Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, marzo 25, 2011

Gli strumenti della Musica

La storia degli strumenti musicali procede parallela alla storia della musica e ad essa si accompagna come Sancho Panza a Don Chisciotte. Una è la storia del corpo, l'altra è la storia dell'anima. Ovviamente, sono una sola e medesima cosa, vista da differenti punti di vista, cosi come anche — si potrebbe aggiungere — la storia della notazione musicale è storia della musica, e non storia di qualcosa di diverso applicato alla musica dall'esterno. La vocazione umanistica che prevale negli studi musicali italiani fa sì che questa identità non sia sempre ben chiara e presente nella storiografia, e che alla storia degli strumenti venga concessa un'attenzione indulgente, come a un fenomeno marginale. Nei Paesi d'alte tradizioni musicologiche la storia degli strumenti musicali è attentamente coltivata, e spesso da veri e propri storici della musica, come il grande Curt Sachs, i quali non ritengono con questo di entrare in una specializzazione esterna al filone principale dei loro interessi. Avveduto intenditore di musica moderna e autore, fin dal 1931, d'uno dei più bei libri su Stravinsky è André Schaeffner, di cui viene finalmente proposta alla cultura italiana quella Origine degli strumenti musicali (Sellerio editore, Palermo, pagg. 446, lire 8000) che circa quarant'anni or sono fondava, si può dire, gli studi di etnografia musicale. (Schaeffner è il fondatore del dipartimento di musicologia del Musée de l'Homme e ne rimase direttore fino al 1965; questa specializzazione, coltivata attraverso viaggi di ricerca nel Sudan, Guinea e Camerun, non gli ha impedito di studiare Debussy e il jazz, Couperin, Hoffmann e Nietzsche). Appunto perché tardiva, la traduzione italiana di quest'opera fondamentale ha la fortuna di cadere su un terreno meno incolto di quello che avrebbe trovato quarant'anni or sono: lavori imponenti come i due volumi di Giampiero Tintori su Gli strumenti musicali (Utet 1971), o stimolanti come Gli arnesi della musica di Leonardo Pinzauti (Vallecchi 1965), provano che non si è rimasti ai Manuali Hoepli e alla vecchia Liuteria dello Strocchi. Abbiamo in questo campo il prezioso volume sugli Strumenti ad arco del Peterlongo (Siei, Milano, 1973). L'organaria gode di una situazione privilegiata, con gli studi di Renato Lunelli e di Sandro Dalla Libera, rispettivamente sugli organi trentini e su quelli veneti, con l'opera complessiva su L'organo italiano di Corrado Moretti (Eco, Milano, 1973) e i moderni studi di Oscar Mischiati e Luigi Tagliavini. Importanti musei di strumenti musicali si trovano a Roma e a Milano, e di quest'ultimo, allogato nel Castello Sforzesco, è disponibile un ricco catalogo a stampa, a cura di Natale e Franco Gallini; cosi come Vinicio Gai ha pubblicato cenni storici e catalogo descrittivo de Gli strumenti musicali della corte medicea e il Museo del Conservatorio «L. Cherubini» di Firenze (Licosa, Firenze, 1969). Infatti, dell'idealistico disprezzo in cui sono talvolta tenuti, gli strumenti si vendicano alla maniera tipica della materia, delle «cose», degli oggetti concreti e solidi: durando, esistendo e conservandosi, laddove l'etereo canto svanisce senza lasciar tracce. Sembra pacifico che nella musica dell'antica Grecia il canto occupasse una posizione prevalente, e che gli strumenti vi fossero in gran parte subordinati. Eppure, quando si pensa alla musica dei Greci, la prima cosa che viene in mente è la cetra, è l'aulos; che cosa fosse il canto di Orfeo, capace di rendere mansuete le belve e di forzare le porte dell'Ade, non lo sappiamo più. Per oltre un millennio la musica del mondo cristiano è quasi esclusivamente canto. La vita degli strumenti è grama e quasi clandestina. La musica del Medioevo, nella sua accezione più elevata, è preghiera, e soltanto la voce umana è considerata degna di cantare la lode del Signore. L'uso degli strumenti