Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, dicembre 19, 2015

Edgard Varèse

Edgard Varèse (1883-1965)
Nel catalogo di Casa Ricordi è compreso praticamente tutto quanto da Varèse è stato scritto – in fatto di note (1) - nel corso di un’intera vita, neppure così breve (1883-1965); o almeno quanto il suo autore ha voluto che sopravvivesse dopo l’impietosa distruzione di quello che aveva composto in più di vent’anni, fino cioè alla partenza per gli Stati Uniti nel 1914. Sono dodici pezzi, che potrebbero essere integralmente eseguiti in due soli concerti di durata non troppo superiore alla media. Una produzione dunque limitatissima, la più limitata sicuramente che si conosca nella storia della grande musica, assai più addirittura di quella di un Berg o di un Webern. E tuttavia, a oltre cent’anni dalla nascita di questo compositore, essa appare più attuale e vitale che mai, e questo “rilancio” ne costituisce la prova evidente.
Cerchiamo di capire, guardando da vicino questa figura d’uomo e d’artista, le ragioni della salda sopravvivenza della sua opera. Nato a Parigi da padre italiano e da madre francese, vive dai dieci ai vent’anni a Torino, dove inizia gli studi musicali, ma nel 1903 rompe col padre e si trasferisce a Parigi, completando gli studi con d’Indy, Roussel e Widor. Ben presto scrive i primi pezzi, si trasferisce a Berlino, è apprezzato da Busoni e Debussy, si trova tra i primi ascoltatori di Pierrot lunaire di Schönberg e del Sacre di Stravinskij (rispettivamente a Berlino e a Parigi, 1912 e 1913) finché nel 1914, come abbiamo visto, si trasferisce negli Stati Uniti: qui matura la decisione di separarsi dalla produzione precedente, che di fatto viene materialmente distrutta, e inizia un nuovo, affascinante percorso di compositore-ricercatore-innovatore affatto radicale.
Da una parte si adopera intanto come direttore d’orchestra (è del 1919 la fondazione della New Symphony Orchestra da lui diretta), come animatore e organizzatore per la diffusione della musica contemporanea, facendo conoscere in America autori e pezzi sin’allora costà ignorati; dall’altra inizia, a partire da Amériques – terminate nel 1922 – la non lunga serie di composizioni che ben presto lo imporrà all’attenzione del mondo culturale e musicale come uno dei maestri più avanzati e impegnati nello schiudere territori inesplorati alla “nuova musica”. Intensa è dunque la sua attività americana (fonda tra l’altro con Chávez e Cowell la Pan American Association of Composers), ma dal 1928 al 1933 è di nuovo in Francia, con i cui ambienti musicali non aveva mai perso il contatto e dove riprende i rapporti con vecchi amici come Picasso e Cocteau, e stringe nuove amicizie (Jolivet, Villa-Lobos).
Nel 1934 ha inizio un lungo periodo di crisi, dovuta a insoddisfazione compositiva e segnata da un’irrequieta mobilità nel centro e nell’occidente degli States, anche cercando di operare – ma senza successo – come compositore di musica per film, fondando nuove istituzioni musicali, aprendo casa a Santa Fé, poi a San Francisco e infine a Los Angeles, prima di rientrare a New York nel 1941. La sua produzione ristagna, lo occupano studi e ricerche di vario genere che non riescono a catalizzarsi in opere musicali: dal 1934, data della composizione di Ecuatorial, fino al 1950 non scrive quasi più nulla, se si esclude l’esile Density 21.5 per flauto e la breve Etude pour espace per coro, due pianoforti e percussione, eseguita una sola volta e rimasta inedita, nonché una Dance for Burgess di cui si sa ancora meno che del lavoro precedente.
Ma gli ultimi quindici anni di vita sono contrassegnati da una ripresa energica dell’attività compositiva, con capolavori quali Déserts e Nocturnal, e da un pieno, crescente e definitivo riconoscimento internazionale della sua straordinaria importanza di compositore. Si interessa all’attività dei giovani attivi ai Ferienkurse di Darmstadt (dove tiene lezioni), le sue opere incominciano a essere incise su disco, riceve commissioni prestigiose (tra l’altro, da Le Corbusier, quella per il Poème électronique destinato al padiglione Philips per l’esposizione di Bruxelles del 1958), onorificenze di stato, e finalmente la sua musica incomincia a conoscere una discreta diffusione, seppure non certo ancora adeguata al suo reale valore. Si spegne il 6 novembre 1965 al New York University Medical Center Hospital senza essere riuscito a realizzare il suo ultimo progetto: una musica per Dans la nuit di Henri Michaux.Il poema sinfonico Bourgogne, terminato nel 1909 ed eseguito nel 1910 a Berlino, fa parte com’è noto delle opere ripudiate dal compositore (ma solo nel 1961, stranamente, Varèse prenderà la decisione di distruggere materialmente la partitura). Eppure sentiamo che cosa rispondeva in un’intervista del 1965 a una domanda relativa alla funzione molto articolata degli archi in questa composizione:
Stavo cercando di avvicinarmi a quella vita interiore, microcosmica, che si può scoprire in certe soluzioni chimiche; o nella luce filtrata. Utilizzavo gli archi in modo non tematico, come sfondo a un grosso insieme di ottoni e di percussioni.
Evidentemente egli parla col senno di poi, cioè tenendo conto – consciamente o meno – dell’evoluzione del suo pensiero e delle sue ricerche durate più di quarant’anni. La decisione di distruggere nonostante tutto quelle opere giovanili ci indica però che, con tutte le già personali innovazioni che potevano contenere, c’era in esse qualcosa che non lo soddisfaceva (nell’unica che è sopravvissuta, Un grand sommeil noir del 1906, su testo di Verlaine, per canto e pianoforte, possiamo forse capire di che cosa fosse insoddisfatto): il fatto è che Varèse mirava a una rifondazione radicale della musica, ed egli poté cominciare a realizzarla davvero solo a partire dal 1920.
L’espressione “territori inesplorati” che poco sopra è scivolata discorsivamente dalla penna, è alla fine proprio la più esatta per definire la posizione di Varèse e la natura della sua musica: perché non esiste forse nel nostro secolo nessun compositore che abbia ripensato così dalle radici l’arte dei suoni. Prendiamo Schönberg. Il suo periodo dell’“emancipazione della dissonanza”, tra il 1909 e il 1920 circa, ha prodotto certamente opere sconvolgenti e sublimi. Tuttavia se analizziamo la struttura del loro linguaggio possiamo notare che esso è pur sempre segnato dalla volontà di contrapporsi a quello della tradizione, di negarlo, potendo quindi esistere solo in quanto continuazione-rottura rispetto ad esso.
E quando Schönberg adottò la dodecafonia, non si rifugiò forse per lunghi anni nelle forme tràdite, sette e ottocentesche, quasi a voler realizzare una solida congiunzione tra passato e presente, una conciliazione dopo le eruzioni del periodo precedente? E Bartók, musicista che Varèse peraltro stimava enormemente? Le sue straordinarie innovazioni linguistiche e formali poterono aver luogo solo in quanto egli riuscì a potenziare, a sublimare a misura d’arte i dati di “extraterritorialità” che gli venivano dal ricorso alle movenze e ai caratteri popolari che sappiamo: nemmeno lui ebbe l’ardire di partire davvero da una “tabula rasa”. E questo discorso non vale mutatis mutandis forse anche per lo Stravinskij del periodo aureo (per tacere del lungo crepuscolo noeclassico)? E il ricorso alle forme e talora all’armonia tradizionale di Berg? E la prodigiosa capacità visionaria di Ives, che vive però della rigenerazione e della commistione di linguaggi del passato e del presente? Il neobarocco (si badi alla definizione!) di Hindemith? Il cosiddetto cubismo musicale di certo Prokofiev, che può esistere solo in quanto deforma, stravolge o sublima tratti, movenze, sonorità noti? E quanta tensione dialettica col passato negli Shostakovic, Malipiero, Villa-Lobos, Ravel, ecc.
Di questo conflitto duro, di questa lotta per riplasmare e rinnovare, non v’è traccia nell’opera di un solo compositore del nostro secolo: e questo compositore è Edgard Varèse, che dev’essere stato portato di necessità dal suo istinto autocritico, a rinnegare ciò che aveva scritto nei primi anni, che forse recava a sua volta i segni di un conflitto non risolto, di una subalternità, in qualche modo, al passato.
A partire da Amériques ci troviamo davvero in territori inesplorati, lontani appaiono gli echi delle polemiche, delle esplosioni, dei compromessi fors’anche che i suoi coetanei qualche volta avranno dovuto accettare. Ma lui, Varèse, ha preso le distanze, anche fisicamente, ha messo 6000 chilometri tra se stesso e Parigi, si è trasferito in terra vergine. Può incominciare il suo nuovo lavoro con la mente sgombra, con l’illusione di gettare in un mondo nuovo il seme di una pianta sconosciuta. E il percorso attraverso le musiche che egli compose da quel momento descrive una linea affascinante e in costante ascesa. Reminiscenze stravinskiane che si possono avvertire nei primi pezzi appaiono piuttosto relitti quasi fisiologici di un periodo formativo (la Parigi degli anni ’10) che non ricupero di legami col passato. E subito invece ci attira la trasparenza della sua strumentazione, che crea agglomerati nuovi, cristallini, nati da una concezione timbrica di cui non troveremmo anticipazioni in nessun predecessore; la pulizia delle sue armonie, che non nascono “in antitesi a”, o “per negazione di”, e tanto meno col semplice quanto insulso intento di épater lebourgeois, ma come fiori ignoti, come di un altro pianeta, in forza di una logica fisica e acustica che ha la sua ragion d’essere in se stessa e non si preoccupa di apparire più avanzata o più moderna di altre, perché semplicemente è, nella sua autonomia e nella purezza della sua costruzione; la semplicità della forma, per lo più assai contenuta nella durata, costruita con elegante semplicità, così come un esperto muratore tira su un muro di mattoni nudi che non hanno bisogno di orpelli, arricchimenti o fregi per dichiararsi in tutta la loro funzionale bellezza. Questo percorso, lungo negli anni per quanto ridotto nella quantità, porterà Varèse attraverso esperienze esaltanti come il brano per sola percussione, le risonanze arcane del coro di bassi all’unisono sui testi rituali maya del Popol Vuh, il titanico progetto di Espace, fino all’incontro con la musica concreta di Déserts e a quella elettronica del Poème. Nessuno credo è in grado di spiegare, allo stato, perché mai Varèse, che per decenni aveva aspirato a una musica “della macchina”, a una musica di sonorità sconosciute, non abbia approfittato a fondo del mezzo elettronico. Dedito da gran tempo a instancabili sperimentazioni e auscultazioni dei vari strumenti percussivi ed esotici di cui traboccava il sotterraneo della sua casa di New York, felice di andare nelle officine e per le strade a registrare i suoni e i rumori che gli sarebbero serviti – manipolati – per le parti su nastro di Déserts, egli forse sentì, intravvide nelle sonorità elettroniche, lo spettro di quella cultura della disumanità contro cui aveva in realtà lottato tutta la vita: e se ne ritrasse spaurito, ancora legato in fondo a una concezione ottocentesca della “macchina”. Stavolta certo sbagliava, ed era forse troppo vecchio del resto per entrare in un nuovo territorio da esplorare. Ugualmente quello che egli fece è servito per anni da insegnamento limpido e puro a intere generazioni di compositori: Varèse ha insegnato da una parte la fedeltà a un’idea, il disprezzo del compromesso, la necessità persino di accettare l’emarginazione se questo si deve pagare per preservare la propria coerenza e le proprie convinzioni; dall’altra a porsi di fronte alla musica con mente libera, con sincera curiosità per il nuovo, per il non-ancora-udito, a non appoggiarsi a schemi o moduli precostituiti ma a costruire ogni volta, in ogni opera, le ragioni autentiche della sua esistenza, della sua struttura. Per tutto questo egli rimane l’unico musicista del nostro secolo che può essere a buon diritto posto accanto all’altro grande maestro di vita, di musica e di umanità che fu Schönberg: e l’ascolto delle sue opere ne costituirà per chiunque la prova più forte e più chiara.
 
