Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 22, 2021

Sergiu Celibidache: vivere la musica

Monaco, giugno 1987.
La mattina di un piovoso giorno di festa Sergiu Celibidache ci riceve nel suo studio luminoso al terzo piano del Gasteig.
Uno dei massimi musicisti del nostro secolo traccia per Piano Time le grandi linee del proprio pensiero: intransigente ma non intollerante, comprensivo ma senza compromessi, il maestro rivela la propria generosissima apertura per i problemi dei giovani e il proprio singolare, atipico e raro approccio alla musica.
Trascriviamo il suo dire con letterale fedeltà per conservare al dettato tutta la forza di una testimonianza severa, di grande significato morale, artistico e culturale.
Ringraziamo Sergiu Celibidache per la simpatia dimostrataci con l’esclusiva eccezionalità del gesto e per il contributo di idee donato alla nostra rivista.

Maestro Celibidache, lei ha studiato in Germania e la sua formazione è quindi mitteleuropea: il suo approccio alla musica, di carattere fenomenologico, ha riferimenti con il pensiero filosofico di Husserl, di Heidegger?
Certamente: esso ha proprio là, in Husserl, il suo punto di partenza, ma ad un certo momento le vie si separano. In che cosa consista la separazione è un dettaglio che per lei potrebbe essere di scarso interesse.
Non emergendo, in Husserl, esplicite attinenze con il linguaggio musicale, lei ha dunque estrapolato dalla sua filosofia gli strumenti necessari alla formulazione di una particolare visione del fenomeno espressivo.
Non solo io. Altri filosofi tedeschi si sono occupati di questi problemi: si tratta di pensatori che non avevano alcun interesse ad essere riconosciuti, e alcuni addirittura non sapevano di avere scoperto queste cose, penso.
Lei, comunque, ha tirato le somme.
Certamente: io mi sono interessato a tutti coloro che hanno inteso obiettivare il materiale sonoro (a) un fine: quello di studiare il modo in cui il suono agisce sulla coscienza dell’uomo.
E’ dunque una verifica sull'uomo, l’individuo, il fruitore.
Solo quello. Non ci sono teorie: il fenomeno deve essere vissuto, profondamente, vissuto. L’intelletto è impotente.
A questo punto il giudizio estetico relativo all'opera appare scontato, abrogato.
Sì, perché si finisce per allestire scale di valore addirittura ridicole, e quindi sono fuori discussione: Beethoven, questo è importante, è riuscito, con le proprie opere, a creare condizioni attraverso le quali l’uomo giunge alla trascendenza. Ma anche a Bach è stato concesso questo, a Bramhs, e a tanti altri, senza potere affermare chi sia più grande o meno grande di un altro. Verdi vi è giunto malgrado la parola.
Nei suoi programmi convivono infatti Milhaud e Debussy, musicisti che le convenzioni storiche giudicano di differente peso.
Senz'altro, non esiste incompatibilità. Anche Milhaud talvolta è andato oltre il suono e quindi mi interessa.
Le sue ricostruzioni musicali sembrano avere alla base una rigorosa analisi del testo, alla quale è chiamata anche l’orchestra.
Non so se si possa definire analisi: certamente un accurato accertamento delle nostre possibilità che sono, in un certo senso, delle limitazioni nei confronti dell’idea del compositore; noi proviamo, con molte conoscenze tecniche, ad avvicinarci all'idea che lo ha animato.
Il segno è spesso definito costrittivo, inadeguato all'idea.
Io non direi così. Nella musica il segno è solamente piuttosto convenzionale, dato che nessuno sa che cosa sia la musica. Nella musica non c’è nulla di convenzionale, di simbolico, come invece c’è nel pensiero, nel linguaggio, nella scrittura. In musica tutto è einmal, nella sua accezione di “unico”. Una terza è quel dato rapporto di vibrazioni: la cosa importante è che lei possa lasciar agire questa terza su di lei: ciò presuppone l’esistenza di una coscienza limpida, vuota. Invece noi portiamo sempre un pesante fardello sulle nostre spalle, un carico di storia che crea le condizioni della cosiddetta interpretazione, fonte di infiniti, quindi discutibili giudizi. Qualora lei riesca invece a vuotarsi, ad atteggiarsi con la stessa spontaneità di un bimbo nei confronti del suono, lei avrà le stesse reazioni di tutti coloro che assumono il suo stesso atteggiamento nei confronti del fenomeno sonoro. La relazione con il suono, la nostra coscienza di esso, è unica: questo è il problema fondamentale posto dalla fenomenologia.
Quello che si chiama falsamente interpretazione è un elemento che non ha alcuna possibilità concreta di mettere radici nella conoscenza estetica dell’uomo: non esiste in musica interpretazione, si può verificare nel linguaggio, nel pensiero, dove si rintraccia una somma di convenzioni, di astrazioni, di simboli in cui ognuno trova quello che vuole e prende quello che può. Nel suono non è così. Naturalmente il pubblico che si avvicina al fatto musicale non libero, non liberato, appesantito di tutta la sua storia - emotiva e intellettuale - e dell’esperienza, non può riconoscere l’unicità dei fenomeni componenti la musica.
Esautorato il concetto di interpretazione, avanza l'idea, di una lettura oggettiva.
Non esiste né oggettività, in questo senso, né interpretazione...
...ma un’oggettività suggerita dal testo...
...ah no, perché l’oggettività dev'essere intesa nella lezione data da Husserl: intersubjektive Betreffbarkeit (capacità di) incontrarsi nell'altro, reciprocamente; qualora io mi incontri in lei e lei si incontri in me, si verifica l’unica forma di obiettività. Un’obiettività definita dall'intelletto sarà sempre in funzione dell’intelletto che si configura in ciascuno di noi in maniera sempre diversa. Ma la reazione del mondo affettivo dell’uomo al suono è sempre la stessa, è unica. C’è o non c’è: può darsi che il suono non solleciti alcunché nel mondo affettivo di un uomo, ma quando questa relazione si verifica - e il suono venga assunto per quello che è, con spontaneità, in una condizione liberata da tutte le ipoteche di cui parlavamo - la reazione ad esso è assolutamente comune in tutti, senza nessunissima differenza. Ma, vede? Già questa espressione - trovare una differenza, non trovare alcuna differenza - è il prodotto di un processo intellettuale che testimonia il nostro essere fuori la musica: in parole povere, lo ripeto, la musica non ha nulla in sé di intellettuale. Una cosa diversa è il lavoro di preparazione, come lavorare il suono, sapere come articolare un suono con un altro: tutto ciò - e molto altro - non attiene alla conoscenza; ma la spontaneità con la quale l’individuo deve vivere il suono non può assolutamente rapportarsi al passato né al futuro: hic et nunc (sottovoce, tra sé) hier und jetz; proprio così.
Un’espressione come “responsabilità dell’interprete”, perde quindi ogni significato.