musicali pare occupazione di rango servile, non diversamente dall'uso della zappa, della vanga, del martello o della falce: tutti «strumenti», cioè arnesi del lavoro manuale. Nella Bibbia l'invenzione della musica è associata con la prima lavorazione del ferro; musicanti e fabbri si reclutano fra i discendenti di Caino. Delle due mogli di Lamech, pronipote di Enoch, l'una partorì Jubal, «padre de' sonatori di cetra e d'organo», e l'altra partorì Tubalcain, «che lavorò di metallo, e fu artefice d ogni sorta di lavori di rame e di ferro». Non va però dimenticato che questo disprezzo degli strumenti e della pratica musicale il cristianesimo l'ereditò pari pari dalla civiltà classica. Nerone sarà stato un poco di buono e avrà avuto tutti i difetti di questo mondo, ma la virtuosa indignazione dei senatori romani per il fatto che suonasse la cetra fa il paio La bottega del liutaio (dalle tavole dell'Enciclopédie) con la diffidenza di certi banchieri che in epoca recentissima negarono ogni credito a un giovane industriale italiano, finché non avesse smesso il vizio, per loro più imperdonabile che quello di sperperare quattrini al gioco o in amanti di lusso, di coltivare la direzione d'orchestra e di diffondere la musica, corale e strumentale, tra i dipendenti della sua azienda. La pratica della musica, e in particolare degli strumenti, non era reputata degna dell'uomo libero, ma compito di schiavi (vi eccellevano i Frigi, provenienti dall'Asia minore). Ben inteso, a questo disprezzo legale facevano riscontro, di fatto, una vivissima attrazione e un'immensa fortuna: ma era un'attrazione del genere di quella esercitata dai piaceri proibiti. Alcibiade era un uomo libero cui piaceva imbrancarsi nella compagnia di auleti, citaredi, mimi e danzatrici; ma è noto che non era considerato precisamente come un modello di virtù. Testimonianze iconografiche come la splendida coppa di Epitteto conservata al British Museum, o la pittura della tomba di Véset (Tebe egiziaca), del XV secolo a.C, provano in maniera inequivocabile l'associazione della musica col piacere nel mondo antico, e pertanto le ragioni del suo discredito. L'ostracismo gettato dalla chiesa cristiana sui suonatori li sospinse al margine della società, in un sol branco con giocolieri, saltimbanchi, ciarlatani e buffoni ambulanti. Certamente la musica era compresa nella classificazione delle scienze e faceva parte del Quadrivio, ossia del gruppo delle discipline superiori, insieme ad aritmetica, geometria e astronomia. Ma si trattava della teoria musicale, mentre agli esecutori — né ai cantori, né tanto meno agli strumentisti — nessun no si sognava d'accordare una qualsiasi dignità culturale. La liberazione degli strumenti dal primato dogmatico del canto è opera anch'essa, come tante altre, del Rinascimento, e come tanti altri fatti del Rinascimento spinge i suoi antefatti molto addietro. Il cavallo di Troia per la futura ammissione degli strumenti nel giro della musica «bene» fu il dono di un organo che Costantino Copronimo, imperatore romano d'Oriente, fece a) re di Francia Pipino il Breve nel 757. Già da tempo diffuso in Egitto, l'organo non era sconosciuto al mondo romano. Ma la penetrazione nel regno dei Franchi gli aprì le porte del mondo cristiano. Poco adatto ad impieghi profani, si rese prezioso in chiesa, per il sussidio che poteva prestare alle voci, sostenendone l'intonazione. Di tutti gli strumenti era quello che più si avvicinava alla natura del canto e alla dignità della voce umana. Che la prima rozza forma di polifonia vocale tentata nel secolo IX si sia chiamata organum, è un fatto pieno di significato e argomento di suggestive congetture. Anche in questo campo il Rinascimento ha la sua prova generale nella fioritura trecentesca della civiltà toscana. Francesco Landino, protagonista dell'ars nova fiorentina, era chiamato «il cieco degli organi», dalla maestria con cui non solo sapeva suonare questi