Giacomo Manzoni, agosto 1989 

(1) Gli scritti principali, vive testimonianze della problematica compositiva e umana di Varèse, sono raccolti in Écrits, textes réunis et présentés par Louise Hirbour, Christian Bourgois Éditeur, Paris 1983. Traduzione in italiano: Il suono organizzato, Edizioni Ricordi/Unicopli, Milano 1985.

venerdì, dicembre 11, 2015

Mahler/Berio: Fünf frühe Lieder per voce maschile e orchestra

Luciano Berio (1925-2003) - Gustav Mahler (1860-1911)
Fra i compositori del Novecento che si sono accostati, direttamente o indirettamente, alla musica di Mahler, Luciano Berio ci pare il più oggettivo e lucido. Certo, anche Berio ha sentito emotivamente il fascino della musica di Mahler, come simbolo non soltanto di una compiuta espressione artistica ma anche di una profonda concezione insieme umana e poetica, ma ha teso, anche amandola, a indagarla da compositore, soprattutto in quanto tale. Ossia come oggetto di riflessione non nostalgica e come stimolo di rielaborazione attiva. Sotto questo profilo Sinfonia, del 1968-1969 costituisce un modello dell'atteggiamento di Berio compositore nei confronti di tutta la musica del passato. Il materiale desunto da Mahler (lo Scherzo della Seconda Sinfonia) diviene, parallelamente al testo di un poeta contemporaneo, Samuel Beckett, il punto di partenza per un vertiginoso circolo di frammentazioni e di trasformazioni dal quale emerge, come per necessità strutturale di stadi successivi, una nuova individuazione della forma e del linguaggio compositivo: quella di Berio stesso. Parlare semplicemente di immedesimazione in atmosfere mahleriane qui non avrebbe senso. Attraverso un processo di decostruzione e di stilizzazione, la memoria viene chiamata a creare una prospettiva di campi aperti, di associazioni molteplici, che sconvolge il dato assimilato e lo immette in una fuga centrifuga verso orizzonti retti da logiche di tutt'altro genere, che prefigurano e realizzano strada facendo una diversa coscienza del comporre e, per noi, dell'ascoltare.
Diverso è il caso dell'orchestrazione di Berio dei Lieder giovanili di Mahler. Questi Lieder, in tutto quattordici, composti in parte tra il 1880 e il 1883, in parte tra il 1888 e il 1891, furono stampati dopo la morte dell'autore con l'indicazione comune Lieder und Gesänge aus derJugendzeit (Canzoni e canti del tempo della giovinezza), e sono tutti per voce e pianoforte. Il lavoro creativo di Berio è consistito nella strumentazione dell'accompagnamento pianistico, lasciando intatta la linea del canto. Le eccezioni sono costituite da quei casi nei quali Berio si è confrontato direttamente con la strumentazione di Mahler, che come era solito fare rielaborò alcuni di questi Lieder nelle sue Sinfonie: in questi casi la scintilla del confronto accende una fiamma che produce vere e proprie reazioni alchemiche, di segno perentorio. Per il resto, Berio si è ispirato programmaticamente a una strumentazione "mahleriana" fin nell'organico, appena un po' più espansa e ripensata nel secondo ciclo, mirando a ricreare con l'orchestra la sua visione dell'ambientazione sonora in relazione all'articolazione del canto e alle suggestioni del testo, come un «rispettoso e amoroso strumento di analisi e di trasformazione». Non per questo la sua mano d'autore e la sua cifra di conclamato inventore di inconfondibili paesaggi sonori sono meno riconoscibili; né è meno rilevante la sua capacità di scorgere acutamente e di mettere in luce, in questi primi riconoscimenti di sé da parte di Mahler, la pluralità e la virtualità che vi sono implicate.
I cinque Lieder giovanili che Berio ha orchestrato per primi nel 1986* (dedicati a Zubin Mehta per il suo cinquantesimo compleanno) racchiudono già l'essenza della poetica mahleriana del dolore, dell'estraneità, dell'esilio e della rivolta. Il primo, Ablösung in Sommer (Cambio della guardia in estate) ha un carattere umoristico e popolare. Lo ritroviamo sviluppato nello Scherzo della Terza Sinfonia, che Berio prende a modello e trasforma in uno scintillante gioco di specchi fra il Lied e lo Scherzo. Una tipica scena di vita militare è alla base di Zu Strassburg auf der Schanz (A Strasburgo sul bastione), che Berio caratterizza opponendo segnali militari nei fiati e nella percussione a tocchi pastorali riverberati da intermittenti fasce sonore degli archi. L'accompagnamento pianistico è già di per sé così ricco di suggerimenti orchestrali che non sorprende affatto che Mahler stesso avesse cominciato a strumentarlo: infatti l'orchestrazione di Berio prende spunto da due pagine originali di Mahler. In Nicht wiedersehn! (Non rivedersi!), ballata romantica di amore e morte, è particolarmente interessante l'interpretazione che Berio dà all'armonia, giocata sull'alternanza maggiore-minore, facendone il catalizzatore di una cangiante tavolozza timbrica. Al carattere degli apologhi infantili appartiene Um schlimme Kinder artig zu machen (Per trasformare in buoni i bambini cattivi), dal carattere innocente e gaio, rispecchiato anche nella leggerezza incantata della strumentazione.
I testi di questi quattro Lieder provengono dalla raccolta popolare di Achim e Brentano Des Knaben Wunderhorn (I1 corno magico del fanciullo), alla quale Mahler sarebbe tornato sovente con la sua musica. Il quinto, Erinnerung (Ricordo), è invece tratto da una raccolta di poesie pubblicata nel 1878 da Richard Leander, pseudonimo di Richard von Volkmann, di professione medico. È un Lied di carattere intimo, se non proprio intimistico, lento e nostalgico, che sfrutta in tutte le combinazioni possibili il gioco di parole tra Liebe (amore) e Lieder (canti), adagiandosi in un riflesso armonico tutto appoggiature e progressioni cromatiche. Berio lo strumenta con reminiscenze wagneriane, con continui contrappunti dell'arpa, quasi a voler rendere nelle sue screziature il senso di un ricordo insieme malinconico e trasfigurato, e lo colloca alla fine sia del primo ciclo sia del secondo, quasi a raffigurare un'epigrafe affettuosa della storia dell'infanzia del Lied mahleriano.
 
Sergio Sablich (9 dicembre 2000)
 
(*) La prima esecuzione assoluta avvenne il 26 luglio 1986 alla "Settimana Musicale Gustav Mahler" di Dobbiaco (Toblach).

mercoledì, dicembre 02, 2015

Monteverdi:Il Vespro della Beata Vergine secondo Harnoncourt

Vespro della Beata Vergine
Opere d'arte in onore di Maria
Le opere d’arte in onore della Madre di Dio hanno sempre occupato un posto d’onore. Le pitture religiose, e in particolare le rappresentazioni di Maria, presentavano strumenti musicali suonati da angeli già in un'epoca in cui ancora non erano affatto autorizzati ufficialmente dalla chiesa. Molti di questi quadri di fatto non rappresentavano veri e propri "concerti da chiesa", al contrario sono concepiti come allegorie; molto spesso questi dipinti mostrano combinazioni strumentali fra le più comuni della musica profana. C'è dunque un vero e proprio parallelismo con i quadri di "musica mariana": le composizioni in onore di Maria, le musiche sul testo del cantico di Salomone per esempio e altre opere analoghe, erano da lungo tempo più "profane", più appassionate e, per l’epoca, più "moderne" della musica sacra del tempo, quasi sempre conservatrice. Così anche Palestrina, che solo una generazione prima di Monteverdi aveva fissato i canoni di una musica religiosa di stile severo e conforme alle regole, diceva nella prefazione a un libro di mottetti: "Ho volto qui la mia musa verso le poesie dedicate alla lode della Santa Vergine, il cantico di Salomone. Vi ho impiegato uno stile più appassionato che nelle mie altre opere di musica da chiesa che questa poesia sembrava richiedere...". Non è dunque certamente un caso che proprio nel Vespro della Beata Vergine, per la prima volta nella storia della musica, la cornice stilistica e sonora abituale fu spezzata in tutte le direzioni possibili. Quest'opera rivoluzionaria utilizzava, per la prima volta nel caso di una grande opera vocale spirituale, le innovazioni della musica strumentale veneziana e lo stile dell’opera, che allora aveva solo qualche anno e alla cui costituzione lo stesso Monteverdi aveva contribuito in modo decisivo.

Il Vespro di Monteverdi
Monteverdi ovviamente conosceva bene tutte le innovazioni introdotte nel campo della musica sacra dai suoi colleghi vicini di Venezia. Dal 1591 era impiegato come "suonatore di viuola" presso Vincenzo I a Mantova e aveva partecipato a diversi viaggi con la cappella principesca. Aveva quindi avuto occasione di vedere di persona come si faceva musica altrove e di subirne l'influenza. Negli Scherzi musicali del 1607, ispirati allo stile francese, associa a tre parti vocali tre strumenti (due violini e uno strumento armonico) che non suonano solo i ritornelli fra le strofe, ma anche degli interventi obbligati durante il canto. Nell`Orfeo, la sua prima opera, anch'essa del 1607, si serve della mutevole gamma sonora dell'orchestra della canzone veneziana: al gruppo del continuo - organo di legno, clavicembalo, regale, liuto (chitarrone), arpa e archi gravi - si aggiungono violini, viole, cornetti a bocchino e tromboni. A questo proposito, è interessante notare che Monteverdi, forse perché era lui stesso violinista, fu il primo a rinunciare alla predominanza dei fiati a vantaggio degli archi in quest'orchestra del primo barocco.
E' proprio quest'orchestra che Monteverdi utilizza anche nel Vespro della Beata Vergine; per il coro iniziale "Domine ad adjuvandum me festina", fa suonare agli strumenti quasi la stessa sonata indipendente - o toccata, come viene chiamata nell’opera - dell’inizio di Orfeo. Questo parallelismo fra opera e musica sacra va quindi aldilà degli aspetti stilistici e sonori: non solo Monteverdi nel Vespro porta per la prima volta lo stile dell’opera in chiesa, ma anche l'orchestra dell’opera vi è rappresentata in tutto il suo splendore e fin dal primo brano, con questa citazione nella dovuta forma dell’Orfeo! Conformemente all'uso del tempo, il compositore non ha dato all’interprete una partitura pronta per l'esecuzione; non può e non vuole fare niente di simile sotto pena di ridurre la molteplicità delle possibilità. Ecco perché un tempo ogni esecuzione di una grande opera aveva un aspetto tutto particolare.

