Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, marzo 27, 2010

Robert Levin: il sapore antico di un fortepiano

"Nel futuro amministratori delegati, direttori, avvocati formatisi ad Harward sapranno sviluppare un apprezzamento per la musica classica grazie ai corsi specifici che tengo da più di 25 anni. E, nel momento in cui diverranno un'élite mondiale, saranno in grado di preservare e salvare la cultura"

Due strumenti simili su un palcoscenico. Uno il fortepiano, dalla silhouette più sottile ed elegante; l'altro, il grancoda modemo, dalla corporatura massiccia ed imponente. A suonarli, in uno stimolante raffronto è un unico artista Robert Levin. Da anni il musicista americano si divide fra strumenti del passato e strumenti di oggi: una ricerca che parte dal suono per investire ogni aspetto interpretativo.
Partiamo da una osservazione apparentemente semplice ma necessaria: pianoforte e fortepiano, le differenze...
«II termine fortepiano è adoperato al giomo d'oggi in riferimento ai primi pianoforti, sebbene non esista alcuna distinzione utile dal punto di vista della terminologia. Sono tutti, strumenti discendenti dall'invenzione di Cristofori. I primi pianoforti erano incordati parallelamente nonostante le corde dei bassi fossero più lunghe e meno spesse rendendo in tal modo il suono più trasparente. Nel XVIII secolo essi somigliavano maggiormente ai clavicembali, eccezion fatta per il meccanismo che colpiva le corde tramite martelli piuttosto che pizzicarle con dei plettri. Nel XIX secolo furono aggiunte barre di metallo per bilanciare la sempre crescente tensione delle corde e per raggiungere il risultato odierno della piastra di metallo atta a sostenere una tensione di svariate tonnellate. Esistono due famiglie di pianoforte importanti, il tipo viennese che cessò di essere usato agli inizi del Novecento, ed il tipo Inglese-Francese-Americano che è giunto fino ai giomi nostri».
La Sua passione per la musica quali origini ha?
«Che cosa fa sì che un essere umano si innamori di un altro? Sin dalla mia infanzia io fui evidentemente affascinato dalla musica ed iniziai così a cantare la musica che i miei genitori ascoltavano al grammofono. All'età di cinque anni fu scoperto che avevo il dono dell'orecchio assoluto, pertanto iniziai a prendere lezioni di musica. Al giomo d'oggi la mia passione per la musica esprime il desiderio stesso di comunicare le gioie e le agonie della vita come era stato visto dai profeti della musica, ma rappresenta anche l'impegno di cambiare le vite di coloro che ascoltano rendendoli consci delle rivelazioni stigmatizzate dalla cronologia di un'arte grandiosa».
La scelta dei fortepiano è maturata in Lei per una attrazione da parte dello strumento o del repertorio?
«Per la verità fui invitato a realizzare una registrazione di alcune Sonate di Mozart a quattro mani dall'esperto fortepianista Malcolm Bilson e sulla spinta di quell'esperienza fui progressivamente più attratto ed affascinato dalle possibilità espressive degli strumenti più antichi soprattutto perché essi sono in grado di rendere il suono che i compositori dell'epoca avevano sentito ed immaginato».
Ha uno strumento, una marca preferita?
«La marca del pianoforte dipende dal repertorio scelto».
Cosa comporta sul piano interpretativo, utilizzare un fortepiano oggi?