Ma quale interprete! Dov'è l’interprete! L’interprete è un ignorante che partecipa ad una storia della musica definita da ignoranti che nulla sanno di queste cose. Ci si imbatte talvolta in situazioni senza senso quando un compositore afferma che un “interprete” ha lavorato meglio di un altro attorno al proprio testo. In che consista ciò è impossibile stabilirlo. Ben altra cosa è, invece, il riconoscimento del compositore secondo cui “non poteva essere meglio di così”; vede? La sua versione - che pure è una interpretazione del proprio testo, frutto e funzione della sua personale esperienza, del suo proprio sapere, della sua personale posizione nel mondo, davanti alla società, tutti elementi aleatori che gli inibiscono una condizione di libertà - si incontra, nel momento unico e irripetibile della ricreazione sonora dell’opera, nelle intenzioni dell’esecutore: ecco allora che si verifica quell'“incontrarsi nell'altro”, al di fuori e al di là di quel disegno oggettivo che diceva lei, ma che oggettivo non è; ecco che io mi incontro nel compositore ed egli riconosce: “non poteva essere diversamente”.
Badi che non è un complimento: si tratta invece della testimonianza di una realtà comune. Naturalmente queste posizioni non hanno oggi alcuna probabilità di essere comprese e accettate: oggi tutto sembra poggiare sul concetto di interpretazione: ma che cos'è l’interpretazione? Io non lo so. Lei può sapere tutto sul tempo, ad esempio, che è un fattore molto relativo nell'esecuzione: ebbene, cosa significa sapere tutto? Il tempo non è una realtà fisica, non è la velocità: il tempo non è altro che la condizione perché la molteplicità dei fenomeni che toccano la mia coscienza possano essere ridotti a una entità da trascendere, dopo essermene appropriato.
Che ruolo ha il dato storico presente nella realtà testuale?
Senz'altro un ruolo irrinunciabile, ma solo nella fase noetica. Ai fini della preparazione occorre infatti conoscere la diversità dei linguaggi, la caratteristica della strumentazione, occorre individuare il gesto appropriato ad un dato testo: ma non accadrà mai che nell'alzare la bacchetta su una partitura di Verdi io penso ai fatti storici che hanno definito la sua figura, hanno condizionato la sua apparizione e la sua personalità. No, a quel punto sparisce tutto. Tutto. Mentre invece la fase noetica - lo ripeto - è sapere, è aggancio al passato e speranza per il futuro: Ma la fase noetica non porta alla trascendenza, possibile solo in quella successiva, quando io mi sono appropriato di tutti i dati disponibili, ordinati dalla noetica, dove non esiste più altro che lo hic et nunc.
Maestro Celibidache, come entra lo Zen nel suo essere musicista, nella sua concezione di u n ’arte che si realizza in un linguaggio occidentale?
Ma la nostra arte non ha, e non è, un linguaggio! Se cerchiamo di definire i termini di un linguaggio, caschiamo un’altra volta nella convenzionalità, nel simbolo. Anche qui occorre fare delle distinzioni; musica pop: perché si chiama musica? Cosa intende lei per musica? E’ impossibile una definizione, se non a costo di ricadere ancora in una dimensione intellettuale. Occorre invece uscire - come ha sostenuto Goethe, ma anche Leopardi - dalla materia, che serve solo a indicare la presenza di una certa sostanza da cui è regolata, dominata: la realtà. Quando l’allievo Zen chiede al maestro che cosa ci sia dietro al pensiero, ottiene, come risposta,“la realtà”. Questo è il senso dello Zen. Il pensiero, la logica, tutta questa costruzione che tanto ci serve, da queste parti, nella vita quotidiana, non porta alla trascendenza. Ad essa ci porta solo la realtà, che non è definibile in alcun modo, anche se tutto ciò che facciamo sembra avere una propria realtà. Ma non si tratta di questo. Anche Goethe, quando definisce l’Urphänomen, il fenomeno originario, primordiale, utilizza una parola, ancora una parola. Ma nello Zen non c’è parola che possa toccare il suo senso profondo. Bene, la musica non è altro che una meditazione Zen, a condizione che si rinunci al pensiero. Se lei pensa alle quattro misure dei corni, ecco, ora entrano i secondi, tre misure al flauto che è troppo alto, non accederà mai alla meditazione; ma se le cose scorrono con fluidità lei esce dal contesto fisico che la lega al suono: suono che è il veicolo che la porterà a quella sostanza indefinibile - che sarebbe la realtà. Il suono, badi bene, e non la musica: la musica non ha nulla a che vedere con il suono; senza il suono la musica non può manifestarsi, ma la musica non è il suono Vede? (sorride) Non abbiamo alcuna chance per entrare realmente nel mondo nel quale viviamo: siamo costantemente fuori...
L’elemento intrigante, maestro, è sempre il segno, con la sua forte pregnanza...
Se lei attribuisce tanto peso la segno, rientriamo nella polemica. I segni sono invece solo tracce di una energia non definibile, sono indicazioni generiche sulla sua strada verso l’energia, che regola, domina tutto. Una cosa diversa, invece, è il suono. Quando il compositore lo ha concepito la sua fantasia era animata da un certo movimento, la cui caratteristica era la relazione fra suono e mondo affettivo: egli ha calato il suono in un linguaggio, se vogliamo, che è poi la scrittura. A questo punto è compito nostro studiare in qual maniera il linguaggio può giungere a esprimere l’unicità dello stato d’animo generatore di questa mediazione.
Un’operazione di estrema difficoltà.
Sì e no. Non si può nemmeno parlare di difficoltà, a ben vedere, poiché se uno lo può fare non c’è difficoltà, ma se non riesce a liberarsi, allora è impossibile.
Quando lei intende, profondamente, allora lei esce dal contesto intellettuale: ma vede? Noi non abbiamo una parola per questa condizione: noi diciamo “intendere”, “capire”, ma questi sono termini che attengono ancora alla sfera intellettuale. E’ invece importante, necessario, potere “vivere” (erleben).
Per lei, maestro, lo Zen è stato una svolta o una evoluzione graduale della sua esistenza?