Immagine sonora e strumentazione
L'immagine sonora del Vespro della Beata Vergine di Monteverdi e i problemi posti dalla realizzazione dell’opera possono essere capiti e risolti solo partendo dal contesto storico. I punti di partenza devono essere le indicazioni date dal compositore nel coro iniziale, nella "Sonata sopra Sancta Maria ora pro nobis" e nel Magnificat, come anche la divisione in due cori separati che sembra essere richiesta in alcuni punti dell’opera. Inoltre, le testimonianze dell’epoca ci forniscono precise informazioni sul modo di eseguire le opere di questo genere e gli organici che vi erano impiegati; e proprio in questa musica da chiesa "teatrale" si attribuiva enorme importanza alla distribuzione spaziale.
Le tre sezioni dei Vespri sopra citate si richiamano espressamente a questi strumenti: due violini da brazzo, quattro viuole da brazzo (termine generico per indicare diversi strumenti a corda e di dimensioni che vanno dalla viola attuale al violoncello), contrabbasso da gamba (violone), tre cornetti (a bocchino), due flauti (dritti), due piffari (cennamelle soprano), tre tromboni, organo, E' presumibile che a questo strumentario andassero aggiunti alcuni altri strumenti di continuo, clavicembalo, virginale, liuto e dulciana. Nell’edizione originale non sono espressamente citati, ma sappiamo che per le grandi opere di questo genere, soprattutto quando prevedevano più cori, era necessario utilizzare i più svariati strumenti di continuo, da una parte per poter assegnare a ciascun coro uno strumento di base, dall’altra per assicurare l'indispensabile contrasto sonoro. I numerosi assoli in stile monodico richiedono un accompagnamento adatto; in questo caso prevale il liuto in quanto strumento sul quale un tempo i solisti si accompagnavano da soli, il che era indispensabile dato lo stile rubato delle melodie. Sappiamo anche che, nelle grandi formazioni in cui fossero previsti gli strumenti a fiato, i fiati corrispondenti dovevano suonare il basso con clavicembalo e organo, anche se ciò non era richiesto espressamente dal compositore; Michael Praetorius, nel Syntagma Musicum del 1619, quasi interamente dedicato alle pratiche esecutive della moderna musica italiana dell’epoca, dice: "Bisogna notare in particolare... che e buona prassi, è quasi indispensabile, aggiungere a questo basso continuo uno strumento basso come il fagotto, la dulciana o il trombone, o ancora, che è la cosa migliore, un basso di violino... che... contribuisce perfettamente a ornare e rafforzare il basso".
Non esiste partitura originale del Vespro della Beata Vergine di Monteverdi. L'opera ci è giunta sotto forma di parti stampate, realizzate con la supervisione dello stesso compositore. Dato che le parti strumentali sono stampate separatamente solo quando differiscono da quelle vocali, si può supporre che gli stessi musicisti doppiavano anche le parti vocali quando, in occasione di questa o quella esecuzione, il maestro di cappella lo richiedeva. Lo provano diversi passaggi, per esempio nel caso del ritornello del "Dixir Dominus" in cui gli strumenti sono improvvisamente abbandonati. La maggior parte dei brani corali del Vespro é scritta per doppio coro; questo significa 
che l’orchestra deve sostenere questa scrittura a doppio coro senza che i musicisti siano tenuti a cambiare posto. Praetorius ci informa con precisione sulla concezione del tempo della disposizione e dell'esecuzione di queste opere policorali: "Quando in un concerto, un coro è costituito da cornetti, l'altro da violini, il terzo da tromboni, fagotti, flauti e strumenti di questo genere" è indispensabile, secondo lui "che si possano utilizzare per l’uno delle viole versiculo, per l’altro tromboni, per il terzo flauti e fagotti". Quanto alla disposizione, dice che "ha creduto meglio ex observatione disporre separatamente la capella o chorus fidicinium [il gruppo degli archi] un po' a lato dell’organo, in modo che i cantanti non siano assordati o coperti dagli strumentisti, ma che al contrario ciascuno possa essere udito e distinto dall’altro... Bisogna fare attenzione a separare gli uni dagli altri i ragazzi e gli altri concentores [che eseguivano le parti concertanti e vocali] poiché sono separati nei cori e assegnare, per quanto è possibile, a ogni ragazzo o coro uno strumento di base:... la cappella fidicina deve tuttavia essere posta di lato, in un punto da cui possa venire in aiuto a tutti i ragazzi e i cori...". Non solo l’opera di Praetorius fornisce la descrizione più precisa che possediamo della pratica musicale dell’epoca, ma perdipiù, nelle indicazioni strumentali, si rifà espressamente al Vespro della Beata Vergine di Monteverdi!
Nelle sezioni omofone e solenni, per esempio lo "Et Spiritui Sancto" del "Laetatus sum" o le conclusioni grandiose del "Dixit Dominus" del "Laetatus sum" e del Magnificat, chiaramente è la sonorità delle orchestre d'archi e di fiati complete che deve dare tutto il fasto e il risalto necessari. Praetorius paragona questa sonorità piena di tutto il coro e l'orchestra al suonare pieno di un organo: "... quanto tutta la capella... suona, come se su un organo si aggiungessero tutti i suoni. Da un insieme, un fasto e una pompa perfetti a una tale musica.. E tale armonia sarà ancor più piena, e il suo fasto accentuate, se alle voci mediane e superiori si aggiunge una grande bombarda bassa, un controfagotto o due grandi bassi di violino (il violone italiano) e, dove restano, anche altri strumenti". Questo splendore, quest'esuberanza cominciavano a diventare un fattore determinante in quest’epoca del barocco nascente. E' cosi che si trovano descritte combinazioni sonore di strumenti solisti con parti vocali, o di diversi strumenti fra loro, anche in ottava, cosa che assicurava effetti particolari. Si scopriva il suono come mezzo d'espressione, anche se veniva impiegato essenzialmente non tanto dal compositore, ma dall’esecutore.
Anche nel Vespro, si sceglieranno combinazioni di questo tipo per molti assoli e passaggi solistici, dove gli archi o i flauti, o entrambi, raddoppiano i solisti. Per esempio sotto "Virgam virtutis" o "juravit Dominus" nel secondo coro o sotto "plena est omnis terra" nel Duo Seraphim. Il senso della stru
mentazione, concepita come registrazione, appare molto chiaramente nel "Laetutus sum". In questo brano, una figura in ottavi di otto battute, che sembra destinata in verità alla dulciana, ritorna a cinque riprese, esprimendo in un certo modo la costanza della marcia verso Gerusalemme; in seguito figure di questo genere furono dette "basso d’andante".
I movimenti a doppio coro hanno una strumentazione più semplice. Così il "Nisi Dominus" a dieci voci. Qui, l'associazione della sonorità scura degli archi al primo coro e della sonorità chiara dei flauti, dei tromboni e della dulciana nel secondo dà loro una certa limpidezza, anche quando i due cori cantano contemporaneamente, intersecati ritmicamente uno nell’altro. O anche l'"Ave Maris stella" a otto voci in cui gli archi possono accompagnare il primo coro, il piffaro, i flauti dritti e tre tromboni il secondo. Senza dubbio, lo stesso principio andrebbe mantenuto nei ritornelli; facendo suonare quindi il primo, che appartiene al primo coro, agli archi, il secondo, che appartiene al secondo coro, da un quartetto di flauti dritti con la dulciana al basso. A proposito di questa combinazione, Praetorius dice: "Se si vuole mettere un coro di flauti fra e a lato degli altri cori composti da altri strumenti diversi, mi sembra meglio affidare il basso a un trombone basso, o meglio ancora a un fagotto [dulciana]". La terza ripresa del ritornello appartiene al primo coro e sarà quindi suonata di nuovo dagli archi, eventualmente con abbellimenti.
La “Sonata sopra Sancta Maria ora pro nobis" e le sezioni soliste del Magnificat occupano un posto particolare per quanto riguarda la strumentazione. Qui il ruolo degli strumenti aveva una tale importanza nella sua elaborazione, già dalla composizione, che Monteverdi ha strumentato lui stesso questi brani in maniera molto precisa: al punto che non c’è bisogno di aggiungere nulla oltre allo strumento a fiato che suona il cantus firmus. Molto evidentemente, questi pezzi sono assoli, che in nessun caso devono essere raddoppiati - come spesso purtroppo succede oggi; l'assurdità di un raddoppio delle parti violinistiche della Sonata, per esempio, risulta chiaramente se si pensa che le due parti di violino e le due di cornetto a bocchino si corrispondono e si alternano anche a coppie in grandi assoli: un raddoppio dei violini annulla questa polarità. E' Vero che oggi siamo abituati a sentire in orchestra dei fiati solisti contrapposti a un potente coro di archi; ma la pratica dell’epoca non conosceva affatto questo rapporto, che quindi è poco naturale, perché i soli potevano corrispondere unicamente a dei soli, a meno che non si trattasse di un vero e proprio effetto di solo-tutti, ma non è questo il caso. Il virtuosismo richiesto a strumenti oggi poco volubili come il trombone non manca di interesse.  La Sonata è una vera e propria danza strumentale (intrada e gagliarda) affidata a violini solisti, cornetti, tromboni e basso, sul quale il cantus firmus "Sancta Maria ora pro nobis" è cantato in modo indipendente; in altre parole, anche senza di esso la Sonata sarebbe un brano musicale completo. Nei pezzi solisti del Magnificat - come anche in tutti i cori costruiti su uno o più canti firmi - un trombone o un altro strumento a fiato devono raddoppiare il cantus firmus cantato dal coro, mentre i solisti strumentali o vocali suonano o cantano le loro parti virtuosistiche. I brani essenzialmente strumentali o vocali si alternano dunque continuamente. Le parti del solo e del tutti nelle sezioni sia strumentali che vocali si distinguono molto chiaramente poiché il loro concatenamento obbedisce a un piano di più ampia portata in cui l'interpretazione del testo e il contrasto sonoro e drammatico sono elementi determinanti. Quest'opera di Monteverdi in effetti è di una teatralità mai udita che si richiama tanto a un raffinato trattamento sonoro quanto ad autentici effetti teatrali, per esempio gli echi nell’"Audi coelum" che sono sfruttati fino alle loro possibilità estreme, non solo musicalmente, ma anche dal punto di vista del testo (gaudio-audio; benedicam-dicam; vita-ita).

