Il Quarto Libro de’ Madrigali, fu pubblicato a Venezia dall’editore Ricciardo Amadino nel 1603, dopo ben undici anni di silenzio editoriale dell’autore: questo notevole periodo, più volte rilevato dagli studiosi monteverdiani, sembra eccessivo per un compositore che aveva pubblicato i suoi lavori precedenti a due, tre anni di distanza. Quali avvenimenti spezzano il ritmo delle pubblicazioni, visto che il Terzo Libro del 1592 per la sua originalità aveva ottenuto quel successo editoriale che sappiamo e che, una volta pubblicato, anche questo Quarto ottenne ben sette ristampe complete, sia in Italia che all’estero, fino al 1644?
Molti avvenimenti segnano la vita del compositore in questi undici anni e probabilmente ritardano l’uscita di quest’opera: nel 1594 (l’anno di morte di G.P. Palestrina e O. di Lasso e l’anno della pubblicazione del Primo Libro di Madrigali di Gesualdo) solo quattro sue Canzonette escono in un’antologia, mentre nel 1595, parte da Mantova per l’Ungheria al seguito del suo Duca Vincenzo Gonzaga, infervorato dalla crociata promossa da Rodolfo II d’Asburgo contro i turchi. Il duca, sicuramente più interessato all’evento mondano che alla guerra, con tutta calma coglie l’occasione della crociata per visitare città come Trento, Innsbruck, Linz, Praga e Vienna, nelle quali è ospitato insieme alla sua corte viaggiante, completa di tutte le comodità. I documenti di quest’evento cavalleresco sono fondamentali per ricostruire la prassi esecutiva dell’epoca: Vincenzo richiede una Cappella Musicale composta da quattro cantanti sottoposta alla direzione di Monteverdi. Sappiamo anche che fra questi cantori vi erano almeno un famoso castrato e due bassi (probabilmente un basso e un baritono per la parte del tenor) e sappiamo anche che Monteverdi era apprezzato cantore (ricordiamo che era tenore) oltre che “novello Orpheo col suono della sua viola” (da intendere, lo ricordiamo, viola “da gamba”): dunque, la cappella vocale del duca era composta esclusivamente da uomini e questi erano impiegati sia per il servizio liturgico cattolico sia per le feste e i banchetti che il Duca amava intrattenere “spesso sontuosamente” con i nobili presenti sul campo “i quali la maggior parte del giorno venivano a trattenersi amorevolmente”. Il cronista prosegue scrivendo che “nelle solennità si faceva cantare vesperi con musica di cantori et organo, che aveva condotti seco” e che “occorrendo anche molte volte ch’il serenissimo arciduca si faceva fare musica per suo passatempo dalli medesimi cantori”.
Al rientro a Mantova, Monteverdi, tradito dalla sua città che offre al compositore Benedetto Pallavicino l’ambito incarico di maestro di cappella, vacante per la morte di Giaches de Wert, rivolge le sue attenzioni ad Alfonso II d’Este duca di Ferrara, città all’avanguardia nella ricerca culturale e artistica. Purtroppo anche in questa città sarà sfortunato (come lo era stato a Verona e Milano): nel 1597 Alfonso muore (senza eredi, causando l’annessione di Ferrara allo Stato Pontificio e decretandone la fine di un momento storico illuminato e suntuoso) e proprio l’esecuzioni dei suoi nuovi madrigali faranno scoppiare una notevole querelle con il teorico Giovanni Maria Artusi, polemico sostenitore delle regole tradizionali della musica baluardo inflessibile contro un certo modo di comporre che violava tali leggi. “L’Artusi, overo Delle imperfettioni della moderna musica”, pubblicato nel 1600, si scaglierà contro alcuni madrigali monteverdiani non ancora editi (saranno pubblicati tre anni dopo nel Quarto Libro, e ancora più tardi nel Quinto) ascoltati dal teorico proprio in questi momenti culturali ferraresi.
Mentre tale polemica infuoca gli animi il Duca di Mantova è dedito nel 1598 alla rappresentazione del “Pastor Fido” del Guarini, con i suoi suntuosi effetti scenici (ma, purtroppo, nulla sappiamo degli interventi musicali) e pochi mesi dopo offre la sua diletta cantante (e forse anche amante) Claudia Cattaneo in sposa al nostro compositore nel 1599, prima di coinvolgerlo in un nuovo viaggio nelle Fiandre (dove probabilmente conobbe il pittore Rubens che negli anni successivi lavorò per i Gonzaga). Il 1601 e 1602 furono due anni più fortunati: diventa padre e, a pochi mesi di distanza (a causa della morte del maestro di corte Pallavicino) “Maestro della musica del serenissimo signor duca di Mantova” (com’egli stesso scriverà nel frontespizio del Quarto Libro), ottenendo in seguito la cittadinanza mantovana e un alloggio all’interno del Palazzo Ducale. Monteverdi, dunque, diventa responsabile di tutte le attività musicali di corte escluse quelle della Cappella Ducale di Santa Barbara ancora affidate a G. G. Gastoldi. La dedica del Quarto Libro è un capolavoro diplomatico perché da una parte rende omaggio a Ferrara e a quell’ambiente culturale che pochi anni prima aveva commissionato ed eseguito questi madrigali (come riferisce Artusi) e dall’altra, offrendo l’opera all’Accademia degli Intrepidi (fondata in quel periodo, 1601), rende omaggio a Mantova e al suo Duca che proprio di quest’accademia era una delle figure eminenti e promotrici.