Si è trattato di una evoluzione graduale. Da giovane ho avuto la fortuna di incontrare a Berlino un maestro buddista che aveva trascorso quattordici anni in un monastero Zen. Io non capivo come, attraverso il Buddismo - che presentava una serie di regole comportamentali e d’arma - si arrivasse praticamente a non pensare; bene, quell'uomo sviluppò in me un interesse particolare per queste cose, ma io non avevo ancora compiuto un’esperienza Zen, e anche se mi era occorso, non ne avevo preso coscienza. Quell'uomo ha influenzato enormemente la mia vita; egli era aperto a tutti gli eccessi nelle cose del mondo: non conosceva moderazione; egli faceva tre volte quello che normalmente si potesse fare, anche nello studio, cui si dedicava con una intensità difficile a credere.Tutto ciò lo conduceva a una fine prevedibile, come una candela accesa alle due estremità; noi si discuteva fittamente sulle cose e i loro aspetti, sugli aspetti e la sostanza. Accadde poi che mi imbattei in un vero monaco Zen. Il mio primo impulso fu di conquistarlo, di mostrargli quanto io fossi addentro a tutti gli aspetti della disciplina Zen; egli ascoltava, ascoltava, sembrava trasparente, nulla rimaneva di quanto io gli andavo dicendo, poiché egli non si soffermava su nessuna mia affermazione. Si limitava a chiedere: "E dopo?" Allora io ricominciavo pazientemente, e con fiducia a parlargli, ma, giunto ad un certo punto, ho avvertito una sensazione di vuoto, come una macchina che, pur col motore in funzione, non riuscisse a muoversi.
Mi resi finalmente conto che a quel livello non c’erano vie d’uscita e gli chiesi:“maestro, com'è?” “Così, come quell'albero” rispose. Mi è sembrato molto, e nello stesso tempo niente. Ma io riflettevo sempre sull'immanenza di qualcosa su cui noi non possiamo avere influenza. Quindi di una realtà. Le ultime conquiste parlano di una energia centrale, ovvero un’intelligenza che tutto guida, ma a me sembra di potere dire più verosimilmente “realtà”, poiché se diciamo “intelligenza” riduciamo la questione a una dimensione umana. Che ci sia un ordine cosmico, non c’è dubbio; e che nell'ordine cosmico la speculazione intellettuale non trovi posto a nessuna attribuzione, è normale.
Forte di questa consapevolezza ho proceduto nell'avvicinamento ai significati più alti della disciplina. Ma subito, ricordo, chiesi dove si potessero trovare libri ad hoc, ed egli mi rispose semplicemente: “Lì”, indicando il mio cuore. Solo lì. Qual è una prima conclusione? Sullo Zen non si può dire nulla. E’ stato scritto molto - i tre libri di Suzuky, tutti i libri di Yashimara, gli insegnamenti di un maestro di successo, a Parigi - ma vanamente: lo Zen non si può insegnare. Ognuno di noi ha fatto, senza saperlo, innumerevoli esperienze Zen: lei entra in una sala, vede una persona e subito sente una certa affinità con essa. L’errore affiora quando noi, soggetti intellettuali, cerchiamo di capire in che consista questo feeling: noi intendiamo sapere sempre “cosa è”, intendiamo trovare sempre un oggetto per il pensiero: qui si esce dallo Zen. Lei mi chiede di parlare dello Zen, ma questo mi meraviglia un poco, poiché tutto quello che io faccio non è altro che Zen, praticato nella vita di tutti i giorni. Un concerto riuscito è una meditazione. Vede? Quanti libri sono stati scritti sulla meditazione? Su ciò nessun libro può dire una sola parola. L’unica definizione è quella tramandataci dal sanscrito: “Om, cui non pensare, è la meditazione.” Non pensare... dove Om, sillaba magica, solenne, indica l’origine dell’universo. Non pensare...Vede? Può sembrare difficile... ma tutti i mistici affermano che tutto ciò che l’uomo può pensare, certamente non è Dio. Bene, ora noi troviamo l’applicazione di questi sacrosanti principi nella vita di un uomo come Gesù, impegnato a indicarti in quale direzione devi andare per dimenticare il mondo e conquistare la realtà. Realtà, raggiunta con l’abbandono di ogni pastoia, di ogni costrizione, limitazione. Ma cos'è la realtà? La scienza la vuole definire dividendo e suddividendo: dall'atomo, oltre l’atomo: ma dividendo non si arriverà mai a una cosa che non sia divisibile. Qual è l’operazione contraria? Non certo la sintesi: l’uomo per sua natura non può fare che una sola cosa alla volta: l’uomo ha una coscienza che lo induce a ridurre la molteplicità delle cose che quotidianamente deve affrontare, all'unità; se ne appropria per essere libero e disponibile alla prossima riduzione, per la prossima trascendenza. Tutto il nostro divenire è sottoposto a questo processo. Cos'è una definizione? E’ una limitazione della generalità. A che corrisponde? Alla natura dell’uomo che - one pointedness - non può fare se non una sola cosa alla volta e che passa da una cosa all'altra con una vitalità e rapidità eccezionali.
Cos'è una legge? Una restrizione. Cos'è una equazione matematica? Una riduzione: Ma cos'è la musica? La musica è la possibilità offerta all'uomo di trascendere gli stati d’animo che il suono può provocare. Con ciò egli conquista la libertà, poiché se il suono gli ha provocato uno stato d’animo, ed egli non sa uscirne, egli non è libero.Anzi, sarà sempre più preso da numerosi successivi stati d’animo, suggeriti da altri episodi, ed egli non potrà viverne la realtà se non sarà libero.
Sono certo che lei, nel corso dell’esecuzione di Tod und Verklärung ha vissuto una condizione di trascendenza, pur non avendone preso coscienza. Vede? La generosità e la simpatia con cui lei si è aperto, quando me ne parlò, non erano provocate da quella che di solito si definisce “interpretazione”, o suggerite dalla sua cultura o dalla sua storia personale: erano invece l’emanazione di un processo trascendentale. Soltanto attraverso questo processo lei ha potuto identificarsi in me, trovare in me quello che ha trovato in se stesso. Lei infatti non disse “è bello”, che è un giudizio, che quindi va trasceso.
Il più alto, il più profondo complimento che mi si possa fare è dirmi: “E’ così, maestro”, “è la realtà”, “essere’’. Troppo spesso invece ci si smarrisce in definizioni, in giudizi...
Tornando un poco alla sua attività, quali sono i criteri di scelta del suo repertorio?
Non sono sempre personali: devo prendere in considerazione ad esempio le esigenze della città, le attese del pubblico. Io intendo programmare la Sinfonia n°12 di Sostakovic, ma il pubblico non ha ancora sentito alcune cose di Brahms, di Weber, per fare due nomi. Come vede si tratta di problemi di natura piuttosto pratica. Noi intendiamo fare il più possibile, indagare uno spettro il più vasto possibile.
Anche per questo lei rinuncia a Beethoven, un autore non molto frequente nei suoi programmi?
Non è assente. C’è da dire che molte sue sinfonie si offrono a un’orchestra di dimensioni ridotte. Noi siamo un’orchestra romantica, enorme: centotrenta esecutori; non c’è orchestra al mondo che suoni Bruckner come avviene con i Münchner...
...la fama dell’Ottava Sinfonia di Bruckner con cui lei ha inaugurato il Gasteig, ha fatto - senza dischi - il giro del mondo...
Eh, ma vede, noi dobbiamo fare la Prima Sinfonia, la Seconda, la Quarta, l’Ottava di Beethoven, che richiedono un organico piccolo; noi non evitiamo Beethoven, ma disponendo di questo strumento straordinario, siamo certamente più aperti a un repertorio che possa valorizzare la caratteristiche di quest’orchestra, e, devo dire, che ha cambiato la sua carta di visita nel mondo.
