Due strumenti simili su un palcoscenico. Uno il fortepiano, dalla silhouette più sottile ed elegante; l'altro, il grancoda modemo, dalla corporatura massiccia ed imponente. A suonarli, in uno stimolante raffronto è un unico artista Robert Levin. Da anni il musicista americano si divide fra strumenti del passato e strumenti di oggi: una ricerca che parte dal suono per investire ogni aspetto interpretativo.
Partiamo da una osservazione apparentemente semplice ma necessaria: pianoforte e fortepiano, le differenze...
«II termine fortepiano è adoperato al giomo d'oggi in riferimento ai primi pianoforti, sebbene non esista alcuna distinzione utile dal punto di vista della terminologia. Sono tutti, strumenti discendenti dall'invenzione di Cristofori. I primi pianoforti erano incordati parallelamente nonostante le corde dei bassi fossero più lunghe e meno spesse rendendo in tal modo il suono più trasparente. Nel XVIII secolo essi somigliavano maggiormente ai clavicembali, eccezion fatta per il meccanismo che colpiva le corde tramite martelli piuttosto che pizzicarle con dei plettri. Nel XIX secolo furono aggiunte barre di metallo per bilanciare la sempre crescente tensione delle corde e per raggiungere il risultato odierno della piastra di metallo atta a sostenere una tensione di svariate tonnellate. Esistono due famiglie di pianoforte importanti, il tipo viennese che cessò di essere usato agli inizi del Novecento, ed il tipo Inglese-Francese-Americano che è giunto fino ai giomi nostri».
La Sua passione per la musica quali origini ha?
«Che cosa fa sì che un essere umano si innamori di un altro? Sin dalla mia infanzia io fui evidentemente affascinato dalla musica ed iniziai così a cantare la musica che i miei genitori ascoltavano al grammofono. All'età di cinque anni fu scoperto che avevo il dono dell'orecchio assoluto, pertanto iniziai a prendere lezioni di musica. Al giomo d'oggi la mia passione per la musica esprime il desiderio stesso di comunicare le gioie e le agonie della vita come era stato visto dai profeti della musica, ma rappresenta anche l'impegno di cambiare le vite di coloro che ascoltano rendendoli consci delle rivelazioni stigmatizzate dalla cronologia di un'arte grandiosa».
La scelta dei fortepiano è maturata in Lei per una attrazione da parte dello strumento o del repertorio?
«Per la verità fui invitato a realizzare una registrazione di alcune Sonate di Mozart a quattro mani dall'esperto fortepianista Malcolm Bilson e sulla spinta di quell'esperienza fui progressivamente più attratto ed affascinato dalle possibilità espressive degli strumenti più antichi soprattutto perché essi sono in grado di rendere il suono che i compositori dell'epoca avevano sentito ed immaginato».
Ha uno strumento, una marca preferita?
«La marca del pianoforte dipende dal repertorio scelto».
Cosa comporta sul piano interpretativo, utilizzare un fortepiano oggi?
«Dal mio punto di vista suonare il fortepiano mi porta ad essere più vicino al linguaggio del compositore. Tuttavia, non ho mai pensato di smettere di suonare il mio adorato Steinway. Non appena uno acquisisce familiarità con le proprietà acustiche e coloristiche degli strumenti d'epoca diviene automaticamente in grado di trasferire molto di ciò che ha imparato su uno strumento più modemo».
Fra gli autori che esegue più spesso figura Beethoven: cosa c'è ancora da scoprire secondo Lei nella sua letteratura per tastiera?
«Ogni esecutore comunica un proprio messaggio individuale che deriva da un forte ed intenso coinvolgimento personale che si stabilisce con la letteratura di Beethoven in ciascun pezzo. Per quanto mi riguarda, cerco di affrontare ogni opera dall'intemo non imponendo il mio punto di vista soggettivo ma cercando di assorbire gli specifici elementi connessi con i diversi stili di Beethoven e soprattutto provando a trasmettere i loro messaggi al pubblico con il massimo dell'intensità. Gli artisti del passato spesso cercavano di imporre le loro personalità rispetto alle opere che suonavano, in tal modo le differenze di stile finivano per essere oscurate nell'interesse di un singolo approccio personale. Personalmente ritengo che la chiave di un'interpretazione musicale sia la stessa che vale per un grande attore, ovvero rappresenta la capacità di diventare un soggetto espressione di diverse personalità piuttosto che essere sempre riconoscibile secondo uno stesso prototipo».