strumenti, ma anche smontarli e rimontarli, pur avendo perduto la vista fin dalla fanciullezza. Uno storico non particolarmente attento alle cose della musica, come Filippo Villani, ritiene doveroso ricordare che gli organi «egli toccava con tale velocità di suono e tanta maestria e dolcezza che senza comparazione trapassò tutti gli organisti di cui si ha memoria». La storia degli strumenti si annoda a quella della musica in un inestricabile corpo a corpo, tipico esempio del venerabile dilemma se sia nato prima l'uovo o la gallina. Anche André Schaeffner se lo chiede, al principio del libro or ora ricordato: «La musica è il prodotto dei suoi strumenti, o questi sono stati costruiti a sua immagine?». La seconda ipotesi, idealistica e suggestiva, parrebbe confermata da certi esempi. In pieno Rinascimento, quando tutta l'arte assiste a un risveglio prodigioso dell'individuo, e di conseguenza la musica si sta trasformando da polifonica in monodica, sorge il violino a liquidare, con la sua prepotente personalità di primo attore, la collettività familiare delle viole da braccio, che con la loro discrezione di suono postulavano l'integrazione in un tutto. Ma in senso contrario si potrebbe citare un esempio clamoroso. Bartolomeo Cristofori inventa il pianoforte negli ultimi anni del Seicento. Bene, il Settecento non sa che farsene. Niente di più scoraggiante che la vita dura incontrata dal pianoforte per mezzo secolo e oltre. La gente non lo amava, lo trovava rumoroso e volgare in confronto al clavicembalo. Nei testi del Settecento si parla del pianoforte in termini simili a quelli che noi usiamo per il juke-box. «Lorenzo ha ceduto il suo clavicembalo», scrive Jacopo Ortis, «d'ora in avanti suonerà uno di quei pianforti, che fanno tanto strepito». Ed anche in questo echeggiava Werther: «Qui, mio caro amico, da alcuni mesi si fa un autentico furore per i nuovi pianoforti; Carlotta ha persuaso il Padre Suo a comprarne uno, e tutto il giorno dalle finestre se n'ode l'orribile rimbombo». Per gli esemplari di pianoforti che Federico II gli presentò nella reggia di Potsdam, Bach non dimostrò niente più di quell'irresistibile curiosità artigianale che egli provava per qualsiasi arnese capace di emettere suono. Ma il pianoforte aveva più di venti e più di quarant'anni quando Bach, imperterrito, produsse la prima e la seconda parte del Clavicembalo ben temperato. Il fatto è che il dilemma non si risolve né in un modo né nell'altro. La circolazione dell'arte musicale non è a senso unico: né dagli strumenti all'ispirazione, né dall'ispirazione agli strumenti. La circolazione avviene in ogni senso. Mozart creava per gli strumenti, anzi, per i singoli strumentisti. Beethoven mandava sgarbatamente al diavolo il violinista Schuppanzig e le sue rispettose obiezioni tecniche, quando lo spirito gli dettava dentro. Quel che è certo è che un legame stretto associa la fabbricazione degli strumenti e la produzione della musica strumentale. La reciprocità dei due fenomeni si mostra nell'unicità dei focolai geografici in cui essi si producono. E' raro che gli strumenti musicali si fabbrichino in un luogo e la musica strumentale si scriva in un altro. Senza pregiudizio d'altre eccelse apparizioni strumentali, come la scuola cembaloorganistica napoletana di Trabaci, Mattia Vento e Domenico Scarlatti, resta un fatto che la meravigliosa fioritura strumentale delle scuole veneta ed emiliana nel corso del Sei e Settecento avviene negli stessi luoghi dove si fabbricano organi e violini. Quell'angolo prezioso dell'entroterra veneto, formato dalla convergenza di Emilia-Romagna, Lombardia e Repubblica di Venezia, non è solo la patria di Vivaldi, Corelli, Locatelli, Albinoni e Frescobaldi, ma proprio lì, tra Brescia, Bergamo e Cremona, si pone pure la patria di Gaspare Bertolotti da Salò, degli Amati e dei Guarnieri, di Stradivari, principi dei liutai, e delle grandi dinastie d'organari, gli Antegnati e i Serassi.

