Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, febbraio 24, 2013

Richard Wagner: L'intervista del bicentenario

Richard Wagner (1813-1883)
Un colloquio immaginario, con risposte autentiche, con il compositore e uomo di teatro nato nel 1813 ma capace di insegnare molto ai lettori del terzo millennio.
 
Wagner scrisse e parlò così diffusamente - e con candore disarmante - della sua vita musicale e della sua visione del teatro che non è difficile trovare risposte alle nostre domande di oggi tra i suoi (moltissimi) scritti e nei diari della moglie Cosima. Risposte che rivelano non solo la coerenza sotterranea delle idee espresse nel corso di molti decenni, ma anche una capacità di sondare in profondità, e con grande equilibrio, temi che oggi sono troppo spesso oggetto di diatribe banali e confuse.
 
La Sua era una famiglia musicale?
Due delle mie sorelle erano musicali. Rosalie, la più grande, suonava il pianoforte senza fare molti progressi; Klara, invece, era più dotata e insieme a una buona musicalità, e alla capacità di ricavare sonorità calde dal pianoforte, possedeva una bella voce, che ebbe uno sviluppo così precoce e significativo che questa sorella, addestrata dal maestro Johann Mieksch, allora ben noto, sembrava pronta a diventare una primadonna quando stava per compiere sedici anni. E fece il suo debutto nell'opera italiana a Dresda, come Cenerentola nell'omonima opera rossiniana. Tuttavia, questo sviluppo prematuro si rivelò dannoso per il suo organo vocale e la povera ragazza ne soffrì per il resto della vita. In ogni caso fu la carriera di Klara che fece arrivare a casa nostra per ripetute visite il Kapellmeister Carl Maria von Weber. E altrettanto spesso ci veniva a trovare il favoloso soprano Sassaroli: un uomo mostruoso, alto e panciuto, che mi terrorizzava con la sua voce acuta e femminile, con la sua volubilità sorprendente e con le sue risate continue e gracchianti. L'aspetto di Weber, singolarmente raffinato, delicato e spirituale, mi riempì invece di un'ammirazione estatica. E quando mia madre presentò a Weber il ragazzo di nove anni che ero io, e lui chiese cose volevo diventare, e se le mie ambizioni c'entravano con la musica, mia madre rispose che, sebbene andassi pazzo per Der Freischütz, non aveva notato nulla in me che potesse indicare un talento per la musica. E la sua osservazione era corretta. Nulla mi commuoveva più facilmente della musica del Freischütz, e cercavo in molti modi di riprodurre l'effetto che aveva su di me, ma non curiosamente attraverso lo studio formale della musica. Era l'inizio dell'ouverture in particolare che mi spinse in infine a tentare, senza nessuna istruzione, di suonare quel pezzo alla tastiera. Stranamente ero l'unico membro della famiglia che non aveva avuto lezioni di pianoforte. Quando ebbi circa dodici anni comunque mia madre ingaggiò un maestro di nome Humann dal qule ricevetti un addestramento rudimentale. In tutta la mia vita non ho mai imparato a suonare il pianoforte come si deve.
Nonostante quest'addestramento rudimentale Lei iniziò presto a comporre. Da chi poi acquisì quel dominio totale delle tecniche compositive che ci lascia sbalorditi nelle Sue opere?
Da Theodor Weinlich, che allora occupava il posto musicale più importante a Lipsia, quello dell'organista e direttore musicale della Tomaskirche: un incarico ricoperto moltissimo tempo prima dallo stesso Sebastian Bach. Il lavoro fatto insieme sulle fughe fece nascere un affetto molto fecondo tra me e il mio geniale insegnante, perché ci divertivamo entrambi enormemente nell'affrontare simili compiti. Un giorno, quando gli diedi una doppia fuga estremamente elaborata, lui mi sorprese dicendomi che dovevo farla incomiciare perché non aveva più nulla da insegnarmi. Siccome non avevo fatto degli sforzi consapevoli per realizzarla, continuai a domandarmi per qualche tempo dopo se potevo davvero considerarmi un musicista formalmente addestrato. Lo stesso Weinlich non attribuì molta importanza a ciò che mi aveva insegnato. Egli disse. «Probabilmente non scriverai mai fughe o canoni. Ciò che hai raggiunto, tuttavia, è l'autosufficienza. Puoi stare in piedi da solo sapendo di poter disporre delle più raffinate tecniche, se occorrono».
Quale fu l'esperienza artistica più forte della Sua giovinezza?
La breve presenza in città - come primadonna ospite - di Wilhelmine Schröder-Devrient, che allora era all'apice della carriera: giovane, bella e piena di ardore come nessun'altra dobba vista da me sul palcoscenico. Si presentò in Fidelio. E quando rivedo tutta la mia vita non trovo nessun altro avvenimento da affiancare a quello per l'impressione che fece su di me. Chiunque ricordi quella meravigliosa donna in quel periodo della sua vita confermerà sicuramente il fuoco quasi demoniaco che veniva acceso dall'interpretazione tanto umana quanto estatica di quest'artista incomparabile. Sapeva gestire il fiato così bene, ed esprimere l'anima femminile con tale franchezza, che non pensavamo neppure alla voce o al canto! Dopo l'opera corsi alla casa di un amico per scriverle una breve lettera in cui le feci capire che la mia vita aveva da quel momento trovato la sua ragion d'essere.
Più tardi la Schröder-Devrient divenne interprete delle Sue opere: Rienzi, Der fliegende Holländer, Tannhäuser. Che consigli darebbe in generale per l'interpretazione di quest'ultimo titolo, il più popolare dei tre?
Mi preme molto che ci sia una prova, coordinata dal regista e seguita dal direttore, in cui l'intera compagnia legge il libretto come se fosse un dramma in prosa, con ciascun interprete che legge ad alta voce il proprio ruolo. Un cantante che non è in grado di recitare la sua parte come si farebbe in un dramma, con un'espressione che rispecchia doverosamente le intenzioni del poeta, non sarà certamente in grado di cantarlo secondo le intenzioni del compositore. Nelle mie opere fra l'altro non esiste nessuna differenza fra le cosiddette frasi declamate e quelle cantate. La mia declamazione è canto; il canto è declamazione. Nei passi di recitativo chiedo ai direttori inizialmente di eseguirli seguendo l'esatto valore delle note e delle battute, a un tempo che corrisponde al significato delle parole. Ma appena il cantante avrà assimilato pienamente le mie intenzioni, è giusto che si lasci spazio alla sua sensibilità naturale, e anche alle esigenze del fiato nelle frasi più agitate. Più creativo diventa il cantante, nella sua grande libertà di sentire, e più verrà ringraziato con gioia da me. A quel punto il direttore dovrà semplicemente seguire il cantante, per evitare qualsiasi lacerazione nel legame tra il fraseggio vocale e l'accompagnamento orchestrale. D'altra parte, ciò sarà possibile soltanto quando la stessa orchestra diventa precisamente consapevole del fraseggio vocale: un risultato raggiungibile quando la linea vocale viene aggiunta ad ogni singola parte orchestrale e quando le prove sono di numero sufficiente. L'indicazione più sicura del raggiungimento di questo obiettivo da parte del direttore è la sensazione ultima, nella produzione, che la sua funzione di