«Dal mio punto di vista suonare il fortepiano mi porta ad essere più vicino al linguaggio del compositore. Tuttavia, non ho mai pensato di smettere di suonare il mio adorato Steinway. Non appena uno acquisisce familiarità con le proprietà acustiche e coloristiche degli strumenti d'epoca diviene automaticamente in grado di trasferire molto di ciò che ha imparato su uno strumento più modemo».
Fra gli autori che esegue più spesso figura Beethoven: cosa c'è ancora da scoprire secondo Lei nella sua letteratura per tastiera?
«Ogni esecutore comunica un proprio messaggio individuale che deriva da un forte ed intenso coinvolgimento personale che si stabilisce con la letteratura di Beethoven in ciascun pezzo. Per quanto mi riguarda, cerco di affrontare ogni opera dall'intemo non imponendo il mio punto di vista soggettivo ma cercando di assorbire gli specifici elementi connessi con i diversi stili di Beethoven e soprattutto provando a trasmettere i loro messaggi al pubblico con il massimo dell'intensità. Gli artisti del passato spesso cercavano di imporre le loro personalità rispetto alle opere che suonavano, in tal modo le differenze di stile finivano per essere oscurate nell'interesse di un singolo approccio personale. Personalmente ritengo che la chiave di un'interpretazione musicale sia la stessa che vale per un grande attore, ovvero rappresenta la capacità di diventare un soggetto espressione di diverse personalità piuttosto che essere sempre riconoscibile secondo uno stesso prototipo».
Lei svolge un'attività didattica accanto a quella concertistica: quale è oggi il rapporto fra i giovani e la musica colta?
«lo ho abbandonato anni fa la cattedra di pianoforte presso la Musikhochschule di Friburgo per l'Università di Harvard poiché ho avvertito che in un'epoca di business rampante come quella attuale, si imponeva più prepotente che mai il bisogno di educare il nostro uditorio, non solo gli esecutori. Per quale motivo uno dovrebbe voler diventare un grande artista nel futuro se poi nessuno vorrà ascoltare le sue esecuzioni? Nel futuro, amministratori delegati, dottori, avvocati formatisi ad Harvard sapranno sviluppare un apprezzamento per la musica classica grazie ai corsi specifici che tengo da più di 25 anni. E, nel momento in cui diverranno un'élite mondiale, saranno in grado di preservare e salvare la cultura».
Trova una differenza fra i pubblici europei e quelli americani? E in particolare com'è il pubblico italiano?
«Ogni pubblico ha la propria personalità. La gioia di viaggiare per un artista è legata alla possibilità di testare la cultura dei diversi uditori come parte di un fenomeno di cultura generale di ciascun Paese. Io amo il pubblico italiano per il suo entusiasmo, per il suo calore, il suo fervore e la sua passione. E poi, si può apprezzare una cucina sublime dopo il concerto!».
Progetti futuri? Dischi?
«II mio prossimo impegno discografico sarà la registrazione dell'opera completa per pianoforte di Henri Dutilleux per la Ecm. Mia moglie Ya Fei Chuang si unirà a me nell'esecuzione di Figures De Resonance per due pianoforti. Eseguirò l'integrale dei Concerti di Beethoven per pianoforte e orchestra a Liegi nel 2009. La mia speranza è di poter realizzare questo progetto anche in Italia».