La strumentazione
Oggi, in generale, gli strumenti di quell'epoca non sono più usati: sembra dunque indispensabile passare rapidamente in rivista ciascuno di essi e ricordare anche il parere di uno specialista contemporaneo (Praetorius) che considerava il Vespro monteverdiano un'opera esemplare.
Il violino - Monteverdi lo chiama violino da brazzo - si era sviluppato nel corso del XVI secolo e aveva dato prova delle sue possibilità nella musica popolare. Cominciava allora quella grandiosa carriera che ne fece il principale strumento solista del barocco e la base dell'orchestra d’archi. Esteriormente era già identico al violino attuale - nei concerti si suona ancor oggi su strumenti di quel periodo -, ma la struttura interna, il capotasto, la posizione del manico, il ponticello, l’incordatura e l`archetto diversissimi producono anche un suono radicalmente diverso. Il "sotto del violino richiede bei passaggi, degli scherzi lunghi e variati, delle belle fughe, ripetute e riprese in punti diversi, accenti energici, arcate lunghe e brevi, gruppi, trilli, etc.". Tutti elementi che compaiono numerosi nel Vespro di Monteverdi.
Viola nel XVI secolo è un termine generico che indica un gran numero di strumenti fra la viola e il violoncello e che Monteverdi raggruppa sotto il nome di viola da brazzo. La fattura di questi strumenti è identica a quella del violino Così come l'abbiamo descritta, Dato che oggi, in questa fascia, rimane solo lo strumento che chiamiamo viola, vorrei ribadire che all’epoca di Mon
teverdi esistevano diversi tipi di viole, accordate diversamente, la più grande delle quali era nettamente più grande della più grande viola usata oggi; del resto era possibile tenerle e suonarle solo appoggiandole a sinistra davanti al petto e spingendole verso la spalla destra. Gli strumenti più grandi non potevano essere tenuti "da brazzo": bisognava stringerli fra le ginocchia come il violoncello. Anche questi strumenti erano fabbricati nelle misure più diverse. L’orchestra d’archi quindi, una volta, era nelle parti mediane di grande varietà e straordinaria ricchezza timbrica. Il violoncello era anch’esso detto all`epoca viola da brazzo - denominazione un tantino ingannevole che doveva distinguerlo dalla viola da gamba e testimoniare della sua appartenenza alla famiglia dei violini e delle viole.
Il violone, il nostro attuale contrabbasso, già all’epoca era nella maggior parte dei casi accordato a quattro. Per poter rendere chiaramente i passaggi tecnici era munito di ghiere, come la viola da gamba. "... Il grande basso di violino, il violone italiano, dà una grande profondità alle voci gravi e sottolinea con la sua risonanza l'armonia delle altre voci...".
II cornetto a bocchino è uno strumento della famiglia dei legni, con una diteggiatura analoga a quella del flauto dritto e che viene suonato con un'imboccatura simile a quella della tromba, ma molto più piccola, E' uno degli strumenti a fiato usati più di frequente nel XVI e nel XVII secolo: "... i cornetti non devono essere utilizzati nelle musiche calme e delicate, ma solo essere mescolati alle grandi musiche fragorose". Nel Vespro, questi strumenti sono richiesti tanto nelle musiche "fragorose" quanto negli assoli delicati e bisogna supporre che Monteverdi abbia scritto queste parti per ottimi solisti. Praetorius sottolinea che a questo strumento possono essere affidati compiti molto difficili se l'esecutore "sa però dominare e moderare il suo cornetto e gli strumenti di questo genere, se è padrone del proprio strumento"...
Il trombone di quest'epoca è profondamente diverso da quello in uso oggi; aveva il foro molto più stretto e il padiglione molto pin piccolo. Questo da un lato gli dava una sonorità leggera e gli permetteva di fondersi meravigliosamente con la sonorità dolce degli strumenti a corda dell`epoca, dall’altro lo rendeva molto fragile, tanto che a questo strumento si potevano chiedere colorature complicate: "Alcuni (e fra gli altri il celebre maestro di Monaco Phileno) sono andati cosi lontano su questo strumento, grazie a un esercizio assiduo, che possono suonare il re grave e nell'acuto il do, il re e il mi senza particolari difficoltà o problemi. Fra l’altro ho ascoltato, a Dresda, Erhardus Borussus, che ora deve soggiornare in Polonia; questi aveva ottenuto dal suo strumento che salisse quasi quanto un cornetto, fino al sol, sol re do più alto; e sapeva realizzare, ottenere ed eseguire le note gravi di un trombone
basso, fino al la, con delle colorature e dei salti altrettanto vivaci che su una viola bastarda o su un cornetto". Senza dubbio è per musicisti di questo livello che Monteverdi ha scritto la sua Sonata.
Il flauto dritto del XVII secolo era costruito in un pezzo solo, il foro era due volte più largo di quello del flauto dritto barocco che conosciamo oggi. La Sonorità è piena e vellutata, delicata nel grave, ma molto potente nell’acuto.
La dulciana è l'antenato diretto del fagotto, la sua sonorità è dolce e suscettibile di inflessioni: "... le dulciane... come i fagotti... hanno una risonanza dolce e tenera..., forse è questa la ragione, la loro delicatezza, per cui sono state chiamate dulciane, quasi dulcisonantes".
La cennamella soprano era chiamata piffaro; su questo strumento, antenato dell’oboe, era possibile suonare solo una data scala, cioè non si potevano suonare alcuni semitoni. Secondo Praetorius, il suono richiama "il grido di un’oca".
Come strumenti del continuo, o "strumenti di base" come li si chiamava all'epoca, bisognerebbe impiegare solo strumenti di fabbricazione italiana, quindi col timbro italiano. Per quanto riguarda il modo di suonare del continuista, Praetorius lo descrive in questo modo: "Deve suonare, a partire dal basso continuo o dalla partitura e il più semplicemente possibile, senza complicazioni, le note così come si seguono l‘un l’altra e in particolare non fare molti fregi o colorature nella mano sinistra in cui procede il fondamento. Se però vuole mettere alla mano destra una certa vivacità o un po’ di movimento in cadenze delicate o in clausole, lo deve fare con moderazione e discrezione, in modo che i concentores non ne siano impediti o disturbati nelle loro intenzioni, o la loro voce non ne sia oscurata e soffocata".
Oltre agli strumenti a tastiera, il liuto rimane uno strumento di continuo importantissimo per questa musica: "E' concepito unicamente (a causa degli ampi stacchi non vi si possono fare colorature né diminuzioni: al contrario bisogna suonare semplicemente, senza giri) perché un soprano o un tenore possa cantarci sopra viva voce, come su una viola bastarda. Ma è anche molto buono da utilizzare e molto piacevole da sentire quando viene impiegato in un concerto completo a fianco di altri strumenti o quando serve oltre o in luogo del basso".
Gli strumenti, i musicisti specializzati nel suonarli, l'esattezza delle questioni stilistiche: tutto questo non ha alcun valore se lo si considera un fine in sé e non un mezzo - d'inestimabile valore - per resuscitare questa musica in tutta la sua vitalità e il suo ardore. Deve essere questo, e nessun altro, l'obiettivo e il fine ultimo di tutti gli sforzi, quando si cerca di far suonare la musica di uno dei più grandi geni del passato in un modo che faccia anche sentire un po’ l'atmosfera di quel tempo.
 
Nikolaus Harnoncourt ("Il discorso musicale", Jaca Book, 1985)

domenica, novembre 22, 2015

Mario Martinoli: The well-Tempered Scarlatti

Et'cetera KTC 1915 (1 CD)
Davvero interessante l’idea del clavicembalista Marlo Martinoli di proporre venti Sonate scarlattiane applicando il criterio adottato da Bach ne Il clavicembalo ben temperato e cioé quello di collegare i brani sulla base di un vero e proprio piano tonale, nel caso in questione adottando il circolo delle quinte, con l'alternanza di modo maggiore e modo minore (senza seguire, quindi, l'abbinamento a due a due come nelle copie manoscritte). Tale soluzione é stata suggerita dal fatto che nell’intero corpus sonatistico di Scarlatti sono impiegate ben 21 tonalità su 24, facendo ricorso quindi a tonalità piuttosto inconsuete nel panorama musicale dell’epoca, come nel caso di Fa diesis maggiore e minore, do diesis minore, si bemolle minore, si maggiore. E' stato messo a punto così un itinerario grazie al quale possono essere ascoltale (e godute) pagine non sempre presenti in altre antologie (pur non mancando le Sonate celeberrime, come la K 531), riservando all'ascoltatore delle autentiche, piacevoli sorprese: e il caso, ad esempio, delle Sonate K 426, K 67 e K 203, per citare due autentici gioielli, davvero imprevedibili nella loro scrittura non priva di arcane movenze e risonanze, ove anche le pause acquistano valenza espressiva e ove l’eloquio sembra svolgersi seguendo il filo di un pensiero proteso verso sentieri mai prima esplorati. La proposta risulta tanto più efficace grazie alla notevole varietà espressiva, dovuta proprio alla continua alternanza di tonalità maggiori e minori, alternanza capace di dar vita ad una non comune varietà di ombreggiature e di chiaroscuri. L`approccio esecutivo di Martinoli si avvale poi di soluzioni particolarmente efficaci, grazie all`ariosità dei fraseggi, al dosaggio sempre calibrati dei rubati (suggestivi, ad esempio, i rallentando, le sospensioni, le ineguaglianze), alla contrapposizione dei piani sonori, rendendo così particolarmente vivo e coinvolgente l’itinerario proposto. E' inoltre puntualmente evitata qualsiasi tentazione esteriormente esibizionistica, grazie anche ad una condotta agogica mai portata all’estremo e incline, per contro, alla valorizzazione della componente più assorta e introspettiva (mirabile al riguardo la resa delle tre Sonate sopra menzionate, alle quali vanno aggiunte almeno la delicata Aria in re minore K 32 e la meravigliosa Sonata in si minore K 87).
Alla notevole qualità del risultato ha contribuito anche lo strumento utilizzato: una copia di un Pascal
Taskin del 1769, caratterizzata da una timbrica limpida, ma al tempo stesso morbida e delicata. Ottimo anche il livello della registrazione ed interessanti le note di presentazione (in tre lingue) firmate dallo stesso solista.
 
Nella sua carriera musicale quale influsso hanno esercitato gli studi di ingegneria da lei affrontati?
Onestamente, nessuno: ho cominciato a suonare molto prima di iscrivermi all'università, ma certamente avere una seconda professione ha facilitato la mia carriera musicale perché ho potuto scegliere solo quello che mi piaceva, senza scendere a compromessi. Ecco perché mi sono sempre dedicato solo a progetti di mio interesse. Ho iniziato a studiare il pianoforte a 8 anni, poi a 13 l`ho abbandonato a favore del clavicembalo, ed erano anni in cui nessuno, in Italia, lo suonava, tanto che ho avuto per lunghi anni una formazione da autodidatta Si è scritto molto, certamente, del rapporto fra musica e matematica, particolarmente presente nella musica barocca: ecco, forse in quel senso c’è un collegamento fra i miei due ambiti di studio, e anche mio padre era ingegnere e suonava Bach!
Quali sono stati i criteri di base seguiti per la selezione e 1’esecuzione delle Sonate scarlattiane effettuata nel suo ultimo disco?
Tutto è partito dalla richiesta di un programma scarlattiano per un concerto a Reggio Emilia: all’inizio non volli accettare, perché si trattava di un autore che non mi interessava particolarmente e credevo ci fossero molti artisti che lo suonavano meglio di me. Poi però ho iniziato a lavorarci, dedicando molto tempo allo studio e alla lettura di almeno duecento Sonate: mi sono reso conto che la varietà cromatica di Scarlatti è un fattore su cui pochi riflettono, preferendo, in sede esecutiva, accostamenti a coppie, legati a fattori più esteriori, tanto che delle seicento composizioni si ricade sempre nelle solite 40. Ho voluto allora creare una sorta di Livre,
alla francese, con Sonate in venti tonalità (scartando La bemolle maggiore): ne esce un interessante caleidoscopio, di cui anche l’ascoltatore stenta ad accorgersi. E poi Scarlatti è furbo: all'interno delle Sonate ci sono modulazioni a tonalità molto lontane (ad esempio, da FA# a DO), e io ho amplificato questo "gioco" fino a costruire un intero programma, secondo un procedimento barocco, fino a creare un "Clavicembalo ben temperato" scarlattiano, fatto solo di Preludi! Per alcune tonalità la scelta era minima, per altre ricchissima: a quel punto ho pensato di creare una sorta di programma di concerto, Senza costruire una sorta di best of.
Ma qual è il legame fra la scrittura tastieristica di Bach e quella di Scarlatti?
Entrambi prendono il cembalo e lo portano alle estreme conseguenze, sfruttandolo in tutta la sua gamma, un fatto che, ad esempio, raramente 
è avvertibile nei francesi; l’altra analogia è che entrambi scrivono musica speculativa, perché le Sonate di Scarlatti sono scritte tutte in sette anni, con un atteggiamento simile al tardo Bach, quello dell’Arte della fuga e dell’Offerta musicale, musica non da concerto ma tutta rivolta al proprio interno.
Per l'esecuzione delle Sonate scarlattiane lei ha scelto uno strumento di fattura francese (la copia di un Pascal Taskin): per quale motivo?
Si tratta di uno strumento molto ricco di armonici aspri: Scarlatti è aspro, violento, non galante, urla molto, con pagine molto aggressive e con quel cembalo francese tutto questo viene assecondato e esaltato. Non si tratta di una scelta filologica, quindi, ma estetica.