Questo Quarto Libro, giudicato come uno dei più affascinanti, prosegue quell’innovazione espressiva, quella ricerca dei procedimenti inventivi, mai sperimentati fino a quel momento, che era stata la caratteristica del Terzo. Tale peculiarità arriverà fino al libro successivo: infatti, il Quinto Libro, di poco posteriore è intimamente legato al Quarto negli atteggiamenti stilistici ed è, forse, per la maggioranza dei madrigali, una sua appendice e allo stesso tempo una sua naturale prosecuzione. Artusi citerà indistintamente passi compositivi dal Quarto e dal Quinto e l’insistente presenza di madrigali di G.B. Guarini in tutte due le opere, ci indirizza ancora una volta a quella rappresentazione del “Pastor Fido” commissionata dal duca. In undici anni di silenzio editoriale, dunque, Monteverdi non rimarrà inattivo né dal punto di vista esecutivo né tanto meno da quello compositivo: anzi egli, distribuendo con saggezza (anche commerciale) le sue composizioni, oggetto della querelle polemica dell’Artusi, ottenne quell’eterna vita e quel citato successo editoriale che effettivamente ebbero le due pubblicazioni.
Se si esclude quella meravigliosa opera di leggiadra felicità descrittiva intitolata Quell’augellin, (che ci ricorda palesemente il “rossiguol” 6 del 3° libro), tutti gli altri testi (come osserva Paolo Fabbri: Monteverdi, 1985) “accumulano esperienze dolorose o quanto meno struggenti legate alle vicende d’amore, in una gradazione che va dai languori decisamente sensuali di “Sì ch’io vorrei morire” a quelli più estenuanti, dall’accesa schermaglia galante di “Non più guerra” al patetismo che tocca il culmine in alcune laceranti separazioni “Longe da te, cor mio" o "partenze”.
Monteverdi, riprendendo quell’usanza di introdurre il libro con un brano che si distinguesse (insieme a quello finale) per gl’insoliti procedimenti compositivi, inserisce un madrigale d’apertura assolutamente innovativo dal punto di vista espressivo, dedicato per l’appunto alla “partenza”, mentre, al termine, ne pone uno dei più affascinanti mai scritti, su testo di Torquato Tasso 20. Il primo Ah, dolente partita venne già pubblicato in una raccolta tedesca del 1597: la sua rilevante ricollocazione qui, ci induce a pensare che Monteverdi desiderasse rendere omaggio alla memoria di Jaches de Wert che proprio nel suo ultimo XI Libro, del 1597, inseriva e musicava questo testo insieme a Cruda Amarilli, che Monteverdi userà ancora come brano d’apertura del suo Quinto libro (un’altra parentela fra le due pubblicazioni e un altro rimando al rapporto fra Mantova e Ferrara). Le solitarie e lente note iniziali ricordano quelle aperture solistiche già apprezzate nel precedente libro: l’autore però supera se stesso affidando le stesse note a due cantanti che, poi sdoppiandosi nelle linee melodiche, creano forti urti sonori, successivamente ripresi e sviluppati dalle altre voci che entrano con la stessa dissonante biforcazione: l’ascoltatore sarà acusticamente rapito da quell’effetto doloroso di “stordimento” tanto simile a quella sensazione che una reale separazione ci può provocare. Il madrigalismo non è più raffinato gioco estetico suggerito dalle parole, ma qui assurge ad espressività, a sentimento: due voci unite dalla stessa melodia, dallo stesso percorso di vita, sono forzatamente separate offrendo loro (e in coloro che sono coinvolti per mezzo dell’ascolto) spaesamento, dissonanza, dolore.
Lo stesso procedimento è usato al termine di uno dei brani evocatori di scene naturali più belle che ricorda Ecco mormorar l’onde del Secondo Libro e che sarà precognitore di Or che’l ciel e la terra dell’Ottavo: dopo le splendide descrizioni pittorico-musicali del mare e del vento, sulle parole certo quando nasceste così crudel e ria, il parto doloroso, la separazione dal grembo materno che genererà sofferenza (anche per chi ambirà amare questa nuova creatura), è reso con la medesima procedura che biforca l’unisono (l’armonia d’intenti) in due stordenti suoni dissonanti.