di Roberto Iovino ("il giornale della musica", anno XXV n.255, gennaio 2009)

sabato, marzo 20, 2010

Rake's nudo, senza scandali

Per la prima volta Nikolaus Harnoncourt dirige un'opera del repertorio del Novecento; regia di Martin Kusej: il nostro diavolo è la televisione. Dal 13 novembre al Theater an der Wien il libertino di Stravinskij, in coproduzione con l'Opernhaus di Zurigo.

Un manifesto affisso nella biglietteria del Theater an der Wien informa il pubblico che il nuovo allestimento di The Rake's Progress di Igor Stravinskij sarà vietato ai minori di 18 anni a causa di alcune scene di nudo. Nonostante questa premessa, però, coloro che si aspetteranno i tipici stilemi del cosiddetto teatro di regia di marca tedesca o rimarrano delusi o tireranno un sospiro di sollievo. Paradossalmente, poi, questa produzione è stata scelta per un progetto didattico in cui studenti, esperti, artisti e giovani carcerati potranno discutere delle tematiche dell'opera e sperimentarne un allestimento parallelo.
Il Rake's Progress viennese, in coproduzione con l'Opernhaus di Zurigo, è un progetto significativo. Per la prima volta, infatti, Nikolaus Harnoncourt dirige un'opera del repertorio del Novecento. In una recente intervista il maestro ha sottolineato che questa astinenza non era una sua scelta, ma conseguenza del fatto che nessuno gli aveva mai fatto delle proposte, e che questa puntata nell'opera novecentesca non rimarrà un'eccezione. Dirigerà, infatti, Lulu di Alban Berg al Festival di Salisburgo e Porgy and Bess di George Gershwin a Graz.
Questo è il quinto lavoro comune di Harnoncourt e del regista Martiri Kusej. Quasi un cerchio che si chiude, considerando che la loro collaborazione era cominciata con Don Giovanni, l'altro libertino. Che tra loro domini fiducia e stima reciproca lo testimonia chiaramente l'armonia che incessante impera tra scena e buca.
L'estetica sonora di Hamoncourt mira come sempre alla trasparenza e alla fedeltà testuale. Sebbene la partitura lasci molte libertà dinamiche (Stravinskij scrive esplicitamente che il direttore deve scegliere in base al contesto esecutivo), l'accompagnamento dei Wiener Symphoniker si diffonde con gesti snelli e sobri, creando un habitat ideale per il libero e mai coperto dispiegarsi delle voci. Dietro a scelte apparentemente parche, tuttavia, si cela una ricerca sottile e raffinata di caratteri e timbri: non inganni la naturalezza con cui l'orchestra snocciola le asimmetrie ritmiche e la grazia con cui gli strumenti si stagliano dall'ensemble.
All'apertura del sipario è oramai chiaro che l'ambientazione non sarà quella suggerita dal libretto, l'Inghilterra del XVIII secolo. Il teatro di Kusej è atto "politico" e ci vuole parlare del presente. Nella prima scena Tom e Anne, sbracati a terra su un materasso, tra lattine di birra e cartoni di pizza d'asporto, fumano e guardano la televisione. E' uno scenario, anche nei costumi, che ricorda vagamente il Mozart - Da Ponte di Peter Sellars.
Meno forzato però, a voler quasi ritrarre obiettivamente il disagio di una gioventù priva di aspettative che agogna illusioni. Nel condurre i personaggi Kusej non giudica, non fa moralismo. Crea bensì situazioni vive e dinamiche ricche di suggestioni e stimoli.
Nei panni di Tom Rakewell, figura principale dell'opera, Toby Spence è ben esperto. La routine gli consente di concentrarsi su dettagli minimali, e la sua interpretazione convince sia dal punto di vista vocale, che da quello drammatico. Con chiarezza, espressione e versatilità tratteggia le trasformazioni e il declino del suo personaggio. Adriana Kucerovà ammalia e rende con toccante fragilità il destino drammatico di Anne. Luminoso nell'acuto e pieno nel registro centrale, il suo soprano è capace di un fraseggio pieno di slanci. Alastair Miles è un Nick Shadow azzeccato, che nella sua prima apparizione esce in maniera geniale da uno dei cartoni di pizza a terra.
Kusej connette organicamente le scene e crea simmetrie formali. Nel secondo atto, per esempio, quando Toni ha raggiunto l'apice della ricchezza, è sdraiato nella sua casa al bordo di una piscina, la tv ora è uno schermo piatto ipertecnologico, e le lattine di birra dell'inizio sono bottiglie di champagne. L'intento di colpire non è mai artificiale, lo scandalo mai cercato, e anche le scene di sesso e i corpi nudi a cui si è già accennato sono legittimati dal fatto che compaiono nella scena del bordello. La tenutaria è un'ottima Carole Wilson, che non ha disdegnato una parte così breve, anzi ha saputo dargli una certa aurea. Lo stesso si può dire per Anne Sofie von Otter, elegantissima diva e ironica Baba the Turk.
Rakewell, nel suo tour de force vocale e attoriale, non è l'unico a stare ininterrottamente in scena. Lo affianca sempre un televisore, su cui vanno in onda programmi vacui e insignificanti: talk shows, reality, quiz ... A volte la tv è usata con intenti drammaturgici: Anne si riprende con una telecamera e manda in onda la sua disperata richiesta d'aiuto; Baba the Turk appare in uno show di famosi. In manicomio Tom non fa che guardare inebetito lo schermo e nell'ultima scena i cantanti scendono nella buca, mentre in primo piano sul proscenio una tv mostra un talk show con i nostri personaggi a discutere animatamente. Su questa sequenza termina l'opera, il sipario si chiude. L'idolo televisione è oggetto diabolico. di seduzione e manipolazione, che promette denaro e felicità e poi finisce per lasciare tutti, o quasi, con nulla in mano, eccetto qualche illusione? E' questo uno dei messaggi che la produzione ha voluto lanciare a un pubblico che ha reagito con entusiasmo alle numerose provocazioni.