Alla base del progetto ci sono alcuni modelli celebri?
Certo: deve sapere che io ho ascoltato Scarlatti per la prima volta tramite Walter (ora Wendy) Carlos al sintetizzatore Moog, e due di quelle Sonate che lui registrò sono nel mio CD come omaggio: quell`album si chiamava The Well-Tempered Synthesizer. Io tuttora ho questa idea di Scarlatti, un’idea particolarissima, anche se poi sono passato dal mondo colorato, super-orchestrato di Carlos al minimalismo, alla purezza di suono di Michelangeli, per approdare a Gustav Leonhardt, che ho ritenuto la via più convincente. E con Bach mi è successa più o meo la stessa cosa: un fatto che non potrebbe accadere con Händel, o tantomeno con Mozart.
Quali sono i suoi progetti discografici futuri?
Realizzo un CD in media ogni cinque anni, quando ho una buona idea o del materiale interessante: cosi sono nati i miei sei dischi. Certamente ho un sogno nel cassetto, per la vecchiaia, ossia incidere le Partite di Bach, ma solo se avrò qualcosa di nuovo da raccontare su quella musica.

 
Claudio Bolzan ("Musica", n.271, novembre 2015)

venerdì, novembre 13, 2015

King Crimson: la frontiera del rock

King Crimson
Robert Fripp, Tony Levin, Bill Bruford, Adrian Belew 
In oltre trent'anni di storia, Robert Fripp e soci hanno rivoluzionato la storia del rock con dischi memorabili, a partire dall'esordio di "In The Court Of The Crimson King". Risponde a dieci domande sulla storia di questa band Cesare Rizzi, uno dei massimi enciclopedisti italiani del rock, autore delle Enciclopedie Rock di Arcana e, oggi, degli atlanti rock di Giunti, tra i quali una recente "Guida al progressive".

1. Qual è il contesto musicale e culturale in cui nascono i
King Crimson? Avevano avuto altre precedenti esperienze?
Non è ancora chiaro se il
progressive sia evoluzione o involuzione della psichedelia, gli storici discordano, il pubblico pure. Sta di fatto che, negli USA come in Gran Bretagna, il rock del 1969 viva di luce psichedelica riflessa, ed è da quei riverberi che nascono i primi semi del progressive: non c’è più voglia di cambiare il mondo, rimane il desiderio di cambiare il rock, di conferirgli uno spessore artistico/culturale che prima non si conosceva. I King Crimson sono figli di quel periodo di transizione, cruciale per la musica e per la società, non arrivano da nessuna parte, non hanno esperienze artistiche di rilievo (l’album realizzato nel 1968 da Fripp con i fratelli Giles è più che trascurabile), ma hanno una carica sufficiente per proporre una musica nuova, rivoluzionaria, che non si appoggia ai comodi appigli del pop ma che anzi propone scelte coraggiose e controcorrente, tutt’ora insuperate.

2. A differenza di altre band di quel periodo come Procol Harum e Moody Blues, i King Crimson decidono di non attingere dalla musica classica e di superare anche i possibili legami del progressive con il jazz. Quali sono, allora, le influenze principali sulla loro musica degli esordi?
La scelta di base del progressive fu di combinare in vario modo musica e arte (art rock non a caso è il termine più spesso usato): un rock colto e intellettuale quindi, in contrapposizione al rock & roll di strada. Mentre gran parte delle band progressive aveva le tastiere in primo piano, il che significava per lo più jazz rock o rock sinfonico, Fripp propone un uso "progressivo" della chitarra, che non si ispira a precedenti esperienze, e che soprattutto non fa nessun tipo di revivalismo. Quella di Fripp è una vera frontiera progressiva, senza la diffusa pretenziosità del genere, che rivela comunque studi di avanguardia contemporanea e jazz, e anche qualche minimo residuo di cultura visionaria lisergica.

3. "
In The Court Of The Crimson King", il loro primo album, è rimasto anche il più memorabile. Quali sono le caratteristiche che rendono questo lavoro una "pietra miliare" della storia del rock?
Essenzialmente la perfetta combinazione tra le parti in gioco, tra la creatività di Fripp, l’espressività di Lake, la tecnica di McDonald, la poesia di Sinfield. E la straordinaria novità della musica: non solo un disco di rock progressivo, di chitarra e mellotron, ma uno dei più memorabili esordi di quegli anni, aggressivo, compatto, delicato, poetico.

4. E' vero che con la nascita del movimento progressive la scena britannica si svincolò dalla "dittatura musicale" degli Stati Uniti, trovando proprie originali forme d'espressione?
È vero che il
progressive fu musica esclusivamente inglese (ed europea), e che la cosa fu vista come un tentativo di svincolarsi dalla predominanza americana. Anche il beat, anni prima, è stata musica molto inglese, con profonde radici, però, nella musica nera americana. La grande diffusione europea del progressive, e la sua minima notorietà negli Stati Uniti, credo siano più che altro dovute a problemi di predisposizione "culturale" all’ascolto. Il pubblico americano, notoriamente di gusti facili, non avrebbe comunque mai accettato scelte musicali troppo complesse o pretenziose, quindi va da sé che il progressive non trovò sbocchi a occidente, mentre li trovò, per esempio, da tutt’altra parte, verso terre tradizionalmente non rock, nell’Est Europeo, in Giappone.
Più che un moto indipendentistico della scena britannica, andrebbe però sottolineato quanto il progressive ha significato per la musica non inglese in generale: sono quelle realtà musicali "terzomondiste" che per la prima volta trovano una loro originalità d’espressione non anglocentrica, spesso ingenua o tutt’altro che memorabile, ma degna se non altro di menzione. Cito il caso curioso del progressive italiano, che trovò inaspettata attenzione in Giappone, primo vero processo di esportazione su larga scala di una qualsiasi forma di rock tricolore.

5. Il percorso dei King Crimson, a partire da "In the wake of Poseidon", si snoderà per tutti gli anni '70 lungo direttrici diverse e a volte spiazzanti. Quali ragioni spinsero Fripp a questi continui mutamenti di rotta? C'erano dissidi all'interno della band?
Come tutti i genii anche Fripp ha vissuto momenti critici e grandi squilibri, con riflessi più o meno pesanti sulla musica del gruppo. La grande differenza tra i dischi del periodo l’ha fatta il grado di sintonia di Fripp con la propria arte e con il resto del gruppo: migliore accordo con i suoi musicisti equivaleva a grande disco, e viceversa. Nel primo album non era forse sintonia perfetta ma era un rapporto artistico ancora vergine, sostenuto dall’euforia del momento e dal favore di vento. Nei successivi è però percepibile il graduale deterioramento nei rapporti tra leader e gregari, e il conseguente sgretolamento di quel wall of sound progressivo che Fripp andava ipotizzando.

6. Definisci "Lark's Tongues In Aspic" il "capolavoro della seconda stagione dei King Crimson". Quali sono i suoi punti di forza? E quali sono gli esperimenti che Fripp porta avanti nel disco, a partire dai curiosi "frippertronics"?
"Lark’s" è esempio di perfetta sintonia tra una guida creativa e feconda e un gruppo formidabile per tecnica (Bruford e Wetton) o spontaneità (Cross e Muir). È il disco dei primi King Crimson nel quale Fripp si trova meglio con i suoi musicisti, che a loro volta sono i migliori che il leader abbia avuto fino a quel momento. I punti di forza sono gli inediti duetti tra chitarra e violino, la voce di Wetton (paragonabile a quella di Lake degli esordi), le progressioni strumentali che rimangono tra i più tipici esempi del suono King Crimson.

7. Fripp sembra sempre dibattersi tra un'anima melodico-romantica e una sperimentatrice, più vicina al free-jazz. Quale delle due, a tuo avviso, ha poi preso il sopravvento?
Fripp è stato romantico a ritmi sincopati, irregolari, e forse anche casuali, ma a mio giudizio la sperimentazione e lo spiccato gusto progressivo della sua arte hanno sempre avuto il sopravvento sulla melodia o sul romanticismo. E lo hanno tuttora, basti ascoltare le sonorità un po’ ossessive degli ultimi dischi. I momenti melodici della storia dei King Crimson sono forse dovuti più a fattori non sempre riconducibili a Fripp che a una precisa scelta artistica: nel trittico discografico degli anni ’80, per esempio, erano perlopiù opera di Adrian Belew.

8. In quali grandi stagioni suddivideresti la storia dei King Crimson?
Oggi parlerei essenzialmente di tre stagioni, per comodità e affinità stilistiche: la prima (fino al 1975), la seconda (i tre album degli anni '80), e l’attuale (da "Vroom" in avanti). Volendo si potrebbe suddividere ulteriormente la prima stagione in due, perché esistono sufficienti elementi per ricondurre a "
In The Court Of The Crimson King" e "Lark’s Tongues In Aspic" l’inizio di due momenti espressivi distinti ma in qualche modo conseguenti. Rimango dell’idea che quei due album siano a (quasi) pari merito i vertici della prima stagione; "Discipline" è il disco migliore della seconda; per la terza parte di carriera sceglierei "Thrakkatak", un disco di improvvisazioni che ben rappresenta l’ideale evoluzione del suono progressivo originario. Nonostante alcune opere siano superiori ad altre, la parte più recente di carriera è però troppo dispersa e confusa per produrre cose memorabili; immagino che il pensiero di Fripp sia rivolto più a una "continuità concettuale" di zappiana memoria che a un percorso discografico chiaro e rettilineo.

