uno stato d’animo tormentato che soltanto la salute (che si mostra sempre più lontana) potrà risanare. Tale parola finale è occasione per un passaggio melismatico estremo. Il salto di decima porterà ai limiti prima la voce del tenore/baritono e poi, in moto contrario le parti vocali. Queste divergono in un impressionante risultato che ci lascia tutt’oggi sbalorditi.
Gira il nemico insidioso è una canzonetta a tre voci e bc di Giulio Strozzi che ricorda le scene comiche presenti nelle opere monteverdiane: con grande umorismo disegna le forze difensive messe in atto dai tre protagonisti per non cadere nella trappola d’Amore. Ogni solista ne caratterizza una sfaccettatura e un diverso tipo di approccio difensivo (sebbene facenti parte di un unico personaggio protagonista). Inevitabilmente Amore insidierà e conquisterà il loro (anzi, più precisamente, il suo) rigido cuore.
Presenti nei canti guerrieri anche due duetti con bc, affidati nella nostra edizione, rispettivamente alle voci di baritono Se vittorie sì belle con due tiorbe e due clavicembali, e Armato il cor, con due tenori e due clavicembali che simulano una battaglia strumentale. Quest’ultimo brano è presente anche nella raccolta del 1632 Scherzi musicali.
Conclude questa prima parte di Canti Guerrieri l’esplosivo sonetto Ardo, avvampo, un grande affresco a otto voci con due violini e bc che simula gli incendi d’amore. Tutta la prima quartina riposa su di un grandioso pedale di sol ove grida, invocazioni, incitamenti, si dispongono in un crescendo ottenuto graduando il numero di voci secondo una progressione geometrica (dalle due iniziali si passa a quattro e ad otto) (...) L’epilogo muore con sole due parti in direzione di un unisono appena percettibile (Paolo Fabbri, Monteverdi, 1985).
I canti amorosi
Altri canti di Marte apre maestosamente questa sezione grazie ad accordi coralmente ribattuti e a un lessico militare ricolmo di fanfare e squilli di immaginarie trombe. Solo la prima quartina di Gian Battista Marino ci ricorderà i madrigali della precedente raccolta battagliera. La seconda scivolerà verso le lodi di amore e dell’amata (due belli occhi fur l’armi) a cui dedicare il proprio canto (dà vita al canto). Unico testo di Francesco Petrarca presente in questo libro, è un sonetto tratto dal Canzoniere. Vago augelletto (a sette voci, due violini e bc) rielabora la tematica dei madrigali presenti rispettivamente nel terzo e quarto libro: O rossignuol [6] e Quell’augellin che canta [14]. Il contrasto fra l’animo del poeta e lo spensierato augelletto (che si affatica nei gravosi affanni) ci richiede due diversi andamenti, gravoso il primo, giocoso il secondo.
Apoteosi del madrigalismo Mentre vaga angioletta inizia a voce sola senza alcun accompagnamento. Dopo alcune battute un musico spirto prende fauci canore: in quel momento sarà il testo a introdurre l’accompagnamento del basso continuo. Poi accresce la tensione una seconda voce. Uno sfarzoso pullolare di immagini e proliferare di figurazioni foniche si reggono autonomamente nel loro divenire madrigalistico. Tutte le immagini del testo prenderanno forma musicale nel massimo virtuosismo vocale. A seguire un duetto affidato, in questa edizione, ai due baritoni Ardo e scoprir che descrive il disagio di un corteggiamento e il totale turbamento nell’affrontare una battaglia d’amore. Uno stupendo duetto dei tenori O sia tranquillo il mare approfondisce l’effetto già indagato nel Quarto libro in Ah dolente partita [1], Sulle parole mai da quest’onde ritroviamo l’effetto di stordimento delle voci all’unisono che si separano in forte urto sonoro. Ninfa che scalza il piede e Perchè ten fuggi sommano al virtuosismo della voce del tenore in apertura, una seconda e poi una terza voce, in uno sviluppo serrato ma graduale che sfocia in un finale vorticoso e travolgente.