Andrea Ravagnan ("il giornale della musica", Anno XXIV, n.254, dicembre 2008)

sabato, marzo 13, 2010

L'enigma nascosto nell'"Arte della Fuga"

In un libro il violoncellista Hans-Eberhard Dentler dimostra come nel capolavoro del musicista tedesco si possano riconoscere velate tradizioni pitagoriche. Un' opera adorata dai posteri per alcuni fu un incubo perché insuperabile. Rimase incompiuta ma contiene tra le più belle armonie mai scritte.

Nell'ultimo tratto della sua vita, Bach si dedicò, anche rielaborando composizioni di precedenti anni, a poche gigantesche opere che ai nostri occhi significano, in parte di sicuro per volontà dell'Autore, la summa della sua arte e il definitivo suo ritratto da Lui destinato ai posteri. Già con quelle sin lì pubblicate s'era manifestato il supremo compositore, ma anche il supremo esempio didattico, della musica strumentale. La Messa detta «Symbolum Nicenum» è, per le dimensioni letteralmente smisurate, la fittezza della scrittura e gli ambiti stilistici toccati, una delle più imponenti manifestazioni di volontà di potenza che conosciamo. Le Variazioni canoniche per organo, l'Offerta musicale e l'Arte della Fuga incarnano, quanto a dimensioni, il concetto stesso di misura, a prescindere dal fatto che l'ultima opera è incompiuta: appaiono smisurate non meno della Messa, giacché chiunque vi coglie un imperativo di ultimatività lanciato dall'Autore. Come se Bach dichiarasse che, con Lui, l'argomento trattato era giunto al culmine delle possibilità e che dopo nessuno avrebbe potuto appulcrare verbo. Aveva ragione: i sommi tra i posteri l'hanno adorato, l'hanno tenuto quale loro incubo: l'hanno eguagliato alcuni, superato nessuno. Queste opere hanno in comune un altro aspetto. Sviluppando i suggerimenti dello «Stile Antico», quello della polifonia vocale del Rinascimento, ancora considerato il supremo canone dell'arte, Bach s'immerge nel «miro gurge» del contrappunto. Rubo la metafora a Giulio Confalonieri; il verso dantesco aiuta a comprendere il senso speculativo di musica ove l'animo si smarrisce ma ch'è insieme il simbolo di un Ordine supremo: immagine sonora: la disposizione delle voci inseguentesi, imitantesi, contrastantesi raffigura il rotare su di sé e attorno agli altri di ciascun pianeta. Ecco la continua reincarnazione, che da Pitagora e Platone giunge al Rinascimento e al Barocco attraversando tutto il Medio Evo, di quell'idea denominata da Leo Spitzer, nel suo indimenticabile libro, L'armonia del mondo. Il titolo è quasi la traduzione di quello del trattato di Giovanni Keplero, Harmonices mundi. I giri astrali («sfere») producono, a causa della differente circonferenza, una divina armonia frutto di suoni diversamente accordati o, meglio, di corpi vibranti a differente frequenza, inaudibile dall'orecchio umano ma divinamente creata a testimoniare che l'universo è perfetto. La udranno un giorno le anime immortali. Di questa divina armonia lo specchio terreno è, per quasi esoterica tradizione, la polifonia di stile contrappuntistico. Differenti linee vocali, ciascuna affatto indipendente, producono, con la loro artistica combinazione, una concordia discors. Già in Cicerone, che nel Somnium Scipionis parafrasa Platone, la fantasia è indotta a supporre che, almeno miticamente, l'idea della polifonia, la quale sappiamo esser storicamente scoperta esclusiva del Medio Evo europeo, si concepisse. Quando, a sua volta, nel Purgatorio