guida sia appena avvertibile.
Ha qualche consiglio da dare al regista e allo scenografo?
Chiedo di prestare particolare attenzione alla piena sincronizzazione dell'azione scenica con i vari caratteri dell'accompagnamento orchestrale. La presentazione della valle di Wartburg nel primo atto - che andrebbe inscenata seguendo alla lettera le indicazioni in partitura - dovrebbe comunicare un senso di freschezza e di serenità così potenti che a quel punto il poeta e il compositore lasciano spazio alla meraviglia dello spettatore. La scena del secondo atto, che mostra la sala dei cantori a Wartburg, fu così ben disegnata per la produzione a Dresda, da un eminente artista francese, che non posso fare altro che suggerire a ciascun teatro di procurarsene una copia e allestire la scena alla stessa maniera.
Ma forse le difficoltà maggiori nell'allestire Tannhäuser riguardano il protagonista.
Devo ammettere che quel ruolo rappresenta una delle sfide più ardue mai messe davanti a un attore. L'essenza di questo personaggio, ai miei occhi, sta nel suo cedere prontamente, e fino alla saturazione, alle emozioni passeggere. Tannhäuser non conosce le mezze misure, ma vive ogni cosa pienamente. Con il più grande trasporto ha gioito tra le braccia di Venere. Poi con altrettanta forza sente la necessità di liberarsi dalle catene che lo legano alla dea dell'amore. Soprattutto chiedo all'interprete di Tannhäuser di dimenticare il suo status di cantante d'opera: i nostri tenori, in particolare, sono abituati a dedicare troppa attenzione alla rotondità dei loro Sol o La bemolle. Se non si coglie poi l'energia di Tannhäuser, si rischia di trasformarlo in un personaggio incerto, vacillante, debole e poco virile.
Altrettanto difficile - e ancora più lungo - è il ruolo di Tristan. Che ricordi ha del primo interprete, Ludwig Schnorr von Carolsfeld?
E' impossibile esprimermi adeguatamente su ciò che Schnorr riuscì a fare come Tristan, raggiungendo un apice nell'ultimo atto del dramma. Bisogna ricordare che, trattandosi di un'opera, il rapporto tra l'enorme orchestra e i monologhi del cantante - che fra l'altro stava disteso su un divano era semplicemente quello fra un accompagnamento e un cosiddetto assolo. E per comprendere l'immensità del raggiungimento di Schnorr posso chiamare ogni ascoltatore sincero di quelle recite monacensi a testimoniare che, dalla prima all'ultima battuta, tutta l'attenzione, tutto l'interesse era concentrato sull'attore, sul cantante, e che mai per un solo momento, per una sola parola, venne meno la sua presa sul pubblico. L'orchestra era totalmente dominata dal cantante, o più precisamente sembrava parte integrante della parola cantata.
Alcuni insinuano che la morte di Schnorr poco tempo dopo le prime recite di Tristan und Isolde, fosse dovuta a uno sforzo vocale troppo oneroso...
In realtà egli non mostrò - né durante né dopo la recita - il pur minimo segno di fatica vocale o fisico. Qualsiasi organo canoro addestrato meramente alla forza fisica soccomberebbe subito, e inutilmente, nell'affrontare le sfide della nuova musica tedesca esemplificata dai miei lavori teatrali, se il cantante non fosse totalmente consapevole del loro significato spirituale. La dimostrazione più convincente di ciò è offerta dallo stesso Schnorr. E per far comprendere la differenza profonda tra mera potenza e comprensione spirituale, cito la mia esperienza di un passo in Adagio nel finale secondo di Tannhäuser, «Zum Heil den Sündigen zu führen». Se la Natura, nella nostra epoca, ha creato in una voce maschile un vero miracolo di bellezza virile, si tratta della voce tenorile di Josef Tichatschek, che per quarant'anni ha conservato la sua potenza e rotondità. Chiunque l'abbia sentito recentemente declamare in Lohengrin il racconto del Santo Graal, con semplicità sublime e risonanza nobile, avrà provato vera soggezione davanti a un simile miracolo vivente. Ma a Dresda molti anni fa dovetti tagliare quel passo da Tannhäuser dopo la prima recita, perché Tichatschek, allora nel più completo possesso dei suoi mezzi potenti e squillanti, era incapace - per la stessa natura del suo talento vocale - di impadronirsi dell'espressione di umiliazione estatica che quel passo richiede, ed era sopraffatto dalla fatica fisica dopo aver emesso pochi acuti. Ora, se dico che Schnorr non solo rese il passo con la più commovente espressione, ma emise quegli stessi acuti di appassionato dolore con una perfetta pienezza e bellezza di suono, ciò non mi spinge a considerare l'organo vocale di Schnorr superiore a quello di Tichatschek in termini di potenza innata. Ma invece di quell'insolito dono di Natura, c'era in Schnorr un'instancabile ricerca messa al servizio della comprensione spirituale.
Lei ha citato cantantí di scuola tedesca. Sono da considerare snperiori a quelli di scuola italiana?
Il cantante tedesco si immedesima volentieri nel personaggio che deve impersonare. Ciò va lodato, ma comporta dei seri pericoli. Se il cantante si lascia trascinare dal ruolo; se non rimane padrone assoluto dell'interpretazione nella sua globalità, allora tutto è perduto. Si dimentica, non canta più, ma grida e geme. Allora la Natura può anche impoverire l'Arte, e l'ascoltatore ha la spiacevole sorpresa di trovarsi improvvisamente nella fogna. Molti cantanti tedeschi ritengono che sia una questione d'onore essere disposti a cantare qualsiasi cosa che sia adatta o meno alle loro voci. L'italiano non esita a dire con franchezza che non può cantare un tale ruolo in quanto inadatto alla sua voce a causa dell'estensione acuta o grave, del carattere degli abbellimenti o di altre caratteristiche. In questo spesso esagera, come se tutte le sue parti potessero essere scritte appositamente per lui. Ma il tedesco, o per libera scelta o perché costretto da circostanze esterne, troppo spesso e troppo prontamente si adatta ad ogni ruolo, con l'effetto di rovinare sia il ruolo stesso, sia la propria voce.