Le due Rime di Giovanni Battista Guarini, Dolcissimo uscignolo e Chi vol haver felice il core sono a cinque voci, cantati a voce piena alla francese, intervallando le parti fra solo e tutti (come indicato nelle partiture separate). Analogamente al Confitebor terzo della Selva morale e spirituale, si è discusso moltissimo sul significato di tale sottotitolo. Noi propendiamo nel credere che tale indicazione si riferisca all’uso alternativo di raddoppiare strumentalmente le parti dedicate alle voci in alternanza fra solo e tutti. Tale voce piena deve emergere, ma senza che vi sia coinvolgimento emozionale. Al contrario del cantare all’italiana, teso a rendere le contrastanti passioni dell’animo umano con estrema verosimiglianza, quello del cantar francese era apprezzato per la dolcezza e la mancanza d’energia. Diverso è il caso delle due canzonette poste al termine della raccolta Non partir ritrosetta e Su, su, su pastorelli. Qui la fantasia esecutiva e la libertà concessa all’interprete spazia nell’alternanza fra voci e strumenti, voci sole, polifonia o episodi strumentali: non esiste una vera interpretazione “corretta” ma esistono tante abitudini esecutive. Qui ne offriamo due: la prima con le viole da gamba che si alternano ai solisti vocali, la seconda con i flauti che si scambiano con la polifonia.
I madrigali scenici o “rappresentativi”
Il Combattimento di Tancredi e Clorinda è fra le opere più celebri di questo Libro e punto fermo nella storia della musica occidentale. Torquato Tasso (1544-1595), come poeta che esprime con ogni proprietà e naturalezza, con la sua orazione, quelle passioni che tende a voler descrivere, tratteggia quest’episodio fra la Gerusalemme Liberata (canto XII) e la Gerusalemme Conquistata (canto XV). Rappresentato nel 1624 in un non identificato Palazzo Mocenigo a Venezia per passatempo di veglia, nel periodo di carnevale, alla presenza di tutta la nobiltà, la quale restò mossa dal’affetto di compassione in maniera che quasi fu per gettar lacrime et ne diede applauso per essere statto canto di genere non più visto né udito. Dopo aver cantato alcuni madrigali e intonata una sinfonia ad libitum, nessuno tra i nobili intervenuti si sarebbe mai aspettato di scorgere un personaggio armato mentre un secondo, anch’egli bardato su un cavallo di legno (mariano significa finto) si muove in aria di sfida. La descrizione delle loro azioni, affidata a un narratore, descrive tutti i dettagli del duello. Monteverdi non desidera “rappresentare” il testo del Tasso: desidera citare con riverenza il suo lavoro, con attenzione filologica, conferendogli l’espressività che gli è dovuta. Se questo scontro potrebbe riallacciarsi alla tradizione descrittiva madrigalistica, il “gesto”, quale espressione narrativa, lo porta a diventare una lucida realizzazione teatrale. Il personaggio principale diventa il “testo”: questi ci propone i due personaggi, i loro stati d’animo, i loro sentimenti. Egli descrive lo scalpitare e il raspare nel terreno del cavallo che si prepara alla guerra, la battaglia, il cozzare delle spade, la pura aggressività umana e infine il sopravvento di Tancredi e la morte di Clorinda. Per evocare tale realizzazione scenica, Monteverdi inventa tutta una serie di espedienti di grande creatività quali il tremolo e il pizzicato d’archi che non esistevano fino a quel momento. Ma l’innovazione sostanziale di questa opera diventa il bisogno espressivo: porterà le pronuntie a similitudine delle passioni dell’oratione scrive l’autore.
Dopo una sinfonia nella magica riflessione in cui il narratore esprime poeticamente la possibilità di varcare i limiti della precarietà e la possibilità d’essere ricordato per menzionare gli eventi storici narrati, ci imbattiamo in un momento impareggiabile: Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti. L’indicazione di Monteverdi che nega forzatamente in tutto il brano l’uso di melismi e la possibilità di fare gorghe e trilli, apre a totale libertà. Nel ricercare tale libertà abbiamo studiato accuratamente l’aria “Possente spirto” dell’Orfeo; di quella emblematica aria (scritta in una doppia versione sia normale che con abbellimenti), ne abbiamo studiato le possibilità, adattando i melismi e le presenze strumentali a tale passaggio.
L’Introdutione al ballo, Volgendo il ciel, e il seguente ballo, comunemente detto Il ballo dell’imperatore (per il chiaro omaggio a Ferdinando) è un spettacolare inno offerto al dedicatario del libro. Con quest’ultimo e con i Canti guerrieri si ricongiunge a fatica, ma rientra a pennello nell’ottica del genere rappresentativo. Probabilmente Monteverdi qui lo inserisce perchè celebra le Ninfe dell’Istro (il fiume Danubio) e il Re novo del romano impero.