9. Qual è il tuo giudizio del periodo più recente dei King Crimson, dalla metà degli anni '80 ad oggi? Tra vari progetti, sottoprogetti, "frattali" e compagnia, c'è anche qualche lavoro all'altezza dei loro dischi "storici"?
Il recente percorso artistico dei King Crimson è la conclusione inevitabile di un mercato discografico sempre più modesto e confuso, dove la sopravvivenza delle bande alternative (e i King Crimson lo sono sempre stati) è legata all’autoproduzione e all’indipendenza. In tale disdicevole situazione Fripp ha saputo tuttavia creare un microsistema discografico esemplare, che funziona a patto di autoalimentarsi senza sosta, di rimanere perennemente vigile e attivo per soddisfare lo zoccolo duro degli appassionati. In altre parole Fripp mi sembra condannato a suonare per l’eternità, a creare qualcosa di nuovo tutti i giorni, a moltiplicare pani, pesci e musica per nutrire i suoi discepoli. Da qui alla frenesia discografica il passo è breve. Come nel caso dei
Grateful Dead, è un tipo di microsistema che può funzionare in maniera soddisfacente per entrambe le parti a patto di procedere lungo percorsi estranei a quelli consueti del rock. Per contro provoca una sorta di iperspecializzazione che non tiene più conto degli effettivi valori artistici del prodotto ma soltanto di quelli affettivi: in sintesi, il "sistema" mira al sostentamento di una fascia di pubblico che acquista tutto, indipendentemente dal valore. Nel caso specifico dei Crimson quasi tutto quel che è uscito negli ultimi dieci anni è perlomeno interessante, alcune cose anche splendide, ma niente è imperdibile; vale a dire che la storia del gruppo è già stata scritta, indipendentemente dal numero di progetti e sottoprogetti, frattali, dischi vecchi e nuovi che Fripp è riuscito o riuscirà a realizzare.

10. "Dittatore illuminato", compositore "cerebrale" o "cervellotico", "perfezionista maniacale". Si sono sprecate, in questi anni, le definizioni di Robert Fripp. Puoi raccontare, in poche parole, che personaggio è il leader dei King Crimson? E quali sono le peculiarità del suo stile chitarristico?
Fripp ha sempre proceduto per la sua strada con ammirevole e implacabile ostinazione, lo si può accusare di essere dispotico, perfezionista, eccessivo, ma non di non essere coerente con scelte artistiche che hanno ormai più di trent’anni ma conservano ancora il fascino di un tempo. L’aver conservato una propria indipendenza artistica, discutibile ma cristallina, pone Fripp al di sopra delle parti, e la cosa è di per sé un merito inalienabile. Il suo stile viene dopo, e al contrario di altri reduci, rispecchia il rigore e l’orgoglio del personaggio, e da lì acquista spessore e consistenza. Il fatto di non essere mai stato riconosciuto tra i grandi della chitarra è forse dovuto al fatto che Fripp è un artista, prima che un chitarrista, la sua forma di espressione è la musica prima della chitarra.

Claudio Fabretti intervista Cesare Rizzi (www.ondarock.it)

sabato, novembre 07, 2015

Appunti su trappole ed inciampi nella carriera del cantante d’opera

Lorenzo Arruga (12 giugno 1937)
Normalmente incomincia per caso. Qualcuno, un vecchio ascoltatore più dei giovani, individua la bellezza d’una voce. “Con quella fai carriera”, dicono i più banali; ed i migliori “Ma tu non sai che dono hai ricevuto”.
Il possessore della voce privilegiata, in caso già lo sapesse, stava sognando di diventare Mina o Jovanotti; ma se ci prova con l’opera, a un certo punto la scoperta di quello che può succedergli entrando in sintonia è così rapinosa che decide di continuare. Si tratta di trovare un maestro di canto. Un bel rischio. Non perché non esistano buoni insegnanti, ma perché sono mescolati agli altri in modo confondibile. Non basta infatti una bella voce né una brillante carriera per comunicare una tecnica e formare una personalità artistica. Inoltre, insieme al canto, si dovrebbe imparare un po’ di cultura, frequentare i teatri e soprattutto studiare bene la musica; e il maestro di canto, di solito, non ha queste aperture e queste ambizioni; e quanto al conoscere la musica egli stesso talora riesce a malapena a seguire con un dito o poco più la melodia sulla tastiera, con quello che i maestri di pianoforte d’una volta chiamavano “tecnica da cucciolo”.
Insegnare canto in sé è difficile, bisogna avere il coraggio di mettere la propria esperienza al servizio di una gola e di una personalità diversa dalla propria, perché, come nelle diete, ottimi sistemi per taluni fanno ingrassare gli altri. E quanto alla cultura, il cantante deve coordinare  nozioni ed emozioni, conoscenze e intuizioni con quello che la natura gli ha dato: non dev’essere un intellettuale, ma essere aperto a capire la realtà sua, quella dell’opera e del mondo. Il mestiere del maestro di canto è però uno dei più possessivi che si conosca. Ancor più, forse, che negli altri mestieri, chi lo esercita è convinto di essere l’unico che sa ciò che ci vuole. E non è raro il caso che molti allievi consultino nuovi maestri e ricomincino continuamente da capo.
A un certo punto il giovane apprendista tenta d’andare in Conservatorio. Se ha qualità, soprattutto se non è ricco, ci va appena sia in grado di dimostrarle. Può trovarsi davanti, però, ad esempio, giovani stranieri che hanno già ottenuto il diploma nel loro Conservatorio, e vengano ad ottenerne uno italiano, prezioso per insegnare nel loro paese, e si prendano la precedenza. In genere quelli meglio appiattiti sono preferiti ai più dotati ancora incompleti. I Conservatori italiani non han cambiato abitudine nei secoli. A Eros Ramazzotti è stato detto più o meno ciò che era stato detto a Giuseppe Verdi: lei ha qualità, studi un anno e si ripresenti. Ramazzotti diede più o meno la stessa risposta di Verdi: sono venuto appunto qui per studiare. Ma non ci fu verso.
Chi viene ammesso nel Conservatorio, con tante classi di insegnamento potrebbe incontrare entusiasmanti esperienze comuni; ma è difficile trovare docenti che abbiano desiderio di allargare lo striminzito tempo delle lezioni addirittura ad un lavoro con i colleghi, perché il sospetto di inquinamento evita il rischio di mettere assieme vari allievi ed esercitarli, come potrebbero utilmente, in duetti, pezzi d’insieme o addirittura opere intere. Diplomati, i cantanti hanno bisogno degli agenti, su cui i teatri contano anche a scarico di responsabilità. L’agente non rassomiglia all’impresario di una volta, che accudiva il cantante e all’occorrenza anticipava denaro. In questo momento, dato il pallore dei direttori artistici, che poco frequentano i teatri e non sempre conoscono sufficientemente la musica, l’agente prende un potere decisivo, anche se l’interesse naturale del suo mestiere non è tanto trovare le compagnie più adatte, quanto favorire qualche esecutore d’alto livello per piazzare in cambio un gruppo di generici intercambiabili. Nei rapporti diretti con il cantante o la cantante, gira la fama del consigliere tirannico e impunito. Questo è possibile anche per il carattere isolato dei giovani cantanti, molto più indifesi che ad esempio gli strumentisti. Ad esempio non si ha notizia di molte denunce contro agenti per certi disinvolti convenevoli (me la dai/me lo dai, se no niente), mentre è assai poco diffusa l’espressione “casto come un agente”.
A un certo punto, il cantante deve affrontare la professione e si sottopone all’audizione. L’audizione consiste nell’eseguire uno o due pezzi singoli per una piccola commissione che crea immediatamente non un clima da recita, ma un sentore minaccioso da esame. Di solito, al termine del pezzo, il presidente della giuria dice “grazie”, e non se ne sa più niente. Il rispetto per la fatica, la serietà, la volontà di chi si è sottoposto magari a una trasferta faticosa, e ha lottato contro l’emozione, non viene quasi mai considerato; talvolta il cantante è interrotto alle prime note, al contrario della felice esperienza dell’esame di patente in Svizzera, dove – almeno fino a qualche anno fa – i primi dieci minuti della prova di guida non vengono considerati. Si sa che un’attenzione accanita da parte dei giurati è terrorizzante; è noto il procedimento a cui, nei processi per l’annullamento del matrimonio, in caso di denunciata impotenza del marito, il poveretto doveva sottoporsi a una prova davanti a una dozzina di prelati; e faceva inevitabilmente cilecca. Ma un’attenzione accanita, salvo in caso di dispute furibonde, può darsi per esclusa in gran parte delle audizioni: le commissioni, per cattiva abitudine tradizionale e per oggettiva noia degli ascolti ripetuti, sembrano considerare bagaglio professionale i quotidiani del mattino e soprattutto i telefoni cellulari, a cui parlano normalmente facendosi notare perché ingenuamente tengono la mano davanti al telefono; comunque il cantante dev’essere preparato a non valutare il proprio grado di interesse dal tipo di partecipazione di questo genere di ascoltatori.
Se è bravo e fortunato, prima o poi, il cantante arriva in scena. E’ inutile rimpiangere immaginari tempi d’oro; ma è difficile non notare che una volta un giovane cantante riteneva una felicità e un onore fare da “doppio” ad un cantante illustre, sfruttando l’incomparabile occasione di prendere buoni esempi e di imparare molti segreti del mestiere; mentre attualmente c’è come un atteggiamento un poco autosufficiente e bizzoso, che forse si inserisce nel fenomeno tra i più gravi del nostro tempo, la perdita del gusto dell’attesa. Eppure anche in una carriera modesta, in ogni caso, tutte le parti hanno una grande dignità, sono gioiosamente ragguardevoli; dai comprimari, per esempio, si impara la vita del teatro in tutte le sue sfaccettature, sono loro i custodi delle tradizioni e i salvatori di tante situazioni sceniche; e non per nulla il pubblico ama riconoscerli e ritrovarli.
Ma è naturale che il giovane cantante ambisca a ricoprire i ruoli principali. Già la natura compie le sue predilezioni; per fortuna, le affermazioni di alcuni privilegiati sono sacrosante. Altre sono assai più discutibili, soggette alle mode, alle conoscenze, alle competenze ed incompetenze, al costume e al malcostume. Il fatto che la professione del cantante sia così allo scoperto sembra non influire per nulla sul mercato delle raccomandazioni e bizzarrie. La condizione organizzativa dei nostri giorni chiede un tale continuo spostamento e una tale disponibilità, che viene più facilmente preferito un mestierante prevedibile a un artista di personalità forte e fantasiosa. E poi ci sono alcuni miti che giocano a sfavore dell’affermazione d’un bravo cantante. Per esempio, degli uomini, o almeno dei tenori, si bada soprattutto alla voce; che sia inerte o montagnoso interessa poco; che la sua attenzione alla scena, anche nelle situazioni elementari, sia del tutto insufficiente, ancor meno.
Quanto ai soprani, vale il commovente pensiero che coloro che tanto hanno dato nella vita hanno diritto a rispetto ed affetti; però vale un po’ troppo, e prima che una cantante gloriosa lasci il suo posto a quelle più giovani e meglio in arnese, normalmente passano stagioni imbarazzanti.
C’è un altro ostacolo. I cantanti sono pagati a recita, suddiviso nel cachet delle recite è il periodo di prove; spesso, però, ai cantanti che contano è concesso di presentarsi a pochissime prove, e vengono sostituiti nelle altre da colleghi giovani il cui titolo è chiamato cover; e potrebbe essere un’occasione per far debuttare in caso di emergenza il giovane cantante, protetto dalla simpatia del pubblico; ma per le recite in cui i grandi nomi mancano di solito si preferisce pararsi il ruolo convocando dispendiosamente un nome noto che abbia già in repertorio la parte, mostrando così in un colpo solo disistima per il giovane cantante e per il direttore ed il regista, la cui impostazione interpretativa fino allora provata viene considerata inutile. A favore delle cantanti giovani, però, se appartengono al genere “gnocca”, viene spesso offerta una scorciatoia, presentandole come rivelazione; il guaio è che di solito una cantante di questo tipo è sfruttata per pochi anni senza che possa maturare e viene presto sostituita con un’altra simile.
Arrivato in scena, nel mondo incantato sognato da sempre, il cantante deve comunque tener conto di alcune sorprese deludenti, che dovrà trasformare battendosi con serietà ed entusiasmo. Il direttore anziano è normalmente poco disposto a trovare nella collaborazione una verità nuova o almeno equilibrata; ma il direttore giovane, a parte alcune felici casi proprio delle ultime generazioni, molto spesso non è abbastanza informato sul teatro, non ha studiato drammaturgia, non è stato immerso nelle produzioni operistiche, vanta talora di curar solo la musica perché “è quella che conta”, ritiene che regista, scenografo e costumista non siano complici di scelte interpretative, ma solo curatori della parte visiva, su cui si riserva di protestare a cose fatte, e sul podio tiene l’atteggiamento del “devi dare retta a me”.
E’ difficile imparare a recitare con il regista d’opera. Se legato alla tradizione, tende a non affrontare i problemi del nuovo immaginario, e persino a non correggere mai certi usi nati dalla lettura cinica e indifferente dei libretti e delle partiture e certe trascuratezze sopportate per abitudine: quando mai alle danze di Traviata ci si sente in una piccola volgare festa con gli invitati che ballano; quando mai il fratello di Lucia, che arriva normalmente azzimato e asciutto durante la follia di lei, fa capire d’essere arrivato da uno spaventoso temporale, dove è andato a regolare i conti con il nemico Edgardo, fulcro del dramma; perché mai a Siviglia, sul far dell’alba, Figaro deve incontrare tanta gente ben vestita, e magari tante suore? In questo genere di teatro disattento, la recitazione, quando viene curata, va più per prototipi illustri che per convinzioni interiori, e punta molto sul suscitare comunque emozioni (Luca Ronconi, scherzando, in un incontro pubblico ha detto che “interpretazione è per un cantante un salame degli effetti che hanno avuto successo nelle diverse edizioni precedenti”). Il regista aggiornato può essere un grande artista esperto proprio nel teatro d’opera, pronto a collaborare col direttore se autorevole, o a sopraffarlo se ignavo: ce ne sono di bravissimi, in grado di dare una lezione di quelle che cambiano la vita, così come ci sono eccezionali direttori. Ma il genere che va più di moda è il regista estraneo all’opera o ad essa contrario, che attua quelle che si chiamano con termine stantio “provocazione”, cioè più che convincere i presenti, fa parlare di sé e del teatro gli assenti, anche se male, conferendo così l’idolatrata “visibilità”: viene forzato un carattere della storia, lasciando il resto immutato come quell’astronave dove viveva la sua storia Otello, e tutti entravano e uscivano non si sa da dove né per dove. Oppure facendo quadrare coartatamente gli altri elementi. Non fa interpretazione, ma può fare notizia, all’inizio del Ballo in maschera, la Corte sul water.
L’ambiente del teatro d’opera, soprattutto nel grande teatro, continua a vivere grandi momenti di dedizione e di entusiasmo; ma si dimostra spesso più rivendicativo che appassionato, più frustrato che orgoglioso. Difficilmente il cantante che esce da recite giovanili e disadorne trova la stessa mobilità agile e felice nel coro.
Difficilmente trova un pubblico voglioso di accogliere nuove interpretazioni con gioia; e questa è un’antica malattia.
Molto difficilmente incontra un critico che lo ringrazi per avergli fatto capire qualcosa di bellissimo a cui non era arrivato.
Così, abbiamo spregiudicatamente richiamato trappole e inciampi nella professione del cantante d’opera in Italia. Abbiamo tralasciato di ricordare i disagi, le ingiustizie, le assurdità che vengono da una dissestata formulazione politica, sindacale, organizzativa e all’origine culturale e morale che caratterizza, in questo campo non meno che negli altri, l’attuale periodo di storia italiana, seguendo, pur con tono rapsodico e anche ironico, la priorità indicata dai cantanti stessi nella loro prima decisa e sontuosa presa di coscienza e di posizione.
Perché oggi sui cantanti d’opera possiamo sorridere sulla sproporzione fra la grandiosa nobiltà, la geniale brillantezza o la tenera innocenza dei loro personaggi e la concreta realtà della loro vita e della loro persona, che può benissimo non avere il dono di tanta straordinarietà. Ma non possiamo avere che gratitudine e ammirazione per la dignità piena con cui attraverso la bellezza del loro canto, immersi nei loro personaggi, ci danno testimonianza imparagonabile di che cosa potrebbe essere la vita.