Che ne pensa del canto di coloratura?
Tra noi c'è una setta che accetta, in nome della bellezza, soltanto il canto più semplice e lineare, e condanna totalmente l'arte dell'ornamento. Ma l'arte dovrebbe essere libera. L'espressione e la comunicazione di sentimenti può essere realizzata anche per altre vie. L'arte più nobile dell'ornamento non ha ancora raggiunto nella nostra epoca la sua piena fioritura. Oggi non si sente quasi mai un trillo veramente bello e rifinito; raramente si ode un mordente perfetto, di rado un canto di coloratura ben scolpito, un portamento privo di affettazione e capace di scuotere l'anima, una completa omogeneità del registro vocale e una perfetta intonazione durante l'aumento e la diminuzione del volume. La maggiore parte dei nostri cantanti, appena tentano la nobile arte del portamento, stonano; e il pubblico, abituato all'esecuzione imperfetta, sorvola sui difetti del cantante se quest'ultimo è un attore competente e padrone della scena.
Sarà d'accordo poi che una voce addestrata alle agilità risulterà più duttile dal punto di vista ínterpretativo?
Carl Maria von Weber disse una profonda verità: l'individualità del cantante determina inconsapevolmente lo colorazione di ogni ruolo. Il cantante che possiede una gola agile, e quello che dispone invece di un volume notevole, renderanno il medesimo ruolo in modi del tutto diversi. Il primo sarà ben più animato del secondo, ma il compositore potrà ricavare soddisfazione da entrambi, se tutti e due hanno - ognuno a modo suo - afferrato e riprodotto in modo corretto le gradazioni di passione prescritte.
So che Lei non era del tutto contento delle prime rappresentazioni del Ring des Nibelungen a Bayreuth nel 1876, ma vorrebbe segnalarci qualche interprete di cui rimase particolarmente soddisfatto?
Mi stupisce ancora oggi che l'interpretazione di Karl Hill nei panni di Alberich non venisse apprezzata quanto meritava. Hill realizzò così compiutamente le mie istruzioni urgenti di evitare quegli accenti morbidi e simpatici che gli vengono con tanta naturalezza e di non comunicarci che cattiveria, avarizia e rabbia che egli riuscì a regalarci un ritratto di una perfezione mai vista fino ad allora a teatro: ma tutto ciò sfuggì a un pubblico che reagì con la ripugnanza tipica dei bambini nei confronti dell'orco cattivo delle fiabe. Per quanto mi riguarda dichiaro che il dialogo spettrale e onirico tra Alberich e Hagen all'inizio del secondo atto di Götterdämmerung fu una delle cose più perfette dell'intera rappresentazione.
Posso chiederLe un parere sulle opere di Bellini che Lei diresse in teatro?
Nonostante la loro povertà d'invenzione, c'è una vera passione e un sentimento autentico in quelle opere, e l'interprete giusto deve semplicemente alzarsi e cantare per conquistare i cuori di tutti. Ho appreso delle cose da quelle opere che i signori Brahms e compagni non hanno mai imparato, e lo si sente nelle mie melodie.
Che mi dice invece della musicalità diversissima espressa attraverso le fughe di Bach?
Sono come un sistema cosinico, che si muove secondo leggi eterne, senza sentimenti; i dolori del mondo si rispecchiano in esso, ma in maniera diversa rispetto ad altri generi di musica.
Come risponde a quelle persone che riconoscono la Sua grandezza d'artistà ma giudicano severamente l'uomo Richard Wagner?
Il tentativo di divorziare l'artista dall'uomo è tanto scervellato quanto il desiderio di separare l'anima dal corpo. Nessun artista è stato compreso e veramente amato per la sua arte senza che fosse amato anche - seppure inconsapevolmente - come uomo. Un artista si rivolge poi alla capacità di sentire, non alla comprensione intellettuale. Se si reagisce a lui in termini di comprensione intellettuale, vuol dire che non è stato veramente capito.
Per questo motivo immagino che Lei sia riluttante a spiegare i Suoi personaggi più misteriosi, ma può aiutarci a comprendere le motivazioni di Lohengrin?
Lohengrin cercava la donna che mostrasse fiducia in lui, che non gli chiedesse né il nome né il luogo di provenienza, ma lo amasse per quello che era, senza spiegazioni, con amore incondizionato. Dunque doveva celare la sua natura superiore, perché solo così poteva essere sicuro di non essere adorato proprio per quella natura, oppure venerato umilmente come un Essere che oltrepassava qualsiasi comprensione. L'unica cosa che desiderava, che poteva liberarlo dalla sua solitudine, era l'Amore, l'essere amato, la comprensione raggiunta attraverso l'Amore.
Come si trova l'ispirazione per un'opera nuova?
Consiglierei di non pensare mai di adottare un libretto prima di percepirlo come intreccio che riguarda personaggi che ispirano un interesse vivo. Poi devi osservare con molta attenzione il personaggio che maggiormente ti attira. Se porta una maschera - che venga tolta; se indossa un costume da manichino teatrale - via! Il personaggio va osservato al crepuscolo, quando si percepisce soprattutto la potenza dello sguardo. Se quello sguardo ti parla, la forma stessa del personaggio comincerà probabilmente a delinearsi. E infine la bocca si aprirà e una voce spettrale pronuncerà qualcosa di molto distinto, subito afferrabile, ma così inaudito che ci fa risvegliare di colpo da una specie di sogno. Tutto svanisce poi, ma nell'orecchio spirituale quel qualcosa risuona ancora; hai avuto un'idea, hai trovato un cosiddetto motivo musicale.
Con la costruzione del Festpielhaus, Lei ha realizzato un sogno teatrale coltivato da decenni. Come potrebbe riassumere le dinamiche teatrali che si stabiliscono in quel ambito tra palcoscenico e pubblico?
L'attore, dal suo punto di vista scenico, ha l'impressione che tutto ciò che respira e si muove sul palcoscenico abbracci l'intera umanità. Mentre il pubblico, quel rappresentante della vita quotidiana, dimentica i confini dell'auditorio, si trapianta sul palcoscenico e vive e respira ora all'interno dell'opera d'arte che sembra essere diventata la vita stessa.