Massimo Mila ("La Stampa", Anno 112, numero 130, giovedì 8 giugno 1978)

venerdì, marzo 18, 2011

Strauss e Puccini nei pensieri di Mahler

La memoria di Gustavo Mahler è onorata non solo da una moltitudine di colti, pronti peraltro a distinguere ciò che della sua produzione vale più o meno, ma anche da uno stuolo ancor numeroso di superstiti amici, saldi testimoni della rettitudine e bontà del suo animo. Uno di costoro è il valentissimo Otto Klemperer, direttore d'orchestra e pianista, ora settantaseienne, che ha raccolto, (ed. Atlantis-Musik-bücherei, Zurigo), le sue Erinnenrungen am Gustav Mahler, annotazioni di incontri e conversazioni, di pubbliche esecuzioni, di favorevoli successi e di amare traversie.
Giovinetto, il Klemperer guardava ammirato Mahler, la cui autorità presto grandeggiava, e tentò d'avvicinarlo. Come? Gli dissero che Mahler, vanitoso, stimava ottime soltanto le proprie composizioni. E s'affrettò alla riduzione pianistica della Seconda Sinfonia, allora apparsa. Riuscì ad offrirla egli stesso in udizione all'autore. E questi, sorpreso di tanta prontezza tecnica, gli chiese perché ambisse alla direzione. Non gli sarebbe bastata la carriera del pianista? Klemperer insisteva: la vocazione, prepotente. Lieto d'accontentarlo, Mahler gli propiziò un primo accessit fra i direttori della Volksoper.
Klemperer allinea altri ricordi suoi e di Schönberg e di Riccardo Strauss e di Pfitzner, in un vivido profilo dell'uomo, «realistico e gioioso, energico, operoso, buono, generoso». Fra i contributi è tuttora capitale la raccolta delle memorie e delle lettere che la vedova, Anna, pubblicò in tedesco, ad Amsterdam vent'anni fa. Il piacere e l'utilità risulterebbero in verità maggiori, se i carteggi fossero stati opportunamente inseriti fra i ricordi di lei, formando come una biografia, e se un indice dei nomi e un altro dei soggetti agevolassero almeno la ricerca della continuità e dell'evoluzione delle opinioni di Mahler su questioni artistiche e su musiche e musicisti. Fra i molti accenni sparsi scelgo quelli che, più numerosi, tramandano le relazioni sociali e artistiche di lui con Riccardo Strauss.
Una sola volta è da annotare una controversia estetica sulla legittimità, quindi sulla pratica, delle «musiche a programma». Pareva a Mahler che Strauss, autore fino allora, 1901, di poemi sinfonici, dal giovanile Dall'Italia alla Vita d'eroe, 1809, si fosse «cacciato in un vicolo cieco»; e gliel'aveva detto, ma quegli «non aveva inteso tutta la verità dell'osservazione». E' questa una fugace considerazione, quasi un biasimo, che proporrebbe un'ampia discussione intorno alla presenza di elementi extramusicali, cioè sentimentali, concettuali, etici, in alcune musiche «pure» dello stesso Mahler, nel confronto con i «programmi» cari allo Strauss.