Se il brano iniziale rappresentava il distacco fra i due protagonisti del Pastor Fido, Amarilli e Mirtillo, nell’ultimo brano, Piagne e sospira, abbiamo l’amoroso delirio di Erminia per Tancredi: “ancora una volta, è nella poesia di Tasso che Monteverdi si misura col contrastato mondo delle più accese passioni, come era già successo nel Terzo Libro con i cicli di Armida abbandonata e del lamento di Tancredi (…) La volontà espressiva induce ad utilizzare immagini musicali magari di convenzione, ma proprio per questo più evidenti e comunicative possibili: appunto l’ascensione cromatica per “Piagne” spezzata dal “sospiro” della pausa, il vocalizzo per “fuggon” (…) Il trattamento è quello squisitamente ed artificiosamente polifonico, perdipiù complicato da ‘caotiche’ sovvrapposizioni di soggetti che rendono l’intonazione del testo quanto mai tortuosa e sconnessa (P. Fabbri).
Un altro madrigale originalissimo, che ha suscitato e suscita tutt’oggi il nostro interesse per il suo nuovo uso espressivo della “declamazione, è Sfogava con le stelle: per musicare più parole, Monteverdi utilizza il vecchio sistema del “falso bordone”, (usato nell’intonazione ecclesiastica dei Salmi biblici), che consentiva di declamare più parole sotto una stessa lunga nota. Mentre nel sacro si ha una monotona intonazione, qui si ottiene invece un’esplosiva espressività di suoni e parole che investe l’ascoltatore, alternati a momenti di vivaci contrappunti in cui le voci godono ad imitarsi e inseguirsi a vicenda.
Contrappunti a fuga li ritroviamo anche in Io mi son giovinetta che descrive con grand’efficacia il gioco amoroso fra due giovani all’alba della primavera appena sbocciata: concepito come una sfida canora (proprio sulle parole a quel canto e sull’imitazione fuggi, abbiamo dei virtuosismi vocalizzati ancora rari in quel momento storico) tra le parti superiori e quelle inferiori a simulazione del dialogo fra l’intraprendente e innamorato pastore e la sua sprezzante pastorella. Anche qui, come per tutti i momenti di rappresentazione drammatica di quest’epoca, “resta inteso che a dar voce a quei personaggi (Mirtillo respinto da Amarilli, Amarilli che non può ricambiare l’amore di Mirtillo) non è mai una singola voce, neppure a tratti, ma sempre – secondo la concezione madrigalistica – la trama polifonica” (P. Fabbri). Al nostro attento ascoltatore non sfuggirà la sensualità di Si ch’io vorrei morire che (com’era avvenuto per altri brani, primo fra tutti Baci soavi e cari del Primo Libro ci introduce in una vera e propria scena ricca d’erotismo oramai non più così velato (quelle stesse che ritroviamo in rappresentate in alcuni dipinti commissionati dal Duca nel Palazzo Te): l’eccitazione erotica di tutto il madrigale, ricco di sospiri e ansimi, ci rende partecipi ad una esplicita scena fra due amanti nel loro atto amoroso, resa ancor più esplicita se, anche noi, comprendiamo quelle convenzioni di linguaggio della corte rinascimentale che nella parola morire celava, come già sappiamo, il significato del raggiungimento orgasmico. Grazie agli studi musicologici e alle recenti accurate moderne edizioni, in quest’esecuzione abbiamo cercato di evitare alcuni errori interpretativi riguardanti sia il testo sia alcune note musicali: questi, pur non togliendo alcuna bellezza all’opera, ponevano alcuni interrogativi ora risolti; a tal proposito possiamo citare l’erronea interpretazione del testo del che per molti anni è stato cantato come Sfogava con le stelle un inferno d’amore, mentre il testo corretto è un infermo d’amore.
Dal punto di vista strumentale, continuando le scelte delle precedenti registrazioni, con quest’esecuzione proponiamo un basso seguente che lentamente si evolve verso un’individualità e autonomia improvvisativa tipica di quello che sarà il futuro basso continuo (lo ascolteremo per la prima volta nel Quinto Libro): pur rimanendo ancora fedele al rigoroso raddoppio delle parti vocali, tipico del basso seguente, ammetteremo alcune deroghe improvvisative sia per quanto riguarda i collegamenti fra madrigali (tra prima e seconda parte del testo o per cercare maggior unitarietà esecutiva) sia per alcune particolari cadenze o lunghe note ribattute (vedi Sfogava con le stelle 4) nel desiderio di rafforzare quella forza espressiva della “declamazione” tipica di questo libro.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.555310)
Nessun commento:
Posta un commento