intervista immaginaria di Stephen Hastings ("Musica", febbraio 2013)

sabato, febbraio 09, 2013

I Quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (III)

Ludvig van Beethoven (1770-1827)
by Arthur Paunzen (1890-1940)
QUINTESSENZA DEL GENIO BEETHOVENIANO - I Quartetti di Beethoven
 
Alla fine del Settecento il quartetto per archi si trovava diviso su due fronti stilistici dai percorsi antitetici e paralleli, anche se non privi d'interscambi occasionali. Da una parte, in un arco compreso tra la Madrid di Boccherini, la Lombardia di Rolla, la Torino degli ultimi rappresentanti della scuola piemontese, e la Parigi di Baillot, Kreutzer, Rode, Saint-Georges, Pleyel e degl'italiani déracinés (Viotti, Cambini, Giardini, Bruni, Radicati), fiorisce l'effimero "impero d'occidente" del quartetto "concertante" e/o "brillante", destinato all'esecutore virtuoso e al concerto pubblico. E' una produzione promossa dalla grande editoria e caratterizzata dalle attrattive dell'edonismo e del virtuosismo: tante piacevoli melodie allineate in un rilassato contenitore sonatistico, dove il principio dell'elaborazione tematica è in gran parte - se non proprio del tutto - sostituito da quelle della ripetizione attraverso i piani armonici di elementari progressioni.
 
A Vienna abbiamo invece, come tutti sanno, l'esatto opposto, germogliato dal seme haydniano e incrementato dall'esperienza di Mozart. Il quale sul ceppo del suo grande contemporaneo aveva innestato la profondità della sua sensibilità armonica, la sterminata ricchezza della sua inventiva melodica, il suo senso del dramma e del pathos: non senza qualche spregiudicata incursione (con i Quartetti "prussiani") nei territori di quell'amabilità concertante rigorosamente rifiutata dal radicalismo di Haydn, intento a sviluppare al massimo grado quel principio elaborativo che si può riassumere con questa formula: ricavare il massimo dal minimo, attraverso l'arte di "rovistare nel tema" come un secolo dopo dirà Brahms.
 
E' a questo punto che s'innesta il primo contributo di Beethoven a una civiltà quartettistica viennese giunta, dopo Mozart e tuttora operante il vecchio Haydn con i suoi ultimi capolavori, a un punto di estrema saturazione stilistica. L'opera 18 (1798-1800) giunge buon'ultima, dopo anni dedicati ad una produzione cameristica incentrata nel pianoforte, lo strumento che aveva accompagnato l'ascesa di Beethoven come compositore-concertista. I sei Quartetti filtrano così il loro approccio all'eredità haydn-mozartiana attraverso un'esperienza intensamente personale, quella di opere come i Trii op. 1, le Sonate op. 2 e op. 7, quelle op. 5 per pianoforte e violoncello e op. 12 per piano e violino che già avevano fatto esplodere il delicato e imperfettibile equilibrio sonatistico dei predecessori. Non è possibile giudicare questi sei ambiziosi Quartetti, puntigliosamente elaborati nella consapevolezza dell'immenso rischio che comportava l'esordio in un genere ritenuto al vertice della professionalità di un musicista, senza tener conto che nel frattempo i modelli viennesi (di Haydn e del Mozart dei sei Quartetti op. 10 dedicati ad Haydn) si erano troppo allontanati e andavano in qualche modo sostituiti. Ecco quindi che Beethoveri adatta al medium quartettistico strutture e procedimenti eccentrici, accentuando, da una parte, certi tratti di estrosità haydniana nella scelta di motivi piccanti soprattutto per i tempi veloci e gli scherzi o minuetti, dando fondo alla cantabilità nei movimenti centrali, addensando le sonorità, levigando gli spigoli di Haydn e le asperità armoniche di Mozart in una generalizzata, florida eufonia.
 
La prodigalità dei materiali tematici gettati con effetti accumulativi entro un recipiente sonatistico necessariamente dilatato, il gusto per i contrasti di temi, ritmi, aree armoniche, lo spessore fonico e la sensualità timbrica sono i tratti salienti di queste opere peraltro assai ben differenziate e caratterizzate; lontane tanto dalla nervosa leggerezza e dalla parsimonia haydniana, quanto dall'audacia di certe introspezioni mozartiane, sostituita ora da una prevalente ottimistica euforia, ora dall'effusa vena elegiaca di certi movimenti lenti, come l'Adagio affettuoso e appassionato (due aggettivi quanto mai significativi dell'espressività lirica beethoveniana) dell'op. 18 n. 1. In tanta giovanile abbondanza d'immagini, sussiste, eredità fondamentale dei predecessori e già fatta propria da Beethoven con potente determinazione, il principio dell'elaborazione tematica.
 
L'essenzialità e la necessità morfologica, ottenute attraverso l'impiego sempre più coerente dell'elaborazione, sono il fine che Beethoven si propone negli anni successivi all'op. 18. Si tratta di rigenerare i tessuti troppo dilatati delle strutture sonatistiche, trasformandoli nei tessuti sodi e scattanti di strutture altrettanto vaste, ma permeate da un forte dinamismo basato sulla dialettica dei contrasti interni. In questo senso, accanto alle Sonate op. 53 e 57 per pianoforte, alle Sinfonie Terza, Quarta, Quinta e Sesta, ai concerti per pianoforte e per violino, i tre Quartetti op. 59 (1805 -06) assumono valore esemplare. Inconcepibili senza l'impulso della coeva produzione sinfonica, di questi tre capolavori si può dire che riversino nel medium quartettistico, senza punto snaturarne la specificità, tutta la dialettica e i rapporti di forza (ritmo, massa sonora, contrasti dinamici, oltre, s'intende, alla tensione elaborativa) che Beethoven era andato elaborando nelle sinfonie e che qui comprime e decanta in una rigorosa dimensione cameristica debitrice altresì di quelle tardive e preziose influenze soprattutto mozartiane (si tratta, questa volta, del Mozart dei grandi Quintetti in Do maggiore e sol minore) che incominciano a farsi avanti con crescente insistenza nella creatività del Beethoven maturo.
 