Uniti ai violini inseriamo i flauti, accanto all’arpa (Venga la nobil cetra) inseriamo il clavicembalo (insieme ad un corposo bc), congiuntamente alle abbondanti percussioni inseriamo i timpani affinché rimbombi il mondo l’opre di Ferdinando eccelse e belle. A metà del ballo (tra le due quartine del sonetto) Monteverdi prescrive che finita la presente prima parte, si fa un canario o passo e mezzo o altro balletto a beneplacito senza canto. E’ dunque obbligatorio l’inserimento di un brano eminentemente strumentale: ineccepibile a tale scopo il Balletto V alla Allemanna op 8 di Biagio Marini.
Definito come rappresentativo, in quanto il gesto dell’interprete ne doveva sottolinearne l’acuta espressività, il Lamento della Ninfa è un brano tripartito a tre voci, con un canto solistico a sovrastare tali parti. Nel terzo e sopratutto nel primo episodio incontriamo forzate dissonanze per esprimere il pallidetto volto sul quale scorgeasi il suo dolor e il gran sospir dal cor. L’assoluta protagonista della parte centrale è la Ninfa che intona il suo lamento sopra una ciaccona (come Zefiro torna) formata dalla continua e ossessiva ripetizione di un tetracordo discendente, la-sol-fa-mi, in tempo ternario. Per questo ennesimo lamento si raccomanda di non seguire la rigida scansione metronomica (il tempo della mano) ma l’interiore tempo del affetto del animo. Le altre tre parti vanno commiserando con flebile voce come fosse il commento di un coro greco che ne commisera il gesto scenico. Siamo certi che tale ninfa non conoscesse l’andamento del jazz (come alcune interpretazioni presuppogono) ma solo il dolore dell’abbandono.
L’ultimo vasto affresco sonoro, il Ballo delle ingrate, rappresentato a Mantova mercoledì 4 giugno 1608, è ampiamente descritto nelle cronache di Federico Follino Cronache mantovane 1587-1608. Al contrario, sono assolutamente sconosciute le annotazioni in riferimento ad una rappresentazione là nel germano impero, verso la quale questa edizione dell’ottavo libro si riferisce. I resoconti mantovani, estremamente particolareggiati, ci offrono notevoli indicazioni registiche, scenografiche e musicali. L’universo scenico diventa di fondamentale importanza in quest’ultimo lavoro.
Nell’ultima parte di questo libretto, nella sezione dedicata ai testi musicali, troviamo ampli stralci delle cronistorie, unitamente alle note monteverdiane: credo che sia importante conoscere la realizzazione scenica di questo ampio madrigale che deve essere da noi apprezzato per la sua importante azione narrativa e resa spettacolare. L’opera narra dell’incapacità d’Amore nel ferire efficacemente le vittime designate con le proprie frecce. Venere, sua madre, decide di scendere agli inferi in sua compagnia per pregare il dio degli inferi, Plutone, di liberare le anime di coloro che in passato furono insensibili a tali strali. Queste donne gemono nel più profondo inferno, a causa del loro rifiuto nell’essere corteggiate e amate. La sortita di tali anime (le traggo e ve l’addito e mostro:
pallido il volto e lagrimoso il ciglio, perché... non piangeste ancor voi nel negro chiostro) potrà indurre le dame presenti ad evitare ogni ritrosia nei confronti del corteggiamento maschile. Venere ci informerà che questa gli altrui martiri
narra ridendo, e quella
sol gode d’esser bella
quanto tragge d’un cor pianti e sospiri. In van gentil guerriero move in campo d’onor leggiadro e fiero. Nuovamente il soggetto narra delle battaglie d’amore. Preceduto da un mirabile duetto fra Venere e Amore (che ci ricorda i più sublimi momenti delle tarde opere monteverdiane), troviamo “l’entrata e il ballo”, fulcro centrale del lavoro e momento cruciale della sortita delle ingrate. Molte edizioni sviliscono questo momento, tronco dei ritornelli e delle riprese: al contrario noi ribattiamo l’importanza di tale ballo con tutti i ritornelli. Le ingrate, muovendo stentati passi, nella ossessiva ripetività, accrescono sempre più la loro forza fino a trasformarlo in un esplosivo baccanale. Solo Plutone richiuderà con forza le porte dell’Ade affievolendo la capacità di rivalsa delle ingrate e stroncando loro la volontà. Prima d’essere ricondotte agli inferi con le compagne, una delle anime cerca di respirare l’ultimo soffio d’aria pura. Configurato come un intenso “lamento” esposto monodicamente, riesce a farci muovere all’affetto prima che l’ultimo grido soffocato dal dolore possa definitivamente stroncare la volontà delle povere infelici.