A parte ciò, Mahler disistimava l'uomo Strauss. Gli sembrava intento soprattutto ai beni materiali, tanto da non essere più cosciente della sua personalità, ed anche freddo e blasé. Questa impressione gli si rinnovava ad ogni incontro. Una volta Strauss gli offerse una copia del Trattato di strumentazione, quello cioè di Berlioz da lui accresciuto «con un pizzico di spezie», e gli promise la partitura della Salomè. Doni sgraditi. Mahler s'affrettò a regalare il volume a sua moglie, («imparerai moltissimo»), e le preannunciò il dono anche dell'opera, il cui possesso le sarebbe stato invidiato dagli infatuati. Infatti, rispondendo all'amatissima consorte, commentava: «Quel che dici su Salomè mi ha interessato molto. Ti avevo predetto tutto quanto. Ma ora sei troppo severa con quest'opera, molto importante, nonostante tutto è, come giustamente intuisci, "virtuosistica" in cattivo senso. Wagner è una personalità ben diversa. Quanto più avanzerai nella vita come "persona", tanto più chiaramente sentirai la differenza tra pochi veri grandi e i meri "virtuosi"! Sono felice di vedere come arrivi rapidamente a veder chiaro. Tu senti infatti la freddezza in Strauss, che non sta nel suo talento ma nella sua personalità, e ti respinge».
Udita poi l'opera, lealmente riconosceva: «E' un lavoro assolutamente geniale, potente, senza dubbio uno dei lavori più imporrami dei nostri tempi! Sotto una quantità di scorie c'è il lavorio e la vita di un vulcano, di un fuoco sotterraneo, non un mero fuoco d'artificio! Certo con Strauss succede sempre così. Per questo non è tanto facile separare in lui il grano dal loglio. Eppure ho un'immensa considerazione per la sua personalità globale e ieri mi è stata riconfermata. Ne sono felice! Questa volta non ho alcuna riserva da fare!». E più onestamente, tacendo del mercantilismo di Riccardo e del fastidio che le chiacchiere e i pettegolezzi della moglie di lui cagionavano a chiunque la frequentasse, tornava volentieri a sentire Salomè: «Voglio di nuovo approfondire un po' il problema Strauss». L'imprecisa frase d'un'altra lettera purtroppo ci delude: «Per quel che riguarda Strauss, neanch'io arrivo a farmi un'idea chiara. Come ci si deve spiegare una personalità così disuguale e composita? Ma il mio giudizio sulla Salomè è definitivo. (Pensa a gente come Tiziano o il filosofo Bacone)».
Vuol esser citato, per curiosità, un accenno alla Tosca di Puccini, 1903: «Nel primo atto, solenne processione con un continuo scampanìo. Nel secondo atto un tale viene torturato tra urli orrendi e un altro pugnalato con un acuminato coltello da pane. Nel terzo atto di nuovo immenso scampanìo su una veduta di tutta Roma dall'alto di una cittadella — di nuovo un'altra diversa serie di campane — e un tale viene fucilato da un plotone di soldati. Prima della fucilazione mi sono alzato e sono andato via. Non occorre aggiungere che il tutto è messo insieme come sempre con abilità da maestro; al giorno d'oggi ogni scalzacane sa orchestrare in modo eccellente».
Motteggi e sarcasmi toccano altri contemporanei, più numerosi nei ricordi della consorte, talvolta appassionati, e, sembra, compiaciuti di acrimonia, che testuali, nelle lettere. Ella riferisce per esempio questa sferzata: «Dei mille Lieder di Wolf ne conosco solo 344, e non mi piacciono». Molto devoto a Schönberg, amava Bruckner, Brahms: «un uomo minuscolo con un torace alquanto stretto»...
E due soli idoli: «Beethoven e Richard Wagner, e niente altro».