Opere apparentemente isolate, i Quartetti op. 74 e op. 95 sono in realtà il risultato di un processo di ulteriore affinamento stilistico, nel quale l'idea della forma-sonata viene sottoposta ad una rigorosa verifica attraverso un discorso ellittico e di una incisività e concentrazione estreme, attuato nella più meditata economia dei materiali, in profondo contrasto con la sovrabbondanza di un tempo. Emerge una rinnovata aspirazione ad una purezza e ad una simmetria mozartiane, ed anche forme e strutture rinunciano in monumentalità quanto acquistano in duttilità e delicatezza. Si profila l'estrema spiaggia dello stile beethoveniano, che nell'ultima fioritura quartettistica troverà la sua espressione più completa e forse più alta.
 
Composti dietro invito di un nobile committente, il principe Golicyn (ancora un russo, come già il conte Rasumovskij, destinatario dell'op. 59), gli ultimi Quartetti prendono vita in un periodo compreso tra la primavera del 1822 e l'ottobre del 1826, lasciandosi alle spalle le ultime sonate per pianoforte, la Nona Sinfonia e la Missa Solemnis. Sono opere profondamente omogenee per stile e dimensione espressiva, assai più di quanto non lo fossero le opere 18 e 59: un panorama immenso e tuttavia raccolto entro un arco unitario, dove si squaderna tutto l'universo dell'ultimo Beethoven.
 
Giunto al culmine della sperimentazione dei mezzi espressivi e della propria solitudine storica, il compositore si riserva il privilegio supremo di operare liberamente le proprie scelte linguistiche senza restrizioni di tempo, di genere, di stile. Ciò significa che l'estrema produzione beethoveniana si configura in ultima analisi come una ricapitolazione, talora una giustapposizione di tutti gli stilemi che l'hanno preceduta nel tempo, contemplati dall'alto di un "punto di vista" trascendente che tutti li equipara. Vecchio e nuovo, attuale e inattuale, datato ed aggiornato sono categorie estranee a questo sublime «colpo d'occhio" che sa ravvivare le "macerie" secondo una forte espressione di Adorno - di un passato per altri irreversibile e riciclarle non come citazione inerte, ma come elemento costitutivo reinvestito d'intrinseca necessità.
 
Entro questo sistema inaudito e guardato a lungo con religioso sgomento ma anche con irritata incomprensione dai posteri, coesistono, pertanto, il giovanile procedimento effusivo-additivo e la più rigorosa elaborazione tematica; le tecniche polifoniche recuperate dal profondo dei secoli su su fino a Bach e Händel, e il moderno sonatismo basato sulla dinamica dei campi armonici, dei temi e della loro elaborazione; l'assoluta oggettività e l'urgere dell'elemento soggettivo negli accenti di un recitativo strumentale vibrante di drammaticità; le sofisticazioni armoniche di gusto modale e il più corrente formulario cadenzale; le forme più auliche e trascendenti accanto a quelle più rustiche; il macrocosmo di strutture ciclopiche come i Quartetti op. 130 e op. 131, e il microcosmo di oggetti miniaturistici come l'enigmatica, ironica op. 135.
 
Insieme con il contrappunto, che irrora delle sue energie tutto l'ultimo stile beethoveniano
e che qui culmina in un terrifico monumento come la Grande Fuga op. 133 (in origine, posta a conclusione dell'op. 130), è la tecnica della variazione a qualificarsi come principio costruttivo basilare anche al di là dei movimenti espressamente ad essa destinati. Il radicalismo di tale tecnica non ha eguale se non nel Bach delle Variazioni Goldberg e degli ultimi Preludi corali, da cui Beethoven prende idealmente l'avvio, senza per questo accantonare le tecniche varianti tradizionali di tipo ornamentale-virtuosistico, integrandole, al contrario, rigenerate e sublimate, in un contesto organicamente onnicomprensívo, conforme anche in questo a quella superiore "disponibilità" cui sembra aprirsi l'ultimo orizzonte creativo del compositore.
 
GLI ULTIMI QUARTETTI
"Il vostro genio ha superato i secoli, e non vi sono forse ascoltatori abbastanza illuminati per gustare tutta la bellezza di questa musica; ma saranno i posteri a renderle omaggio e a benedire la vostra memoria". Queste parole profetiche, pronunciate dal principe Nikolaj Borisovic Golicyn, il committente dei primi tre dei cinque lavori che concludono l'esperienza beethoveniana nel campo dei quartetto, possono venire collocate come epigrafe in testa ad una delle avventure più visionarie mai compiute da un genio musicale pervenuto alla sua massima definizione. La composizione degli ultimi cinque Quartetti tenne impegnato Beethoven dal maggio 1822 al novembre 1826, quando di Maestro scriverà il nuovo Finale per l'op. 130.
 
Il primo Quartetto del gruppo, in Mi bemolle maggiore op. 127, viene ultimato nel febbraio 1825. Di tutti i fratelli, è quello che presenta un'ispirazione più uniforme, immerso com'è in una diffusa luce lirica che annulla in sé ogni contrasto troppo spiccato. In esso si manifesta in sommo grado quella "mozartiana" assolutezza, quella trasumanata serenità non aliena da tratti giocosi (l'amabile Finale, che riecheggia reminiscenze di settecentesche serenate viennesi) che avanza fin dal primo tempo "teneramente" sui passi di un Laendler idealizzato. Ma l'op. 127 comprende anche un Adagio con cinque variazioni che contendono forse vittoriosamente il primato all'altro grande esempio di variazione beethoveniana di questi ultimi anni, quello che è parte dell'op. 13 l.
 