Congruenza esecutiva
Con assoluta conformità rispetto ai precedenti, presentiamo anche questo Ottavo libro con sole voci maschili. Crediamo che la forza dei personaggi come Clorinda, la ninfa, l'ingrata, Venere o Amore possa essere espressa anche con questa tipologia di voci. La voce acuta, sia maschile che femminile, si esprime con grande fascino in questi ruoli. Dobbiamo però comprendere che nella prima edizione del 1607 dell’Orfeo, Monteverdi caldeggia di avere quel pretino (un sacerdote) per il ruolo così meravigliosamente femminile di Euridice (come una sua lettera specifica così scrupolosamente). Dobbiamo abituarci al fascino di questo suono e probabilmente comprendere che tale timbro fosse largamente in uso a quei tempi. In teatro, oggi ci sembra impraticabile realizzare scenicamente tali ruoli: per questa realizzazione discografica però abbiamo desiderato riprendere il suono originale di una plausibile esecuzione storica, invitando un uomo nel ruolo. La nostra limitatezza nel comprendere il motivo per il quale si affidi tale parte ad una voce maschile, deve essere superata: la voce bianca di una bambino si adatta perfettamente alla parte di Amore, tanto quanto Clorinda o l’Ingrata a quella di un controtenore. Si tratta solamente di superare i nostri limiti e farci cullare dal meraviglioso suono di queste voci antiche, dimenticandoci ruoli predefiniti e tutte le nostre limitazioni. Secoli di retaggio ci vogliono convincere che una parte femminile possa solo essere cantata da una donna, ma sappiamo storicamente che non è così. Una parte femminile (meglio dire “acuta”) poteva essere intonata dai tre sessi (come lo stesso Rossini sosteneva per l’esecuzione della parte acuta nella “Petite messe solennelle”): voci bianche (bambini), controtenori e castrati (quindi escludendo a priori la voce femminile che non poteva cantare in chiesa). La definizione tra ruoli maschili e femminili sarà una prerogativa ottocentesca per avvalorare la “verità visiva” dei personaggi. Nel mondo antico, come in questa interpretazione musicale, affideremo alla voce “acuta” alcuni timbri storici meno scontati, rivalutandone il suono. L’interpretazione espressiva e l’approfondimento musicale della poetica monteverdiana usciranno timbricamente rafforzati proprio cercando di evidenziare tale sonorità. Tali ruoli spiccheranno rinvigoriti nella loro presenza sonora.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.573755-58)

mercoledì, ottobre 08, 2014

Monteverdi: il "Sesto Libro de' Madrigali" (1614)

Pietro da Cortona
"L'età dell'argento"
Il Sesto Libro de'Madrigali: il madrigale ‘concertato' e il ‘Lamento d' Arianna'
 
Pubblicato a Venezia nel 1614 dall'editore Ricciardo Amadino, a nove anni di distanza dal precedente Quinto Libro, Il Sesto Libro de'Madrigali prosegue l'evoluzione espressiva che Monteverdi dedica al madrigale, principale forma musicale dell'epoca, avvalendosi della facoltà di utilizzare qualsiasi mezzo vocale, qualsiasi risorsa tradizionale o inventata, per trasfigurare in musica il testo poetico. In questi nove anni di silenzio e di riflessione sulla forma del madrigale, Claudio Monteverdi compone, pubblica e rappresenta alcune delle opere più famose nella storia della musica: L'Orfeo (1607), L'Arianna (1608), il Ballo delle Ingrate (1608), il Vespro della Beata Vergine (1610).