Lei ha ottenuto con altre orchestre - dal 1963 al 1971 ha lavorato assiduamente con l’orchestra della Radio svedese - risultati rapportabili a quelli realizzati con la Filarmonica di Monaco?
Certamente no. L’orchestra della Radio svedese era un organico rispettabile che però non aveva la profondità di suono dei Münchner, inoltre io non ho mai avuto la possibilità - non c’erano limitazioni di motivo fisico di lavorare come avrei desiderato: non sono mai stato direttore stabile dell’orchestra svedese, ma sempre solo direttore invitato: non ho mai fatto più di due periodi di tre settimane oltre a qualche tournée...
... lei richiede abbondanti tempi di prova...
...certamente, si tratta della fase noetica, quanto attiene al sapere, alla conoscenza, l’aggancio con il passato, al recupero degli stili, alla cultura che ha informato lo scenario in cui è nata una data opera: tutto richiede tempo, tempo fisico... dodici prove! Vede? Il programma che ha udito lei ieri è giunto alla settima prova, ne sono previste altre quattro, e infine la generale...
...i risultati sono evidenti
Questo non lo so, comunque io non posso fare altrimenti.
Lei ha un rapporto molto concreto con i suoi allievi: lei si dedica intensamente - lo ha sempre fatto - all'attività pedagogica e formativa. Che bilancio trae da questa attività?
Piuttosto negativo, purtroppo. Contro di noi congiurano le ristrettezze economiche in cui tutti, io compreso, ci muoviamo.
Seguire un corso - lei capisce- significa spostarsi, finanziarsi, provvedendo a tutto ciò che occorre lontano da casa. Insomma è difficile per tutti noi. Inoltre c’è la tragedia del giovane direttore il quale è l’unico musicista che studia non su uno strumento, ma davanti a un’orchestra che è già formata, con le proprie caratteristiche psicologiche. Egli è assolutamente disarmato, diversamente da chi siede davanti a un pianoforte e, nota dopo nota, con pazienza e con illimitate possibilità di tempo, conquista stadi sempre più avanzati. Ma il direttore come può? Questo giovane, dal momento in cui sale per la prima volta sul podio, deve affermarsi contro lo scetticismo dell’orchestra, scettica per definizione davanti a un giovane. Chi filtra dalla severa selezione? Colui che ha una volontà di ferro, colui che ha un temperamento estremamente duro; ma non ci sono garanzie che costoro conoscano anche la musica. La caratteristica delle nuove generazioni dei direttori è l’ignoranza! Non la mancanza di talento. Vede? Tutti coloro che oggi hanno un ruolo nella conduzione del mondo hanno talento - ma conoscenza: zero!
Cos'è la conoscenza? L’apporto di una ricca analisi noetica. Analisi assolutamente necessaria, poiché prima di lasciare che il suono abbia tutta la sua influenza su di me, io devo imparare a lavorare sul suono.
Quali sono i suoi autori prediletti?
Tutti i maestri di cui affronto le partiture mi piacciono, e tra essi non ho predilezioni. Non dirigo mai pagine di compositori di cui non sia intimamente convinto, e ogni compositore nel momento della sua ricreazione sonora è, per me, assoluto. Una qualificazione come “migliore” perde di significato nel momento in cui io devo giungere alla sua unicità: chi è meglio dell’unico? Questo è il varco attraverso il quale io penetro nell'essenza reale della cosa musicale: questo è tutto. In questo momento io sono al servizio dell’idea, il mio compito è quello di ridurre l’idea del compositore all'unicità. Io, impegnato in questo compito, come potrei dare il meglio di me pensando:“Questo è bello, ma Bach lo è ancora di più?” No. La mia posizione annulla qualsiasi possibilità di riferimento ad altre cose alternative, proprio per pervenire all'unicità del significato dell’opera presa in considerazione, di ogni singolo fenomeno, in senso lato.
Quali sono i suoi interessi in questo periodo?
I giovani. Mi interessano molto i giovani perché mi ritrovo in ognuno di loro senza eccezione. Anch'io sono passato attraverso una lunga fase dominata dall'ignoranza; anzi, per otto anni ho diretto, in tutto il mondo, senza sapere nulla di musica. Non sono stato preciso: io sapevo, ma non mettevo in pratica le mie conoscenze; fin tanto che uno dei miei maestri, Heinz Tiessen, un uomo di cui il mondo non conosce nulla, mi ha convinto, invece di andare in America a fare carriera, a rimanere con lui. Anch'egli era assai consapevole, conosceva la via alla trascendenza, ma era uno scettico, e non aveva fatto carriera. Erano gli anni che andavano dal 1937 al 1952.
Alcuni di essi si riferiscono al periodo della sua collaborazione con Furtwängler
Non collaborazione, ma per me Furtwängler ha rappresentato la realizzazione pratica degli ammaestramenti di Tiessen. Infatti per la prima volta ho avuto delle indicazioni improntate a fenomenologia pura da un musicista. Il giovane Celibidache chiedeva: “Maestro, in questa Sinfonia, la transizione che va dalla tale misura alla tal altra del primo movimento, a che velocità si fa? Qual è il tempo giusto?’’Allora io pensavo che velocità e tempo fossero la stessa cosa. Egli rispondeva: “Tutto dipende da come suona. Se il suono è ricco, se in partitura figurano sei ottave, quindi di una enorme intensità, occorre staccare un tempo lento. Maggiore è l’intensità, più complessa la sostanza espressiva, più tempo occorre per realizzare la unicità: quindi un tempo più lento”.
Alcuni tempi da lei adottati sono variamente discussi, perché non intesi nelle loro vere ragioni...
Non si tratta, credo, di capire o non capire; ognuno possiede di un’opera, un modello che nel tempo si cristallizza e che diventa un falso appoggio: manca invece il vissuto diretto, l’esperienza reale.
C’è qualcosa che lei osserva criticamente nel mondo della musica, e che la rattrista?
Per i giovani che si affacciano alla musica non m’è riuscito di fare nulla di quanto avrei dovuto fare. Avrei voluto portare con me cinquanta allievi di talento; disporre di un’orchestra con cui fare esperienza, nutrirli, insegnare loro senza limitazioni organizzative. Invece abbiamo solo potuto improvvisare.. .Tra i miei allievi ce ne sono diversi italiani che mi seguono in modo irregolare soprattutto perché non possono permetterselo. Vede? Essi faranno le loro esperienze per quanto sarà loro possibile, con i mezzi e con gli strumenti che troveranno disorganicamente a disposizione, perdendo - come è accaduto a me - dodici, quindici anni. Anni di vita. Questo è molto triste e mi amareggia.
E poi, sempre in questo quadro, non si può non soffrire per l’andazzo cosi superficiale preso dalla musica: fare e sentire musica con l’orologio in mano: dov'è finita la coscienza del fatto musicale? Per non parlare dell’aspetto materiale: oggi si assiste ad un ribaltamento dell’ordine dei valori nel senso che è il cachet a decidere il valore dell’artista: quello che è caro deve essere anche buono, no? Questi sono vizi che generano pericolosi equivoci, ma una delle responsabilità maggiori, nel deterioramento dello scenario musicale, grava sulle istituzioni: esse dispongono di orchestre, di grandi possibilità economiche ma, nella maggior parte dei casi, sono guidate da gente inadeguata, al di sotto del più basso livello immaginabile.