Segue, in ordine cronologico, il Quartetto in la minore op. 132, ultimato nel luglio 1825. Nel primo tempo, un chiaro bitematismo (costituito da un nucleo iniziale affidato alle febbrili impennate del primo violino e agl'incisi di risposta della viola e del violoncello, e da un secondo episodio d'una tenera cantabilità assolutamente schubertiana) sviluppa un discorso nel quale il principio sonatistico del contrasto dialettico viene sostituito da una contemplativa e circolare giustapposizione d'immagini diverse. Il successivo Allegro ma non tanto è un vero Scherzo lievissimo e intessuto difreschi motivi di danza, con un Trio di cornamuse. La celebrata "Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico" è sempre stata giustamente considerata tra le espressioni più "individuali" e più visionarie di tutta la musica beethoveniana, anche se essa deve paradossalmente quel suo carattere così intimamente soggettivo a una sorta di sublimazione del materiale musicale, divenuto ancora più "neutro" e "anonimo" in virtù del suo sconfinamento nei domini della modalità antica e di tecniche compositive arcaiche come il cantus firmus attorno al quale, come nei preludi corali bachiani, si sviluppa l'efflorescenza delle altre voci. Una "Marcia" e un Allegro appassionato riportano quindi l'itinerario spirituale dalla trascendenza a una dimensione più drammaticamente umana.
 
Ultimato nel novembre 1825, il Quartetto in Si bemolle maggiore op. 130 è articolato in sei movimenti che corrispondono a quelli del divertimento settecentesco, con due tempi lenti differentemente caratterizzati e due intermezzi in ritmo ternario. E invero, tra gli ultimi Quartetti, l'op. 130 è quello che realizza nella forma più alta quell'aspirazione allo schilleriano Sublime inteso come "Senso di letizia" suprema libertà dello spirito che "col suo braccio forte ci porta al di là del profondo abisso". Così la leggerezza dei movimenti rapidi e il terso lirismo di quelli lenti (come la purissima "Cavatina") o il tono ambiguamente scherzoso di brani come l'Andante con moto ma non troppo, e ancora gli echi agresti trasfigurati nella "Danza tedesca" costituiscono gl'ingredienti espressivi di un "divertimento" spirituale nella più squisita accezione etimologica del termine. Significativo il fatto che Beethoven abbia consapevolmente sostituito la Grande Fuga, che in origine concludeva il Quartetto, con un altro finale la cui gaia amabilità, traboccante dal suo tema all'ungherese, avrebbe mirabilmente ristabilito un equilibrio compromesso.
 
Pubblicata a parte come op. 133, la Grande Fuga sarà per molto tempo la pietra dello scandalo dei commentatori scolastici, incapaci di piegarla alle loro analisi formalistiche e di giustificare la ciclopica asperità del suo linguaggio strumentale, che trova un corrispettivo soltanto nelle tremende architetture dell'altro monstrum polifonico beethoveniano, posto a conclusione della Sonata op. 106. La Grande Fuga si configura in realtà come un tentativo di sintesi tra gli elementi sonatistici (ravvisabili, tra l'altro, nei tre movimenti senza soluzione di continuità in cui è distribuito il discorso) e quelli del contrappunto, tenuti insieme da una rigorosa unità tematica che garantisce la fondamentale unità dell'intero brano: in breve, tre aspetti diversificati di un'unitaria concezione polifonica.
 
Gli ultimi due Quartetti nasceranno indipendentemente dalla committenza di Golicyn, quasi come il seguito di un incontenibile fiotto d'ispirazione. Il Quartetto in do diesis minore op. 131 viene ultimato nel luglio 1826. Si tratta del più monumentale tra tutti i Quartetti di Beethoven; in esso anche le ultime tracce della forma-sonata si dissolvono e i vari movimenti, saliti a sette, si susseguono per la prima volta ininterrottamente, come seguendo il filo di un lunghissimo soliloquio dell'anima attraverso i più disparati stati di coscienza. Il susseguirsi ininterrotto di tali eventi interiori si concreta in forme le quali più che mai trovano la propria logica in se medesime di là di ogni riconoscibile tracciato tradizionalistico, pur sussistente - fugati, scherzi, variazioni e simili - come lontana idea platonica di un archetipo.
 
Lo stesso si può dire del Quartetto in Fa maggiore op. 135, composto contemporaneamente al precedente, ma portato a termine nell'ottobre del 1826. Qui Beethoven, ripercorrendo il cammino fatto con l'Ottava Sinfonia, torna alle ridotte proporzioni settecentesche, a quattro tempi che hanno tutta l'apparenza di movimenti tradizionali e persino a una maggìore evidenza, all'interno di essi, di quelle che potrebbero essere interpretate come tradizionali strutture sonafistiche. Eppure la vanificazione di tali strutture attraverso il congelamento di tutte le pulsioni dinamiche che ne costituivano l'essenza, qui si fa ancor più capillare e integrale. Tra l'inquietante ambiguità del primo tempo e i trasalimenti avveniristici di segno quasi bartókiano dello Scherzo, il mistero s'infittisce - dopo la breve parentesi lirica del "Dolce canto di riposo e di pace" - nel Finale, costruito sul tema del canone scherzoso "Es muß sein, es muß sein, ja, ja" composto nell'aprile precedente. Introdotto e poi interrotto dallo scuotimento tellurico di un Grave che sembra mettere a nudo le più riposte fibre del suono, l'Allegro si chiude con un "pizzicato" in pianissimo: sottovoce e ammiccando con sublime umorismo, Beethoven si congedava così dalla musica e dalla vita.

Giovanni Carli Ballola (Philips, 1989)