e nel Paradiso, Dante parafrasa Il sogno di Scipione, aggiungendo immagini sue proprie e nuove al mito del concerto paradisiaco, la descrizione è precisa al punto di non lasciar dubbio che la musica polifonica è per Lui l'incarnazione in teoria e pratica del divino modello. Con due opere «dotte», ermetiche, «a chiave» e, in apparenza, non destinate a tutti, Bach pare aggiungersi, spirito magno dopo spiriti magni, all'omaggio al principal simbolo della civiltà. L'Arte della Fuga non porta titolo originale, dispone in partitura pentagrammi in chiavi antiche senza nemmeno dare certe indicazioni, non che sull'organico, sull'ordine dei singoli brani. L'apparenza è dunque: Bach apporta al mito collettivo un contributo meramente «culturale». E invece. Due raccolte di musica che dovrebb'essere «astratta», meramente speculativa, «destinata solo allo studio e alla lettura mentale», l'Offerta Musicale e l'Arte della Fuga, sono fatte di musica che, a suonarla, è tra le più belle mai scritte. Ogni voce è un irrepetibile trionfo di canto; l'organismo è cosa suprema. Può comprendersi allora come l'una e l'altra, ma l'ultima e incompiuta ancor di più, abbiano suscitato dispute teoriche e pratiche come pochissime altre composizioni. Sulla natura; sulla destinazione; sull'eseguibilità; sul come eseguirla; sul come intenderla. Quest'articolo è composto di un preambolo didattico così schiacciante, che quando si viene al fatto lo si spiccia in due parole. Non è un «parturiunt montes». Il lettore converrà che, senza il preambolo, affrontare qui un appassionante libro sull'Arte della Fuga porterebbe a un resoconto per lui incomprensibile. L'ultimo della lunga serie si deve ora a Hans-Eberhard Dentler, violoncellista tedesco residente in Italia, già amico di Ernst Jünger. L'amore da lui provato per la cultura classica è commovente; in un' indagine siffatta, avente qualcosa della natura del «giallo», si palesa anche quanto professionistico sia il dominio del Dentler su di lei. Esso si esplica nella prima delle due prospettive con che nel libro L'Arte della fuga di Johann Sebastian Bach il tema è contemplato. Giacché l'Autore, da musicista, riconnette la grande indagine teorica alla sua ricerca e alla sua esperienza quale editore d'un' altra, e squisita, versione moderna dell'opera somma, e interprete della medesima. Non v' è contraddizione, ecco il bello, fra la natura enigmatica dell'Arte della Fuga, fra le tracce di pitagorismo espresso scaturite dalla ricostruzione di studi e rapporti personali e famigliari di Bach, e la natura prepotentemente udibile, anzi audienda, dell'opera stessa. Seguire il Dentler verso le conclusioni è premio dal libro offerto al lettore. Chi scrive, d'accordo con le conclusioni pratiche offerte dall'illustre musicista, personalmente pensa che il rapporto di Bach con Pitagora ne venga provato; ma che Egli non risulti devoto nemmeno di tale divinità. Dopo esser giunto al rango di maestro supremo della composizione, attraverso la musica si annette anche la provincia dell'esoterismo: la terra non bastando alla Sua volontà di potenza. L'apparato iconografico cattura: la bibliografia è così accurata che inspiegabile appare l'omissione di un classico come il Bach di Piero Buscaroli. Il libro: Hans-Eberhard Dentler, «L' Arte della Fuga di Johann Sebastian Bach», pagine 166, lire 48.000, edizioni Skira, collana «L' arte armonica» dell' Accademia di Santa Cecilia.