Pensi cosa avrebbe potuto fare la RAI per la vita musicale in Italia, il paese più musicalmente dotato di tutto il pianeta. Cosa ha realizzato? Niente! Ha reso permanente un deleterio clima di improvvisazione. Ricordo molto bene che chi aveva il compito di decidere, anche ai massimi livelli, era nominato da un partito, senza avere alcuna competenza.
Non si può dire che in Italia manchino uomini all'altezza di questi ruoli, ma chissà dove sono! Certamente non al posto giusto!
Maestro, il mondo sa poco di lei...
.. .niente, non sa niente: sia preciso, non sa nulla ed è meglio cosi...
...e tutto ciò crea ed alimenta attorno a lei u n ’aura mitica...
...mah, è un’aura che io proprio non cerco, sa. Io sono un uomo normalissimo, e le doti eccezionali che mi si attribuiscono, sono in realtà doti che ha ciascuno. C’è una differenza, però, che in me si sono liberate, in troppi altri uomini non ancora.
Legge molto?
Studio, leggo moltissimo. E soprattutto quelle voci europee che, a partire dal Medioevo, tendono allo Zen. E’ una meta perseguita da innumerevoli creatori: pensi a Meister Eckhart, pensi a Goethe. Interessatissimo alla scienza e alla natura, uomo di indiscutibile universalità, egli era chiaramente proiettato verso lo Zen, soprattutto quando affermava: “Prima il sentimento, dopo il pensiero.” Questo ricorda curiosamente quell'altro motivo di riflessione: “Prima la musica, poi le parole” (sorride) che si riferisce all'impossibilità che la parola ha di accordarsi alla musica.
Anche J.J. Rousseau, in tempi non sospetti, dava uno straordinario rilievo al sentimento...
In quale filosofo non c ’è traccia di questo profondissimo abisso che gli asiatici hanno raggiunto? Anche il povero Croce, filosofo per alcuni lati ragguardevole, mostra nelle sue formulazioni alcuni aspetti fenomenologici. Fenomenologia non come uno sport del pensiero, ma, finalmente, nel disegno di Husserl, il quale accetta da Brentano che ogni coscienza è coscienza di qualcosa, ma quindici anni dopo definisce la fenomenologia come scienza della coscienza umana nel suo eigensein, nel suo proprio essere: ogni coscienza è coscienza di qualcosa, perciò coscienza in sé non esiste, nella sua concezione pura, nella sua propria essenza. Questo è un momento di contraddizione, e questo è il punto in cui le strade divergono, come dicevamo all'inizio.
Lei è autore, tra l’altro, di un concerto per pianoforte e orchestra. Ai lettori di Piano Time interessa certamente conoscere qualcosa su i suoi rapporti con il nostro strumento.
Ottimi, posso dire. E’ stato il mio primo strumento e cominciai a familiarizzarmi con esso all'età di quattro anni. Improvvisavo, senza insegnanti, e mi divertivo moltissimo a eseguire, trasportandola in tutte le tonalità possibili, una canzone molto in voga allora nella mia città. Era un divertimento straordinario, ed ero affascinato soprattutto dall'utilizzo dei tasti neri. Tutto ciò è stato di grande utilità, poiché da lì ho iniziato a conquistare una certa libertà nei confronti del suono.
In che rapporti è con il suo Paese, maestro?
Pessimi. Sono giunto all'età di settantacinque anni, nella vita ho fatto molte cose, e mi sembrava giusto fare qualcosa per la Romania. Mi ci sono recato, ho fatto concerti molto belli, riuscitissimi, e avrei voluto condurre un corso per direttori d’orchestra: tutto è saltato per iniziativa del direttore della Filarmonica e del direttore dell’Opera di Bucarest i cui due figli non avevano superato gli esami ad un mio corso in Germania. Queste sono le non nobili cause del fallimento, con conseguenze negative su quegli studenti tedeschi che avevano avuto borse di studio dalle loro università per seguire il mio corso. Non se ne è fatto nulla. Purtroppo. Si tratta di una storia sporca, squallida, che mi ha disgustato davvero profondamente.
Dove sta andando la musica?
Il problema è mal posto. La musica non esiste ancora: è il suono che, per ora, cammina. Oggi il mondo della creazione si identifica nel suono, nella scienza del suono: ma il suono in sé non ha alcuna importanza, diventa importante quando fa nascere qualcosa nel mondo emotivo dell’uomo, quando diventa oggetto di trascendenza. Non possiamo chiederci “dove va la musica”, come se la musica esistesse: essa ancora non esiste. Il suono sì, con la sua diabolica capacità di commuovere, di emozionare. Prendiamo la musica concreta e il suo più ovvio utilizzo, quello cinematografico: in una scena in cui viene assassinato un personaggio, il criminale non si vede, ma se ne sentono i rumori: bene, la componente sonora ti porta all'esasperazione, a un parossismo che noi, col nostro repertorio, mai riusciremo a provocare; ma badi che il suono generato per se stesso non porta alla trascendenza: è l’ordine che noi imprimiamo ad esso a favorire la sospensione dell’intelletto: solo allora la realtà si rivela. Non sarà però l’intellettuale a testimoniare la presenza della realtà o meno. Ad essa si avvicina, con tutte le probabilità di toccarla, solo chi abbia fermato il suo pensiero.
Un’ultima riflessione su qualche cosa che le stia a cuore.
Una riflessione ancora sul fatto di non disporre di sufficiente denaro da organizzare io stesso un corso di direzione d’orchestra. Questi giovani che mi seguono con enorme sacrificio non possono mai contare su un’orchestra con cui lavorare. Pensi dove giunge la loro buona volontà: un mio giovane allievo veneziano ha formato una piccola orchestra di venti archi e dopo un certo periodo di lavoro s’è portato l’orchestra qui a Monaco affinché io mi rendessi conto dei risultati ottenuti. Un italiano! Non è commovente tutto ciò? Com'è possibile rimanere indifferenti? Io oggi ho una carriera di grande attività, faccio concerti molto applauditi: e questi giovani? Essi rappresentano la potenzialità del futuro ed io non posso fare nulla o quasi per loro. Ora andrò a Saluzzo: cosa faremo? Ai giovani che si riuniscono attorno a me parlerò di musica e di pratica orchestrale poiché la loro massima ambizione è quella di suonare in orchestra. Ma in otto, nove giorni cosa si può fare? Un buco nell'acqua, o poco più.
Io direi, me lo conceda, che si tratta di uno dei tanti semi da lei sparsi negli anni, ognuno dei quali ha avuto una propria fortuna, ha dato un proprio frutto. Nessuno s’è perso, nessuno è caduto invano. Arrivederci a Saluzzo, maestro.
Arrivederci! Non manchi!
Umberto Padroni
(Intervista apparsa su “Piano Time” N" 54, 1987)