sabato, febbraio 02, 2013

Wagner: Il crepuscolo degli dei

Hagen e suo padre Alberich
(Arthur Rackham 1867-1939)
Età ultima: età di uomini. Dei luminosi Asen abitatori del Walhalla, una sola traccia scialba: quella di Wotan che, dal racconto d'una sua messaggera, s'intravede tetro e taciturno nel concistoro degli dei, davanti alla immane catasta pronta a divampare, e a tutto distruggere. Delle deità inferiori, quella sola medesima messaggera, walkiria scorata, che vede consumarsi l'ultima sua speranza. Tra i demoni elementari, non più giganti né nani, soltanto l'ombra sinistra di Alberico nel sogno, o meglio, nell'incubo notturno di Hagen seduto a guardia della reggia ghibicunga. Le stesse tre Norne, le tessitrici del destino, compaiono sull'altura selvaggia delle walkirie, soltanto per lasciar intendere, che l'amara vicenda degli esseri, di tutti gli esseri, sta per finire. Il loro filo si strappa, per non riannodarsi in eterno. Scaduti o sminuiti anche gli eroi: Siegfried, da uccisore del drago, vincitore dello stesso Wotan e risvegliatore di walkirie, mutato, sotto l'impero d'un filtro, in avventuroso magico per conto altrui e in marito trasognato; Brünnhilde, per un tradimento insieme reale e presunto, fatta da amante eroica, filistea gelosa e bassa vendicatrice. Fuori di ogni eroismo, quando non addirittura al di sotto di ogni umanità, le persone nuove: inteso Hagen, animo pieno di frode, soltanto a quelle sue trame, che lo porteranno al tradimento e al delitto; evanescente Gutrune, tra veli tenui come di nebbia d'argento; impacciato e ingenuo fino al grottesco Gunther, nella sua umanità sempre vinta e sopraffatta.
Ragione di tanto squallore? Una sola, fondamentale: il sempre più ostinato isolarsi dell'individuo dalla Natura-Tutto; il sempre più orgoglioso contrapporsi della sua consapevolezza (Bewusstsein) alla divina inconsapevolezza (Unbewusstes) di quella primordiale unità. Brillava infatti un tempo, all'origine del mondo, l'oro puro nel fluire eterno dell'acqua innocente. Se non che, rapito quell'oro dalla mano cupida del nano Alberico, la catena delle colpe s'è iniziata ed ha continuato a svolgersi senza interruzione. Sue prigioniere e schiave, tanto l'una quanto l'altra delle due stirpi perennemente nemiche: quella luminosa di Wotan, degli dei e degli eroi da lui generati; quella oscura dei nani, dei giganti e degli esseri elementari. Unica soluzione possibile: la purificazione universale col fuoco - incendio del Walhalla e del mondo - e il dissolvimento dei singoli nella primordiale innocente unità: acqua che alla fine tutto invade e, secondo la sapienza ultima di Brünnhilde, ricupera l'oro, e viene a chiudere nel proprio grembo le ceneri dell'universo.
Questa la realtà metafisica che Wagner vive e riesce a far vivere nella Tetralogia, con penetrazione singolarissima della cosmologia nordica e con espressione d'arte imperitura. Per la verità, il dramma poetico del Crepuscolo, ultimo della serie in ordine logico, ma primo in ordine cronologico procede, anche nelle sue ultime rielaborazioni, assai più debole degli altri, impedito ancora dai detriti di confuse ideologie politico-sociali, e sopratutto, non mai completamente maturato dal suo iniziale stato di abbozzo. Male, anzi, interiormente, punto giustificata l'azione dei due filtri, che riduce il protagonista, non al vivo inconscio della selva ma all'automatismo smorto del sonnambulo; numerose le ripetizioni, fastidiosi i riassunti dai precedenti, non raramente ingenuo il dialogo, barocca l'immagine, incolore le figure. Ma basta che quella visione metafisica, che già nel Prologo delle Norne s'era disegnata agli occhi spirituali del poeta, balzi loro nuovameente incontro, perchè improvvisamente tutto si ridesti e si riaccenda. La scena delle Figlie del Reno riesce tra le, più luminose della Tetralogia. E il finale, dilatato fino agli estremi confini del mondo, non soltanto sorpassa a dismisura la scialba e angusta sua preparazione, ma costituisce per sè una di quelle rappresentazioni che toccano il vertice della sublimità tragica.
Le quattro sue successive rielaborazioni, oltre quella rappresentata dal presente testo, segnano le tappe del lungo e consapevole travaglio del poeta. Dall'atmosfera grossolanamente ottimistica e ardentemente politica di Feuerbach, Röckel e Bakunin, a quella sottilmente e disperatamente pessimistica del Buddo e di Schopenhauer, e, infine, a quella nuovamente ottimistica ma spiritualmente cristiana, o almeno cristianizzante, della "compassione" di Parsifal, il dramma viene via via illuminandosi di tante e così diverse luci, da dare il barbaglio e quasi la vertigine. Una più attenta considerazione porta tuttavia a riconoscere che, per quanto molte e variamente colorate, quelle luci partonolutte da un solo punto: dalla perenne, caratteristica aspirazione germanica verso l'inconscio e dalla conseguente avversione verso l'intelligenza considerata, in quanto creatrice ed isolatrice dell'individuale, origine di tutti i mali e detentrice di tutte le colpe. Ancora più profondo: dalla perenne aspirazione germanica verso il dissolvimento di tutte e di ciascuna di quelle innumerevoli esistenze limitate, in cui un cieco crudo destino, la Wurd, ha voluto che si frantumasse l'unità del Tutto. Sotto questo rispetto, la redazione qui accolta, che è anche quella così inconsapevolmente declamata e cantata da tanti attori sulla scena e cosi inconsapevolmente ascoltata da tante folle nei teatri, viene a rappresentare nella sua espressione, spoglia delle ideologie successivamente sopraggiunte, la maggiore e migliore adesione. alla metafisica naturalistica e alla cosmologia tragica dell'Edda.
Quintessenza, dunque, di odinismo. Coloro che hanno giudicato del finale del Crepuscolo come di un trapasso senza discontinuità verso il cristianesimo, o addirittura come di una simbologia mitologica rivestente uno spirito già cristianizzato, a mio avviso, o hanno dato troppo peso alla variante mai musicata di sapore parsifaliano e a qualche altro vago particolare, di cui è detto nel commento; o non si sono resi abbastanza conto, nè della vera essenza del paganesimo odinico, nè delle numerose e tenaci radici, onde lo spirito wagneriano si trova ad esso congiunto. Realmente così numerose e tenaci, che una serie di letture abbastanza rapide e superficiali potè bastare a che il pensatore-poeta, penetrasse in quell'essenza ben più a fondo di tutte le indagini di una critica secolare, e riuscisse a farsene sangue del proprio sangue e spirito del proprio spirito. Tanto, che non se ne liberò più: neppure all'ultimo rigoglioso prorompere di quella spiritualità cristiana, che, insospettata da Nietzsche, aveva pur sempre e fin da principio costituito, per dirla goethianamente, la seconda anima del suo petto.
Rappresentazione grandiosa. Il Drews ha ragione di trovare nella Tetralogia di Wagner un respiro di universalità più vasto che nel Faust di Goethe: tragedia d'un uomo questa, tragedia d'un mondo quella. Ma è anche lecito rilevare - prescindendo dalla smisurata ricchezza e sapienza artistica dell'una, e dalla elementarità scabra mista di tumido barocco dell'altra - che di tanto la Tetralogia sorpassa per interiore coerenza il Faust, di quanto un granitico paganesimo avanza in saldezza e compattezza un cristianesimo ibrido e composito. Una sola opera forse, può, sotto questo rispetto, stare di fronte alla "elementare tragedia" wagneriana: la Divina Commedia dantesca. Se non che qui, superfluo dirlo, l'interiore coerenza si costruisce con tale armonia e s'illumina di tanto alta spiritualità, che la Tetralogia n'esce, al confronto, necessariamente greve e opaca.
Il dramma musicale, non parallelo al poetico, ma inserito nella stessa sua viva essenza, secondo lo spirito di quella dottrina che da me è stata a suo tempo ampiamente illustrata nella prefazione del Tristano, mira, nel Crepuscolo, soprattutto ad immettere in un solo alveo le molteplici correnti che sono necessariamente affiorate, in corso più o meno lungo e impetuoso, durante tutta la Tetralogia. Relativamente scarsi, quindi, i motivi nuovi - una terza parte circa di quelli che compongono l'intera tessitura musicale dell'opera - e netto il predominio del «tematismo» sul «motivismo»: inteso quello come pura composizione musicale, e questo come espressione piena e complessa insieme d'arte e di vita. Meno frequente perciò, che nelle prime Giornate, la meraviglia e l'«incantesimo» dell'ascoltatore; ma in compenso, più, consapevole e profonda la sua ammirazione. Quel confluire, infatti, e ritrovarsi di motivi e di famiglie di motivi - non si tratta, naturalmente di metafora poetica nè di schematismo critico, ma di realtà viva che congiunge in famiglie e categorie così gli uomini e le cose, come le loro voci -; e sopratutto quel loro ultimo conciliarsi e comporsi nei motivi essenziali e eterni dell «acqua» e dell'«amore» quasi come in un' inscindibile dualità di corpo e di spirito, mentre afferma ancora una volta, di fronte a chi voglia e a chi non voglia intendere, la presenza reale e attuale di fantasia e pensiero nell'opera d'arte, riesce alla duratura conquista della nostra umanità. Che è poi la più alta consacrazione, a cui quella medesima opera possa e debba aspirare.
 