Andrea Della Corte ("Stampa Sera", Anno 93, numero 208, 2-3 settembre 1961)

sabato, marzo 12, 2011

Massimo Mila: il tragico incidente

Entreves (Aosta) — Il musicologo Massimo Mila, collaboratore de La Stampa e nome tra i più noti del mondo culturale italiano è rimasto gravemente ferito ieri pomeriggio in un incidente stradale nel quale ha perso la vita la moglie, Francesca Rovedotti di 79 anni. A bordo di una Renault 14 DL i coniugi Mila viaggiavano sulla statale 26 diretti verso Courmayeur, quando l'auto, forse per un malore di Massimo Mila, ha sbandato sulla corsia opposta, schiantandosi sotto un Tir. Nell'urto violento la moglie del critico è morta sul colpo; Massimo Mila, soccorso dalla Croce rossa di Morgex, è stato trasportato all'ospedale di Aosta con prognosi riservata. L'incidente è avvenuto alle 15.53 a Runaz, poche centinaia di metri oltre l'abitato di Arvier a una quindicina di chilometri a monte di Aosta. La polizia stradale del distaccamento di Entreves ha potuto accertare che l'auto del musicologo viaggiava a velocità moderata e il fondo stradale non era ghiacciato né bagnato. Affrontando una curva a destra tra Aosta e Courmayeur su un ponte sul fiume Dora, la Renault 14 ha sbandato andando a scontrarsi frontalmente con un Tir francese, condotto da Jacques Pisanelli, di 42 anni. L'urto è stato estremamente violento. I primi soccorritori non sono riusciti ad aprire un varco tra le lamiere contorte. Solo l'arrivo dei vigili del fuoco ha permesso di estrarre dalla vettura i corpi del prof. Mila e della moglie. Mentre la salma della signora Francesca era composta nella camera mortuaria del cimitero di Avise, piccolo comune non lontano da Runaz, Massimo Mila veniva ricoverato nel reparto rianimazione dell'ospedale di Aosta con la frattura di un omero, fratture costali e una forte contusione polmonare. «Se non vi saranno complicazioni potrebbe essere ristabilito anche fra dieci giorni — ha detto il medico di guardia —, ma l'età e le condizioni dei polmoni consigliano la riserva di prognosi. Appena le condizioni del ferito saranno migliorate si penserà a ridurre anche la frattura del braccio». Al capezzale di Massimo Mila, che ha 71 anni ed abita a Torino in corso Mediterraneo 130, sono accorsi in serata parenti e amici. Molto noto nel mondo della cultura, imprigionato per cinque anni durante il fascismo, il musicologo era recentemente al centro di un dibattito sulla pena di morte alla quale si era dichiarato favorevole in un articolo pubblicato recentemente da La Stampa. Mercoledì sera era stato ospite degli studenti del liceo classico Gioberti di Torino ai quali aveva esposto le sue tesi nel corso di un'assemblea.

Roberto Reale ("La Stampa", 27 febbraio 1981)