Lorenzo Arruga

sabato, ottobre 31, 2015

Iannis Xenakis

Iannis Xenakis: Diatope (Centre Pompidou Paris)
Il 4 febbraio di quest'anno (2001) è scomparso uno dei musicisti contemporanei più celebri, alla stregua di Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen. Un musicista, ma anche un teorico e un ricercatore puro che, ponendo alla base di tutte le sue articolazioni compositive il pensiero matematico, si avvicina nel modo di operare più a quello di un filosofo della scienza che a quello caratteristico degli artisti, uomini capaci di creazioni istintive, attratti da una ricerca estetica alle volte dichiaratamente fine a se stessa.
Si tratta di Iannis Xenakis, una figura singolare di uomo e di compositore che incarna quella di architetto della musica. Una caratterizzazione che è stata attribuita a molti grandi autori del passato (da Bach a Brahms a Schönberg), ma che nel caso di Xenakis aderisce in modo particolare, non solo per essere stato architetto dello spazio costruito, collaborando per dodici anni nello studio parigino di Le Corbusier durante le sue prime esperienze come autore di un nuovo genere musicale, ma soprattutto per la tendenza ad impossessarsi di uno stile demiurgico attraverso la speculazione sul concetto di simmetria, sull'idea delle masse e dello spazio-tempo.
La sua formazione sociale e culturale avviene negli anni della guerra civile greca, a cavallo degli anni Quaranta, nel clima impetuoso del Politecnico di Atene ove si delinea una personalità tormentata per la quale l'interesse politico non solo si configura come una sorta di necessità, ma trova alimento nel senso più profondo dell'essere greco e così le avventure spesso tragiche legate agli scontri in piazza, cruenti e feroci, si fusero alla lettura maniacale e parossistica della Repubblica di Platone e ad un neopitagorismo alle volte dilagante, soprattutto nella seconda fase della sua vita.
Xenakis quindi era tra i componenti dell'Atelier di Le Corbusier dagli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Egli è menzionato nel Modulor 2 come autore di studi sui pans de verre ondulatoires collegati alle ricerche musicali messe in pratica nella sua prima opera per orchestra Metastasis; si trova nell'elenco dei collaboratori dello studio di rue de Sèvres che Jean Petit elabora per il suo libro su Le Corbusier; è figura centrale nel rinnovato interesse per le esperienze legate allo stretto legame tra architettura musica e matematica.
Coloro che presentano Xenakis come un greco antico capitato nel mondo moderno si avvalgono di un'immagine forse un po' romantica, nella quale tuttavia si individuano i tratti di interessi mai sopiti e che nel nostro secolo furono sottolineati anche da Matila Ghyka che nel suo libro sulla Sezione Aurea afferma che una certa cultura greca, quella forse più esoterica dei Pitagorici, attraversa la cultura occidentale come un fiume sotterraneo.
Nello studio di rue de Sèvres scorreva questo fiume e qui alla fine del 1947 il giovane Xenakis incontrò un humus fertile per le sue ossessioni compositive. In particolare le lezioni del maestro sui tracciati regolatori, sullo spirito matematico del Modulor e sul contrasto tra l'armonia della natura e l'intellettualismo delle regole si fusero con gli studi che in musica egli andava sperimentando sulle masse sonore, sulle loro variazioni regolari ed irregolari, sul rapporto aureo applicato alle scale di variazione dimensionale dei singoli elementi costitutivi delle composizioni.
Quando, all'inizio del 1956, la Philips contattò Le Corbusier perché progettasse il padiglione per l'Esposizione Universale di Bruxelles, Xenakis aveva già fatto l'esperimento della forma grafica dei glissando che descrivevano alcune trasformazioni continue dello spazio sonoro con Metastasis, l'opera per orchestra già precedentemente ricordata, che a sua volta era stata fortemente influenzata dalla lettura lecorbusieriana della scala proporzionale derivante dalle successioni di Fibonacci associate all'applicazione del rapporto aureo.
La prerogativa più evidente delle riflessioni lecorbusieriane in merito alle proporzioni armoniche è quella di mostrarsi cosciente del fatto che insistere sul carattere iniziatico, alle volte magico-rituale, del numero aureo non sembrava coerente con l'interesse scientifico ad esso collegato, quello, in particolare che consentiva di elaborare una griglia geometrica alla base della quale stabilire norme dimensionali per l'unità abitativa votata alla prefabbricazione.
Questo atteggiamento razionale - più coerente con il ragionare in termini matematici - sembra avvicinare ancora di più la figura del maestro di rue de Sèvres all'allora giovane musicista che, bisogna ricordare, non era ancora esploso in questo campo, ma si muoveva con grande indipendenza negli ambienti più estremi della ricerca contemporanea, mondi nei quali peraltro si agitava lo stesso Le Corbusier, i cui interessi nelle varie forme dell'espressione artistica erano sempre vivi.
Tra gli oggetti a reazione poetica progettati nello studio di rue de Sèvres, il padiglione Philips pare riassumere gli intenti più schietti, liberato dalla stereometria rigida degli angoli retti e dal platonismo dei volumi puri.