Lei svolge un'attività didattica accanto a quella concertistica: quale è oggi il rapporto fra i giovani e la musica colta?
«lo ho abbandonato anni fa la cattedra di pianoforte presso la Musikhochschule di Friburgo per l'Università di Harvard poiché ho avvertito che in un'epoca di business rampante come quella attuale, si imponeva più prepotente che mai il bisogno di educare il nostro uditorio, non solo gli esecutori. Per quale motivo uno dovrebbe voler diventare un grande artista nel futuro se poi nessuno vorrà ascoltare le sue esecuzioni? Nel futuro, amministratori delegati, dottori, avvocati formatisi ad Harvard sapranno sviluppare un apprezzamento per la musica classica grazie ai corsi specifici che tengo da più di 25 anni. E, nel momento in cui diverranno un'élite mondiale, saranno in grado di preservare e salvare la cultura».
Trova una differenza fra i pubblici europei e quelli americani? E in particolare com'è il pubblico italiano?
«Ogni pubblico ha la propria personalità. La gioia di viaggiare per un artista è legata alla possibilità di testare la cultura dei diversi uditori come parte di un fenomeno di cultura generale di ciascun Paese. Io amo il pubblico italiano per il suo entusiasmo, per il suo calore, il suo fervore e la sua passione. E poi, si può apprezzare una cucina sublime dopo il concerto!».
Progetti futuri? Dischi?
«II mio prossimo impegno discografico sarà la registrazione dell'opera completa per pianoforte di Henri Dutilleux per la Ecm. Mia moglie Ya Fei Chuang si unirà a me nell'esecuzione di Figures De Resonance per due pianoforti. Eseguirò l'integrale dei Concerti di Beethoven per pianoforte e orchestra a Liegi nel 2009. La mia speranza è di poter realizzare questo progetto anche in Italia».
Partiamo da una osservazione apparentemente semplice ma necessaria: pianoforte e fortepiano, le differenze...
«II termine fortepiano è adoperato al giomo d'oggi in riferimento ai primi pianoforti, sebbene non esista alcuna distinzione utile dal punto di vista della terminologia. Sono tutti, strumenti discendenti dall'invenzione di Cristofori. I primi pianoforti erano incordati parallelamente nonostante le corde dei bassi fossero più lunghe e meno spesse rendendo in tal modo il suono più trasparente. Nel XVIII secolo essi somigliavano maggiormente ai clavicembali, eccezion fatta per il meccanismo che colpiva le corde tramite martelli piuttosto che pizzicarle con dei plettri. Nel XIX secolo furono aggiunte barre di metallo per bilanciare la sempre crescente tensione delle corde e per raggiungere il risultato odierno della piastra di metallo atta a sostenere una tensione di svariate tonnellate. Esistono due famiglie di pianoforte importanti, il tipo viennese che cessò di essere usato agli inizi del Novecento, ed il tipo Inglese-Francese-Americano che è giunto fino ai giomi nostri».
La Sua passione per la musica quali origini ha?
«Che cosa fa sì che un essere umano si innamori di un altro? Sin dalla mia infanzia io fui evidentemente affascinato dalla musica ed iniziai così a cantare la musica che i miei genitori ascoltavano al grammofono. All'età di cinque anni fu scoperto che avevo il dono dell'orecchio assoluto, pertanto iniziai a prendere lezioni di musica. Al giomo d'oggi la mia passione per la musica esprime il desiderio stesso di comunicare le gioie e le agonie della vita come era stato visto dai profeti della musica, ma rappresenta anche l'impegno di cambiare le vite di coloro che ascoltano rendendoli consci delle rivelazioni stigmatizzate dalla cronologia di un'arte grandiosa».
La scelta dei fortepiano è maturata in Lei per una attrazione da parte dello strumento o del repertorio?