Paolo Isotta (Corriere della Sera, 5 ottobre 2001)

sabato, marzo 06, 2010

Beethoven/Liszt: trascrivere significa tradurre

Il pianista Giovanni Bellucci incide ed esegue in concerto tutte le sinfonie di Beethoven trascritte da Liszt: "Pur non alterando il senso dell'idea astratta originale, Liszt ricrea la corretta immagine sonora attraverso un linguaggio prettamente pianistico"

Giovanni Bellucci è uno di quei pianisti a cui piace parlare. Prima e dopo i suoi concerti, davanti a un microfono o una telecamera, ovunque. Non lo fa per semplice sfoggio di erudizione. La sua è una missione: portare il pubblico sempre più 'dentro' la musica, discutere e mettersi in discussione con colleghi e amici; sono tutte facce della stessa medaglia, quella del vivo desiderio di conoscere e far conoscere attraverso progetti mirati i segreti più reconditi della musica. Oltretutto, è un pianista dalla rara sensibilità musicale e dalla tecnica ferratissima. Quella tecnica che gli permette, per esempio, di affrontare dal vivo e in disco un progetto monumentale come l'esecuzione dell'integrale beethoveniana delle sonate e delle sinfonie trascritte da Liszt. La storia è nota: il compositore ungherese iniziò a lavorare sulla possibilità di 'ridurre' per pianoforte la Quinta, Sesta e Settima sinfonia già nel 1838, ma è solo col 1865 che l'editore Breitkopf & Härtel si decide a pubblicare l'intero corpus beethoveniano di Sinfonie. Oggi, costituiscono uno dei capolavori dell'arte della trascrizione musicale, e sono tra le sfide più impegnative per un pianista moderno. La nostra chiacchierata con Giovanni Bellucci si snoda così, fra la storia del progetto e la sua realizzazione pratica, dalle questioni terminologiche sul senso della 'trascrizione', all'analisi di alcuni passi delle Sinfonie.