sabato, marzo 05, 2011

John Adams e l'armonia del desiderio

Un viaggio fra le colline e un'intuizione sulla tonalità
Una sera di primavera del 1976, guidando su un crinale tra le colline della Sierra ebbi una rivelazione, non proprio come Paolo sulla via di Damasco, ma piuttosto come Dogjam sulla via di Downieville. All'epoca ascoltavo la musica su un ingombrante mangianastri Sony portatile, un TC-158, più o meno delle dimensioni di una piccola borsa con altoparlante incorporato e tracolla. Il walkman non esisteva ancora e registravo assiduamente i dischi della mia raccolta in modo da poterli portare ovunque andassi. Nel mucchietto di custodie di plastica in continuo aumento c'era una scansione completa delle mie ascendenze musicali, compresa tra i Vespri di Monteverdi (1610) e Bitches Brew di Miles Davis, oltre a un brano intitolato Silver Apples of the Moon, una composizione di musica elettronica di Morton Subotnick per il sintetizzatore Buchla.
Quella sera, sul sedile del passeggero della mia vecchia Karmann Ghia decappottabile, il Sony suonava un'incisione del primo atto del Crepuscolo degli Dei. Mentre guidavo tra le curve brusche e osservavo la nebbia indugiare nelle strette gole e sui letti dei fiumi sotto le cime scoscese delle montagne, ascoltavo attentamente le armoniose ascese e discese delle melodie di Wagner e il ricco mondo armonico in continuo mutamento che esse delineavano. Non pensavo molto a Wagner, in quel periodo, e sicuramente l'universo della sua teoria drammatica, dei suoi poemi mitologici e delle sue lunghe e complicate opere era ben lontano dalle mie riflessioni sull'avanguardia musicale contemporanea.Questa musica, tuttavia, in particolare le placide battute d'apertura di "Aurora e viaggio di Sigfrido sul Reno" con i suoi eleganti intervalli di sesta e settima e i morbidi cuscini di accordi degli archi, mi parlò. Dissi a voce alta, quasi senza pensarci: "Gli interessa". Ero disorientato dalla mia stessa affermazione. A chi "interessa"? A Wagner, evidentemente. "Che cosa gli interessa?". Qui era più difficile rispondere. Stavo sperimentando un'intuizione non tanto su Wagner, quanto piuttosto su di me e sulla natura del mio rapporto con la musica. Negli ultimi anni dell'adolescenza, mentre studiavo l'armonia cromatica, mi erano stati fatti conoscere i cicli di Lieder di Robert Schumann, un universo in miniatura di stati emotivi intensificati e improvvise eruzioni bipolari di costellazioni di modi di sentire, il tutto espresso su una tavolozza armonica che includeva le più sottili gradazioni di ambiguità tonale.Una parte dei miei esercizi prevedeva l'ascolto di una singola nota, un do diesis, per esempio, per poi osservare attentamente il modo in cui mutava il ruolo di quel do diesis nel corso di un movimento o di un Lied. Sia per Wagner sia per Schumann ogni singola nota era sempre relativa, poiché per un momento era il centro di gravità e poi, in un istante, veniva all'improvviso ridotta allo stato di remoto satellite, la sua autorità defraudata a causa della misteriosa alchimia dei rapporti tonali. Il mio modello era "Im wunderschönen Monat Mai", il Lied di apertura del Dichterliebe di Schumann, il più intimo dei monologhi confessionali messi in versi da Heine. "Im wunderschönen Monat Mai" è un Lied in cui la stasi armonica oscilla su un delicato centro di ambiguità per poi precipitare in una cadenza di grandissimo calore e dolcezza.
Ciò che creava su di me un'impressione tanto profonda nella musica di questi compositori tedeschi era la pura espressività della loro arte. Ciò che a Wagner e Schumann interessava era rendere palpabile all'ascoltatore l'intensità delle loro emozioni. Le armonie, inquiete e in continua migrazione verso un nuovo centro tonale, si muovevano tra tensione e risoluzione in un modo misterioso, che stimolava costantemente l'ascoltatore. Gli intervalli melodici, sempre cantabili, sempre perfettamente vocalizzati, davano forma e direzione all'animato movimento armonico sottostante. Erano indescrivibilmente incantevoli.