In questo Sesto Libro, Monteverdi sembra voler concedere al madrigale “ a cappella ” un'ultima attenzione prima di fuggire definitivamente verso i lidi più fantasiosi di quello stile “ concertato ” (già introdotto negl'ultimi sei madrigali del Quinto Libro) che caratterizzerà tutti i libri successivi. Dimenticato l'utilizzo delle sinfonie strumentali ed i vasti organici a più cori del libro precedente, qui l'autore ci offre una pubblicazione in cui il madrigale antico (quello in cui tutte le cinque voci si muovono senza troppi silenzi, legate le une alle altre per sostenersi vicendevolmente nell'armonia da loro stesse generata) ha la maggiore attenzione. Due lunghi cicli di madrigali sono infatti “ a cappella ” e questi due ampi affreschi sonori sono proprio gli evidenti protagonisti di questo libro. Il tema dell'addio, della separazione è il soggetto tematico del Libro : ma, oltre al definitivo abbandono narrato (quello vissuto dai personaggi), Monteverdi sembra offrirci anche un doloroso commiato, un ultimo, definitivo, sofferente e sublime tributo a quel modo di comporre che fu fonte di tante precedenti opere d'arte. Se il madrigale non rinuncerà al suo nome e nemmeno alla sua forma (che si manterrà sempre fedele all'assioma d'essere “forma non forma”, musica generata solo dalla suggestione del testo poetico), questo libro darà definitivamente l'addio a ciò che l'aveva caratterizzato fino a quel momento: infatti, d'ora in poi, le voci vivranno d'ampi spazi d'espressione individuale, solistici, sostenuti non più dall'armonia vocale ma dall'ausilio dello o degli strumenti. Non tragga in inganno la presenza del basso continuo per poterli concertare nel clavacembano ed altri stromenti: come abbiamo già acquisito nei precedenti libri, anche i madrigali “a cappella” potevano avere il sostegno strumentale (sia basso seguente che basso continuo) e sappiamo che la pubblicazione della linea strumentale era solo a comodità dello strumentista che anziché ricavarsi la parte dalla voce più grave, aveva una sua linea già espressamente dedicata. Nello stile antico, a differenza rispetto al successivo stile concertato, lo strumentista dovrà ancora pienamente assecondare le voci, assolute protagoniste dell'armonia e della musica, senza abbandonarsi a quell'autonomia che lo renderà sempre più figura di spicco del nuovo stile compositivo.
La compresenza e il conflitto fra due mondi, simbolo di passaggio fra il mondo arcaico e quello moderno (o come alcuni studiosi affermano, fra la cosiddetta Musica Antica e quella Moderna) sono presenti anche in una pubblicazione di pochi anni anteriore: il Vespro della Beata Vergine (1610), costruito nel nuovo stile concertato con grande fantasia e genialità, inizia proprio con la Missa da cappella fatta sopra il mottetto “In illo tempore”, a simbolo della capacità dell'autore di scrivere ancora (e rigorosamente) in questo modo antico.
La contrapposizione fra stile antico e nuovo non è il solo soggetto delle discussioni in questi anni: l'opera, la commedia in musica, era nata nel frattempo e aveva avuto un successo senza precedenti. In questa nuova “invenzione” la gioia o il dolore d'un personaggio non sono più cantati coralmente: essi vivono sulla scena grazie all'arte d'un solo cantante che, proprio in quell'istante, fa ri-vivere i fatti narrati e i sentimenti provati. Assistere ad una Favola in musica, quali erano l' Orfeo o l' Arianna, non significava più ascoltare la cronaca delle azioni o delle situazioni umane mediate dalla voce d'un gruppo di persone che la raccontavano in polifonia, ma significava vedere la situazione e il personaggio effettivamente impersonato da un solo cantante, il quale (in quel momento e per momentanea finzione teatrale) viveva tangibilmente quelle situazioni. Grazie ad un maggior coinvolgimento dei sensi (oltre all'udito si stimolava la vista, grazie all'arte di scenografie sempre più reali, insieme a luci, costumi, trucco) il pubblico viveva in prima persona il dramma del protagonista, identificandosi e palpitando sempre più con lui nella sala.
Comprendere realmente la portata di questo passaggio storico può rivelarsi complesso per noi che siamo avvezzi ad assistere alle finzioni teatrali dei media come televisione e cinema, ma all'epoca fu una esperienza realmente emozionante e fortemente innovatrice: nella prefazione alla sua Dafne, Marco da Gagliano comparando l' Arianna di Monteverdi al teatro greco antico, scrive che si può con verità affermare che si rinnovasse il pregio dell'antica musica perciò che visibilmente mosse tutto il teatro a lacrime ; Aquilino Coppini racconta che durante la rappresentazione Monteverdi ha potuto trarre a viva forza dagli occhi del famoso teatro e di chiunque poscia l'ha sentita, a mille a mille pietose lagrime ; l'ambasciatore di Venezia scrive la favola d'Arianna et Teseo, che nel suo lamento in musica (...) fece piangere molti la sua disgrazia (tutte queste testimonianze non vi ricordano un odierno pubblico che esce dal cinema visibilmente commosso?). Un po' arditamente, per comprendere i due modi di comporre, antico e moderno, e afferrare la portata di questa nuova forma d'arte, l'opera, possiamo paragonare il madrigale “ a cappella ” alla lettura di un libro, mentre l'opera alla visione su grande schermo. Questi due mondi d'espressione artistica assolutamente distinti, entrambi emozionanti, vivono e fanno vivere le loro suggestioni in modi e situazioni completamente divergenti: mentre la lettura ci offre l'emozionante viaggio nella creatività e nella soggettività del lettore proprio perché l'evento è narrato (indugiando sia sull'introspezione che su sottili particolari), la visione di un film ci porta ad immedesimarsi subito nei protagonisti, nei loro scenari e situazioni, vivendo noi stessi le loro emozioni durante la proiezione.