La presente edizione è stata condotta, come le altre dei drammi precedenti, sul testo dello spartito musicale adottato dalla regia di Bayreuth (Breitkopf u. Härtels Textbibliothek, n. 520) riveduto nella grafia ed emendato nella punteggiatura. Le varianti (escluse al solito quelle delle didascalie e le meramente grafiche) procedono dal testo letterario definitivamente curato dall' autore e dalle varie rielaborazioni rappresentate dalle anteriori edizioni. Il lettore le troverà registrate e descritte nel commento, sotto,il titolo: Origine, composizione e fortuna.
Sulla versione italiana (Zanardini) e sulle francesi (De Brinn' Gaubast, Ernst) da me sempre tenute presenti, non avrei che a ripetere quanto ho già scritto nelle prefazioni ai precedenti drammi, e più specialmente al Siegfried. E a quelle rimando, non senza rinnovare l'augurio che si trovi modo di risparmiare al nostro pubblico un testo in troppi luoghi non dico frainteso, ma addirittura sfigurato.
Criteri di versione e di commento. i medesimi anch'essi, altre volte fissati. Mi si permetta richiamarli dal Siegfried: «Forte della ventennale esperienza di traduttore goethiano e wagneriano, ho cercato di penetrare nei recessi più reconditi del ricchissimo lessico e di sciogliere ad una ad una le pieghe del singolarissimo stile wagneriano, non senza augurarmi che qualche studioso di seria esperienza e di gusto sicuro sia finalmente allettato, da quel che ho qui raccolto necessariamente per cenni, ad uno studio compiuto ed organico sull'argomento. Conservata e fermata ancora una volta, fino agli estremi limiti del nostro possibile linguistico, lettera e spirito dell'allitterazione sia consonantica che vocalica, ho lasciato di quando in quando spontaneamente fiorire la rima (anche interna) e adottato il verso regolare italiano - specie l'endecasillabo - ogni volta che, in fedeltà di versione, l'originale, più che consentirlo, mi sembrava addirittura richiederlo. N'è così venuta, se non mi inganno, una più intima aderenza dell'espressione italiana allo spirito poetico-musicale, alla metrica, alla prosodia e alla rara ma pur presente rima del dramma, e, l'insieme un che di più luminoso e arioso, onde' il nostro pubblico s'avvierà, ritengo, sempre meglio alla comprensione del mondo nordico.
«Nove anni di interruzione hanno reso indispensabile, sulla base dei nuovi studi, veramente, tolti alcuni notevolissimi, molto più abbondanti che rivelatori, uno scrupoloso aggiornamento bibliografico e una forte rielaborazione del commento linguistico, mitologico, estetico e musicale. E l'una cosa e l'altra è stata compiuta con lunghe e non sempre facili ricerche e con assidua meditazione. La già da me esposta e illustrata interpretazione del Ring n'esce, mi sembra, vie maggiormente, per non dire definitivamente consolidata. Ancora una volta il commento del GOLTHER, eccellente ma scarsissimo, m'è quasi mancato; in compenso quello del de BRINN' GAUBAST mi è stato molto più utile che nella Walkiria. Qualche non inutile novità - la citazione dei testi eddici riferita, oltre che alla versione tedesca, anche all'originale nordico; la lista delle abbreviazioni bibliografiche; il richiamo dei motivi rielaborati al luogo dove la prima volta sono apparsi e registrati nel commento; le genealogie mitiche ricostruite dalle fonti; una migliore distribuzione e chiarezza nei corpi e nell'assetto tipografico - riuscirà gradita, spero, a pubblico e a studiosi».
«Per l'illustrazione musicale, non ho che a ripetere il più volte detto. Senza allontanarmi
dai criteri di un'accessibile divulgazione, ho tenuto presenti il commento di E. BARTHELEMY (annesso alla versione del de Brinn' Gaust), e le guide dello CHOP (Reclam), del WAACK (Breitkopf u. Härtel), del BURGHOLD (Schott) e del BASSI (Ricordi). Ma assai più, come sempre, ho cercato di far rivivere impressioni ed esperienze dirette, principalissima, tra le quali, naturalmente, l'audizione di Bavreuth».

Guido Manacorda, 1935 (testo riveduto da Giulio Cogni)