Inerpicandomi ancora più in alto sulle montagne, incominciai a riflettere sulla direzione che la musica aveva preso dopo che Wagner aveva scritto quelle note, e sul modo in cui la sua mescolanza di armonie cromatiche, la liberazione dei poteri evocativi dell'orchestra e la sognante tessitura, psicologicamente acuta, dei suoi testi poetici avevano in pratica tenuto avvinti tutti gli altri compositori classici per più di un secolo. Non si trattava semplicemente di musica sul desiderio. Era il desiderio. Era impossibile sfuggire al potere emotivo e sensuale che possedeva, e il suo influsso si era esteso ben oltre i musicisti e aveva contagiato altri artisti, intellettuali e quasi chiunque fosse sensibile al mezzo di comunicazione musicale. Come mai questa musica - malgrado la complessità, la prolissità, il continuo e divagante rinvio della risoluzione - si era conquistata un pubblico tanto appassionato e riconoscente? Ovviamente i motivi erano molti, ma il primo fra tutti era la sincerità. Wagner, come Schumann e Chopin prima di lui, era stato responsabile di mutamenti epocali nel modo in cui facciamo esperienza della musica. Le sue armonie erano letteralmente sciolte, libere di girovagare per campi di opposta polarità che creavano un mondo espressivo di desiderio in costante mutamento, sempre ambiguo, dalla preoccupante umanità. Quel mondo sonoro era luminoso e misterioso, risultato di una mente indagatrice e instancabile e di un interesse insaziabile per le possibilità acustiche degli strumenti dell'orchestra. Nessuno, dall'epoca di Beethoven in poi, aveva ricevuto il dono di comprenderne il potenziale espressivo, sia come singole voci solistiche sia come grandi sezioni.
Agli storici piace riflettere su quel che accadde alla musica classica europea dopo il wagnerismo, e in reazione alla sua soffocante egemonia. Sostengono che l'energia animale di Stravinsky e il lirismo compresso e iperespressivo della Scuola viennese - Schoenberg, Berg e Webern - furono risposte o reazioni all'estesa influenza che la musica di Wagner, o meglio la sua ideologia complessiva, aveva esercitato nel campo dell'estetica musicale e teatrale.
La mia esperienza tuttavia mi dice che gli artisti non fanno arte in modo negativo. Non attraversano i tormenti necessari a forgiarsi un linguaggio personale, a creare a fatica qualcosa dal nulla, soltanto per reagire a una figura paterna oppressiva o per ribellarsi contro una maniera acquisita di fare le cose. È ovvio che in un giovane artista la ribellione probabilmente rappresenta un tonico, un'energia liberatoria e positiva. Ma opere come Le Sacre du Printemps, Pierrot Lunaire e la Quarta Sinfonia di Ives non sono nate perché i compositori stavano reagendo contro Wagner e i suoi epigoni, ma piuttosto perché i compositori avevano bisogno di crearle, perché i tempi erano cambiati ed era necessaria una nuova espressività, un nuovo modo di esperire il mondo.
Come un albero con le radici affondate nel suolo più fertile, l'arte di Wagner continuò a dare i propri frutti a lungo, dopo la morte del compositore. Nel 1911, l'anno di nascita di mio padre, quei frutti erano ormai maturi in tutta Europa, da Strauss a Mahler e al giovane Schoenberg, fino a Debussy, Ravel, Elgar e Sibelius. Quando poi il suo influsso declinò, lo fece in un lampo. E quel lampo fu la Prima guerra mondiale. [...]
Il linguaggio armonico sviluppato da Schumann e da Wagner non morì con l'avvento del modernismo, ma si trasferì semplicemente oltre Atlantico, dove fu fatto proprio da compositori, molti dei quali afroamericani ed ebrei immigrati, che crearono una delle più grandi tradizioni musicali di tutti i tempi, la canzone popolare americana. Si tratta della tradizione con cui sono cresciuto io, e quando ho incominciato a studiare seriamente l'armonia cromatica ho subito notato che ciò che rendeva un particolare passaggio del Liederkreis di Schumann tanto dolente e struggente era lo stesso elemento che creava lo hook, la frase indimenticabile, impossibile da togliersi dalla testa, delle più belle canzoni di Broadway o del jazz americano.
Ora capisco che il momento della rivelazione mentre guidavo tra le montagne riguardava esclusivamente l'armonia. Anni dopo, durante un dibattito pubblico con il compositore e direttore Esa-Pekka Salonen, sorse una domanda su che cosa pensassimo noi compositori, che vivevamo nel mondo postmoderno, dell'armonia tonale. La risposta di Esa-Pekka fu illuminante. Disse che quando pensava ai dieci momenti che più lo emozionavano in ambito musicale, nove di essi avevano a che fare con un cambio di armonia.

John Adams
Hallelujah Junction
Autobiografia di un compositore americano
© EDT 2010