Se la cultura ha subìto una delle sue più rilevanti perdite, smarrendo la partitura completa dell' Arianna, la storia ha voluto ricompensarci salvando il celeberrimo Lamento d'Arianna, proposto da Monteverdi in due distinti modi, antico e moderno, probabilmente per farci comprendere che si può raggiungere vertici espressivi sia con un metodo compositivo legato alla narrazione che a quello della rappresentazione (una terza versione sacra ci sarà inserito nella sua Selva morale e spirituale (1640) come Pianto della Madonna sopra il Lamento d'Arianna ).
Non è però propriamente un caso se si salvò solo il Lamento : definito dallo stesso autore come la più essenzial parte dell'opera, divenne talmente famoso che non è stata casa la quale, avendo cembali o tiorbe in casa, non avesse il lamento di quella (scrive il fiorentino Severo Bovini attorno al 1640) e Giovan Battista Doni nel suo Trattato (1635) parla del Lamento dell'istessa Arianna che è forse la più bella composizione che sia stata fatta a' tempi nostri in questo genere. Subito dopo la rappresentazione del 1608, circolavano in Italia molte copie manoscritte (alcune le custodiamo ancora nelle biblioteche di Firenze e Modena ) feconde di varianti musicali e testuali: il successo e forse il desiderio di cristallizzare una versione ufficiale, indussero Monteverdi a pubblicare (1623) una versione solistica (anzi sarebbero due le pubblicazioni, edite nello stesso anno, ma una ci rimane incompleta del continuo) ben nove anni dopo la rappresentazione e dopo aver egli stesso aver scritto una versione a cinque voci, nel Sesto Libro (1614), in quello stile “ a cappella ” che proprio l'avvento canto solistico e dell'opera stava portando alla morte.
La scelta di pubblicare in due CD il Sesto Libro di Madrigali insieme al Lamento d'Arianna, ipotizziamo possa offrire all'ascoltatore la possibilità di confronto fra la concezione antica e quella moderna o, come diremmo oggi, fra la “lettura d'un libro” e la sua “realizzazione cinematografica”. Si potrà preferire la versione polifonica, più ricca d'armonie e di raffinati particolari, oppure si apprezzerà la scena cinematografica della vera Arianna che piange realmente davanti a noi. Secondo il mito (e del superstite libretto che Ottavio Rinuccini scrive per Monteverdi), Teseo arriva a Creta con i giovani ateniesi scelti quale tributo sacrificale umano al mostro Minotauro che il re dell'isola, Minosse, teneva rinchiuso in un labirinto ma per il quale impone ad Atene tale sacrificio. Arianna, figlia del re, innamorata di Teseo, lo aiuta a superare il labirinto grazie ad un lungo filo che gli permette di ritrovare l'uscita dopo aver ucciso il mostro, ottenendone in cambio la promessa di nozze una volta giunti insieme ad Atene. Arianna però, lungo la navigazione, nell'isola di Nasso, viene abbandonata da Teseo che salpa lasciandola sola nel sonno. Al risveglio capisce d'esser stata tradita e decide d'uccidersi, ma come per Orfeo anche in quest'opera la conclusione è gioiosa: l'arrivo della flotta di Bacco inviato da Amore, blocca il suo gesto e li conduce a nozze. Per le evidenti analogie di situazione scenica e d'emotività, si rivelerà proficuo confrontare il Lamento d'Arianna con quel Lamento d'Olimpia (rimasto manoscritto) che abbiamo scelto d'inserire come appendice al Primo Libro di Madrigali insieme all'esecuzione completa dei manoscritti profani.