La forma deriva dalla contaminazione dell'idea iniziale della bottiglia con gli studi matematici di Xenakis sui conoidi iperbolici.
Fu nel mese di ottobre del 1956 che egli ricevette da Le Corbusier l'incarico di tradurre i suoi schizzi attraverso la matematica.
Lo sviluppo di questa idea in forma architettonica passa attraverso un processo compositivo per il quale è difficile affermare se la struttura matematica proceda o preceda l'immagine. Certamente vi si ravvisano momenti altalenanti di prevalenza dell'una sull'altra che sono raccontati nel libro Musica. Architettura
che riserva un intero capitolo a questa esperienza progettuale.
Per il momento solo il cemento è all'origine della nuova architettura. Esso prepara il letto in cui le materie plastiche di domani formeranno il fiume ricco di forme e di volumi racchiusi non solo nelle entità biologiche ma soprattutto delle matematiche più astratte.
E' l'affermazione di Xenakis al termine della lunga e dettagliata dissertazione sul Padiglione Philips.
Questa singolare aventura compositiva conforta la tesi che alla base di taluni eventi architettonici, forse quelli che celebrano in modo più completo l'iter che va dall'idea come pura astrazione alla sua realizzazione, sono i concetti il cui sviluppo è possibile attraverso l'intervento della matematica, perché:
... alcuni rapporti tra musica e architettura sono molto semplici da intuire confusamente, delicati da precisare e definire, e non è impossibile metterli in dubbio, poiché tutto ciò che è estetico è incerto. Ma a me sembravano clamorosi. È chiaro che musica e architettura sono entrambe arti che non hanno bisogno di imitare le cose; sono arti in cui materia e forma hanno tra loro un rapporto più intimo che altrove; l'una e l'altra si rivolgono alla generale sensibilità. Entrambe ammettono la ripetizione, mezzo onnipotente; entrambe ricorrono agli effetti fisici della grandezza e dell'intensità, con cui possono stupire i sensi e la mente sino all'annichilimento. Infine, la loro rispettiva natura permette un'abbondanza di combinazioni e sviluppi regolari che le collegano o le confrontano con la geometria e l'analisi.
La logica innovativa introdotta da Xenakis non riguarda solo un nuovo modo di affrontare il problema della costruzione delle strutture compositive, che esplicitamente rimanda a ragionamenti "antichi", ma presuppone la conoscenza e l'intuizione profonda da parte dell'architetto e del musicista delle nuove teorie legate al problema delle simmetrie. Non più e non solo caratterizzate da regolarità geometriche alle volte fin troppo evidenti, ma viste come parte sia della teoria dei gruppi che del calcolo delle probabilità; così sarà più facile intendere l'asimmetria come un'estensione della simmetria e più in generale, nel campo della speculazione probabilistica, affermare che anche il caso non si improvvisa.
Non esisterebbe quindi quella libertà totale alla quale il termine asimmetria, usato spesso in sostituzione della parola irregolarità, sembrava alludere, perché oggi sappiamo che anche questa ultima non presuppone necessariamente l'assenza di regole. Basti pensare alla vasta produzione di musica aleatoria, al decostruttivismo e a tutti quei fenomeni compositivi nei quali la forma caotica risulta essere il traguardo di una ricerca paziente e transeunte sulla condizione attuale del cosmo.
Già negli anni Cinquanta Xenakis sviluppava pensieri del genere e si interrogava innanzi tutto su cosa fosse una regola in composizione, se fosse possibile, per contrasto, produrre qualcosa in musica o in qualsiasi altro campo in totale assenza di regole, ovvero in maniera assolutamente libera.
Stravinsky insisteva sul fatto che per fare della musica sono necessarie le regole, lo stesso Xenakis affermava meno di dieci anni fa di essere convinto che
Bach, Beethoven o Bartók quando scrivevano le loro composizioni facevano dei calcoli, sia pure relativamente semplici. Si trattava di calcolare, disporre secondo un dato ordine, compiere delle operazioni di organizzazione intellettuale, ma al di fuori di questi calcoli ci sono le decisioni che intervengono per fare in modo che quei calcoli siano più o meno evidenti, scompaiano momentaneamente in un gioco di ellissi e ritornino.
L'idea cardine della composizione che in tal modo si configura risulta essere una specie di contaminazione tra il pitagorismo dei numeri e la dialettica parmenidea, se analizzata dal particolare punto di vista di Xenakis di una classicità prossima ventura, così la necessità, la causalità, la giustizia si confondono con la logica e, poiché l'essente nasce da questa logica, il puro caso è impossibile quanto il non essente.
Le operazioni attraverso le quali Xenakis trasferiva formule, concetti e simboli matematici nelle sue composizioni erano sempre dettati da un'opzione filosofica. Immerse nel clima sfuggente delle sue ipotesi sul mondo e guidate da un forte desiderio di astrazione, le sue opere impongono il passaggio dal calcolo delle probabilità alla logica formale, fatto che segna anche una sorta di recupero della matrice matematico-filosofica del neopositivismo logico novecentesco. La composizione non è dunque solo una metafora di percorsi logici, ma una loro rappresentazione proiettata ora nel mondo dei suoni, ora in quello degli spazi, oppure nei due universi all'unisono attraverso quelle complicate strutture di luce, spazio e suoni che sono i Politòpi, vere e proprie architetture sonore nate dalla convergenza della memoria dell'immagine fisica del Padiglione Philips, delle speculazioni teoriche su quella che viene definite come una nuova plastica sonora e dal ricordo del rumore dei bombardamenti nelle campagne dell'Attica, nel cielo notturno "striato dai riflettori della difesa antiaerea e dalle linee segmentate dei proiettili traccianti. ... ".

In queste spettacolari rappresentazioni, coinvolgenti tutte le sfere della percezione, lo spazio architettonico è concepito per contenere in posizioni stabilite altoparlanti e proiettori di luce che interagiscono vicendevolmente e le cui emissioni sono diffuse dalle pareti interne con studiati e alle volte mutevoli effetti sul pubblico rispetto alla sua casuale distribuzione.
Si trattava di installazioni architettoniche effimere, facenti parte della sperimentazione sulla continuità strutturale, perseguita attraverso l'applicazione rigorosa di un'idea matematico-formativa. Stesso principio adottato anche nella composizione dei brani musicali che ivi venivano fatti suonare, che alle volte risultano privi di significato al di fuori di questi spazi e che in generale adottano il principio della variazione della densità come costante ideativa, della quale ancora oggi sono da sviscerare tutte le potenzialità creative.
Era inoltre fatta propria la tesi del minimo delle regole, propria dalla legge generale dell'entropia, che alcuni anni fa era molto studiata per le potenzialità espressive nei vari campi artistici, e che conduce direttamente ad una definizione semplice delle composizioni stocastiche.
As a result of the impasse in serial music, as well as other causes, I originated in 1954 a music constructed from the principle of indeterminism; two years later I named it "Stochastic Music". The laws of the calculus of probabilities entered composition through musical necessity. But other paths also led to the same crossroads first of all, natural events such as the collision of hail or rain with hard surfaces, or the song of cicadas in a summer field. This sonic events are made out of thousands of isolated sounds; this moltitude of sounds, seen as totality, is a new sonic event. This mass event is articulated and forms a plastic mold of time, which itself follows aleatory and stochastic laws. If one of then wishes to form a large mass of point-notes, such as string pizzicati, one must know these mathematical laws, which, in any case, are no more than a tight and concise expression of chains of logical reasoning. Everyone has observed the sonic phenomena of a political crowd of dozens of hundred of thousands of people. The human river shouts a slogan in a uniform rythm. Then another slogan springs from the head of the demonstration; it spreads toward the tail, replacing the first. A wave of transition thus passes from the head to the tail … The statistical laws of these events, separated from their political or moral context, are the same as those of the cicades or the rain. They are the laws of the passage from complete order to total disorder in a continuous or explosive manner. They are stochastic laws.
Con l'ausilio dell'elaboratore elettronico a Xenakis fu possibile esplorare il vasto universo delle configurazioni basate sulla variazione di densità sonora, nello stesso modo nel quale si delineano le variazioni di densità materica o spaziale applicando le formule probabilistiche. Ne derivò un'estensione del concetto di entropia per l'introduzione di alcune operazioni selettive all'interno del procedimento statistico, derivanti dalla contaminazione con gli studi a catena che governano tali modificazioni. Si tratta delle cosiddette catene markoviane, esplorate dal matematico russo Andrej Andreievic Markov all'inizio del Novecento e il cui meccanismo costitutivo nelle strutture compositive, così come applicato da Xenakis, è stato diffusamente descritto nel citato testo Musica Architettura, nei capitoli "Tre poli di condensazione" e "Musica stocastica e markoviana".
Lo studio del comportamento fisico dei fenomeni sonori permette allora di conoscere la struttura interna delle densità musicali e di adottarla anche come paradigma compositivo degli spazi ad essi complementari.
A Xenakis interessava un concetto di musica capace di andare oltre i confini della musica, sia attraverso lo sconfinamento in altri mezzi espressivi, come avvenne per la trasformazione degli schizzi grafico-musicali di Metastasis in schemi architettonici per il Padiglione Philips, sia tramite la concezione poliestetica dei Politòpi e dei Diatòpi, sia tramite tecniche, spesso esaltate dall'ausilio dell'elaboratore elettronico, che associano la costruzione grafica (comporre in quanto scrivere una partitura) e la rappresentazione sonora (comporre per la produzione del risultato sonoro).
In ordine cronologico il primo Politopo realizzato fu quello del 1967 per il padiglione francese all'Esposizione di Montréal, consistente in una struttura di cavi tesi all'interno di un grande locale anonimo i cui grafici di studio della geometria descrittiva dei conoidi delle falde di questa struttura, tutta introversa, ricordano gli schizzi preparatori e i modelli in filo e carta realizzati per l'Expo di Bruxelles.
A Persepoli poi l'installazione fu realizzata all'aria aperta: sullo sfondo delle colline che incombono sull'Apadana si stagliavano intricate reti di filamenti luminosi realizzati con fari d'automobile, di luci in movimento comandate da studenti muniti di torce elettriche che descrivevano percorsi casuali, in un clima festoso e di happening coerente con lo scadere degli anni Sessanta.
Spettacolo analogo dovette tenersi a Cluny nel 1971
, ove il politopo fu installato all'interno delle terme romane, commissionato dal direttore del Festival d'Automne di Parigi, Michel Guy, che inizialmente intendeva chiedere a Xenakis un'opera lirica moderna. Qui le ragnatele di luce si materializzavano come tracce variabili di spirali e arabeschi luminosi sulla volta delle terme ed erano prodotte da 600 flash elettronici lampeggianti in una successione di 1/25 di secondo, comandati da una serie numerica predeterminata al calcolatore che riproduceva la musica su un nastro digitale.
Lo spettacolo richiamò migliaia di spettatori perché là ove la critica musicale si trova spiazzata dall'estremità stilistica come anche dalla polivalenza dell'opera - e più ancora dai misteri matematici della sua concezione, dalle raffinatezze tecnologiche della realizzazione scenica e dagli effetti combinati di luce e suoni - il pubblico si lascia guidare dalle sensazioni entrando solo così in perfetta sintonia con il messaggio di Iannis Xenakis che è sempre stato il giovane ateniese in piazza ai tempi della guerra civile, l'apprendista stregone della fucina lecorbuseriana, permeabile solo apparentemente alle meraviglie del nuovo e invece, come si è visto, affascinato e interessato solo dalle logiche più antiche e in qualche modo immanenti.
Questo Diatopo
sembra riassumere le ricerche iniziate nell'atelier di Le Corbusier e, in definitiva, rappresenta una sorta di conclusione di questa lunga prima fase di lavoro di frontiera fu quella realizzata davanti al Beaubourg, per il quale Xenakis concepì più progetti, ma quello che venne costruito consisteva in una tenda di 1000 metri quadrati di vinile rosso vivo semitrasparente, in modo tale che lo spettacolo fosse visibile anche dall'esterno. Questo guscio ha pressoché la forma esterna, semplificata, del Padiglione Philips e contiene al suo interno la rappresentazione di "la Légende d'Eer", mito tratto dalla Repubblica di Platone che narra del ritorno dal mondo dei morti.
Il mondo antico rivive così in una costruzione nata da una sorta di traduzione matematica del problema strutturale legato originariamente a fini di propaganda tecnologica; la letteratura più antica viene messa in musica con sistemi da alcuni considerati estremi, ma che visti con gli occhi di coloro che si interrogano se sia possibile una sorta di sintesi delle arti, o meglio di tutti i modi dell'espressione, sembrano presentarci Xenakis come quella figura di ricercatore scientifico e paziente che ha finito per stabilire le norme di una strategia compositiva fondata sulla matematica, sulla teoria degli insiemi, sulla logica, ma senza cadere nella trappola di trattare tali principi per se stessi, come puro godimento di un arido intellettualismo.

Alessandra Capanna