lunedì, maggio 10, 2021

"Le sette ultime parole di Cristo..." di Haydn: dialogo tra Riccardo Muti e Massimo Cacciari

IL TERREMOTO
Presto con tutta la forza

Cacciari: Ed eccoci arrivati alla conclusione, il terremoto che scuote la terra.
Muti: Dopo il grido e l’ultima invocazione di Cristo rimane solo un suono "fermo", una lunga nota di attesa... e poi il terremoto. Dio si rivela, la sua risposta palpita di un ritmo drammatico: Haydn inserisce le trombe - che una volta si chiamavano clarini - e i timpani; introduce strumenti dal suono "violento" a rappresentare il terremoto di brevissima durata, e che darà l’idea che tutto crolla... Non c’è più voce, non c’è più canto, non c’è più nulla: c’è puro suono.
Ma soffermiamoci sulla tonalità: la premessa è che ognuna ha una sua caratteristica. Il Terremoto è nella tonalità di do minore, scura e terrificante.
Haydn, nel Caos - che è l’inizio dell’opera La creazione -, sente la necessità di usare il do minore, come nel Terremoto, cioè la stessa tonalità per due avvenimenti che sono diversi e distanti l’uno dall'altro: il Terremoto che chiude Le sette ultime parole, e il Caos che apre la creazione: ecco l’inizio e la fine.
Torniamo per un attimo alla sonata Hodie mecum: l’attacco è in do minore. Cristo ancora vivo si rivolge ad uno dei ladroni, e gli dice: "Sarai con me in paradiso". Per descrivere questa sofferenza Haydn nuovamente usa il do minore, la tonalità più adatta al Cristo che parla sulla Croce; nella seconda parte della sonata dal do minore modula in do maggiore perché desidera trasmetterci l’idea che si intraveda il paradiso, la luce, la fine del dolore, la gioia.
Ed ecco il maggiore tonalità incontaminata, pura. bianca. Che deve corrispondere all'offerta: "Oggi con me sarai in paradiso". Sarà così il finale della sinfonia Jupiter di Mozart in do maggiore, come anche il finale del Guglielmo Tell, o del Fidelio, sempre in do maggiore.
Prendiamo un altro esempio: il Cristo sul monte degli ulivi di Beethoven. Un oratorio, per soli, coro e orchestra, un’opera più teatrale dello stesso Fidelio. Nel finale il coro intona l’Alleluia in do maggiore, mentre nello stesso pezzo La terra trema corrisponde in un certo modo al terremoto di Haydn.
Voglio dire che ci sono elementi che riguardano la tonalità, il timbro, che avvicinano compositori come Haydn o Mozart o Beethoven. Musicisti capaci di evocare in musica ciò che poi sarà trasferito in colore, in pittura.
Nella partitura della Creazione di Haydn - che ho appena ricordato - il titolo esatto del primo brano Caos è in realtà Die Vorstellung des Chaos, cioè "La rappresentazione del caos". Siamo di fronte ad una pagina di sorprendente modernità; è un brano ricco di dissonanze che producono sensazioni di disarmonia proprio per evocare il caos; intendo alludere a dissonanze prodotte attraverso l’uso del sistema tonale, che Haydn continuamente aggredisce.
Ma nella sua immaginazione abita anche un senso pittorico che cerca di mettere in scena associando ai suoni le tonalità di colore di una tavolozza. Non a caso usa il termine "Vorstellung", "rappresentazione".
Il do maggiore - ad esempio - richiama il bianco: chi ascolta è come avvolto da una luce immaginaria, abbagliante, incontaminata, ed è questa tonalità a riportarmi ancora alla Crocefissione di Masaccio e alla sua luminosità. Qui abbiamo la dolcezza di Giovanni, la disperazione della Maddalena, la compostezza della Madonna di fronte a Cristo che viene abbracciato sensualmente dalla Maddalena.
Questi "colori" si ritrovano nelle esecuzioni sacre. In particolare li ritrovo nelle tonalità che compongono Le sette ultime parole... come se ciascuna di esse avesse un colore: la passione ha il rosso, ma anche il viola dell’abito della Madonna e il colore dell’abito di Giovanni sono trasferibili in tonalità.
Sempre nella Creazione, nell'ultima parte entrano in scena Adamo ed Eva: Haydn sceglie ancora la tonalità di do maggiore, cioè quella della serenità pacificata. "Della tua bontà signore la terra e il cielo sono pieni", è come una continuazione di quello che avverrà dopo il Terremoto che chiude Le sette ultime parole.
In Haydn e in Mozart il do minore è sempre il tragico, il tormento, e il do maggiore la luce.
Dunque:
do minore: Terremoto - Caos;
do maggiore: l’esplosione della Luce nella Creazione.
Nell'Alleluia, nella comparsa di Adamo ed Eva cioè della massima espressione della creazione, è il manifestarsi della luce, dell’intelligenza, dell’amore.