Un sottile filo lega i due ampi cicli del Sesto Libro : la Sestina, Lacrime d'amante al sepolcro dell'amata è anch'esso un lamento di pastore che sia morta la sua ninfa (…) in morte della Signora Romanina. Il filo non è però solo tematico ma anche storico: poco tempo prima della rappresentazione dell'Arianna si ammala e muore di vaiolo, a diciott'anni, la cantante Caterina Martinelli (soprannominata la Romanina, per la città di provenienza), colei che doveva essere Arianna. Il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, che sicuramente aveva un debole per lei, aveva disposto (cinque anni prima) che fosse affidata alle cure musicali di Monteverdi (e in casa sua): questo fatto illustra l'etica ambiguità non solamente della condotta principesca, sì anche della condizione servile. Il madrigale in genere era implicato con episodi e incidenti di vita, era allusivo, celebrativo, commemorativo (Claudio Gallico: Monteverdi, 1979). La Sestina è un canto doloroso, intimamente sofferente e sentito che muove alla commozione anche senza alcuna traccia scenica: Monteverdi esprime tutta la sua sublime arte compositiva nella maniera antica “ a cappella ”, trasfigurata dall'emotività e dall'espressività di cui fu maestro. Probabilmente Monteverdi non adempiva solo il volere del Duca di Mantova (identificato nel testo poetico di Scipione Agnelli come il pastore Glauco), ma anche dedicava un ultimo caldo abbraccio alla moglie defunta nel 1607 dopo un anno di sofferenze: una fredda lastra di marmo è il cielo di quel seno che nido fu d'amor e che ora dura tomba e un freddo sasso opprime. “Corinna, ahi, Corinna” implorano quinto e cantus (alternandosi e straziando il cuore dell'ascoltatore mentre le tre voci incalzano alzandosi di tono, per poi gettarsi nella disperazione di Ahi tomba, ahi morte! resa con arditi cromatismi e salti discendenti fino all'esaurirsi delle voci e della musica. Mai lacerazione e dolore sono stati espressi musicalmente con tanta forza.
Ohimè il bel viso e Zefiro torna sono due sonetti tratti dal Canzoniere di Francesco Petrarca, uno dei più illustri poeti italiani del Trecento. Appare strano che accanto a tanti poeti contemporanei Monteverdi abbia scelto due testi creati attorno al 1350. Il primo si accosta tematicamente al ciclo doloroso di madrigali antecedenti (è il primo componimento che Petrarca dedica all'amata Laura dopo averne appreso la morte) e ricorda sia il brano precedente per l'uso di quel ohimè affidato alle due voci superiori, sia Ohimè, se tanto amate del Quarto Libro. Il secondo invece sembra apparentemente discotarsi dal Lamento: giustamente nominata, analizzata e studiata come una delle più felici e geniali composizioni di Monteverdi, Zefiro torna riprende il tema del contrasto fra natura gioiosa, in rigoglioso fermento, e lo stato d'animo triste ed afflitto del protagonista, vittima delle pene d'amore, rese da Monteverdi con arditissime dissonanze nel finale (si confronti, poi, il somigliante testo di Ottavio Rinuccini Zefiro torna contenuto nel Nono Libro).
Per una perfetta simmetria di pubblicazione del Libro in due parti (ben studiata dall'autore), sia dopo il ciclo di madrigali dedicati ad Arianna che a quelli dedicati alla Romanina (e ai loro rispettivi sonetti petrarcheschi), seguono i madrigali concertati, palesemente inconsueti e stravaganti rispetto ai precedenti e facilmente individuabili per l'emergere d'una voce dal gruppo corale per lunghi momenti solistici. Qui, sia l'esecutore vocale e che quello strumentale, non dovranno più attenersi a quell'intima concordanza interpretativa dell'insieme corale ma saranno stimolati a mostrare le doti espressive e di virtuoso. Il tema della separazione è presente anche in questi madrigali. A dio, Florida bella è un magnifico dialogo amoroso crudelmente troncato dalla natura che, risvegliandosi, condanna inesorabilmente la separazione dei protagonisti. Assistiamo alla realizzazione teatrale (non è ancora una vera trasposizione cinematografica come avverrà nell'opera) d'una situazione “narrata” già descritta all'inizio del Secondo Libro: però, qui, i due amanti sono interpretati solisticamente da Cantus e Tenor, mentre all'insieme delle voci (un aulico riferimento al coro greco) non rimane che commentare quale narratore che supplisce alla mancanza delle determinazioni visive proprie di un'ipotetica realizzazione spettacolare (P. Fabbri: Monteverdi, 1985). Ampia scena teatrale solistica è affidata al Tenor in Misero Alceo, mentre il coro ci stupisce manieristicamente per il geniale madrigalismo sulle parole un sol cor, diviso. Conclude il libro un madrigale d'eccezione a sette voci (unico brano in cui prevede un terzo Cantus addizionale), che preannuncia le future innovazioni linguistiche monteverdiane: dialogo concreto fra due attori, due pastori, anticipa i duetti e il Ballo del Settimo Libro mentre la polifonia predice il linguaggio guerriero caratterizzante l'Ottavo Libro.