«Per la verità fui invitato a realizzare una registrazione di alcune Sonate di Mozart a quattro mani dall'esperto fortepianista Malcolm Bilson e sulla spinta di quell'esperienza fui progressivamente più attratto ed affascinato dalle possibilità espressive degli strumenti più antichi soprattutto perché essi sono in grado di rendere il suono che i compositori dell'epoca avevano sentito ed immaginato».
Ha uno strumento, una marca preferita?
Cosa comporta sul piano interpretativo, utilizzare un fortepiano oggi?
«Dal mio punto di vista suonare il fortepiano mi porta ad essere più vicino al linguaggio del compositore. Tuttavia, non ho mai pensato di smettere di suonare il mio adorato Steinway. Non appena uno acquisisce familiarità con le proprietà acustiche e coloristiche degli strumenti d'epoca diviene automaticamente in grado di trasferire molto di ciò che ha imparato su uno strumento più modemo».
Fra gli autori che esegue più spesso figura Beethoven: cosa c'è ancora da scoprire secondo Lei nella sua letteratura per tastiera?
«Ogni esecutore comunica un proprio messaggio individuale che deriva da un forte ed intenso coinvolgimento personale che si stabilisce con la letteratura di Beethoven in ciascun pezzo. Per quanto mi riguarda, cerco di affrontare ogni opera dall'intemo non imponendo il mio punto di vista soggettivo ma cercando di assorbire gli specifici elementi connessi con i diversi stili di Beethoven e soprattutto provando a trasmettere i loro messaggi al pubblico con il massimo dell'intensità. Gli artisti del passato spesso cercavano di imporre le loro personalità rispetto alle opere che suonavano, in tal modo le differenze di stile finivano per essere oscurate nell'interesse di un singolo approccio personale. Personalmente ritengo che la chiave di un'interpretazione musicale sia la stessa che vale per un grande attore, ovvero rappresenta la capacità di diventare un soggetto espressione di diverse personalità piuttosto che essere sempre riconoscibile secondo uno stesso prototipo».
Lei svolge un'attività didattica accanto a quella concertistica: quale è oggi il rapporto fra i giovani e la musica colta?
«lo ho abbandonato anni fa la cattedra di pianoforte presso la Musikhochschule di Friburgo per l'Università di Harvard poiché ho avvertito che in un'epoca di business rampante come quella attuale, si imponeva più prepotente che mai il bisogno di educare il nostro uditorio, non solo gli esecutori. Per quale motivo uno dovrebbe voler diventare un grande artista nel futuro se poi nessuno vorrà ascoltare le sue esecuzioni? Nel futuro, amministratori delegati, dottori, avvocati formatisi ad Harvard sapranno sviluppare un apprezzamento per la musica classica grazie ai corsi specifici che tengo da più di 25 anni. E, nel momento in cui diverranno un'élite mondiale, saranno in grado di preservare e salvare la cultura».
Trova una differenza fra i pubblici europei e quelli americani? E in particolare com'è il pubblico italiano?
«Ogni pubblico ha la propria personalità. La gioia di viaggiare per un artista è legata alla possibilità di testare la cultura dei diversi uditori come parte di un fenomeno di cultura generale di ciascun Paese. Io amo il pubblico italiano per il suo entusiasmo, per il suo calore, il suo fervore e la sua passione. E poi, si può apprezzare una cucina sublime dopo il concerto!».
Progetti futuri? Dischi?
«II mio prossimo impegno discografico sarà la registrazione dell'opera completa per pianoforte di Henri Dutilleux per la Ecm. Mia moglie Ya Fei Chuang si unirà a me nell'esecuzione di Figures De Resonance per due pianoforti. Eseguirò l'integrale dei Concerti di Beethoven per pianoforte e orchestra a Liegi nel 2009. La mia speranza è di poter realizzare questo progetto anche in Italia».
di Roberto Iovino ("il giornale della musica", anno XXV n.255, gennaio 2009)
1 commento:
Credo che la sua esecuzione del concerto per fortepiano e orchestra in si maggiore K 45o di Mozart, quella con Christopher Hogwood, sia la migliore in assoluto
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