Concludiamo adesso tornando al Terremoto dove tutto brucia in pochi secondi: risuonano improvvisamente trombe e timpani. E' un sussulto di archi e legni, la terra si scuote, si sconquassa per ciò che è stato fatto a Cristo. Dopo le sette lunghe sonate il Terremoto è breve, di pochissimi minuti, perché deve lasciarci senza parole e senza fiato.
Ed ecco ancora in sovrapposizione l’immagine di Masaccio: potrei dire che non sappiamo a che punto del dipinto fermare gli occhi, la Madonna è di grande proporzione ma quasi meno importante, ciò che più conta è il rapporto tra Cristo e la Maddalena, un rapporto direi contrappuntistico, un punctum contra punctum: sono due poli, uno che attira l’altro.
Cacciari: Osiamo dei paragoni: nel Requiem di Verdi alla fine ascoltiamo: "Libera me, Domine".
Muti: "Libera me, Domine"... Mi sono sempre interrogato su questo finale, in cui l’accordo conclusivo in do maggiore sembra essere instabile, non di riposo. Questa incertezza tonale comunica un senso di dubbio. Molti si sono interrogati e ancora si chiedono se Verdi credeva o non credeva, non penso sia questo il punto; piuttosto è interessante il fatto che "Libera me, Domine" sia un grido continuo, sospeso tra terra e trascendenza.
Cacciari: E poi, in Verdi c’è la liberazione finale.
Muti: "Libera me, libera me", rimane questa conclusione su un accordo che non ti da serenità, ma è come un interrogativo pieno di dubbi. Non è consolatorio...
Cacciari: Verdi certamente non finisce col Terremoto, né col Consummatum est. "Libera me", appunto, sono i suoi ultimi suoni. Eppure, tu dici, si tratta di un "Libera" dubbioso, di un "Libera" che non libera, forse, dona solo una precaria speranza... Nel Don Giovanni queste note sono evidentemente ironiche - la "speranza" consisterebbe in una "società civile" miseramente disincantata, costruita su patti e convenzioni.
Muti: Sì, una società però invivibile: sconfitto o sparito il Male, nessuno sa più che Cosa fare della propria esistenza.
Cacciari: Sparisce il Male e rimane l'infelicità mascherata. Ma ritorniamo al Requiem. A me pare che quello di Brahms provochi altre considerazioni ancora rispetto a ciò che hai detto fin qui.
Muti: In Brahms non c’è trascendenza; è pura immanenza. Non risuona qui né il "Consummatum est" né il "Libera me"... Nel suo studio alle pareti aveva le immagini di tre musicisti: Bach, Beethoven e Cherubini. Nella biblioteca di Brahms c’erano molte composizioni di Cherubini. Ora, posso capire bene che Beethoven adorasse Cherubini perché sono entrambi "architetti della musica". Cherubini infatti non ci colpisce per la bellezza delle melodie, quanto per la costruzione delle sue opere. Ma Brahms? Perché mai doveva amare Cherubini? Brahms è la continuazione di Schubert...
Brahms è di Amburgo, ma "rinasce" viennese... Pensiamo solo all'accordo iniziale della Quarta Sinfonia: un suono che nasce dall'infinito e che il direttore deve sentire dal suo interno, raccoglierlo; è un suono che esce dal nulla, dal mistero, devi portarlo in vita. E' difficile da eseguire.
Parlando di mistero voglio ricordare una esecuzione del Requiem di Verdi a Gerusalemme, per un "Concerto dell’amicizia" di fronte alle mura di Davide. E' accaduto qualcosa che mi lascia ancora senza risposta. A metà dell’esecuzione prima dell’Offertorio, nel silenzio, si leva il lamento di un cane; non sapevo se proseguire. Il cane continuava a lamentarsi, aveva iniziato proprio quando la musica si era fermata. Decido di riprendere: al primo suono dei violoncelli il lamento tace. Perché? Questa musica che giungeva da lontano dava forse all'animale un senso di sollievo, di piacere o di conforto?
Ancora un altro ricordo: ad El Jem, eseguii anni fa Mefistofele nell'anfiteatro romano - novemila persone, all'aperto.
Tra un brano e l’altro mi sono fermato, e nel silenzio ha attaccato immediatamente il canto del muezzin. Io ovviamente ho atteso. Il canto è durato circa quattro, cinque minuti. Quando ho ripreso a dirigere ho notato che la musica di Boito si era legata perfettamente al canto del muezzin, in un unico discorso musicale.
Prima di avviarmi alla fine, vorrei tornare su uno dei nostri temi iniziali e ribadire - come già detto all'inizio della nostra conversazione - qualcosa che potrà risultare assai provocatorio, e cioè che la musica dovrebbe rimanere sul pentagramma, proprio per non essere tradita... E' come quando si accarezzano le ali di una farfalla, la farfalla muore. Alcune composizioni sono talmente profonde che facendole vivere con l’esecuzione avremo sempre una resa inferiore a quella intensità che il pentagramma fa scorgere e intravedere.
Riccardo Muti dialoga con Massimo Cacciari
("Le sette parole di Cristo", Il Mulino, 2020)

sabato, maggio 01, 2021

Rivelazione dell'antimusica. Nikolaus Harnoncourt in memoriam

Mi hai letteralmente fatto saltare giù dal letto, quel 5 marzo di tre anni fa. Mentre scorrevo, ormai semi addormentato, la scia delle notizie più inutili e più ordinarie del giorno, la tua morte mi comparve davanti – orribile comparsa – ridestandomi con un colpo al cuore, scacciandomi, ti ripeto, dalle mie coperte tanta era stata l’angoscia destatami.

Non sapevo che da qualche mese ti fossi ritirato. Per me, quelli come te, non “vi rompete” mai. Harnoncourt poi! Indistruttibile.
Mi ero crogiolato nella rassicurante scorsa di una bellissima stagione per il 2016, e lì mi ero fermato, fantasticando su viaggi e concerti viennesi.
Non sono uno sconsiderato comunque. Conoscevo benissimo la tua età veneranda. Sapevo te ne saresti andato, inevitabilmente. Ci pensavo e con orrore pensavo allo scorrere del tempo che, perdonami, in questi casi diviene di minuto in minuto più prezioso. Ma, come da copione, erano pensieri che semplicemente abbandonavo. D'altronde, mi pare abbastanza chiaro che non passassi, per tutte le ragioni di una vita umana, tutto il mio tempo a pensare a Nikolaus Harnoncourt.

Fra l’altro, poi, chi ti ha mai conosciuto? Ci siamo mai visti? Ci siamo mai incontrati? L’unico nostro contatto è stato attraverso delle casse audio. 
Eppure, si può provare affetto per chi non si conosce? È una situazione anche piuttosto buffa, a voler ridimensionare le cose: sei stato destinatario di molto mio affetto, eppure, per tutto il tempo tu hai ignorato la mia esistenza e te ne sei andato ignorandola. Incredibile no?! Queste sono riflessioni, sono paradossi, è naturale che le cose stiano in questi termini. 
A ogni modo, non ci potevo pensare. Tu, morto. 
Nikolaus Harnoncourt, il nonno di tutti noi diamine! Renditi conto. E se ne dovrebbero rendere conto tutti, anche “gli altri”, non soltanto i tuoi nipoti. Invece sentivo solo un imbarazzante silenzio, rotto a sprazzi dal dovere formale della cronaca. Troppo poco, troppo grigio. Quanta indignazione che mi faceva, che rabbia, tutta quella ignoranza, quella indifferenza mediatica, per me inspiegabile.

Cosa ti aspettavi?! dici. Che pretendi. Scusa, non lo sai che posto occupiamo in questa società? Non sai forse più che bene che posto occupa il nostro lavoro, la nostra esperienza? Quale marginalità di stima la circondi? Noi facciamo musica. Musica classica. Suvvia ragazzo, non essere disilluso, che di certo non ti si addice. Cosa pretenderesti di grazia? Cosa chiedevi di più del sincero e commosso cordoglio dei nostri simili, del calore della nostra cerchia? 
Che il mondo si fermasse! 
Eh! Addirittura. Non ti pare un tantino spropositato? 
No, dannazione, no.
È successa una cosa seria, una cosa importante. Qui si parla della storia, e la storia ci riguarda tutti. E tu sei storia! Accidenti se lo sei. Sei stato più storia che essere di carne ed ossa. La storia, quella vera quella bella, l’avete fatta voi, con le vostre idee geniali, la vostra vita spesa per la bellezza o la verità, le vostre rivoluzioni, il vostro pensiero coraggioso, con la vostra arte. E qui insegniamo da sempre una storia di guerre e di troni, l’unica a cui si presti attenzione. 
A voi si inchina l’umanità. Voi siete il suo progresso, il suo cuore, il suo sangue, il respiro vitale, tutto! 
Voi fate girare il mondo.