Come è nato il progetto?
«Limpresa è cominciata discograficamente nel 2002 con l'etichetta francese Assai: decisi di pubblicare il primo disco del progetto con la registrazione dal vivo della mia esecuzione della Settíma sinfonia e di due Sonate. Poi, nel 2004, il distributore M10, proprietario della casa discografica, ha chiuso i battenti e la Assai con loro: ho da poco recuperato i diritti delle incisioni precedentemente prodotte in Francia, come quella delle Parafrasi di Liszt su opere di Verdi e Bellini, e ho seriamente cominciato a lavorare al progetto Beethoven con la società Opus 106, che è distribuita in Italia da Jupiter. Recentemente, ho firmato un contratto con la Warner per la distribuzione mondiale delle mie incisioni. Il progetto, comunque, non si ferma alla parte discografica: infatti, sto portando avanti una serie di concerti a Villa Medici a Roma e a Casale Monferrato, durante i quali eseguo l'integrale delle Sinfonie e delle sonate introducendo i concerti con delle brevi analisi e suggestioni dialettiche».
Scorrendo la discografia del maestro Bellucci, non si può non notare la predominanza delle opere di Liszt (Sinfonia fantastica Berlioz/Liszt: per Decca, Parafrasi sulle opere di Bellini e Verdi per Assai, Concerto n. 1 e Totentanz per Accord-Universal), in particolare delle sue trascrizioni e parafrasi. Mi chiedo se non ci sia un legame particolare:
«Avendo inciso, accanto alle opere pianistichè di Beethoven e Liszt, anche la trascrizione della Sinfonia fantastica di Berlioz, ritengo di non avere un approccio settoriale; del resto, mi trovo filosoficamente vicino al concetto di trascrizione formulato da Ferruccio Busoni, per il quale ogni esecuzione di un pezzo, ogni materializzazione sonora di una notazione scritta, si può considerare alla stregua di una trascrizione. Non mi interessano letture basate esclusivamente sul culto quasi 'feticista' del testo come punto di partenza e di arrivo, come se le interpretazioni si potessero riassumere in quello: il testo è la punta di un iceberg, a cui dovremmo guardare con maggiore profondità e scevri da ogni pregiudizio dettato dalla tradizione esecutiva. Un esempio: ero in giuria al Premio Viotti, ed ho visto un candidato che si preparava alla prova ascoltando in cuffia un'incisione discografica del brano che doveva poi eseguire in concorso! A mio
avviso oggi gli esecutori sono molto condizionati dalle soluzioni interpretative tramandate attraverso i dischi, trascurando così il proprio mondo interiore. Forse non si indaga abbastanza il testo. Per tomare alle trascrizioni, credo esse siano un buon mezzo per potersi scrollare di dosso la comoda tentazione di iniziare e finire il proprio viaggio interpretativo con una resa calligrafica del testo musicale».
Lavorare sulle Sonate, oltre che sulle Sinfonie, è utile per comprendere meglio il linguaggio beethoveniano?
«Sì, perché è proprio di linguaggio, di sintassi, di significante e di significato che stiamo parlando: sulla base di questo assunto, Beethoven ha sviluppato tecniche
compositive elevandole a gradi di raffinatezza estrema. Se avessi potuto, avrei aggiunto altri generi a questo progetto, come i Quartetti per archi trascritti per pianoforte a quattro mani. Inoltre, le Sinfonie hanno un carattere pubblico, sono state pensate per delle grandi sale da concerto, mentre le Sonate sono nate per l'intimità di ambienti privati: è in questa zona di passaggio tra due diversi mezzi espressivi e due diverse tipologie di fruitori che sta Beethoven. Per capirlo meglio, quando riuniremo tutte le Sonate e Sinfonie in un unico cofanetto, ricollocheremo tutte le opere cronologicamente: così si potrà osservare come, per esempio, la Prima sinfonia, considerata dagli studiosi un'opera giovanile di Beethoven, sia nata dopo una sonata come la Patetica!»
Quanto Liszt è presente in queste trascrizioni?
«Direi che si sente poco, perché è molto bravo a non farsi sentire. Credo che noi abbiamo un'immagine distorta di Liszt: spesso pianisti dotati ne hanno un approccio che è frutto della convinzione che con lui tutto sia lecito. Mi sembra quasi che si sfrutti Liszt per evidenziare la parte meno nobile del nostro essere musicisti. I trascrittori scarsi traducono alla lettera: Liszt, invece, pur non alterando il senso dell'idea astratta originale, ricrea la corretta immagine sonora attraverso un linguaggio prettamente pianistico».
In fondo, ogni trascrizione è una ri-creazione...