Come avvenuto in appendice al primo CD di questa pubblicazione completa dei madrigali, anche qui offriamo agli appassionati una piccola opera omnia comprendente tutti quei brani monteverdiani che furono pubblicati a stampa in raccolte di autori vari, alcuni dei quali mai incisi. Si tratta di brani concepiti in varie epoche che furono richiesti al compositore per amicizia (nel 1593 quando non era ancora famoso), espressamente commissionati da un nobile di Treviso che si dilettava di poesia e aspirava alla notorietà, o anche raccolti dall'editore veneziano Alessandro Vincenti che in seguito gli pubblicò il ponderoso Ottavo Libro e il postumo Nono libro (proprio in quest'ultimo, ritroveremo lo stesso testo Perchè se m'odiavi in una nuova versione a tre voci. Sono brani molto diversi che documentano il percorso innovativo attuato da Monteverdi in un fecondo momento storico d'evoluzione linguistica.
Il Sesto è un libro dedicato all'espressività, alla potenzialità da parte della Musica di muovere gli affetti, di suscitare sentimenti e passioni nell'ascoltatore e per la prima volta in Monteverdi, i madrigali si ampliano di dimensione e di durata, mentre (quasi a compensazione) si riduce il numero dei brani rispetto ai precedenti libri. Sebbene notiamo, con rammarico, che il mondo esecutivo odierno sia affascinato più dalla velocità e dalla scioltezza piuttosto che dall'espressività, controcorrente (fedeli alle nostre convinzioni), persistiamo nella scelta di tempi “lenti” che, secondo noi, più adeguatamente dispiegano le numerose raffinatezze armoniche ( gli artefiziosi sentimenti come li descriveva Adriano Banchieri, 1609) contenute in queste musiche. Questo, però, senza rinunciare al contrasto agogico e sempre al servizio d'una primaria comprensione ed esplicazione del testo poetico che già nel 1609 Aquilino Coppini aveva individuato come precipuo elemento del linguaggio monteverdiano: qui sunt a Monteverdio, longiora intervalla et quasi percussiones inter canendum requirunt. Insistendo tantisper, indulgendo tarditati, aliquando etiam festinandum. Ipse moderator eris. In iis mira sane vis commovendorum affectuum (quelli che sono di Monteverdi richiedono nell'esecuzione, più ampli respiri e battute che non siano regolari, a volte incalzando o abbandonandosi a rallentamenti, talora anche affrettando. Tu stesso stabilirai il tempo. In questi, si trova una capacità assolutamente mirabile di suscitare commozione).
Se Monteverdi stesso scrisse che il presto con il bene insieme non conviene (1617), per quanto possibile, crediamo sia efficace ricreare e riproporre nella musica quel clima di vita in cui le andature erano molto più allentate e distese rispetto alle attuali e dove la ricerca del particolare era considerata fondamentale nell'opera d'arte. Riteniamo dunque innovativo che, alla scorrevolezza esecutiva e alla rigida scansione dei tempi, si possa rispondere con la forza passionale, impulsiva ed emotiva che abbiamo tentato d'imprimere a queste immagini monteverdiane. Sempre Coppini, nel 1608, definendo l'espressività di Monteverdi, scrive che la sua musica è regolata dalla naturale espressione della voce umana nel movere gli affetti, influendo con soavissima maniera negli orecchi e per quelli facendosi degli animi, piacevolissima tiranna. Seguendo i documenti del recente studio di Paola Besutti ( Repertorio degli strumenti musicali in corte a Mantova in Gonzaga, 2002) che riporta sia l'acquisto da parte del Duca di un organo nel 1605, che una lettera del 1611 in cui Monteverdi stesso cita l'accompagnamento di madrigali nel organo di legno il quale è soavissimo (da solo o insieme al chitarrone), per la prima volta introduciamo anche questo strumento d'accompagnamento.
Ribadiamo ancora la nostra predilezione esecutiva con sole voci maschili, quale scelta filologica d'un timbro vocale storico, consueto per l'epoca, da ascoltare in alternativa ad organici misti: se Arianna fu interpretata da Virginia Ramponi, sappiamo anche che il duca di Mantova stesso richiese ai Medici di Firenze il controtenore Antonio Brandi e il castrato Gualberto Magli che nella prima rappresentazione dell' Orfeo interpretò la Musica, Proserpina e Speranza, accanto a padre Girolamo Bacchini “ quel pretino che fece Euridice”.
Marco Longhini
(note al cd Naxos 8.555312-13)