E ora io non avrei dovuto pretendere che questo si fermasse a riflettere?!! 
Noi non sappiamo vivere la contemporaneità in termini storici, il che vuol dire commuoversi per gli eventi nel momento stesso in cui accadono, per il semplice fatto di intuire in essi gli ingranaggi della Storia, e di emozionarsi davanti all'unicità del momento e al privilegio di assistervi. Questo noi non lo sappiamo fare, piuttosto preferendo guardarci indietro e districarci fra discutibili sentimenti necrofili di nostalgia. Questo perché ci torna, tanto per cambiare, più facile oltre che più comodo. 
Forse non ci rendiamo conto a cosa stiamo assistendo: le ultime propaggini del Novecento hanno preso alla fine congedo. Abbado, Bruggen, Boulez, e tu. Ci state abbandonando nella nostra solitudine reale e intellettuale a dover fare i conti con la vostra eredità smisurata. Ecco un evento storico che più storico non si può. 
Per quanto mi riguarda, tu mi hai buttato giù dal letto anche metaforicamente parlando. Sei stato una folgorazione, la mia strada per Damasco, mi hai aperto un mondo. Non so come dire. In pratica mi hai dato delle convinzioni, un’ideologia, un punto di vista, nei quali credo senza discussione, perché sono diventati i miei. Cioè, io non solo ci credo, ma “la penso così”. Che è una cosa diversa. 
E credo che parlare della mia esperienza sia emblematico, ma non tanto perché potrebbe mai aggiungere qualcosa alla tua grandezza – sarebbe come se la mattina radiosa di Waterloo le cose fossero andate come sono andate, perché un bambino aveva disposto ben in fila i suoi soldatini -, no di certo; ma perché è significativo di quello che poteva fare il tuo influsso anche sul più sparuto ragazzetto dell’ultima provincia d’Europa. E come me chissà quanti altri.

Ma ti rendi conto di cosa hai fatto?! Mi viene da ridere dall'ammirazione, dallo stupore. Se solo lo sapessero e lo capissero tutti! Sei stato il padre della filologia. Ma davvero. Non è una frase da almanacco. Incredibile quello che hai fatto e pensato. Per più di sessant'anni! Tu, la tua adorata Alice, il Concentus Musicus, Gustav Leonhardt! Assieme e per primi vi siete battuti per comprendere la verità di come tanta musica suonasse in origine e dovesse suonare al presente, le ragioni e i motivi che hanno sempre portato i compositori a creare una musica piuttosto che un’altra. Avete tolto la polvere secolare di interpretazioni e giudizi arbitrari. Il ritorno agli strumenti dell’epoca poi, con i loro timbri rivelatori, ha ricolorato le gote di tanti autori, finalmente ci ha fatto capire i perché di musiche apparentemente scialbe e ci ha restituito la vitalità di capolavori irrigiditi dalla stanchezza di convenzioni errate.

Un terremoto sei stato! Hai lottato con le convenzioni, con l’accademismo, con la vecchiaia in tutte le sue forme. E poi? E poi hai vinto, abbiamo vinto! Nel più strepitoso dei modi possibili e immaginabili: le grandi orchestre, le grandi celebri e tradizionali orchestre d’Europa, il cuore attivo della compagine nemica, arrese a te, alla tua maestria, alla intelligenza delle idee! Le hai espugnate tutte: Wiener, Berliner, Concertgebouw …tutte ai tuoi piedi. Hai dimostrato al mondo che un ideale, che l’intelligenza e la rivoluzione possono essere vincenti.
Due altre occasioni per cui ti ricordo: innanzitutto quando, durante un misero tentativo di Erasmus poi naufragato, mi ritrovai, se avessi voluto, ad arrivare a te con un breve giro di telefonate d’un paio di passaggi: in quella occasione capii che l’Olimpo era molto più vicino di quanto pensassi, anche se, forse, ben serrato. 
La seconda quando, a lezione di Storia della musica, durante un ascolto della Praga di Mozart chiesi all’ insegnante, in verità una ragazza molto preparata ma appartenente alla categoria dei reazionari, se si trattasse di una tua interpretazione. A dirla tutta, ripensando a quella esecuzione, devo dire che è stata una domanda un po’ a sproposito, ma devi anche pensare che allora ero proprio sotto l’effetto della prima fascinazione e che, quindi, potenzialmente qualunque cosa avesse dei suoni per me poteva essere una tua creazione. 
Al che, dunque, quella mi risponde un po’ imbarazzata: “Nooo. …Harnoncourt è… l'antimusica!”.
Ancora rido. Poverina.

Però a pensarci non aveva tutti i torti. Tu sei stato proprio l'”anti”! Dal loro punto di vista è comprensibile: l'antimusica certo. Per loro eri la dissoluzione di tutto il mondo, dei loro valori, e delle loro convinzioni; l'antimusica tutto sommato non è poi neanche un brutto nome di battaglia se quello è il concetto di musica che si sta combattendo.
Da tre anni, invece, ci si sta abituando alla tua assenza.
Mi sono fatto un’ immagine in quelle prime ore che in effetti è piuttosto banale, un po’ troppo iconico e naif, che però si intona perfettamente bene, anzi è la stessa delle epoche su cui più si è incentrato il tuo studio.
Ti ho immaginato arrivare in un paradiso oleografico, con i soliti cancelli e le solite nuvole: lì una folla come mai ne hai viste prima ti accoglie con il più caloroso degli applausi, sicuramente la manifestazione sonora che più ha riempito la tua vita. A un certo punto, la folla si apre e quattro figure bellissime, simpatiche e sorridenti ti vengono incontro a braccia spalancate; tu le riconosci subito e non potrebbe essere altrimenti. Assieme ridete e vi abbracciate in un turbine di gioia immensa. In quel mentre senti tutta la potenza della loro musica coincidere, in un mescolarsi di note e di armonia, che con il tuo lavoro è il tuo genio hai amato per lunghissimi anni.
Poi mano a mano riconosci tutti gli altri e a tutti rivolgi un sorriso di riconoscenza, di ammirazione e di felicità; e loro ti ricambiano, sorridendo allo stesso modo e con un applauso festoso.
Infine forse, incontrerai Eberhard, lui ti prenderà la mano, ti darò un bacio e assieme ti accingerai a godere del meritato riposo.
Diego Tripodi