«Più che altro è un cambiamento di linguaggio: preferirei non parlare di trascrizione, ma di traduzione. Trascrivere dà l'idea di una mera copia, secondo lo stesso principio per cui un interprete esclusivamente calligrafico non è un interprete».
Cosa si perde e cosa si guadagna in queste 'traduzioni'?
«Sicuramente si perdono molti anni di vita! Scherzi a parte, l'ascolto di queste Sinfonie al pianoforte significa perdere il concetto di spazialità: alcune di queste opere sono state chiaramente concepite per un spazio preciso. Pensiamo alla Quinta: nel momento in cui si reitera il frammento iniziale (battute 1-58), Beethoven fa rimbalzare la cellula fra una sezione e l'altra dell'orchestra; insomma, ci pone di fronte ad uno spazio fisico in cui sappiamo che può emergere questo lapidario incipit, ma non possiamo prevedere da che zona dell'orchestra ci perverrà quel minaccioso segnale sonoro. Per essere ricreato al pianoforte, questo effetto necessita di una grande ricerca timbrica da parte dell'interprete».
Perché Liszt ha voluto indicare nello spartito i nomi degli strumenti dell'orchestra?
«Credo sia un motivo specificatamente timbrico: la suggestione data può servire al pianista per alimentare la sua immaginazione coloristica. Liszt era consapevole che pochi strumentisti avrebbero potuto eseguire questi lavori, per cui c'è anche un'utilità pratica di lettura per chi volesse seguire l'ascolto delle sinfonie originali leggendo lo spartito per pianoforte».
Qual è il punto di forza di una trascrizione come quella della Settima sinfonia?
«C'è un particolare elemento che la connota come particolarmente adatta per la trascrizione pianistica, ed è l'elemento ritmico, che in questa composizione prevale sugli altri diversi parametri che compongono l'evento sonoro, melodia ed armonia, ad esempio. Essendo questa sinfonia 'l'apoteosi della danza', essa trova nel pianoforte il suo più docile mezzo per accedere alla plasticità di realizzazione delle pulsazioni ritmiche».
La densità di scrittura orchestrale della Settima si trad u ce in un impaginato pianistico molto chiaro, quasi trasparente...
«Ci sono molti raddoppi nelle parti d'orchestra che al pianoforte si trasformerebbero a volte solo in teorici unisoni, altre in giganteschi accordi non eseguibili da due sole, piccole, mani. Pensiamo all'attacco dell'allegretto: in
orchestra il suono dei fiati è caldo e situato nella tessitura più naturalmente congeniale ai legni, che devono quasi snaturare le loro caratteristiche pur di essere veramente incisivi; nella versione pianistica l'accordo è "strozzato" in un registro aspro della tastiera, ma se Liszt avesse dovuto tradurlo diversamente dalla partitura - per dargli profondità - lo avrebbe dovuto addizionare di suoni a tal
punto da renderlo ineseguibile da due sole mani se non arpeggiato... e questo sarebbe stato come tradire l'idea beethoveniana della `sferzata" che ci proietta drammaticamente nell'ombrosa tonalità di la minore».
Veniamo alla Quinta. C'è un momento particolarmente magico, ossia il ponte fra III e IV movimento (bb. 324-373). Come si muove Liszt?
Prima di rispondenni, Bellucci mi mostra il video di un suo concerto durante il quale ha eseguito la Quinta sinfonia. Arrivato al punto esatto, mi fa notare la pausa che dilata prima di attaccare il lungo pedale di la bemolle, poi osservo le facce immobili del pubblico in completa tensione: «Ho concepito questo momento come una sorta di cronaca, quasi oggettiva, in cui però si perde il momento narrativo: si ha una sensazione di smarrimento, bisogna vincere il desiderio di fare un grande crescendo e contrarre tutte le forze emotive in vista dell'esplosione del IV movimento. Sono momenti come questi che fanno capire quanto il lavoro di studio delle sinfonie si possa riflettere anche nell'approccio alle sonate: il lungo trillo dell'op. 111 è un passaggio molto simile a questo quanto a diversità di piani sonori».
A quando l'appuntamento con la Nono sinfonia?
«Dovrò prima stabilire con la produzione discografica il coro e i solisti con i quali registrarla. L'ho eseguita non molto tempo fa in concerto con il Coro dell'Accademia Nazionale di S. Cecilia, ed è stata una bellissima esperienza. Liszt scrive sul testo pianistico le parte vocali, disponendo che si debbano eseguire alla tastiera, e per ripristinare la presenza delle voci è necessario mettere mano allo spartito, eliminando gli eventuali raddoppi delle voci e potenziando la trascrizione dei contrappunti strumentali».

di Carlo Lanfossi ("il giornale della musca", Anno XXV n.255, gennaio 2009)